Patrick Zaki resta in cella. La famiglia: “È spaventato”

La Procura egiziana di Mansoura ha respinto la richiesta di scarcerazione presentata dai legali di Patrick George Zaki, ma lo studente non si dà per vinto e in cella continua a prepararsi per sostenere un esame a marzo. Durante l’ultima visita alla stazione di polizia dove è recluso il fratello, la sorella Marise gli ha fatto avere uno dei libri previsti dal piano di studi Erasmus all’università di Bologna. Si tratta del volume di Victoria De Grazia Le donne nel regime fascista: 1922-1945.

La polizia ha concesso a Patrick George di ricevere libri, ma non i quotidiani e altro materiale informativo: “Eravamo convinti che mio fratello sarebbe stato liberato – ammette sconsolata Marise Zaki. C’era fiducia, anche da parte degli avvocati, pensavamo tutti che la pressione di queste due settimane, prodotta soprattutto dall’Italia, potesse portare ad una soluzione positiva. Patrick è seriamente preoccupato, non tanto per il suo caso, per il processo, quanto per non poter seguire i corsi di studio in Italia. Quel programma Erasmus per lui è l’occasione della vita”.

Ieri mattina Zaki è rimasto nell’aula del tribunale per meno di dieci minuti. Il tempo di scambiare gli sguardi e due parole coi gli avvocati e il leader dell’ong di cui Zaki è attivista, l’Eipr di Gasser Abdel Razek, sentirsi respingere l’istanza di scarcerazione ed essere ricondotto alla stazione di polizia di Talkha, cittadina a 20 chilometri da Mansoura, dove è rinchiuso da giovedì scorso.

I familiari di Zaki, i genitori e la sorella minore, non sono stati ammessi in aula: “Patrick ha detto al giudice che vuole tornare in Italia per studiare – è il commento dei suoi avvocati, Wael Ghali e Hoda Nasrallah. Fisicamente sta bene, ma è spaventato e nervoso. Ci aspettavamo fosse rilasciato su cauzione, adesso aspettiamo l’udienza di sabato prossimo (22 febbraio, ndr) in cui il giudice deciderà se concedere altri 15 giorni di proroga della misura cautelare per un supplemento di indagine. Non abbiamo dovuto aspettare alcuna motivazione, si trattava di accordare o respingere la richiesta di scarcerazione depositata nei giorni scorsi. Rispetto ai primi due giorni, Patrick non ha più denunciato o lamentato violenze, percosse, minacce o addirittura torture da parte della polizia egiziana durante la detenzione”.

All’udienza di ieri mattina, come confermato dall’Eipr, erano presenti, in veste di osservatori, rappresentanti dell’Ambasciata d’Italia in Egitto e dell’Unione Europea. Le accuse nei confronti dello studente dell’Università di Bologna sono gravi e partono dalla diffusione di notizie false tese a turbare la pace sociale, incitare a manifestazioni non autorizzate, mettendo in pericolo la sicurezza nazionale dell’Egitto. Il suo caso è una specie di giustizia a orologeria. Le autorità egiziane, infatti, hanno preso spunto da alcuni post pubblicati da Zaki sui social nel periodo in cui stava seguendo i corsi del primo semestre a Bologna.

Siamo a fine settembre 2019, quando l’incitamento alla sollevazione lanciato da Mohamed Ali, ex attore ed imprenditore esiliato in Spagna, ha prodotto forti proteste di piazza. Al suo ritorno in Egitto dall’Italia per la prima volta dall’agosto scorso, il 7 febbraio Patrick George è stato fermato e fatto sparire per un giorno. La decisione del procuratore di Mansoura non è stata presa bene in Italia: “Se sono bastati dieci minuti per confermare la volontà di perseguire il giovane ricercatore, sulle autorità egiziane si apre un interrogativo allarmante. A questo punto diventa improrogabile l’audizione di Amnesty International in Commissione martedì prossimo” ha sottolineato la senatrice del M5S Michela Montevecchi, membro della Commissione straordinaria sui Diritti Umani.

Genova, via libera al cargo con le armi per le guerre saudite

“Una nave carica di materiale bellico destinato all’esercito saudita può transitare in un porto italiano senza violare la legge se la spedizione è gestita da un soggetto estero. Se a gestirla è un italiano, occorre l’autorizzazione dell’Unità autorizzazioni materiali armamento – Uama (facente capo al ministero degli Esteri, nda)”. A sostenerlo è Gabriella La Fauci, capo di Gabinetto della Prefettura di Genova. Nel cui porto domani tornerà la Bahri Yanbu, unità di una compagnia statale saudita che lavora anche per le forniture delle forze armate di quel Paese. La nave a cui nel maggio scorso, grazie all’impegno dei portuali genovesi e di varie associazioni pacifiste che ne svelarono il duplice uso militare-civile, fu impedito l’imbarco di due generatori che una ditta italiana aveva venduto, autorizzata dall’Uama, alle forze armate saudite. “In quel caso, in accordo con lo spedizioniere italiano, fu deciso di non imbarcare a Genova il materiale per una valutazione squisitamente politica, non giuridica”, spiega La Fauci ribadendo che anche per il transito di domani della Bahri non c’è alcun impedimento, “perché non risultano imprese italiane coinvolte nella spedizione del carico già a bordo della nave” destinata a Gedda, in Arabia.

