Il Nord Europa nella morsa di Ciara e Dennis (tempeste)

In Italia – Il caldo anomalo non si ferma e con un mese d’anticipo i primi albicocchi fioriscono al Nord. Durante il foehn di martedì scorso pareva maggio, con temperature massime fino a 25 °C a Termoli (record per febbraio), e il vento impetuoso legato alla tempesta Sabine in Europa centrale (Ciara secondo la nomenclatura del Metoffice) ha abbattuto alberi e scoperchiato tetti (121 km/h a Urbino; una vittima a Traona, Sondrio). Sotto correnti da Ponente ogni tanto la pioggia arriva tra Liguria e Toscana (82 mm sulle Alpi Apuane giovedì notte), mentre nelle valli valdesi del Piemonte dato il pericolo di incendi stasera non si terranno gli storici falò delle libertà.

Nel mondo – Seguendo uno schema che si ripete da inizio inverno il Nord Atlantico continua a partorire burrasche di inconsueta intensità. Pur senza raggiungere la violenza di Lothar (dicembre 1999) o Burglind (gennaio 2018), Ciara ha spazzato mezzo continente tra domenica 9 e martedì 11 febbraio: otto vittime dal Regno Unito alla Slovenia, caos nel traffico aereo, stradale e marittimo, allagamenti, danni e black-out specie in Inghilterra, 180 mm di pioggia in 24 ore nel Lake District e vento a 156 km/h sull’isola di Wight; a Francoforte una gru è crollata guastando il tetto della cattedrale. Raffiche ancora più furiose in Corsica (219 km/h sul Capo), e nuovo record invernale di caldo per tutta l’isola, 27,8 °C ad Alistro (foehn). Venerdì incredibili venti fino a 256 km/h anche in riva al mare in Islanda, e ieri la nuova tempesta “Dennis”, tra le più profonde mai viste in Nord Europa con pressione di circa 920 ettopascal, ha causato altri danni sulle isole britanniche. Poche zone al mondo sono state più fredde del solito a inizio febbraio, tra cui Alaska e Medioriente: mortali valanghe in Turchia (41 vittime tra cui molti soccorritori), e 4 cm di neve martedì 11 a Baghdad (precedenti solo nel 1914 e 2008). Gelo intenso ma breve in quello che per ora resta l’inverno più mite dal 1895 negli Usa, -37 °C giovedì nel Minnesota. Intanto, dopo l’anteprima del programma Copernicus, la Noaa conferma il gennaio 2020 come il più caldo nel mondo con 1,14 °C sopra la media del XX secolo! Qualora validati dall’Organizzazione meteorologica mondiale, i 20,7 °C di domenica 9 febbraio alla base Marambio costituirebbero un nuovo record di tepore per tutta l’Antartide (isole comprese), a pochi giorni dal primato continentale di 18,3 °C alla base Esperanza. Ulteriore segnale preoccupante da una regione che determinerà il destino delle città costiere, da New York a Mumbai: la più aggiornata valutazione del ruolo della fusione dei ghiacciai antartici nell’aumento dei livelli marini, coordinata da Anders Levermann del Postdam Institute for Climate Impact Research (Projecting Antarctica’s contribution to future sea level rise, su Earth System Dynamics), prevede fino a +58 cm già in questo secolo nello scenario “business-as-usual”, a cui si aggiungerà la dilatazione termica dell’acqua più calda e la fusione nei restanti ghiacciai del mondo. Come la Mer de Glace, il più grande della Francia, sul Monte Bianco, la cui lingua perde circa 5 metri di spessore all’anno: giovedì Emmanuel Macron l’ha visitato – guidato dal glaciologo Luc Moreau e dal climatologo Jean Jouzel – per rendersi conto del riscaldamento globale e sancire, speriamo, il suo impegno ambientale. Invito i presidenti Mattarella e Conte a fare altrettanto: mi offro di accompagnarli al capezzale dei ghiacciai sul versante italiano. A 79 anni è mancato Rajendra Pachauri, ingegnere ed economista indiano che dal 2002 al 2015 guidò l’Ipcc in un periodo cruciale per i negoziati sul clima: nel 2007 sotto la sua direzione l’organo Onu ricevette insieme ad Al Gore il premio Nobel per la pace.

