Napoli noir: il vicequestore Marcobi indaga sull’omicidio del prof. Epstein

Napoli. Un funzionario della Regione Campania, settore Sanità, avellinese, attende una promozione che ritiene gli spetti. Non la ottiene e da quel momento entra in crisi. La mancata promozione gli causa pure, a suo vedere, la perdita della donna con la quale vive, che si mette con un uomo più anziano, un faccendiere di successo. Incomincia a raccogliere dossier per documentare i loschi affari di tangenti e altro dei suoi nemici. Ma pochi giorni dopo precipita dal balcone del suo palazzo. Suicidio, è la conclusione anche degli inquirenti.

Un professore ebreo sionista, di sinistra ma che per la radicalità crescente delle sue posizioni si è alienato tutto il suo ambiente, viene subito dopo trovato ucciso in casa sua. Alberto Epstein sosteneva che la tolleranza multiculturale e multietnica mostrata dall’Europa si era trasformata in un suicidio di fronte alla violenza islamica, la quale avrebbe dovuto essere fermata. In casa sua, dopo l’omicidio, trovano una grande scritta: “Palestina libera”.

Naturalmente, il pubblico ministero indirizza le indagini del vicequestore Raul Marcobi, capo della squadra omicidi, verso gli ambienti filoarabi, i centri sociali e i collettivi. Viene individuato un colpevole, uno studente arabo ma italiano di prima generazione. Solo che risulta che quella che appariva una sua fuga era una partenza verso i combattimenti orientali. Il soldato dell’Islam era stato individuato in Francia il giorno dell’omicidio. Il pubblico ministero insiste perché la ricerca continui in quell’unica direzione, ma Marcobi è sempre meno convinto.

Questo personaggio tormentato e volitivo, contraddittorio, segnato da molto dolore, suonatore di sassofono nel jazz e a volte bevitore solitario, è alla terza apparizione romanzesca. Due altri romanzi di Massimo Galluppi lo avevano fatto conoscere. Sono, come questo (Il caso Epstein), romanzi che non potresti strettamente classificare né come gialli né come storie spionistiche, tanto gli sfondi criminali e politici si intrecciano con una ricostruzione della psicologia e un fattore umano capaci di coinvolgere il lettore e distrarlo in parte dalla mera vicenda criminale. A volte le storie narrate da chi non è giallista di professione si dimostrano assai più attraenti, possedendo un’ampiezza di sfondi che il giallo vero non possiede: a parte i casi sommi come Simenon. Qui l’indagine di Marcobi si sfarina, secondo la sua intuizione, in sordidi casi umani che nulla hanno da fare con la politica. Anche nei precedenti accadeva qualcosa di analogo: dalla politica croata a vendette personali, da guerra civile a occasione d’improvvisata giustizia del singolo. Il geniale investigatore individua un nesso fra questi delitti e un caso terribile di stupro e omicidio di una ragazza avvenuto a Mercogliano, presso Avellino, ventisei anni prima. Anche lì la conclusione era stata frettolosa e incauta, le indagini erano state svolte in modo deplorevole. Che tutti fossero strafatti di cocaina era valso quasi a proscioglierli.

Avremo una soluzione inaspettata e amara, che riversa su di noi il distacco e lo scetticismo del coraggioso e solitario poliziotto. Non la narro, naturalmente, com’è costume si faccia con i romanzi del mistero scritti da una mano maestra.

Il Vangelo secondo Amélie: “Ma che ne sa Dio dell’amore?”

Coltivava l’idea di una storia su Gesù da sempre. “Da piccola volevo diventare Dio. Molto presto compresi che era chiedere troppo e versai un po’ d’acqua benedetta nel mio vino da messa: sarei stata Gesù”, scriveva vent’anni fa in Stupori e tremori. Per lei Gesù era un amico immaginario prezioso. Una volta adulta lo ripensa come qualcuno che ha molto patito, proprio come lei, e lo immagina in un frangente universalmente noto: la Passione.

A 53 anni, al suo 28esimo romanzo, sfiorando ancora il Goncourt, di cui è eterna candidata, la scrittrice di culto belga Amélie Nothomb, 18 milioni di copie vendute nel mondo, corona quel sogno a lungo cullato. S’intitola Sete (in libreria da giovedì per i tipi di Voland, traduzione di Isabella Mattazzi, mentre l’autrice incontrerà il pubblico italiano dal 26 al 28 febbraio), poco più di 100 pagine servite dal consueto stile essenziale, in cui il Nazareno, con un monologo dai toni informali e diretti, narra in prima persona le ore che ne precedono la morte sulla croce, di cui è da sempre consapevole.

La prospettiva di Nothomb è peculiare, personalissima, ma non profana le Sacre Scritture, che ha studiato appassionatamente, né mira a scandalizzare, casomai invita a riflettere, dubitare e se la critica francese lo ha già definito il suo libro più controverso e rischioso (che ne diranno Vaticano e cristiani ferventi? Come reagiranno alla descrizione del legame con Maddalena?) per lei è il suo più intimo, anzi “è la storia della mia vita”. Racchiude temi cari – amore, dolore, fede, colpa, solitudine, paura, tradimento, martirio, morte – ma è soprattutto un testo sulla dimensione del corpo, suo topos ricorrente.

Chi la conosce starà annuendo, chi la scopre ora dovrebbe leggere Biografia della fame per capire l’afflizione cui si accennava prima: anoressia, alcolismo infantile, uno stupro a 12 anni, senso d’inadeguatezza e isolamento dal mondo (nonostante abbia viaggiato moltissimo essendo figlia di un diplomatico) l’hanno segnata anche nel corpo, che ha così peso consistente. A differenza degli evangelisti, Nothomb accompagna Gesù sin in cima al Golgota, restituendoci l’immagine di un uomo incarnatissimo. Ne sentiamo desideri ed emozioni, ne avvertiamo la paura, non della morte – “la più grande tra le astrazioni” –, ma del supplizio che lo attende, ne cogliamo il disappunto per il ruolo che il padre (sempre scritto in minuscolo) gli ha destinato. Era necessario? C’è qualcosa o qualcuno per cui valga davvero la pena sacrificarsi? Indignato, incapace di perdonarsi per aver aderito a un progetto così “demenziale”, Gesù ha accettato, con la speranza di cambiare gli uomini, che il suo destino dipendesse dalla scelta di qualcun altro. Ma “bisogna proprio non sapere niente per pensare di poter cambiare qualcuno. Le persone cambiano solo se la cosa parte da loro, ed è rarissimo lo vogliano davvero”.