“Una lettura che non condividiamo giuridicamente prima che politicamente”, commenta Francesca Bisiani di Amnesty International, una delle associazioni che monitorano le imprese della Bahri e, in particolare, quest’ultimo viaggio della Yanbu. La nave, in arrivo in Europa dopo il consueto passaggio in Nord America dove, è stato appurato, in viaggi passati ha caricato mezzi militari destinati anche ai sauditi, non è stata fatta attraccare ad Anversa. Ad impedirlo sono state le autorità fiamminghe come ha raccontato alla stampa locale Sven De Meester, manager dell’agente belga (Dkt) di Bahri, svelando come la nave fosse già carica di materiali destinati ai servizi militari sauditi. La Yanbu ha poi dovuto scalare porti minori rispetto a quelli programmati in Inghilterra e Francia per evitare le proteste pacifiste e ha inserito una toccata non prevista a Bilbao. Dove varie testimonianze (compresa quella di un pompiere obiettore di coscienza) e la stampa locale hanno riferito dell’imbarco di esplosivo.

L’arrivo della nave a Genova, per il carico di materiale civile, ha quindi suscitato l’attenzione del Calp – Collettivo autonomo lavoratori portuali, protagonista della campagna del maggio scorso e da tempo in prima linea contro il traffico di armi nel porto di Genova e di molte associazioni quali Amnesty appunto e Weapon watch. La Capitaneria ha confermato la presenza a bordo di “materiali pericolosi” e l’adozione delle relative disposizioni per la sicurezza delle operazioni sulla nave. L’Autorità Portuale tace ma, come scritto, su natura e destinatari del carico della Yanbu è stata la Prefettura a tagliare la testa al toro: quand’anche fossero armi destinate ai sauditi, nulla osta al transito dato che non risultano italiani coinvolti.

La legge 185/1990, rileva però Amnesty, vieta senza distinzioni sulla nazionalità degli spedizionieri il transito di armi “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo”. E l’Arabia, ricorda proprio Weapon Watch in una formale richiesta d’intervento alle istituzioni, è stata riconosciuta da vari organismi internazionali protagonista di tali violazioni nel conflitto in Yemen. Il Calp ha convocato un presidio di portuali e associazioni, ma questa volta la Cgil, che a maggio aveva indetto uno sciopero, sembra aver sposato le tesi del prefetto Carmen Perrotta e non ha preso iniziative. Portuali e pacifisti protesteranno in solitudine.

Salvo l’eventuale diversa lettura giuridica della Procura genovese, che proprio nei giorni scorsi si è occupata di traffici d’armi via mare, bloccando a Genova per accertamenti una nave libanese, la Bana, che nel viaggio precedente l’approdo in Liguria aveva trasportato mezzi blindati dalla Turchia al porto libico di Tripoli.

Eternit, la morte non si prescrive: “A Casale ancora 50 casi all’anno”

“Io vedo sui Tribunali la scritta: ‘Palazzo di giustizia’. Non: ‘Palazzo dei diritti degli imputati’. I diritti vanno salvaguardati, ma la giustizia dev’essere garantita a tutti, anche a noi vittime”. Bruno Pesce è uno degli storici animatori dell’associazione nata a Casale Monferrato contro l’amianto killer.

La fibra lavorata negli stabilimenti Eternit ha fatto finora almeno 2.500 morti. E i responsabili della società sapevano. Eppure niente condanna: la prescrizione ha impedito che fosse fatta giustizia. “Ho pianto, quel 19 novembre del 2014, non mi vergogno a dirlo. Quando il giudice della Cassazione ha letto la sentenza, ho abbracciato il presidente delle vittime dell’amianto in Belgio e ho pianto”.

“I fazzoletti intrisi delle nostre lacrime metteranno le ali e voleranno lontano per sviluppare profonde radici di giustizia”: così è scritto al centro del parco Eternot, alberi e giochi per bambini sull’area dell’Eternit, la fabbrica della morte. Le fibre di amianto che continuano a volare nell’aria provocano ancora oggi, a Casale, 50 nuovi malati all’anno di mesotelioma pleurico o peritoneale.

“Finora i morti sono 5 mila, se si considerano anche i tumori al polmone, alla laringe, all’ovaio, che possono essere causati dall’amianto”, spiega Daniela De Giovanni, che cominciò a occuparsi dei malati dell’Eternit alla fine degli Anni Settanta, appena laureata in medicina del lavoro, e da allora non ha più smesso. “Nei primi tempi morivano i lavoratori della fabbrica, poi hanno cominciato ad ammalarsi e a morire le mogli, i figli, i cittadini di Casale che con l’Eternit non c’entravano niente, ma respiravano l’aria avvelenata dalla città”.