Da dove vengono le svastiche

Avrete notato che nessuno è mai coinvolto in una “goliardata” (così si dice) sulle foibe? Non si trova mai una scritta in cui si minaccia qualcuno di essere gettato in una foiba, o di essere degno di quella fine. Avrete notato che mentre “gli ebrei al forno” (Anna Frank) sono frasi che si gridano liberamente e si scrivono dove capita, non sono stati mai associati, in nessun luogo, in nessuna circostanza per quanto rabbiosa, a nessuna persona gli orrendi eventi delle foibe insieme alla parola “fascista”.

Nello scontro che continua e si allarga fra parti diverse degli italiani, è possibile che una parte sia più cattiva e più crudele dell’altra? Ma i ragazzini delle svastiche (e quelli assai più indottrinati e “preparati” che scrivono “calpestare gli ebrei”) chi sono, da dove vengono? Evidentemente (sono tanti e si moltiplicano) hanno ragioni per sentirsi dalla parte giusta. Non stanno facendo, con cattiveria vandalistica e infantile, cose che non si fanno. Sanno di avere le spalle protette. Sanno che ci sono, nel loro universo, che non è grandissimo ma non è debole, padroni e padrini che sanno menare le mani.

Direte che nessun limite pericoloso è stato passato finora. I fatti dimostrano che i limiti si passano tranquillamente, appena si può. Un giovane senegalese colpevole di nulla è stato quasi ammazzato di botte con la dovuta motivazione (“negro di merda”) pochi giorni fa, tra cittadini distratti. Intanto gli assalti fisici e senza causa agli “stranieri ” che vivono in Italia (e che sono la rappresentazione fisica dell’insulto all’ebreo sulla porta di casa o sulla pietra di inciampo) si moltiplicano fervidamente. Conoscete partiti di destra che mostrino o fingano costernazione? Ma la celebrazione delle foibe qualcosa ci insegna. No, non parlano delle famiglie spossessate e cacciate e degli innocenti massacrati con violenza alla fine di una guerra cieca e fascista. Non ti danno il tempo e lo spazio di unirti al dolore di chi ha pagato senza colpa al posto del duce e dei suoi gerarchi. No, montano un apparato quasi religioso che serve a pretendere un rigoroso silenzio su ciò che hanno fatto per anni fascisti e nazisti nella Jugoslavia occupata. Pavelic, leader locale croato nominato da Mussolini, faceva strappare gli occhi ai prigionieri prima di ucciderli (teneva un cestino di occhi di fucilati sul tavolo).

L’orrore non giustifica l’orrore. Ma troncare la storia e fingere che metà di essa non sia mai avvenuta è un falso grave. Gli eredi storici di Pavelic vogliono farti immaginare un mondo popolato di comunisti bestiali contro cui essi (quelli degli occhi strappati) sono stati l’argine della civiltà contro il terrore. Eppure erano loro il terrore (al fedele servizio di Hitler e Eichmann), loro hanno perso la guerra pur di uccidere un ebreo o uno zingaro in più. Ma ha vinto la civiltà. Eppure lo sforzo dei fascisti di adesso di tenere vivo e attivo l’odio che ha massacrato l’Europa resta vivissimo, e per fortuna è respinto da molti italiani che partecipano e rispettano il lutto e il dolore delle vittime della spaventosa vendetta delle foibe, anche se sanno che tutto è avvenuto alla fine di una folle e immensamente crudele guerra fascista. Molti si ritraggono da questo rinnovato progetto di morte. Ma il nuovo espediente è credere e far credere che esista una zona, un pensiero, un’idea, un territorio, una decisione, una modo di decidere sul destino di altri (per esempio la strage delle Fosse Ardeatine) che non è né di destra né di sinistra. È vero che dire questa frase dopo avere elencato gli eventi che hanno composto e stanno componendo la Storia italiana è folle. Ma ormai in molti lo dicono.