All’origine della distanza tra Gesù e Dio è l’incarnazione, dunque. “Ma che ne sai tu dell’amore? L’amore è una storia, bisogna avere un corpo per raccontarla”, gli dice, definendo poi la crocifissione atto supremo di disprezzo del corpo. Un uomo che si fa martirizzare così rende insensato il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” perché non si ama affatto. Non resta altro che farsi forza con quella che definisce tripletta vincente: amore, sete, morte, tre modi di essere “incredibilmente presente”, quasi di autodeterminarsi. Senza corpo non li si può esperire. E la sete del titolo, per una che come Nothomb ha sofferto di potomania, la compulsione di bere acqua, assume significato pregnante. Qui Gesù sceglie di resistere strenuamente alla sete, fino all’ultimo istante, quello che segna il passaggio dalla vita alla morte che avviene però senza senso di separazione, per continuare a sentirsi vivo, perché la sete annulla ogni altra sofferenza fisica. “C’è tanto da scoprire nella sete. Ciò che sentite quando state morendo di sete, coltivatelo. Lo slancio mistico non è che questo”. Un Gesù, dunque, che continua a dirsi terreno, “sono un uomo e niente di ciò che appartiene all’umano mi è estraneo”, che contempla di avere un lato oscuro, “A me il male non è estraneo. Per poterlo identificare negli altri è indispensabile io ne sia provvisto”, e che propone un’idea di amore che “è energia e quindi movimento”, flusso in cui gettarci senza chiederci se riusciremo a reggere perché “non è una cosa che si sceglie, avviene quando si è incoscienti”. Come il suo per Maddalena, a cui dedica parole ora delicate ora appassionate.

E la fede? La sua non ha oggetto e questo non significa non credere in nulla. “La fede è un’attitudine, non un contratto. Non ci sono caselle da barrare”. Come sappiamo di aver fede, allora? “È come per l’amore, lo sappiamo e basta. Non abbiamo bisogno di nessuna riflessione per determinarlo”. Ci basta vedere un viso e tutto cambia, è un’epifania, una rivelazione. E se a fine lettura la vostra gola sarà arsa – credeteci o meno, accadrà – aspettate prima di bere. Resistete.

“Il mio futuro? Mangiarmi una pizza. E lavorare con Carlo è un vero sogno”

Si apre una porta, esce Max Tortora. Si avvicina alla compagna, e con il suo tono misto di verità e ironia detta la linea: “Oh, qui è pieno di giornalisti, non raccontare niente di personale”. Sorride e rientra nella stanza, dove con Carlo Verdone, Anna Foglietta e Rocco Papaleo sta presentando Si vive una volta sola (in sala dal 26 febbraio). Passano altri cinque minuti (reali) e di nuovo appare, e di nuovo si raccomanda: “Guarda che sono tremendi, niente di personale”. Quindi si giustifica per la replica: “Devo andare in bagno”.

Max Tortora è struttura, stratificazione, riflessione e sofferenza della riflessione stessa, fino alla sintesi di un pensiero basato sulla verità. La verità è la sua Stella polare. Quindi approfondisce, elabora, progetta (“ho trenta sceneggiature scritte. A volte mi sveglio la notte con un’idea ed è la fine. O l’inizio”).

Max Tortora è un uomo riservato (“non ho neanche i social”) e alla fine dell’incontro ci tiene a specificare: “Questa è la mia ultima intervista. Trovo più giusto parlare con il mio lavoro”.

Dal dramma Cucchi a Verdone, è tra i pochi interpreti a toccare generi opposti.

Un attore deve solleticare tutte le corde, così come il pianista può suonare tutta la tastiera; mal sopporto le ghettizzazioni e ho cercato di non farmi incastrare.

Ci hanno provato?

Certo, ma sono sgusciato con una certa fatica; poi molto dipende dalla stagione della vita: oggi ho quasi sessant’anni e interpretare un padre, magari in età avanzata, o un uomo affaticato, magari sconfitto, lo sento mio. E lo capisco subito dalla sceneggiatura.

Cosa legge?

Attualmente il primo tomo di psicoanalisi di Enrico Morselli (antropologo e psichiatra morto nel 1929) dedicato ai sogni.

Verdone ha dichiarato che se si guarda allo specchio non trova un settantenne. Lei quindi vede il sessantenne…

Sono stato uno studioso di Anna Magnani, che oramai sento come una parente, e lei andava orgogliosa delle sue rughe; allo stesso modo io celebro ogni mio capello bianco, ne conosco la storia, uno per uno, e la fatica.

Uno per uno.

La vita è un’esperienza difficile, e in troppi danno per scontata la semplicità di riportare a casa la pelle.

Professionalmente è esploso tardi.

Nel 2001 un giornalista mi ha chiesto: “Dov’è stato fino a oggi?”. Ho risposto che ci sono sempre stato, che non ho mai vissuto la gavetta, perché ho sempre campato del mio lavoro grazie al teatro, con compagnie fortunate e colleghi come Nicola Pistoia e Pino Ammendola.

E…

Non avevo la popolarità, non andavo sui social, non finivo in tv, ma alla fine dello spettacolo trovavo sempre qualcuno rimasto per complimentarsi. E mi bastava.

Primo autografo?

Non me lo ricordo, però grazie a un sogno ho capito di aver iniziato a firmarli.

Cioè?

Non mi ero reso conto della novità: se mi fermavano per strada o semplicemente mi riconoscevano, non avevo ricondotto quelle manifestazioni a un salto di popolarità. Non ci avevo pensato. Poi una notte ho sognato un autografo e ho capito.

Sono stati “I Cesaroni”.

Il vero botto; nel 2006 raggiungo a piedi un amico, e mentre cammino sento un’infinità di clacson. Io stupito. Mi guardavo attorno con l’interrogativo del “che sta a succede?” Poi all’improvviso mi sono illuminato.

Su Internet c’è poco di lei.

Non esisto, e non posso prendere una pizza d’asporto perché non ho neanche il nome sul citofono.

Con un suo filmato realizzato da Verdone durante le riprese è finito sui social.

Lo so, con Carlo che ogni cinque minuti mi cercava per le varie stanze e mi aggiornava sul crescere dei contatti. Lui è social. Io proprio zero.

Lavorare con Verdone è la summa per molti suoi colleghi.