I vertici dell’azienda sapevano di far lavorare una fibra mortale. Lo sapeva il padrone, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny. Ma il primo processo ai suoi manager italiani, nel 1993, per omicidio colposo, si conclude con la prescrizione per tutti. Nel 2005 riapre l’indagine il procuratore Raffaele Guariniello: per disastro doloso. Il dibattimento inizia nel 2009. Nel 2012, Schmidheiny è condannato a 16 anni di reclusione per “disastro ambientale doloso permanente” e “omissione volontaria di cautele antinfortunistiche”. È la prima volta al mondo. In appello, l’anno seguente, la pena è aumentata a 18 anni. Nel 2014, la Cassazione chiude la vicenda con la prescrizione: stabilisce che decorre dal momento in cui cessa la condotta, dunque con la chiusura dello stabilimento, avvenuta nel 1986. Per il reato di disastro, la prescrizione scatta dopo 15 anni, dunque – dice la suprema corte – già nel 2001, addirittura prima dell’inizio del primo grado. “Sarebbe scattata anche se fosse stata già in vigore la riforma Bonafede che sospende la prescrizione dopo il primo grado”. A dirlo è Paolo Liedholm, avvocato, nipote del campione del Milan Niels Liedholm e figlio di Gabriella, morta nel 2008 per un mesotelioma pleurico causato dalla polvere di amianto. “Io credo che una forma di prescrizione debba essere mantenuta, perché non possiamo tenere i cittadini imputati a vita. Ma nel processo Eternit è stata causata da una scelta discutibile della Cassazione: i giudici di primo grado e d’appello hanno ritenuto che il reato continui con la dispersione delle fibre nell’aria; la Suprema corte ha fatto invece valere un’interpretazione molto, molto discutibile, secondo cui con la chiusura della fabbrica il reato cessa”.

“Ma è chiedere troppo che lo Stato tuteli le vittime?”, si chiede Pesce. “Smettiamo di chiamarla giustizia, chiamiamola con un altro nome, chiamiamola Filomena. Le malattie dell’amianto si manifestano dopo 15 anni, anche dopo 30 anni. Ma c’è la prescrizione e noi non possiamo avere giustizia”. Eppure il disastro è ancora in corso, garantisce la dottoressa De Giovanni: “Dopo la chiusura della fabbrica, l’amianto ha continuato a fare vittime e continua ancora oggi. Il numero dei casi diagnosticati è salito fino agli attuali 50 all’anno, si è stabilizzato e non accenna a diminuire”.

Nicola Pondrano, altra voce storica dei cittadini di Casale che chiedono giustizia, ha lavorato a lungo in Eternit: “Ricordo quei tempi, lavoravo a fianco di Bernardino Zanella, un prete operaio. Respiravamo polvere d’amianto, nessuno diceva niente. Allora mi sono candidato al consiglio di fabbrica, ho cominciato a fare attività sindacale, siamo riusciti a far chiudere quella che è stata chiamata la Chernobyl italiana”.

Nel 2015 Guariniello ci riprova. Apre una nuova inchiesta sulla Eternit, questa volta contestando il reato di omicidio volontario: la prescrizione comincia a correre dalla morte dei malati. È il processo Eternit-bis. Prima dell’avvio, la Corte costituzionale si deve esprimere sul “ne bis in idem”: non si possono processare le stesse persone due volte per gli stessi fatti, sostengono gli avvocati di Schmidheiny. Ma il reato è diverso, questa volta è omicidio. La Consulta stabilisce il principio generale secondo cui il processo si può fare.

Nel 2016 Guariniello chiede il rinvio a giudizio, ma il giudice dell’udienza preliminare di Torino rinvia soltanto per omicidio colposo: così per molti casi scatta di nuovo la prescrizione.

In più spezzetta il processo in quattro tronconi, uno per ognuna delle quattro sedi della Eternit: Casale Monferrato, Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia), Bagnoli (Napoli). Sorpresa: nel primo troncone, il reato contestato torna omicidio doloso e ora la Corte d’assise di Novara, con la giuria popolare, dovrà decidere su 392 persone morte d’amianto. Riusciranno le migliaia di famigliari, amici, concittadini delle vittime ad ascoltare finalmente una sentenza, di condanna o d’assoluzione? Riusciranno a riacquistare fiducia nella giustizia?

“Fratelli di mattone”: quei 200 milioni di tesoro intrappolato

Con una sintesi che sui social ha fatto furore si è descritta così: “Sono una donna, sono una madre, sono cristiana”. Giorgia Meloni avrebbe anche potuto aggiungere: “Sono pure molto fortunata”. Non solo perché come si dice a Roma je va l’acqua pe’ l’orto, e il suo partito, Fratelli d’Italia, cresce nelle urne e soprattutto nei sondaggi quasi senza colpo ferire, senza che lei stessa in fondo abbia fatto molto perché ciò succedesse. La Meloni è fortunata per un’altra circostanza: da quando dopo una lunga gavetta militante è arrivata alla presidenza del partito, si è assisa su un tesoro. Tanti quattrini, centinaia di milioni di euro, un patrimonio ragguardevole che però è come la Spada nella roccia, inamovibile in attesa che arrivi il predestinato animato da nobili sentimenti e capace di estrarla che diventa re.

Almeno per il momento la Meloni non sembra vestire i panni della regina e a estrarre la spada non ci ha nemmeno provato. Il tesoro in questione è quello della Fondazione An e della Immobiliare Nuova Mancini: 53 immobili sparsi in ogni regione d’Italia, in prevalenza Roma, ma molti anche in Lombardia, Marche, Sicilia, riuniti in blocco nel momento in cui An si sciolse e elencati in una lista aggiornata e molto dettagliata con i dati e le condizioni di ogni singolo bene (locato, occupato, sfratto in corso, libero a disposizione, ecc.).