La Shoah non è di destra né di sinistra? Eppure è l’opera più grande e indimenticabile del fascismo e del nazismo. Eppure sono stati i soldati russi (sovietici), alleati di Roosevelt e di Churchill, ad aprire i cancelli di Auschwitz. Ce lo ha raccontato Primo Levi. L’argomento è che da tempo non sappiamo nulla dell’altra parte del mondo che chiamavamo la sinistra. Niente fronteggia il vasto spazio prepotente, aggressivo e falsario detto “la destra”. Al momento c’è vuoto. Non puoi prendere sul serio la buonafede di uno che ti dice “sono comunista” e va via, di uno chi ti annuncia, restando immobile, che presto farà un congresso, ma intanto rinnova i trattati con la Libia, come se non ci fossero morti, feriti e schiavi, secondo le decisioni di despoti che, loro sì, non sono né di destra né di sinistra perché sono in affari. Ecco da dove vengono le svastiche disegnate o incise anche adesso sulle porte di ebrei e antifascisti delle nostre città. Ecco dove e perché si distruggono o si deridono le pietre d’inciampo. Non vi consolate con il povero e basso livello delle grida alla curva dello stadio. Qui c’è gente esperta e informata che ha la sua “bestia” (apparato di propaganda) che dice dove e da chi devi andare. Siamo nel punto in cui in tanti ci eravamo domandati: perché negli anni Venti nessuno ha fatto o detto niente mentre il fascismo entrava in tutte le strade? Non giochiamo a nasconderci. Quel tempo è qui, adesso.

Le soavi carezze del giovane Ciriaco

In regione Campania c’è il nuovo che avanza. Impetuosamente. Non solo il Pd conferma la candidatura di Vincenzo De Luca, tagliando i ponti a qualsiasi ipotesi di collaborazione con Cinque Stelle e sinistra. Ma ora per don Vicienzo arriva un’investitura importante, definitiva. Quella di un giovane virgulto della politica campana: Ciriaco De Mita da Nusco, anni ‘92, eterna colonna della Democrazia Cristiana della Primissima Repubblica, egregiamente sopravvissuto pure a quelle succcessive. De Mita, in un’intervista al Mattino, benedice a modo suo la conferma di De Luca: “Rispetto agli altri nomi che si fanno, oggi è colui il quale appare il più candidabile”. Non è un’entusiastica dichiarazione d’amore, ma meglio di niente. “Guai a ritenere che questa condizione lo garantisca”, ammonisce in effetti De Luca, perchè “l’insufficienza dei programmi inevitabilmente indebolisce il governo”. De Mita ne ha per tutti: “Io ho sempre dialogato con la sinistra” ma “nel Pd c’è un segretario, Nicola Zingaretti, che si affatica a descrivere i problemi evitando di proporre soluzioni praticabili. Nessuna analisi”. E poi dà una carezza a Matteo Renzi: “Fa discorsi da bar, senza un pensiero e una analisi politica. Eloquio sensa senso”.

Il Prefetto chiude pizzeria “Da Michele” per infiltrazioni

Proprio nei giorni in cui il brand L’Antica Pizzeria da Michele si stava espandendo con un calendario di nuove aperture a febbraio tra Londra e Berlino, arriva la chiusura a Milano del locale di piazza della Repubblica. Motivo: una interdittiva antimafia. La notizia arriva da una nota di Palazzo Marino che spiega che la misura adottata dal Prefetto di Milano riguarda la società “Fornace Milano Srl”. Il provvedimento di revoca della licenza commerciale è stato notificato ieri dalla polizia locale, al termine di un’istruttoria curata dalla Questura di Milano.

Ma sulla loro pagina Facebook, i gestori della pizzeria giustificano la chiusura parlando genericamente di “lavori in corso” e senza menzionare l’interdittiva antimafia: “Si comunica a tutta la gentile clientela che L’Antica Pizzeria Da Michele Milano rimarrà chiusa per qualche giorno per lavori di manutenzione straordinaria. Vi terremo aggiornati sulla data di riapertura. Cordialmente, La Direzione”.

L’Antica Pizzeria da Michele di Milano era stata aperta sulle ceneri del ristorante di Joe Bastianich e Belen Rodriguez chiuso nel dicembre 2017. Il brand è nato a Napoli con lo storico locale avviato un secolo e mezzo fa da Michele Condurrò nel quartiere di Forcella. Un marchio detenuto in esclusiva con una sentenza del Tribunale di Napoli dagli eredi di quinta generazione della famiglia Condurrò. Determinati, attraverso la creazione di una società ad hoc, la Antica Pizzeria da Michele in the world, ad espandere nel mondo il loro marchio di successo attraverso una catena di pizzerie aperte in Italia e anche a Tokio, Barcellona, Los Angeles. Tutti posti dove si può mangiare solo due tipi di pizza, la margherita e la marinara.