Per anni è stato il mio sogno, e quando è arrivato il momento quasi non ci credevo.

Nel film avete tempi perfetti.

Carlo cerca la verità, e questo mi piace: se non credo in un progetto non sono in grado né di far ridere né di far piangere; mentre con lui mi sono divertito tanto, a volte non pensavo neanche di stare su un set.

Lei e i selfie.

Lì l’unico problema è la mia altezza: ogni volta mi chiedono di scattare io la foto perché altrimenti non entrano tutti nell’obiettivo, solo che nun ce vedo, e le foto escono storte o sfocate.

Uno dei suoi primi successi è Califano.

Le imitazioni sono nate per strappare una risata ai colleghi, per farmi accettare: perché una battuta rasserena il clima e si vive meglio.

Serve…

Spesso le tournée sono state molto difficili, dove non c’era da magnà e da dormì, dove scendevi dal letto e non sapevi cosa trovavi; una volta ho pestato un topo morto.

Quindi…

Ho iniziato a imitare Alberto Sordi, Franco Califano e magari Adriano Celentano, ma mai mi sarei immaginato il risultato finale: mi è esploso addosso, e non sono più stato in grado di gestire la situazione.

Addirittura?

A un certo punto mi chiamavano i giornalisti per domandarmi quali personaggi stavo preparando. E io non sapevo cosa rispondere, perché non ho mai studiato nessuno, mai preparato niente. Mi venivano.

Molti suoi colleghi hanno iniziato a scuola con le imitazioni dei professori.

Anche io, ma l’imitazione fine a se stessa non serve a niente, può diventare triste e anacronistica; le mie erano parodie dove non primeggiava la voce ma l’atteggiamento e l’accento su una debolezza reale del protagonista.

A scuola occupava e scioperava?

Ho avuto un rapporto conflittuale: fino alla prima media ho frequentato un istituto delle suore molto valido, e il mio errore è stato quello di voler andar via, perché mi sentivo poco figo, volevo diventare uno di quartiere; (cambia tono) sì, è stato il più grande errore della mia vita, da lì ho solo cercato di recuperare.

Risultato?

Molte volte mi sono accorto solo dopo di essere stato bene, per questo quando sento qualcuno lamentarsi, e mi rendo conto di qual è la sua realtà, avverto il dovere di dirgli come stanno i fatti.

Le piacciono ancora le tournée?

No, e sono anni che non parto più. Voglio il cinema, voglio stare dietro la macchina da presa, raccontare storie.

Basta teatro.

Non sopporto la routine, perché quando di una scena ho cavalcato tutte le sfumature possibili scatta la noia.

Spesso l’input di chi si avvicina al teatro è di voler superare la timidezza.

Lo ero da ragazzino, e lo sono ancora, però ho affrontato platee da 2.000-2.500 persone. Non credo a quella tesi.

E allora?

Basta essere padroni di quello che si fa; quando non lo sono stato, ho evitato di presentarmi.

Scaramantico?

Per niente.

Gioca alla lotteria?

No, e non vincerò nulla.

Mai un poker?

Solo una volta e per una notte intera insieme a quattro amici: ho conquistato tutte le poste sul tavolo, e ho capito di non dover mai più replicare una situazione del genere.

Le era piaciuto troppo?

Sì, per questo ho smesso.

Vizi?

Solo uno: fumo tre Marlboro prima di andare a dormire.

Tutte le sere?

Sì, è un premio.

Come nasce?

Per anni il lavoro non è stato proprio continuativo, magari venivo scritturato per tre mesi e altrettanti rimanevo fermo; nei momenti di stop, passavo le giornate in cerca di soluzioni, e per rassicurarmi pensavo: “Tanto questa sera torno a casa mia, bella doccia calda, e mi concedo tre Marlboro”.

Di giorno fuma?

Non tocco una sigaretta. Poi mi dedico “le tre” e vado a letto felice

Con un bicchiere di alcolico?

Mai, bevo pochissimo (alle sette di sera il suo aperitivo è un analcolico).

E se non dà la “botta” di nicotina?

Sono capace di uscire di casa alle quattro del mattino per acquistarle: oramai è un fatto fisico.

I soldi per lei.

Sono importanti perché li ho avuti e non ripresi.

Tradotto.

Sono nato in una famiglia benestante, poi siamo caduti per un problema e per anni è stata veramente dura, tanto da non avere le risorse per offrire una pizza a una ragazza.

Uno choc.

Da allora ogni mio passo è calibrato: non vado avanti se non ho la certezza di esserne in grado. E non sono tirchio, ma accorto.

Altro che choc.

Quando gli altri bambini stavano per strada a giocare, la mia famiglia la domenica andava a pranzo fuori. Per me il ristorante era una piacevole consuetudine terminata al compimento dei trenta. (Ci pensa).

E di cosa ha paura?

Di niente. Forse solo di dire fregnacce, perché come diceva Nanni Moretti “le parole sono importanti” e con la vecchiaia ho imparato a stare zitto se non ho niente da dire. Prima non era così.

Non si sente obbligato a tenere banco?

No, non devo più dimostrare niente a nessuno e non posso rischiare la fregnaccia.

Lei da bambino.

Sono uguale: se chiudo gli occhi sono lo stesso di quando avevo tre anni. Sono sempre io.

Per Fabio Testi l’altezza lo ha sottratto da una serie di complessi. Lei è 1.97.

Amo la simmetria, le proporzioni, l’armonia, per questo ho dovuto lavorare sul corpo per non muovermi da alto, per non venir incanalato e schiavizzato nei caratteristi.

Pure qui c’è uno studio.

Sia posturale che di emanazione: se entro in un ristorante posso decidere se mi si deve notare o meno; ci sono dei momenti che quasi non esisto, per strada mi vengono addosso.

Torniamo ad Alberto Sordi: sono 100 anni dalla nascita.

È il più grande attore al mondo, tutti lo hanno copiato, mentre lui si è ispirato a un solo artista: Stan Laurel.

Lo ha conosciuto?

Sì, il mio desiderio non era solo di stringergli la mano, ma comunicargli che volevo dedicarmi a questo mestiere. Ci sono riuscito. E mi ha intenerito scoprire un uomo totalmente votato al lavoro: non c’era uno stacco. Lui era perennemente Alberto Sordi; (sorride) nessuno era in grado di stargli accanto, fuggivano tutti. Solo Nino Manfredi non lo temeva.

Studiato a fondo.