 

I morosi delle 12 stanze e il canone politico

Fino a qualche anno fa gli immobili erano 70: qualcuno di essi nel frattempo è sparito, venduto o forse finito in altre mani. Quando gli immobili erano 70 i giornali provarono a fare una stima e Il Sole 24 Ore e Repubblica ipotizzarono che quel patrimonio potesse valere tra i 300 e i 400 milioni di euro. Ora con la crisi del mattone e la scomparsa di 17 case la valutazione va rivista al ribasso, forse il tutto vale la metà di un tempo, ma anche 150 o 200 milioni di euro non sono uno scherzo. Alcuni degli immobili della Fondazione risultano affittati a Fratelli d’Italia a canoni che è lecito ritenere “politici”, anche se almeno in un caso il partito risulta moroso, come succede per le 6 stanze di via Miceli a Cosenza. È locato a Fratelli d’Italia un pezzetto (7 stanze) della sede storica del Msi e di Alleanza Nazionale al numero 39 del palazzo di via della Scrofa a Roma.

Qualche appartamento è catalogato come affittato a terzi, come i 9 vani della sezione di via Sommacampagna a Roma che fu del Movimento sociale e del Fuan (Fronte universitario di azione nazionale) o i 6 vani di via Livorno sempre a Roma. Qualche altro immobile è occupato ed è in corso lo sfratto per morosità (12 stanze in via Paisiello a Roma), altri sono in procinto di esser messi in affitto tipo i 5 vani in Corso Romita ad Alessandria, mentre per i 5 vani in via Dandolo a Venezia Lido ci sono trattative per la vendita.

Alcuni appartamenti sono addirittura inagibili, come gli 11 vani in via della Pescheria a Rieti o i 3 vani in piazza della Libertà a Tolentino, toccati più o meno gravemente dal terremoto. Infine ci sono due immobili occupati «sine titulo», il primo, assai grande a Bari (11 vani e mezzo) messo a disposizione della Fondazione Tatarella e il secondo occupato da Fratelli d’Italia a Legnano in via Volturno. Molti dei 54 immobili della Fondazione sono però «liberi a disposizione», cioè sono vuoti e stanno lì a prendere la polvere e a pesare fiscalmente con l’Imu.

 

La cassa integrazione al “Secolo d’Italia”

In qualsiasi altra circostanza quei beni verrebberro valorizzati e messi a reddito o venduti o usati come leva per altri tipi di operazioni economiche e finanziarie. Con la Meloni prevale un’immobile prudenza, poche anche le iniziative culturali organizzate dalla Fondazione e quasi sempre su inoffensivi argomenti general-generici, rare le occasioni di confronto vero. Tra i pochi usi conosciuti del tesoro della Fondazione ci sono una scuola di formazione politica e il Secolo d’Italia, l’ex giornale del partito finito in pessime acque, ridotto ai minimi termini e confinato on line, con una redazione di una quindicina di giornalisti che fanno i conti con i contratti di solidarietà e la cassa integrazione annunciata. La Fondazione provvede al pagamento del direttore, Francesco Storace, ex ministro, ex presidente della Regione Lazio, e del direttore editoriale, Italo Bocchino.

Ogni tanto per il controllo della Fondazione scoppiano baruffe chiozzotte tra i big del partito, ma si tratta di tempeste in un bicchier d’acqua, esibizioni muscolari per piantare ciascuno le proprie bandierine.

La Spada che resta conficcata nella roccia

Da Ignazio La Russa a Maurizio Gasparri, da Gianni Alemanno a Fabio Rampelli tutti i colonnelli sono rappresentati nel consiglio di amministrazione e a tutti in fondo almeno per il momento va bene che la Spada resti conficcata nella roccia: dopo la diaspora e il raggiungimento di una faticosa convivenza nessuno dichiara guerra. A presiedere la Fondazione per anni c’è stato il figlio di un “camerata” di Grosseto, l’accondiscendente avvocato e senatore Franco Mugnai, sostituito un paio d’anni fa da un altro avvocato, Giuseppe Valentino, rodato punto di riferimento per dirigenti e militanti nei guai con la giustizia. È considerato un galantuomo e il suo compito è garantire la pax immobiliare.

Sintetizza dietro garanzia dell’anonimato un ex colonnello di An che conosce bene la faccenda: “È come avere la bomba atomica in salotto e non capendo bene a cosa serve piazzarci sopra il televisore”.

Lazio, Zinga promuove il forzista indagato

“Al solito, il Pd ha fatto una porcheria”: parola di Dino Giovannone, cugino dell’ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone. Il misfatto è del 5 febbraio: dopo rinvii e traccheggiamenti, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti ha nominato Gianluca Quadrini commissario liquidatore della Comunità Montana della Valle del Liri.

È già presidente dell’ente delle montagne, Quadrini, ed è pure il vice-coordinatore di Forza Italia nel Lazio. Problema: su di lui pende una richiesta di rinvio a giudizio, per abuso d’ufficio, della procura di Cassino. E per schivare il possibile processo, l’uomo forte di Forza Italia s’è dato malato. “Per 4 volte Quadrini e il suo avvocato hanno disertato le udienze preliminari per problemi di salute; così dice il certificato medico”, racconta Dino Giovannone. Lui è l’ex presidente della Comunità Montana Valle del Liri, predecessore di Quadrini: “Io non ho mai assunto nessuno, Quadrini invece ha distribuito incarichi a iosa”. Anche se la Comunità montana era obbligata a chiudere per lasciare spazio alle Unioni di comuni: lo ha stabilito la legge della Regione Lazio del 31 dicembre 2016. Perciò serve un commissario liquidatore.