Inna e Danil, l’amore ai tempi del virus

Dopo un incontro fugace sotto il cielo cupo di Wuhan mentre erano in fila durante l’evacuazione e poi tra i sedili dell’aereo militare moscovita che veloce li trasportava verso il sanatorio d’epoca sovietica di Tyumen, in terra selvaggia e siberiana, Inna Savintseva e Danill Parfenovich, diciottenni nati entrambi nella Federazione russa, raccontano di essersi innamorati perdutamente l’uno dell’altro alla platea digitale che li segue ingorda di aggiornamenti sul Corona virus.

La storia di Inna e Danil è finita stampata in cirillico sul giornale Komsomolskaya Pravda, poi rimbalzata su Lenta, infine su altri siti fino a “l’amore ai tempi del Corona virus”, come dice il titolo di un altro media che l’ha notata, il Moscow Times, che ha paragonato la vicenda “alla trama di un film di Bollywood”. Virus, selfie compulsivi, social media: e la stampa segue allineata senza evidenziare assurdità.

Patine d’inchiostro di giornale li hanno ricoperti. All’interno del sanatorio dove sono stati isolati i 144 cittadini russi trasportati via dalla periferia cinese epicentro del focolaio “il contatto tra le persone è completamente vietato” spiega Danil, apparso già nei video di Euronews, Ap e altre agenzie straniere sul rischio del contagio.

Ora alla stampa russa parla dei legami creati dal virus che “potrebbero durare anche una vita”. Per un’infezione di Inna, Danil riferisce che sono separati, ma che le invia regali tramite i dottori “che non sono contrari alla relazione” e che i loro “occhi si sono illuminati, i cuori hanno cominciato a battere alla vista l’uno dell’altra”, come nella strofa di una canzone pop pruriginosa. Lei bionda, lui bruno. Lui studente, lei giornalista musicale appena maggiorenne ma già con “una vita troppo lunga da descrivere”, spiega il suo profilo con un repertorio di molte facce, troppe smorfie, scatti generosi di dettagli, pillole, letti d’ospedale, altre evidenze pregnanti della lotta al Corona. Inna informa: “Mi fotografo per voi ad ogni passo”.

In attesa di verificata decontaminazione, con i pigiami a strisce bianche e verdi forniti dall’ospedale, nei giorni di flebo e corsie, scanditi da ore vuote, diagnosi e medicine, i due informano tutti che la relazione continua anche se sono in stanze separate. Felice incontro nell’infelice destino da virus.

Se non è l’amore ai tempi del Corona, è il virus ai tempi di Instagram e il voyeurismo virtuale ai tempi di un’emergenza reale. La donna sospettata di contagio che ha condiviso la mappa della sua fuga dal sanatorio di San Pietroburgo dove era sotto osservazione ha percorso in seguito la solita trafila di flash, foto e tv.

Ora l’interrogativo russo sul destino dei due nuovi fidanzatini, che vorrebbero visitare i dintorni del lazzaretto siberiano appena verranno dichiararti fuori pericolo, riguarda la geografia. Inna è originaria di Kirov, Russia centrale, Danil è un siberiano di Krasnoyarsk, poco lontano da Tyumen. Si sa che sono robusti per resistere al Corona ma forse non ababstanza per sopravvivere a tremila chilometri di distanza. E a videocamere finalmente spente, quelle che sono rimaste accese davvero per poco per raccontare i due cittadini cinesi deceduti nella Federazione e di cui quasi nessuno ha ricordato il nome.

Coronavirus, Niccolò è rientrato ed è negativo al test

Nicolò, il 17enne bloccato a Wuhan a causa di uno stato febbrile al momento del trasferimento dei cittadini italiani, è atterrato ieri mattina con un aereo militare all’areoporto di Pratica di Mare. Da lì è stato immediatamente trasferito allo Spallanzani, dove è stato sottoposto a un nuovo test per il coronavirus, risultato negativo. Il giovane che studiava in Cina ha viaggiato con un volo speciale attrezzato per il biocontenimento. Con lui sull’aereo, oltre ad un team di medici e infermieri, viaggiava anche il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri.