Emanava un’aura unica, carisma puro. Quell’aura l’ho ritrovata solo in Renato Zero.

Sorcino.

Quando avevo 17 anni, Renato abitava dietro casa mia, fa parte della mia vita, della mia storia.

Esiste la solitudine dell’attore?

Eccome, non so in quanti se la possono immaginare: ho passato ore e ore dentro la roulotte; ore e ore fermo in attesa di girare una scena, un tempo che Mastroianni decantava come momenti di beatitudine, di ricerca di se stessi, di pace. Io no.

Ha dichiarato di essere bugiardo.

Ma non è vero, purtroppo in questi anni mi hanno messo in bocca di tutto, compreso che sono amante del wrestling o che sono scappato da Roma per il troppo rumore.

In realtà?

Del wrestling non mi importa nulla, e mi piacerebbe saper dire qualche bugia; proprio non sono capace, se ci provo inizio a balbettare (la sua compagna gli si siede davanti. Ascolta. Sorride. E annuisce).

È laureato in Architettura. Oltre agli studi ha solo recitato?

No, per un periodo ho lavorato nell’albergo diretto da mio padre: ancora oggi non mi sfugge nulla, appena entro so già se si dorme bene e la qualità del cibo.

Di cosa si occupava?

Reception, ma con papà presente ero molto coccolato; papà era una persona fantastica, divertente, ma un giorno è uscito di casa, stava bene, e non è più tornato. È morto a 66 anni.

Chi è lei?

Uno che è sempre stato alla ricerca di qualcosa che non sa cos’è; ora ho capito di non aver più tanto tempo davanti, e se uno mi chiede qual è il mio prossimo futuro, rispondo: mangiarmi una pizza.

E pagare il conto?

Se posso, sempre.

Ascesa e caduta di Avenatti, l’avvocato dei belli e famosi

Dal vialetto d’accesso alla Casa Bianca all’uscio del carcere: Michael Avenatti, l’avvocato dei “belli e famosi” – e soprattutto ricchi – e della pornostar Stormy Daniels in causa con Donald Trump, è stato riconosciuto colpevole da una giuria di New York di avere tentato di estorcere alla Nike 22,5 milioni di dollari e di avere raggirato un coach del basket universitario suo cliente. La sentenza è attesa a giugno: il legale, che attende il verdetto nella cella che fu di El Chapo – l’ex capo del cartello di Sinaloa – rischia oltre 40 anni di carcere e la radiazione dall’albo. Gli restano pendenti altri due processi: uno a Manhattan, con l’accusa di avere defraudato Daniels, e uno in California, per aver frodato vari clienti e mentito al fisco. Nel marzo scorso, Avenatti era stato arrestato per la vicenda Nike. Dopo qualche ora in guardina, l’avvocato era stato rilasciato su cauzione di 300 mila dollari; il passaporto gli era stato ritirato. Nel 2018, Avenatti aveva avuto attenzione mediatica come legale della pornostar Stormy Daniels, alias Stephanie Clifford, in lite con il magnate presidente. La sua strada s’era intrecciata con quella di Michael Cohen, l’ex avvocato paraninfo di Trump, che pagò in nero 130 mila dollari il silenzio della Daniels (Cohen è già stato condannato a tre anni di carcere e radiato dall’albo). La pornostar ebbe una storia con Trump nel 2006, quando il magnate non pensava ancora di fare politica, ma era già sposato con Melania, incinta del loro figlio Barron. Avenatti, l’anno scorso, aveva annunciato l’intenzione di correre per la nomination democratica, ma s’era poi ritirato dalla corsa prima di cominciarla, adducendo “motivi familiari”. Lo fece dopo essere stato denunciato dalla moglie per violenza domestica ed essere stato “mollato”, come legale, dalla Daniels, che l’accusa fra l’altro di avere fatto causa per diffamazione a Trump a suo nome, ma a sua insaputa; la causa finì male e la pornodiva fu condannata a pagarne le spese.

Californiano, 48 anni, pilota automobilistico professionista – ha corso negli Usa e in Europa, anche alla “24 ore di Le Mans” – oltre che avvocato di celebrità e aziende nella lista di Fortune, Michael John Avenatti, studente d’eccellenza alla George Washington University, esibisce un curriculum fitto di successi e d’infortuni. Degli infortuni, il ricatto alla Nike, marchio d’abbigliamento sportivo, è forse il più grosso. Secondo l’accusa della procura federale di New York, Avenatti chiese all’azienda 22,5 milioni di dollari per tacere notizie che l’avrebbero danneggiata: aveva convocato una conferenza stampa per denunciare uno scandalo nel basket universitario, alla vigilia della fase finale 2019 del torneo da cui escono le stelle della Nba. Avenatti diceva di avere le prove di pagamenti illeciti della Nike ad almeno tre cestisti. Per non renderle note, l’avvocato proponeva all’azienda di chiudere la faccenda pagandogli 22,5 milioni. Le pratiche delle grandi aziende nel mondo del basket universitario sono da tempo oggetto d’inchieste giudiziarie.

Parigi, Macron grida all’intrigo russo e cerca un candidato

Il personaggio all’origine dello scandalo che ha coinvolto Benjamin Griveaux, l’ormai ex candidato sindaco al comune di Parigi del partito di Macron, è finito in manette. La procura di Parigi ha confermato ieri sera che Piotr Pavlenski, artista russo rifugiato in Francia, è stato fermato nella capitale. Ma non per l’affaire Griveaux, bensì nell’ambito di un’inchiesta per violenze a mano armata in cui era implicato da dicembre. Pavlenski è l’uomo che ha pubblicato sul suo blog (nel frattempo bloccato) gli scambi di messaggi intimi e video hot tra Griveaux e una ex amante. Un personaggio ambiguo, presentato come militante anti-Putin, ma che nel 2017, poco dopo aver ottenuto l’asilo in Francia, aveva dato fuoco a una sede della Banca di Francia ed era finito in prigione. Ieri, gettando il dubbio sul ruolo di Pavlenski, Macron dalla Baviera ha affermato che la Russia “continuerà a tentare di destabilizzare” le democrazie occidentali. Venerdì, dopo la diffusione del video hot, l’ex portavoce del governo e fedelissimo di Macron ha deciso di ritirarsi dalla corsa per Parigi. La vicenda ha gettato LRem nel caos. I responsabili del partito si sono riuniti ieri alla ricerca di un sostituito. Chi per riprendere il fardello di un campagna mal iniziata e finita peggio? Griveaux, fermo al 13-14% nei sondaggi, aveva magre possibilità, se non nessuna, di essere eletto. Marlène Schiappa, segretario di stato all’Uguaglianza, una delle poche figure di un certo spessore, ha rifiutato di presentarsi al suo posto. La ministra della Sanità, Agnès Buzyn, ha già fatto sapere che le municipali non le interessano. Da questa vicenda è Cédric Villani, il matematico macronista dissidente, al 10-12% nei sondaggi, che potrebbe guadagnare punti. Lui dice di essere sempre “aperto” ad accogliere chiunque voglia sostenere il suo progetto.