Ma Quadrini ha fatto come se nulla fosse. L’ultima infornata è del 31 dicembre 2018. Invece di brindare, il forzista approvava una delibera per distribuire 8 posti, tra cui la figlia di un imprenditore, 4 parenti di assessori o consiglieri comunali del basso Lazio, 2 collaboratori di Quadrini. Giovannone ha presentato un esposto alla procura di Cassino: “Possibile che mentre l’ente si avvicina alla chiusura, il presidente firmi contratti di lavoro a tempo indeterminato?”.

Le assunzioni non sono l’unica ombra. Il braccio destro di Quadrini si chiama Luca Di Maio: è l’ex collaboratore di Franco Fiorito, il Batman di Anagni condannato a due anni per peculato, protagonista dello scandalo Rimborsopoli. Così, dal 2016 è segretario generale della Comunità montana della Valle del Liri, Luca Di Maio. Quadrini si fida di lui: quando ha creato la Fondazione Marco Tullio Cicerone (4 anni fa) gli ha affidato un posto nel cda. La fondazione è il salvagente del tandem Quadrini-Di Maio: ne saranno membri “per 10 anni”, qualora chiudesse la Comunità montana.

Giovannone sente odore di clientelismo, mentre mostra le graduatuorie per le assunzioni nella Comunità montana Valle del Liri. Ai primi posti ci sono Paola Lepore e Serena Sciucca: “La prima è moglie del fratello di Quadrini, la seconda è la titolare della società per cui il pm ha chiesto il processo per abuso d’ufficio”.

Il fascicolo della procura riguarda un appalto da 140mila euro per incarichi amministrativi: se l’è aggiudicato l’impresa Outfit di Serena Sciucca. “La gara in teoria era rivolta a 5 società”, racconta Giovannone, “ma noi abbiamo controllato alla Camera di commercio: un’azienda stava per chiudere, un’altra era un circo equestre”. Il sospetto del pubblico ministero è che la gara sia stata pilotata per far vincere Outfit. “La società di Serena Sciucca, del resto, ha la sede operativa in una proprietà della famiglia Quadrini”, dice Giovannone.

Si capisce perché il Pd ha rinviato la nomina dell’uomo di Forza Italia. Gli altri commissari liquidatori sono stati nominati più di un mese prima, a gennaio. I dem si giustificano così: “Quadrini ha il casellario giudiziale pulito, naturale che il presidente in carica sia il liquidatore della comunità montana”. In realtà, è solo una possibilità prevista dalla legge. Valentina Corrado, pentastella in Consiglio regionale, ha dato battaglia: “Troppe ombre su Quadrini, scelta inopportuna. È il frutto di un accordo politico tra Astorre del Pd e il senatore Fazzone di Forza Italia”. La firma sul decreto di nomina, però, è di Nicola Zingaretti.

Nomine Tg: dopo l’Agcom, a rischiare è Sangiuliano

Se il grande successo del Festival di Sanremo aveva rafforzato parecchio la posizione di Fabrizio Salini, la multa di 1 milione e mezzo di euro comminata dall’Agcom per il mancato pluralismo nella tv pubblica è una bella botta per l’ad. Che ora, a maggior ragione, sarà costretto a mettere mano ai telegiornali, cosa che lui avrebbe volentieri evitato. Con cambi che potrebbero riguardare il Tg3 e il Tg2 (ovvero il notiziario nel mirino dell’Agcom), ma non, al momento, il Tg1. Dopo Sanremo, infatti, un trionfante Salini dichiarava che, sui tg Rai, si sarebbe preso tutto il tempo e che avrebbe cambiato i direttori solo nel caso ve ne fosse reale bisogno. Insomma, per l’ad questa urgenza non c’è. Urgenza che invece è dovuta alle richieste del Pd, che da tempo chiede un riequilibrio sull’informazione, ritenuta ancora tarata sul governo gialloverde.

I fatti, in breve, sono i seguenti: il Pd ha chiesto il Tg3, con Mario Orfeo, che, se in un primo momento l’M5S (con Spadafora) era pronto a concedere, poi è arrivato il dietrofront col veto di Luigi Di Maio. A quel punto si è aperta una guerriglia a bassa intensità tra i due partiti della maggioranza, col Pd sempre più scalpitante (“allora si rimette tutto in gioco”) e i pentastellati a difendere le posizioni, soprattutto il Tg1 di Giuseppe Carboni che, secondo alcuni, è il vero obbiettivo degli uomini di Nicola Zingaretti. I quali, non riuscendo a ottenere nulla, hanno aperto il fuoco contro lo stesso ad. “Salini non è in grado di dirigere l’azienda, se ne vada”, il mantra ripetuto dal Pd. Che, se si era minimamente chetato dopo Sanremo, dopo la sanzione di Agcom ha ripreso fiato. “La multa alla Rai dice cose chiare e gravi. Cambiare velocemente è l’unica via”, ha twittato venerdì Andrea Orlando qualche minuto dopo il verdetto di Agcom. “Da un’Agcom in prorogatio da mesi arriva la zampata finale, con un attacco al Tg2 proprio a una settimana dalle nomine. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca…”, ha osservato il leghista Paolo Tiramani. “L’Agcom ha gettato la maschera: sono tutti politici!”, rilancia Alberto Airola dei 5 Stelle.