“Il test al Coronavirus effettuato all’Istituto Spallanzani su Niccolò è risultato negativo. Il giovane completerà ora il periodo di ricovero in isolamento”. Lo ha comunicato la direzione sanitaria dell’Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. L’Istituto fa sapere che le condizioni di Niccolò “sono buone, presenta una febbricola e non manifesta altra sintomatologia. Appare sereno e di ottimo umore”. Il giovane è risultato negativo già a due controlli effettuati in Cina, ma le autorità italiane hanno deciso di effettuare un ultimo e decisivo test per scongiurare qualsiasi ipotesi di contagio. “Sono un po’ amareggiato perché ho dovuto interrompere il percorso di studi che avevo iniziato in Cina grazie a Intercultura” ha commentato il giovane nel corso di un’intervista a Repubblica.

Intanto, mentre continua a salire il numero dei morti in Cina per il coronavirus – 1.523, secondo i dati diffusi dalle autorità sanitarie – la Francia registra il primo decesso in Europa, prima vittima in assoluto non in Asia. Si tratta di un turista cinese di 80 anni, il primo ricoverato del Paese: arrivato in Francia dalla provincia di Hubei, era stato messo in isolamento il 25. Le sue condizioni si erano aggravate velocemente. Anche la figlia 50enne è ricoverata ma migliora e “dovrebbe essere dimessa nei prossimi giorni”, ha detto il ministro della Sanità francese Agnès Buzyn.

Costa Serena in soccorso dei “naufraghi” italiani

Una nave italiana sta circumnavigando il Giappone per portare “supporto logistico” alla “Diamond Princess”. È la “Costa Serena”, in ferma a Nagasaki da oltre una settimana dopo lo stop alle crociere deciso dalla compagnia fino a fine mese. Da ieri l’imbarcazione è in viaggio verso la baia di Yokohama dove la nave della “Princess Cruises” con 3.700 persone a bordo, 285 delle quali colpite dal Covid-19, è ormeggiata in quarantena dal 4 febbraio. “Il viaggio, della durata di circa 36 ore – conferma al Fatto Costa Crociere – porterà la nave ad attraccare attorno alle 08.30 di lunedì 17, ora locale”.

La “Serena”, che a bordo ha solo i membri dell’equipaggio e non imbarca crocieristi come misura precauzionale, sarebbe dovuta restare in banchina a Nagasaki almeno fino a fine febbraio, dopo i giorni trascorsi tra il porto coreano Busan, quello giapponese di Sasebo e lo scalo cinese di Tianjin, dove il 25 gennaio ha sbarcato gli ultimi passeggeri. Ora la compagnia, che ha deciso lo stop di altre tre navi che percorrono le rotte dell’Estremo Oriente – la “Venezia”, la “Atlantica” e la “Neoromantica” – ha deciso di inviarla “in soccorso” della nave consorella (Princess e Costa fanno parte della stessa galassia, la Carnival Corporation, gigante mondiale nel settore), diventata il simbolo del caos creato dal coronavirus nel mondo dei trasporti marittimi.

È stato il capitano Gennaro Arma a comunicare un’ora prima della partenza la decisione ai 933 membri dell’equipaggio, tra i quali figurano 25 connazionali. Secondo quanto trapelato, la “Serena” dovrebbe sbarcare parte del crew tra lunedì e martedì e fornire “supporto tecnico-logistico” alla nave. “Andremo lì a portare cibo, acqua e altre cose di cui hanno bisogno – ha raccontato al Fatto un dipendente che ha chiesto di restare anonimo – Ci hanno detto che non avremo nessun contatto con i passeggeri e i colleghi ammalati e che non ci sarà alcuna cross contamination perché nessuno di loro verrà da noi, né noi andremo di là”. “Al suo arrivo, Costa Serena provvederà a fornire assistenza e fornitura essenziale, inclusi cibo e biancheria”, conferma l’azienda genovese, che dal 2015 ha spostato ad Amburgo 4 dipartimenti. La Serena non sarebbe la sola: secondo quanto risulta al Fatto, anche la “Costa Venezia” sarebbe in navigazione verso Yokohama.