Ingrid e le altre: fatte a pezzi e “servite” per lo spettacolo

“Fanno spettacolo delle nostre morti”. Ingrid è stata uccisa. Ingrid Escamilla aveva 26 anni e viveva a Città del Messico. Il marito l’ha pugnalata e ha fatto a pezzi il suo corpo sotto gli occhi del figlio pur di sbarazzarsene. Uno spettacolo a cui nessuno vorrebbe assistere, ma che centinaia di migliaia di lettori hanno visto nelle immagini pubblicate da un giornale locale. A passare ai cronisti le foto del corpo martoriato e senza più alcun segno di dignità umana della vittima è stata la polizia, gli agenti corrotti. Ed è per questo che in un Paese dove l’ordine del giorno prevede crimine e morte e in cui centinaia di giornalisti vengono uccisi perché informano i cittadini del malaffare dilagante, per una volta non a difendere il loro lavoro, ma per accusarli, hanno marciato migliaia di donne in tutto il Paese: al grido di “compagne, questa manifestazione è contro la stampa, non fermatevi a farvi fare le foto, andiamo avanti” e “Messico femminicida”.

È così. Il paese di Frida Kahlo, con una media di 100 persone uccise al giorno, di cui almeno 3 femminicidi, detiene il record negativo di violenza generalizzata e mancanza di misure adeguate da parte delle autorità. Ma c’è di più. Ciò che le donne che venerdì hanno bussato al Palazzo Nazionale del presidente Andrés Manuel López Obrador denunciano ormai da mesi è che “esiste un contesto generalizzato di violenza e quella contro le donne proprio per questo è molto più estrema che in altri paesi”. La cosa singolare è che a lanciare l’allarme siano solo le donne, che hanno unito le forze dei diversi collettivi femministi allo scopo di far sentire la loro legittima rabbia nei confronti di uno Stato che non ha agito per anni e di un governo che continua a sottovalutare il problema. A niente è servito l’arrivo al potere di Amlo, il presidente di sinistra che della lotta per la parità e contro il femminicidio aveva fatto delle bandiere, attirando a sé non solo il voto, ma anche la fiducia dei collettivi femministi. Simboli e gesti, niente di più. Per non parlare della curiosa idea del procuratore generale del Messico che a novembre scorso ha proposto l’eliminazione dal codice penale del reato di femminicidio, che, introdotto nel 2012, prevede pene tra i 40 e i 60 anni di carcere per omicidi per ragioni di genere: “Un segnale di involuzione” secondo le deputate del Movimento di rigenerazione nazionale di Obrador che si sono battute perché non fosse cancellato. E anche venerdì, è proprio da Amlo che è ripartito il dibattito.

Mentre le donne in corteo bussavano alla sua porta, infatti, dentro al Palazzo il presidente rispondeva alle domande de La mañanera, consueta conferenza stampa mattutina, su temi distanti da quelli per cui si battevano le donne in strada. Finché non c’è stato un cambio di programma e, tra le giornaliste che hanno preso la parola per i quesiti al presidente, si è presentata anche Frida Guerrera, cronista che racconta storie di femminicidi dal 2016. L’attivista di #NiUnaMenos ha messo alle corde il presidente Lopez Obrador chiedendogli dove siano finite le sue politiche anti-violenza, che cosa stia facendo la Commissione per le pari opportunità e come intende rispondere all’emergenza che ogni giorno vede scomparire 10 donne in Messico. Il presidente – piccato – ha snocciolato il decalogo anti-femminicidi che vuole mettere in atto il suo governo senza in alcun modo impegnarsi concretamente con una tabella di marcia. D’altra parte, già a maggio del 2019 il presidente era pronto a giurare che di lì a poco avrebbe impiegato i 14 milioni di euro destinati dall’Unione europea al Paese latino-americano – il famoso programma Spotlight per sradicare la violenza di genere – a favore di misure contro i femminicidi. Niente di tutto ciò è avvenuto.

Anzi, stando alla mappa degli omicidi contro le donne creata dalla geofisica messicana Maria Salgado e pubblicata anche dal Fatto a settembre scorso, in Messico si contano 1.056 donne uccise da gennaio ad agosto scorsi. L’unico risultato che Frida con le sue domande è riuscita a ottenere è stata la sassaiola di accuse e minacce alla sua persona, sia su Twitter che nella realtà. Amlo le ha rinfacciato di avergli mancato di rispetto e di aver fatto il gioco dell’opposizione. Motivo per il quale l’attivista si è scusata in tv, ribadendo che il suo unico obiettivo è evitare che le donne siano uccise e che dei loro corpi si faccia spettacolo. Uno spettacolo pessimo, per ora, lo ha offerto Amlo.

Lula, l’“inventore” dell’altro Brasile

Il 25 aprile scorso, insieme a mia moglie, ho fatto visita a Lula nel carcere di Curitiba dove era detenuto dal 7 aprile 2018. Mercoledì scorso, finalmente, abbiamo potuto chiacchierare qui a Roma, senza telecamere poliziesche, per più di due ore. Il giorno successivo Lula ha incontrato il Papa e poi ha partecipato a una pubblica manifestazione organizzata in suo onore da Cgil, Cisl e Uil.