Insomma, se da una parte la multa stringe di nuovo d’assedio Salini e dà una mano alle richieste del Pd, dall’altra contenuti e tempistica fanno drizzare le antenne a leghisti e pentastellati, che temono di perdere posti. Nel mirino sono finiti in tanti, da Enrico Lucci a Gad Lerner, ma soprattutto il tg di Sangiuliano, che ora è più debole. Non è un caso se il suo nome ha iniziato a girare come possibile candidato del centrodestra in Campania, anche se lui pare abbia escluso l’ipotesi. “Ora tutto torna in ballo, nessuno può dormire sonni tranquilli”, rivela un’autorevole fonte di Viale Mazzini. Se Sangiuliano dovesse saltare, al suo posto andrebbe Luciano Ghelfi, sempre in quota Lega ma meno barricadero: da un paio d’anni è il quirinalista del Tg2. I grillini, invece, oltre a difendere Salini, fanno le barricate anche su Carboni, che nelle ultime settimane è aiutato dagli ascolti in salita.

Per il resto, è una sciarada. Orfeo è sempre in lizza per il Tg3, nonostante permanga il veto M5S. Andrea Vianello (Pd) potrebbe finire a Raisport togliendo così una direzione alla Lega (ora c’è Auro Bulbarelli). Alla Tgr resterebbe Casarin (Lega), affiancato da un condirettore di area Pd: Carlo Fontana, capo della Tgr Lazio. Luca Mazzà potrebbe lasciare la radio per andare alla presidenza di RaiCom. Giuseppina Paterniti viene data alla direzione del coordinamento editoriale e Antonio Di Bella agli approfondimenti news, mentre a Rainews andrebbe Andrea Montanari. Altri danno invece in uscita Casarin per far posto a un piddino e Paterniti salda al Tg3. Per riflessioni e trattative c’è ancora una settimana, visto che il cda del 21 sarà spostato al 24 febbraio.

Da Serra a Recalcati: quei Gonzi di Repubblica

“Essendo il sottoscritto uno dei milioni di gonzi che gli avevano creduto, forse farei meglio a tacere”, scrive Michele Serra su Repubblica parlando di Renzi. Gli fa onore: non è da tutti ammettere di essersi fatti abbindolare da un individuo di levatura corrente. “Ma in quanto gonzo che gli aveva creduto – prosegu – ho diritto di ricordargli che non è per dividere e litigare che lo votammo in tanti, ma perché si sperava che proprio la sua leggerezza post-ideologica… la sua modernità di 40enne, e perfino il suo cinismo, potessero servire ad aggiungere pezzi al centrosinistra”.

Purtroppo non è andata così: Renzi ha portato il Pd al 18%, se n’è andato convinto di avere il 40, si ritrova col 3. Ma confermiamo la ricostruzione: quando a noi pareva di avere già abbastanza elementi per ritenere Renzi il tipico bomba che si agita per farsi notare e poi si rivela una gran fregatura, Repubblica pompava la riforma costituzionale toscana come l’ultimo ritrovato del progresso. A maggio 2016 Serra scriveva: “C’è una ineluttabilità, nel renzismo, che da un lato sgomenta, dall’altro chiede di compiersi”, il che gli “impediva di essere antirenziano”.

All’indomani del referendum ineluttabilmente perso, Serra firmò l’editoriale “La sinistra del no, no, no”, in cui attribuiva la Waterloo del leaderino al fuoco amico dei “solidi quadri di partito cresciuti nel materialismo dialettico”, “mollemente adagiati nell’eternità virtuosa dell’opposizione”, capaci di plagiare 20 milioni di persone contro l’innovatore tosto e progressista. Il cinismo di Renzi gli pareva ancora leggerezza utile alla causa (come s’è visto, non è utile neanche a Renzi: dal letame nascono fiori, dal cinismo di Renzi nasce Marattin). Intanto lo psicanalista della Leopolda Massimo Recalcati ci dava dei conservatoristi, paternalisti e masochisti.

Come la Storia ha dimostrato, non eravamo niente di tutto questo. A costo di essere didascalici: loro erano gonzi, noi eravamo lungimiranti.

La sinistra cerca (ancora) una casa comune: la Schlein dà la scossa alla “cosa” rossoverde

Rischiava di essere l’ennesima assemblea crepuscolare della micro galassia rossa, accigliata e minoritaria. Si sarebbe potuta descrivere con le parole dal palco del vecchio saggio Fabio Mussi, ironico e spietato: “La situazione della sinistra – ammettiamolo – è disdicevole. Siamo frammentati e marginali. Quando ho visto l’1,7% delle Europee ho avuto un attacco claustrofobico. Non è vero che la sinistra non esiste nella società, esiste eccome, ma non ha mai trovato rappresentanza politica”.

Rischiava – dicevamo – di essere un incontro malinconico. E invece no. L’assemblea organizzata da Sinistra Italiana a Roma è la dimostrazione che c’è ancora vita anche lì, nel campo teoricamente sterminato a sinistra del Partito democratico.

Per citare ancora Mussi, “la prova che non tutto deve andare per forza male si chiama Elly Schlein”. Sarà per il piccolo exploit della sua lista Coraggiosa in Emilia-Romagna, sarà per il moto di simpatia e consenso che ha suscitato il suo coming out pubblico in televisione, ma la giovane vicepresidente di Bonaccini in questo momento sembra circondata da un’aura particolare. Il suo intervento è il più applaudito. Non che dica qualcosa di indimenticabile, ma lo fa con una freschezza e una credibilità che sono moneta rara. “Dobbiamo cambiare metodo e avere una prospettiva nuova – dice Schlein –. Superiamo le frammentazioni e non chiudiamoci nel nostro perimetro. Dobbiamo essere interessati al dibattito nel Pd e avere l’ambizione di influenzarlo. Magari, caro Pd, le candidature alla presidenza delle Regioni possiamo individuarle insieme”.