Ma tra i marittimi, che da tre settimane non mettono piede a terra, la decisione desta preoccupazione: “Qui siamo tutti sani, perché andare a rischiare quando la loro compagnia potrebbe provvedere autonomamente ai rifornimenti facendoli arrivare da terra?”, domanda il dipendente, ipotizzando che si tratti di un “modo di farsi pubblicità gratuita”. “Al fine di assicurare l’assenza di contatto fisico durante le operazioni di carico – spiegano dall’azienda – Costa Serena ormeggerà a una distanza di sicurezza. Tutta la fornitura verrà quindi trasportata sul molo antistante la Diamond Princess, dove verrà trasportata a bordo della nave da operatori selezionati dalle autorità sanitarie locali”.

A bordo la situazione peggiora di ora in ora. Solo ieri altre 67 persone sono risultate positive al test. Washington invierà un aereo charter per evacuare i cittadini americani e i loro familiari. “Nessuno degli italiani, circa 35, mostra sintomi o fa sospettare che ci possa essere un sintomo legato al coronavirus. Valuteremo tutte le azioni per proteggere i nostri connazionali”, ha detto ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio da Pratica di Mare, dove ieri ha accolto Niccolò, il 17enne di Grado rientrato da Wuhan. Il capo della Farnesina ha discusso con il commissario per l’emergenza Angelo Borrelli della possibilità di organizzare un volo di rimpatrio. Se ne comincerà a parlare da lunedì, difficilmente il Boeing KC-767 dell’Aeronautica militare attrezzato per il trasporto in biocontenimento decollerà per il Giappone prima di giovedì o venerdì.

Nuovo incarico per Legnini: ora è commissario post-terremoto

A giudicare dagli auguri e dalla loro diversa provenienza, Giovanni Legnini, nuovo commissario per la ricostruzione per il terremoto, potrebbe avere un cammino agevole. Nominato on decreto della Presidenza del Consiglio l’altro ieri, l’ex vicepresidente del Csm nonché sconfitto Dem alla presidenza dell’Abruzzo, sembra partire con un sostegno bipartisan.

La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni in una nota invia il suo “buon lavoro”: “Dopo Errani, De Micheli e Farabollini, scrive Meloni, arriva il quarto commissario in meno di quattro anni: l’augurio è che Legnini riesca a recuperare il clamoroso ritardo accumulato nella ricostruzione. Senza rinunciare alla polemica politica Fratelli d’Italia auspica che “il neo commissario Legnini sappia avviare, con tutti gli amministratori locali, un leale rapporto di collaborazione e sappia far prevalere l’interesse generale”.

Auguri più scontati vengono anche dal capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, e dal vescovo di Camerino, nelle Marche, anch’egli costretto a notare la quarta nomina in quattro anni ma.

La nomina di Legnini è in realtà curiosa. Dirigente del Pci-Pds-Ds in Abruzzo, diventa senatore nel 2004 subentrando a Ottaviano Del Turco e poi rieletto nel 2006 e nel 2008. Nel 2013 è sottesegretario alla presidenza del Consiglio con il governo Letta nel 2013 e poi sottosegretario all’Economia nel governo Renzi. Nonostante il curriculum lo piazzi nel campo economico, nel 2014 viene eletto vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Ancora un salto e viene candidato alla presidenza dell’Abruzzo, sconfitto dal centrodestra raggiungendo solo il 31% dei voti. Ora è Commissario alla ricostruzione e lascia il posto in Consiglio regionale a Pierpaolo Pietrucci, primo dei non eletti Pd ex capo di Gabinetto della Giunta dell’Aquila ai tempi del sindaco, Massimo Cialente.

Romanzo criminale Capitale: la mafia è un’idra a molte teste

Nella palude romana i clan sono come l’idra, il mostro acquatico a sette teste, che tagliate ricrescono sempre. “Er Più” a Roma non esiste, c’è spazio per tutti e i capi sono tanti. Le mafie tradizionali – camorra, cosa nostra, ’ndrangheta – continuano a fare affari e soprattutto a ripulire i loro capitali illeciti, immettendoli nei circuiti legali. Gli altri si spartiscono il controllo del territorio e dello spaccio: i Casamonica, gli Spada, il gruppo degli albanesi, i sopravvissuti della vecchia mala romana e poi lui, Fabrizio Piscitelli, Diabolik che sembra essere più interpretabile da morto che da vivo, nonostante ancora non si sappia (o non sia stato ancora reso pubblico) il nome del killer né quello dei mandanti del suo omicidio, avvenuto il 7 agosto scorso.