Gli intellettuali brasiliani usano distinguere tra “scopritori” e “inventori” del Brasile. Esploratori come Cabral o gesuiti come Manuel da Nóbrega sono alcuni degli europei che scoprirono questo paese nel Cinquecento. Nei quattro secoli successivi sono arrivate e si sono mischiate tra loro una quarantina di etnie provenienti dall’Europa, dall’Africa e dall’Asia, creando un meticciato indistinto. Nel Novecento una ventina di grandi intellettuali come Gilberto Freyre, Sérgio Buarque de Hollanda, Oscar Niemeyer e Darcy Ribeiro hanno “inventato” il Brasile, cioè hanno ideato e impresso a quella miscela antropologica la forma, la consapevolezza e la dignità di un popolo compatto, orgoglioso della sua identità culturale, estetica, politica ed economica. Nel gruppo degli “inventori” stanno a pieno diritto tre grandi presidenti della repubblica: il medico Juscelino Kubitschek de Oliveira; il sociologo Fernando Henrique Cardoso; l’operaio Luiz Inácio Lula da Silva. In questa “invenzione” il ruolo svolto da Lula – fondatore del Partito dei Lavoratori (PT) e presidente della Repubblica dal primo gennaio 2003 al primo gennaio 2011 – consiste nell’aver dato voce al sottoproletariato, che negli anni della sua presidenza è sceso dal 25 al 10% della popolazione; al proletariato, che è salito dal 28 al 30%; alla classe medio-bassa (la cosiddetta “classe C”) che è passata dal 30 al 39%. In cifre assolute, durante le sue due presidenze sono stati creati 20 milioni di posti di lavoro, mentre 40 milioni di brasiliani poveri sono entrati nella “classe C”. Questa rivoluzione socio-economica è stata accompagnata da una parallela rivoluzione socio-culturale: il presidente del Brasile con il più basso titolo di studio ha creato il maggior numero di università nelle zone più disagiate del paese facendo crescere di ben 4 milioni il numero degli studenti universitari, anche quelli che prima erano discriminati per motivi razziali o economici. Una rivoluzione così radicale in un paese così ineguale ha provocato due mutazioni imprevedibili: i neo-borghesi sono diventati evangelici e, come tutti gli evangelici, hanno votato per Bolsonaro; il potere ha dato alla testa ad alcuni protagonisti della stessa rivoluzione, persino a persone che avevano combattuto la dittatura subendo carcere e torture. Esaltati dal potere e dalle opportunità di arricchirsi facilmente, ne hanno profittato a man bassa, sconquassando il PT e diffamando Lula, rimasto coerente con le sue idee. Intanto la stessa radicalità della rivoluzione ha spaventato il capitalismo internazionale che è corso ai ripari e, esso corrotto, si è fatto paladino dell’anti-corruzione e ha eliminato Lula, capro espiatorio. Lo ha fatto con un doppio golpe, mediatico e giudiziario, come in tutte le controrivoluzioni nella società postindustriale. Se non fosse stato messo in galera pochi mesi prima delle elezioni, Lula, con il 38% di preferenze che gli davano i sondaggi, sarebbe stato rieletto presidente. Durante la sua presidenza Lula ha commesso l’errore di fidarsi dei suoi collaboratori, dandone per certa una onestà sempre più palesemente incerta. Oggi sbaglia nel negare persino a se stesso il peso avuto dalla corruzione nella sconfitta sua e del PT. Senza quella corruzione, i media e gli avversari avrebbero avuto le armi spuntate. Oggi Lula è un personaggio politico ancora più prezioso per la sinistra mondiale di quanto fosse dieci anni fa. Alla sua vasta esperienza ora si è aggiunta quella provocata dal tradimento dei suoi vecchi compagni di lotta e dalla protervia fascista dei suoi avversari potentissimi, armati di soldi, media, connivenze planetarie, spregiudicatezza e perfidia. Ma soprattutto, a impreziosire la personalità di Lula, ci sono i 580 giorni di isolamento carcerario che hanno consentito a una mente lucida come la sua di riflettere a fondo sulla situazione mondiale e sulla crisi della sinistra. Quando, da presidente, si trovava seduto insieme ai potenti della terra, sapendo che ognuno di essi veniva da una famiglia privilegiata, si dava forza pensando che solo lui aveva il grande, prezioso vantaggio di sapere per esperienza diretta cosa significa essere povero, essere proletario, essere emarginato. Oggi la posizione ideologica di Lula è più chiara che mai: “Tutti sanno che il mondo sta diventando più disuguale; nella maggioranza dei paesi i lavoratori stanno perdendo i loro diritti. Le conquiste che abbiamo conseguito stanno cadendo per colpa degli interessi finanziari”. Nella situazione attuale l’economia prevarica la politica; la finanza prevarica l’economia; le agenzie di rating manovrano la finanza. I governi capitalisti non sono altro che gli apparati d’affari dei ricchi sempre più ricchi, resi cinici dal neo-liberismo che razionalizza e giustifica le disuguaglianze. Le riforme non bastano più: quando arrivano a essere approvate, sono già superate dai tempi. Occorre una rivoluzione planetaria per ribaltare questa situazione intollerabile e per difendere l’ambiente. La rivoluzione che stava facendo in Italia Adriano Olivetti; quella che ha fatto nel mondo Tim Berners Lee. A questo scopo prioritario occorre convocare tutte le forze sensibili e coraggiose. Perciò Lula ha incontrato Mujica, ha incontrato il Papa, presto incontrerà altri leader mondiali, consapevoli della necessità e dell’urgenza che 3,5 miliardi di poveri si liberino dell’oppressione esercitata da poche decine di straricchi. Aver ricevuto Lula testimonia la caratura sociale di papa Bergoglio e il coraggio con cui indica al mondo, anche attraverso Lula, il suo obiettivo pastorale. Lula mi ribadisce, con la sua vigorosa caparbietà, che la malattia senile della sinistra sta nell’avere perso il contato con i poveri, nell’avere rinunziato alla funzione pedagogica nei confronti degli sfruttati, nell’avere trascurato la formazione di avanguardie capaci di esercitare nelle battaglie politiche una leadership competente, autorevole, coraggiosa e disinteressata. Quando Lula esprime il suo pensiero, a prima vista arcaico, in paragone le idee e il linguaggio della pseudo-sinistra italiana appaiono sfocate e confuse, irrimediabilmente superate, bizantine, prive di visione e di tensione. Perciò, nell’incontro pubblico con i sindacati, mi sono parse sorprendenti, più ancora che le parole di Landini (Cgil), quelle di Annamaria Furlan (Cisl) e di Carmelo Barbagallo (Uil) che quasi si sono aggrappati a Lula per averne idee e protezione. Davanti a una platea gremita, Barbagallo ha dichiarato che un sindacato non può conseguire i suoi giusti obiettivi senza fare proprie le sfide indicate da Lula. Furlan ha detto testualmente: “Caro presidente, noi abbiamo bisogno di te. Abbiamo bisogno non solo di simboli ma di vite reali che dimostrano che possiamo immaginare un altro mondo dove, invece della povertà, ci sono diritti equamente distribuiti. Noi ci sentiamo un poco meno soli se sappiamo che, in testa a questa grande voglia di cambiare il mondo in meglio, abbiamo Lula”. Se penso che questa sindacalista è la stessa che ha condiviso il jobs act e l’abolizione dell’articolo 18, mi rendo conto della potenza fascinatrice di un leader carismatico come Lula.