In platea, assieme al segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, ci sono almeno quattro o cinque anime della perenne diaspora della sinistra italiana. La novità è che sembrano avere chiara – una volta per tutte – l’urgenza di mettersi insieme e trovare una casa comune. C’è Massimiliano Smeriglio (molto vicino a Zingaretti), ci sono i messaggi di Gianni Cuperlo, del ministro Roberto Speranza e del sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Ci sono anche gli esuli grillini Paola Nugnes e Lorenzo Fioramonti. Lo dice chiaramente l’ex ministro dell’Istruzione: “Facciamo un passo indietro tutti, per farne due o tre in avanti”.

C’è anche l’altro grande “vecchio” Nichi Vendola. Anche lui avaro di indulgenze verso se stesso e il suo campo di battaglia: “Abbiamo perso il sentimento del mondo, siamo finiti in un angolo”. Per provare a ripartire – è la conclusione – si può solo rinunciare ai piccoli simboli e alle sigle personali, cercare una piattaforma condivisa. Possibilmente più credibile della paccottiglia elettorale che è stata Liberi e Uguali. L’incontro, come da titolo della manifestazione, è attorno ai due colori di sempre: rosso e verde. Diseguaglianze, diritti e ambientalismo.

È il solito ritornello velleitario? Fratoianni è convinto di no: “Qualcosa è cambiato. Il Pd sta cambiando, non è più quello di Renzi. Ora un confronto è possibile. E anche i Cinque Stelle stanno disperdendo le energie di sinistra che hanno trattenuto a lungo. Adesso sono le condizioni per costruire qualcosa”.

Dal Senato a Conte: settimana nera per i due Matteo

Sondaggi, scambi sui social network, dibattito interno: la settimana che si è chiusa è stata tra le più nere per i due Matteo. Renzi e Salvini hanno maturato entrambi sconfitte, sulla nave Gregoretti il leghista e contro Conte sulla prescrizione il fiorentino, che ne mostrano limiti e fragilità.

Sondaggi Il dato emerge plasticamente dal sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato ieri su la Repubblica e che misurando il gradimento dei principali dirigenti politici mette la sordina ai nostri due eroi. Renzi vede rinsaldare la posizione del suo nemico principale, Giuseppe Conte, il quale con il sostegno del 52% degli italiani, in salita di due punti, è saldamente primo in classifica mentre il leader di Italia viva con il 24% veleggia nella parte bassa. Al secondo posto, però, non si piazza Salvini, come sarebbe da attendersi. Anzi, il leader leghista da dicembre ha perso già 4 punti, dal 48 al 44%, e viene superato da Giorgia Meloni con il 46% del gradimento. La contesa a destra assume sempre più contorni definiti e percepibili anche perché la Lega è data ormai sotto il 30% e Fratelli d’Italia supera il 13.

Se Salvini è vittima di un eccessivo tasso di propaganda, Renzi lo è di una caratteristica troppo spesso sottovalutata di Giuseppe Conte: la resistenza agli urti e il profilo rassicurante. Conte incarna una volontà di stabilizzazione del quadro politico, un desiderio diffuso di uscire dallo scontro continuo fatto tutto di posizionamento e tattica.

Nella contesa con Renzi è quest’ultimo a pagare pegno, semplicemente perché il suo urlare inizia a dare fastidio, non incarna nessuna passione civica mentre l’altro, con la sua duttilità e un certo tasso di trasformismo, sembra in grado, almeno al momento, di maggiore equilibrio anche grazie all’asse di ferro con il presidente Sergio Mattarella.

Nella Lega Salvini, invece, subisce in poco tempo un doppio scacco. Perde la battaglia dell’Emilia-Romagna, che lui stesso aveva indicato come decisiva, e vede accettata dal Senato la richiesta del Tribunale dei ministri su un possibile processo per la nave Gregoretti che avrebbe gravi conseguenze sul piano internazionale. Non è un caso che il giorno dopo il voto di palazzo Madama, accompagnato da Giancarlo Giorgetti, abbia voluto recarsi alla Sala stampa estera per rassicurare i giornalisti internazionali. E non è un caso che nella Lega si sia aperto un dibattito sul posizionamento, moderato o estremista, che il partito dovrà assumere in particolare sull’Europa. Giorgetti, sul Corriere della Sera, ha assicurato molto seccamente che la posizione della Lega è una, rimanere in Europa. Salvini ieri gli risponde altrettanto seccamente: “O l’Europa cambia o non ha più senso di esistere. O le regole cambiano o è inutile stare in una gabbia dove ti strangolano”. Insomma, se non si ottengono risultati “meglio fare come gli inglesi”.

Questa oscillazione è il sintomo di una fragilità nuova che prima non esisteva e che, se ancora non intacca la forte presa popolare ed elettorale della Lega, ne metta in evidenza le fibrillazioni interne.