Quali sono i pesi criminali che controllano oggi la Capitale? Nella puntata di Non è l’Arena in onda questa sera su La7 si cercherà di dare una risposta a questo interrogativo, partendo proprio dall’omicidio di Diabolik, strategico per il riassetto di alcuni degli equilibri criminali della città. “Piscitelli è morto prima di poterci spiegare tante cose – ci dice il maggiore Stilian Cortese, alla guida del gruppo operativo Antidroga della Guardia di Finanza – Con la sua morte ci saranno grandi cambiamenti negli equilibri criminali della città”.

In questa chiave va letta l’operazione Tom Hang ,realizzata due giorni fa dal Gico, perché fotografa relazioni tra gruppi e interconnessioni tra zone distanti della città impensabili fino a poco tempo fa. Come quella tra Salvatore Casamonica, boss in grado di trattare direttamente con i cartelli sudamericani l’ingresso a Roma di sette tonnellate di cocaina purissima e proprio lui, Fabrizio Piscitelli, personaggio scaltro ed eclettico, che da una parte godeva della popolarità derivante dal suo essere capo ultrà della Lazio e dall’altra del peso sempre maggiore che aveva acquisito nel mondo della distribuzione della droga a Roma. Nell’altra recente operazione “Grande Raccordo Criminale”, in cui sono finite in cella 50 persone, a capo della banda dedita al narcotraffico erano indicati proprio Diabolik e il suo vice Fabrizio Fabietti. Non entrava un grammo di droga a Roma senza che loro lo sapessero. Diablo si era allargato, tanto, forse troppo. Da Ponte Milvio, dalla sua Roma Nord era arrivato fino al mare, fino ad Ostia, dove nel frattempo era scoppiata una vera e propria guerra di mafia tra il clan Spada, indebolito dagli arresti dei suoi capi e la batteria che ne voleva prendere il posto: il gruppo di Marco Esposito, alias Barboncino, cresciuto con il clan Triassi e diventato sempre più autonomo. Gli Spada, per anni al servizio del clan Fasciani – i “cani dei Fasciani” a detta di qualcuno – non potevano più contare nemmeno sui vecchi alleati, in carcere, anche loro per mafia.

Le faide di mafia però non fanno comodo a nessuno, rallentano gli affari e attirano l’attenzione delle forze dell’ordine. Bisognava imporre la pace e a farlo doveva essere qualcuno che fosse rispettato e riconosciuto dai gruppi criminali in guerra, pur non facendone parte. Come per l’appunto Fabrizio Piscitelli e Salvatore Casamonica, garanti per la batteria di Barboncino il primo e per gli Spada il secondo.

Per questo Casamonica e Piscitelli si siedono attorno ad un tavolo in un ristorante di Grottaferrata: “Ti ripeto Fabri’ sappi che io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti eh! – dice intercettato Casamonica – oh sui miei ti metto tutte e due le mani sul fuoco…” risponde Diabolik. A quel pranzo però era presente anche “il francese”, un agente infiltrato delle Fiamme Gialle che registrò tutto, compreso un arrivo inatteso, quello di Lucia Gargano, 35 anni, avvocato del foro romano, accusata oggi di concorso esterno in associazione mafiosa.

“Salvatore Casamonica e Fabrizio Piscitelli – spiega ancora il maggiore Cortese – potevano garantire la pace ma avevano bisogno che qualcuno si recasse in carcere da Ottavio Spada, detto Marco, a cui erano stati rivolti tutti gli attentati compiuti ad Ostia. Era necessario spiegare ad Ottavio che non si sarebbe dovuto vendicare, impegnandosi a mantenere la pace”. A portare questo messaggio è proprio Lucia Gargano, che però non si ferma qui, ma compie secondo gli inquirenti tutta una serie di azioni illecite per agevolare il clan Spada e altri pregiudicati, come far evadere momentaneamente un suo assistito da una struttura per tossicodipendenti fornendogli denaro in contanti e telefoni con i quali tra l’altro è stato poi contattato Arben Zogu, un noto narcos albanese.