Mail Box

 

Prescrizione, perché i politici non pensano alle vittime?

Cominciando da Berlusconi per arrivare a Renzi e Salvini, ogni volta che si parla di Giustizia e di processi si evidenziano i diritti dell’imputato (forse perché loro sono tali?) ma non si rimarcano mai i diritti delle vittime. È pur vero che nei processi contro la P. A. in cui sono coinvolti quasi sempre politici di ogni livello, la vittima è evanescente, non presente fisicamente, ma negli altri processi c’è sempre una controparte vittima.

In tutte le discussioni su pena, certezza della pena, durata del processo, prescrizione, legalità, questa controparte non entra mai nell’analisi è come se i processi si svolgessero solo e sempre contro l’imputato, mai anche a favore e a difesa della vittima. Poi, quando scatta la prescrizione, vedi processi celebri con numerose vittime e nessun colpevole, allora tutti, a cominciare dai politici di turno, si scandalizzano, si indignano e si sconcertano perché non è stata fatta Giustizia.

Ora che si potrebbe fare qualcosa per aiutare questa “Giustizia” ecco che, i soliti politici di turno, sollevano tutti i distinguo del caso. Certo è comprensibile che Renzi si batta per l’immobilismo, ma gli altri ? È forse un caso che nel Parlamento siedano decine di avvocati e pochissimi magistrati?

Non è che togliendo la prescrizione a molti di questi “difensori” toccherebbe lavorare sodo anziché limitarsi di sollevare eccezioni che bloccano l’iter processuale e avvicinano l’agognata prescrizione?

Riccardo Fornengo

 

Denatalità, copiamo i provvedimenti francesi

Piazze piene culle vuote, così il nostro Presidente della Repubblica sintetizza un nostro disastro nazionale, purtroppo poco sentito dalla classe politica.

Essa infatti “non percepisce”, non ha il coraggio di prendere costosi provvedimenti per diminuire la denatalità. Basterebbe copiare quello che ha fatto la Francia.

Qualche esempio? 1) “La Francia ha elaborato gli strumenti per conciliare lavoro e famiglia, con il risultato che è la Nazione che fa più figli ed ha l’occupazione femminile superiore alla media europea; 2) La spesa pubblica per ogni bambino è quasi il doppio della media Ocse; 3) Le tasse si pagano sul quoziente famigliare, cioè a livello di vita uguale, tasso di imposizione uguale; significa che il reddito complessivo del nucleo famigliare deve essere suddiviso in parti secondo il numero dei componenti della famiglia. Un modo onesto e intelligente è quello di abbassare l’imponibile e non tassare il reddito unitario ma quello disponibile, oltre a tutti gli sgravi alle famiglie con figli, per pagare baby sitter e asili e altri sussidi pubblici.

Marco Grasso

 

Regeni e l’Egitto, al solito il business vince sulla giustizia

La vendita di armi italiane all’Egitto non meriterebbe commenti, ma la notizia è utile per farci riflettere sulla nostra politica estera e su che tipo di Paese intendiamo essere: se tutto si basa sul business, allora meglio dirlo chiaramente, lasciamo perdere i diritti, la democrazia, mettiamoci in ginocchio davanti ai soldi e adoriamoli più della nostra vita.

Invece se pensiamo che la Costituzione abbia ancora un significato, se pensiamo di essere un Paese cristiano, se crediamo nella vita, se non vogliamo diventare l’ombra della nostra parte migliore, non solo non dobbiamo vendere armi all’Egitto, ma dobbiamo essere protagonisti nelle istituzioni internazionali perché nessun altro Paese possa farlo.

Fabrizio Floris

 

Continuano le sortite surreali del leader di Iv

Renzi vota con tracotanza col centrodestra contro il Governo di cui fa parte, attacca ogni giorno lo stesso Governo e ammicca a Berlusconi e Salvini, chiede di sfiduciare il Ministro Bonafede, per mantenere la prescrizione per decine di migliaia di malfattori (molti d’alto bordo) che ogni anno si fanno beffe della Giustizia, non fa partecipare le sue due seguaci al consiglio dei Ministri… poi, rivolgendosi agli altri della maggioranza dice: “Se vogliono la crisi lo dicano”! Cos’é una beffa?, parole in libertà, o una delle furbate alla “Enricostaisereno” a cui costui ci ha abituato?

Mario Frattarelli

 

È bastato un virus per mettere in crisi il neoliberismo

Ascoltavo ieri la radio. Tra le tante una notizia. La Fiat ha fermato la catena di montaggio della nuova 500L perché mancano alcuni pezzi che arrivavano dalla Cina.

Ricordo alcuni anni fa, la nostra preoccupazione per cosa sarebbe accaduto quando la Cina avesse aperto le sue frontiere e avesse portato al benessere la più numerosa popolazione del mondo.

Il mondo occidentale, negli ultimi anni, si è visto sempre più incapace di frenare la globalizzazione distorta voluta dal neoliberismo. L’esternalizzazione delle produzioni industriali, aveva l’unico scopo di arricchire ancor più i già ricchi ed impoverire la classe media, privilegiando la quantità a scapito della qualità.

A scombussolare questo programma, che eravamo incapaci di arrestare, ci ha pensato un virus, che è riuscito a mettere in crisi questa politica.

Resta solo da aspettare la fine dell’epidemia per renderci conto di chi dovrà pagare l’enorme guaio prodotto da una classe dirigente cieca e ingorda.

Lorenzo Filippi

Domani è la Festa dei valdesi contro l’odio e l’antisemitismo

Domani è il 17 febbraio. Chi si trovasse a passare in una piccola porzione montana del territorio italiano, in provincia di Torino, noterebbe qualche cosa di particolare: scuole pubbliche chiuse nei villaggi in alto sui monti, cortei in costume tradizionale con la banda e le bandiere, resti fumanti dei falò accesi la sera precedente (quest’anno per la siccità non si faranno), celebrazioni liturgiche e incontri vari.