Sui social Renzi ha pubblicato il suo “ultimo” post sulla prescrizione, su Facebook, ma nei 5990 commenti registrati al momento in cui questo articolo è scritto, la stragrande maggioranza non lo sostiene e lo prende di mira. E non sembra un classico “delirio da social”, trattandosi spesso di persone educate che gli danno del “lei”: “Mi scusi ma qualcosa non funziona mi sembra un po’ di narcisismo”. Oppure: “Lei cita spesso il senso di responsabilità…ecco, sì responsabilizzi per cortesia”. Ancora: “Ocio che se si spezza la corda e si vota non superi nemmeno lo sbarramento, vola basso Matte’”. Fino alla geniale citazione di un Renzi come Morgan a Sanremo: “Le brutte intenzioni, la maleducazione, la figura di m. del referendum..”.

Sono squarci randomici e non fotografie esatte della realtà, ma registrano malumori e disorientamenti.

Di fatto, anche Renzi e la sua Italia viva – in preda a discussioni interne sulla strategia – scontano un sentimento dominante: se si mette in crisi il governo si fa il gioco di Salvini e della destra. La morsa del bipolarismo – che trascende il sistema politico ed elettorale – presenta costantemente il conto: lo ha fatto con la sinistra radicale negli anni 2000 oggi lo fa oggi con Renzi che ha cominciato ispirandosi a Giorgio La Pira e che invece sembra oggi uno di quei partitini ex Dc del 3%.

Renzi vuole aggirare i giudici: “Un decreto per l’aeroporto”

Per Eugenio Giani è tutta una questione di equilibrio. Spingere per l’aeroporto di Firenze bocciato giovedì dai giudici amministrativi, ma non troppo, per non scoprirsi a sinistra. Fare il vago e glissare sull’argomento, ma anche continuare a dire che ci vuole la “modernizzazione dello scalo di Peretola” per non far arrabbiare Renzi, che da settimane minaccia urbi et orbi di candidarsi in prima persona se il candidato governatore del Pd deciderà di presentare una propria lista civica.

Di certo, in vista delle regionali di maggio, Giani ha un problema. E l’ultima uscita di Renzi con il Corriere Fiorentino di ieri, non lo ha aiutato: “Nel piano Shock Italia chiederò un decreto legge per le infrastrutture come l’aeroporto di Firenze bloccate da ricorsi assurdi” ha detto l’ex premier senza specificare però come un decreto legge possa sorpassare due sentenze, prima del Tar e poi del Consiglio di Stato, che in meno di un anno hanno fatto a pezzi la Valutazione di Impatto Ambientale (Via) e, in parte, anche la Valutazione Ambientale Strategica (Vas).

Renzi è il padre della nuova pista da 2.400 metri perorata già nel 2008, ancor prima di diventare sindaco, e sul progetto che vale circa 350 milioni (di cui 150 statali) ha puntato molto del suo capitale politico e relazionale: nel 2009 nominò Presidente di Toscana Aeroporti il suo braccio destro Marco Carrai (tutt’ora in carica) e Corporation America Italia, holding che controlla al 62% Toscana Aeroporti spa, è stata tra i finanziatori della fondazione Open (25 mila euro), finita recentemente sotto le lenti della Procura di Firenze con l’accusa di finanziamento illecito. Per questo, non può fermarsi sul nuovo scalo: “La battaglia dell’aeroporto è quella che più di ogni altra mi ha caratterizzato dall’aprile 2008. Da ex sindaco e senatore io combatterò fino all’ultimo giorno per la pista parallela”. Un’uscita non concordata e che non è piaciuta per niente a Giani che, per vincere le regionali, deve tenere unita la coalizione contraria all’ampliamento dell’aeroporto e allo stesso tempo provare a scrollarsi di dosso l’accusa di essere troppo “fiorentino centrico” con l’esigenza di prendere voti anche a Pisa, da sempre in competizione con Firenze per la questione dell’aeroporto.

Negli incontri di coalizione, fanno notare i renziani, Giani non ha quasi mai tirato fuori la questione aeroporto per non far irritare Verdi e la sinistra e giovedì si è accorto di quanto sia controproducente spingere forte sul tema aeroporto durante l’apertura della sua campagna a Prato: mentre parlava è stato fortemente contestato dai comitati contrari alla nuova pista che nella città del tessile sono molto forti.

Il candidato governatore, contattato dal Fatto Quotidiano, conferma la sua posizione “favorevole” alla nuova struttura ma poi prende quasi le distanze da Renzi: “La mia paura è che ci si concentri troppo a parlare sull’aeroporto di Firenze – dice – la vera priorità in Toscana è il corridoio tirrenico. Per arrivare da Pisa a Roma oggi si deve passare dai piccoli paesi. Per me l’opera fondamentale è quella. Poi se sull’aeroporto arriveranno anche degli atti nazionali come un decreto, ben venga”. Non solo, Giani accusa anche il sindaco di Firenze Dario Nardella di non aver “coinvolto i sindaci della Piana fiorentina nel progetto dell’aeroporto e di aver pensato solo alla nuova pista: con me hanno instaurato un rapporto molto diverso e oggi probabilmente non farebbero ricorso”.

Eppure da via Forlanini, sede del Pd toscano, il grido di battaglia di Renzi fa irritare molti: “Paradossalmente i giudici amministrativi ci avevano tolto una bella patata bollente perché mezzo Pd è contrario all’aeroporto di Firenze e gli alleati pure – dice un esponente di primo piano dem al Fatto – ma come al solito, arriva il provvidenziale Renzi e si rimette a fare casino”.

Lunedì si terrà il primo incontro della coalizione dall’inizio della campagna elettorale per trovare una soluzione sulla lista civica di Giani e parlare proprio del nuovo scalo di Firenze: il redde rationem è vicino.