Sembra una fiction, invece è la realtà marcia di Roma, dove per decenni i Casamonica sono stati indagati sempre per gli stessi odiosi reati per finire poi assolti o prescritti. Erano gli anni della Banda della Magliana e nelle sentenze già compariva il nome dei Casamonica, utilizzati dalla Banda per il recupero credito e per spezzare le ossa a chi ritardava i pagamenti. Cosa è successo negli anni successivi? Nulla. Nel 2008 viene condannato Giuseppe Casamonica, uno dei capi del clan, ma nel 2014 la sua condanna viene estinta per prescrizione.

A pensar bene, volendo escludere la malafede o peggio, il fenomeno è stato a lungo sottovalutato tanto da potersi radicare nel territorio romano, crescere e moltiplicarsi. Vale per i Casamonica, per gli Spada, per lo stesso Piscitelli, che è morto da uomo libero.

La giustizia di quello che un tempo era chiamato “il porto delle nebbie” oggi può dire di aver consegnato alle patrie galere, per mafia al 41bis, gran parte degli capi dei clan romani, grazie soprattutto all’azione tenace del procuratore reggente Michele Prestipino e della sua squadra, tra cui il pm Giuseppe Musarò, che sta portando avanti il maxi processo ai Casamonica, tra le urla e gli insulti dei parenti degli imputati, sempre presenti a tutte le udienze. Finché non si capirà che questa è mafia e non è folklore non andremo lontano, a differenza dei clan.

“Gli europei devono aprire gli occhi”

Gli europei devono rendersi conto che ai numeri corrispondono persone, quando leggete che in Egitto ci sono 60 mila prigionieri politici dovete aprire gli occhi e capire che sono esseri umani non dati di una mera statistica”.

Amr è un 29enne egiziano che vive a Berlino: ha conosciuto Patrick George Zaki al Cairo, all’università, e poi con la rivoluzione del 2011-2012 sono diventati amici. In questi giorni Amr è stato il megafono di Patrick, tramite appelli online, pagine Facebook dedicate e flash-mob sparsi nel mondo organizzati insieme a decine di attivisti come lui. La petizione lanciata da Amr su Change.org per chiedere la liberazione di Patrick ha superato in meno di una settimana le 100mila firme: “Siamo un gruppetto di persone che cerca di combattere una dittatura molto organizzata e piena di risorse, sappiamo bene che sarà una battaglia lunga e cerchiamo di rimanere concentrati senza cedere alla speranza o alla disperazione, non è facile ma lo sapevamo dal primo giorno, non possiamo mollare”.

Nel 2012 Amr viene espulso dall’università per “motivi politici”, poi pedinato e interrogato – per questo omettiamo il suo cognome – ma di questa storia adesso preferisce non parlare: “Potrebbe essere dannoso per me o la mia famiglia, che è rimasta a casa, ho imparato la lezione a mie spese”. C’è paura, tanta e non serve nasconderla anche se come Amr adesso vivi a Berlino e in Egitto non metti più piede da anni. A difenderlo, quella volta nel 2012, in prima fila insieme ad altri studenti, c’era proprio Patrick. Adesso le parti si sono invertite. “È già successo con Giulio Regeni, adesso a Zaki e continuerà a succedere se qualcosa non cambia. Pagherò un prezzo per aver fatto sentire la mia voce per Patrick, lo so ma è tempo che si conosca il prezzo che paghiamo. Penso che il vero potere in questo momento ce l’abbiano le persone, non i governi. Spero e confido, ovviamente, che ci saranno misure più dure per garantire il rilascio di Patrick e il suo ritorno in Italia, ma vedere tutte queste persone nel mondo che stanno finalmente diventando consapevoli della situazione in Egitto è davvero qualcosa di grande per me, per tutti noi attivisti”. In Egitto ci sono 60mila prigionieri politici di cui non conosciamo il nome né la sorte. “Il mio più grande timore è che il prezzo che noi egiziani paghiamo sia vano, se le persone ignorano le nostre storie. Non sono numeri o statistiche. Spero che si continui a lottare e che non resti tutto come prima. La verità è che gran parte del mondo sa che c’è qualcosa di sbagliato in Egitto ma è proprio della natura umana reagire solo quando una storia capita vicino a te”.