È la “festa dei valdesi”, che le chiese protestanti celebrano anche in moltissime altre località di tutta Italia. Ricorda l’Editto di emancipazione di re Carlo Alberto del 17 febbraio 1848 che diede dignità e diritti a questa minoranza cristiana protestante rendendola parte integrante della comunità nazionale. Un mese più tardi, il 15 marzo, avvenne lo stesso per gli ebrei, e in mezzo, il 4 marzo, ci fu la promulgazione dello Statuto, che fu la prima costituzione italiana per 100 anni, fino a quella repubblicana del 1948. Per valdesi ed ebrei non si trattò di una libertà completa: per i valdesi era esclusa la libertà di culto al di fuori delle valli di Pinerolo (l’antico ghetto alpino) e per gli ebrei al di fuori delle 23 sinagoghe già presenti nel Regno. Poi la libertà, faticosamente, divenne più ampia per tutti e non solo per le minoranze ebraica e valdese.

Oggi, dopo 172 anni, il panorama religioso e culturale italiano si è trasformato radicalmente e vede la presenze consistenti di comunità cristiane prima esigue, come quelle ortodosse, e di comunità di altre religioni prima sostanzialmente assenti. Basti pensare al gran numero di confessioni religiose cui ogni anno si può destinare l’Otto per mille della propria dichiarazione dei redditi. Questa nuova presenza ha dato luogo a reazioni diverse e opposte: di accoglienza e ricerca di integrazione oppure, al contrario, di pregiudizio e repulsione, con conseguenze nei comportamenti individuali e collettivi crescentemente intolleranti, odiosi, a volte violenti.

Per i cristiani, almeno per quelli che conoscono e cercano di mettere in pratica il messaggio evangelico, la scelta dovrebbe essere chiara e si può riassumere nella raccomandazione apostolica: “Non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione” (I Pietro 3,9) e “Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni. Ma fatelo con mansuetudine e rispetto, e avendo la coscienza pulita; affinché quando sparlano di voi, rimangano svergognati quelli che calunniano la vostra buona condotta in Cristo. Infatti è meglio che soffriate per aver fatto il bene, se tale è la volontà di Dio, che per aver fatto il male” (I Pietro 3,15-17). Il compito del cristiano non è male-dire ma bene-dire, dire cioè parole “buone” e non “cattive”, parole di edificazione di una comunità umana in cui ci si rispetti nelle differenze, siano esse religiose o culturali o politiche, che uniscano invece che separare.

Nel 1848 si accese una fiaccola di libertà, che nel Novecento venne spenta per un ventennio trascinando l’Italia in una tragedia di violenza ideologica contro “i nemici della patria”, tra cui gli ebrei, e poi nella tragedia della guerra. Sembra un passato lontano, ma qualcosa ritorna. Per questo la Federazione delle chiese evangeliche italiane ha proposto di dedicare il 17 Febbraio di quest’anno all’impegno contro l’antisemitismo e la deriva dell’odio: “La storia dell’Europa moderna e ancor più contemporanea ci insegna che le parole e le azioni di odio contro gli ebrei sono il primo segnale di una deriva liberticida e di attacco ai principi su cui si basano le nostre democrazie costituzionali, fondate in reazioni agli orrori che hanno travolto l’Europa nel secolo scorso”.

* Già Moderatore della Tavola valdese

Renzi e Salvini, pugili suonati dai colpi di pochette di Conte

 

“Il governo finisce qui, Salvini ha seguito interessi personali e di partito”.

Giuseppe Conte, 20 agosto 2019

 

“È surreale e paradossale che il maggior partito d’opposizione sia nella maggioranza. Credo che su questo Italia Viva debba dare un chiarimento, non al sottoscritto ma agli italiani”.

Giuseppe Conte, 13 febbraio 2020

 

A proposito dell’espressione pugile suonato, tempo fa chiesi per gioco a un esperto di boxe a quale match del passato assomigliasse lo scambio di colpi tra il premier e Matteo Salvini, avvenuto lo scorso agosto nell’aula del Senato. Mike Tyson contro Buster Douglas, rispose senza esitazione e spiegò perché. L’11 febbraio 1990, a Tokyo, l’allora imbattuto ed esplosivo campione dei pesi massimi Tyson perse per la prima volta in carriera per ko, contro un avversario ampiamente dato per sfavorito, il semisconosciuto outsider James “Buster” Douglas. Il match è generalmente considerato una delle più grandi sorprese nella storia dello sport. In una scena poi diventata celebre, Tyson crolla nell’angolo e poi si mette carponi sulle ginocchia per raccogliere da terra il paradenti che gli era saltato via, prima di rialzarsi faticosamente aiutandosi con le corde del ring. Alla medesima domanda, in seguito allo scontro di questi giorni tra Conte e Matteo Renzi, mi è stato risposto: non saprei dire visto che sono rarissimi i casi conosciuti nei quali un pugile riprende la strada dello spogliatoio appena salito sul quadrato. Diciamo subito che dopo quella incredibile vittoria, la carriera di Douglas andò a rotoli (a Tyson andò anche peggio), ragion per cui non insisteremo con l’azzardato paragone se non per qualche considerazione sul pugile, pardon, sul premier più sottovalutato della storia recente. Che sarà pure il trasformista, voltagabbana, poltronista, banderuola eccetera che gli avversari dipingono. Indotti, tuttavia, a spargere tanto veleno più per la rabbia di continuare a vederselo, malgrado tutto, assiso al piano nobile di palazzo Chigi che per supposte ragioni di etica politica. Mettiamoci per un attimo nei panni di Salvini (sia pure protetti da scafandro e spessa tuta antivirale) quando, petto in fuori e pancia pure, convinto di marciare trionfalmente su Roma finì per essere pubblicamente menato nell’aula di palazzo Madama da un avvocato pugliese provvisto di pochette e perfidia tribunizia. Non se l’aspettava proprio, e neppure noi: risulta infatti che il Tyson del Papeete non si sia ancora ripreso. Con Renzi, al momento, gli è bastato alzare un po’ la voce anche se il bullo fiorentino continuerà disperatamente a molestarlo per dimostrare la sua esistenza in vita. Che Giuseppe Conte non sia un Alcide De Gasperi siamo convinti che sia lui il primo a saperlo. Ma, con tutti i suoi limiti, può essere la dimostrazione di come con la semplice arma del parlare chiaro, del male non fare paura non avere, si possano mettere in fuga i capitan Fracassa da Luna park.