Il rebus delle dimissioni fa slittare la sentenza

E adesso? Dopo l’invito di Maria Elisabetta Alberti Casellati ai membri della commissione Contenziosa del Senato a dimettersi e dopo la piazza scatenata dal M5s, cosa sarà dei vitalizi? Per il 20 febbraio era stata fissata la camera di consiglio per cancellare il taglio imposto un anno fa: le polemiche hanno indotto il presidente della Contenziosa, Giacomo Caliendo, a sconvocare la seduta in attesa che venga presa una decisione sul suo passo indietro con l’annunciata astensione dal giudizio. Quella che sembrava una partita chiusa, con una sentenza già preconfezionata, come rivelato dal Fatto, è adesso tornata in alto mare. Provocando le proteste degli ex parlamentari capeggiati da Antonello Falomi che è tornato a reclamare che il Senato si pronunci immediatamente. “I termini sono scaduti” ha detto mettendo sulla graticola la presidente Casellati, rea, a suo dire di aver ammesso l’esistenza di un conflitto di interesse e avallato “la vergognosa gogna mediatica a cui sono stati sottoposti i membri della commissione, a partire da Caliendo”.

Il M5s non molla la presa, ringalluzzito dal bagno di folla a piazza Santi Apostoli. E prepara la prossima mossa. “Abbiamo apprezzato che la Casellati abbia esortato i componenti della Contenziosa a fare un passo indietro, anche se è un invito tardivo. Evidentemente ha compreso la necessità di arrivare a una nuova composizione della commissione” dice il capogruppo al Senato Gianluca Perilli. A inizio settimana i pentastellati valuteranno comunque che fare laddove non dovessero arrivare le dimissioni innanzitutto dei due componenti laici dell’organismo, l’ex magistrato Cesare Martellino, relatore dei ricorsi sui vitalizi e l’avvocato di Tivoli Alessandro Mattoni. Il primo in rapporti di antica data con Francesco Nitto Palma, capo di gabinetto di Casellati, che lo ha nominato nel collegio. Un dettaglio non da poco dato che il suo amico Palma, è uno strenuo difensore dei vitalizi vecchia maniera, tanto da aver fatto ricorso contro il ricalcolo, salvo ritirarlo per le accuse di conflitto di interessi che hanno minato l’immagine della Contenziosa. Perché tanta attenzione dai pentastellati verso i due “giudici”? Perché se dovessero davvero fare un passo indietro, nella partita per il ripristino “del più odioso dei privilegi”, non ci sarebbe la possibilità di rimpiazzarli essendosi nel frattempo dimessi i loro due potenziali sostituti, i membri supplenti del collegio. Ossia gli avvocati Mario Santaroni e Marianna De Cinque, quest’ultima anch’essa in posizione delicata perché figlia di un vecchio parlamentare della Dc, Germano De Cinque, morto nel luglio 2019, titolare di un vitalizio di tutto rispetto dopo cinque legislature, oggi trasferito alla vedova in regime di reversibilità.

Nell’attesa delle decisioni di Martellino e Mattoni un’altra carta da giocare i 5 Stelle l’avrebbero, quella di far dimettere dal collegio, dopo Elvira Evangelista, l’altra loro senatrice che l’ha sostituita, Alessandra Riccardi. Ma, per quello che risulta al Fatto, almeno per il momento preferiscono temporeggiare in modo che sia il fronte avverso a scoprire le carte. Insomma è una guerra di posizione in cui anche la Lega, con Simone Pillon, altro membro della Contenziosa da noi interpellato, sembra non ancora pronta a decidere. A questo punto però a togliere tutti dall’imbarazzo potrebbe essere la Camera: nei giorni scorsi è tornato a riunirsi il Consiglio di giurisdizione (l’equivalente della Contenziosa), organo di primo grado del sistema di giustizia interna di Montecitorio, alle prese anch’esso con i ricorsi degli ex deputati. Ancora una volta l’esito è stato un nulla di fatto, ma una decisione, secondo una fonte qualificatissima della Camera, “è attesa a brevissimo, entro febbraio”. Se arriverà, come in passato è regolarmente successo per consuetudine, al Senato non resterebbe che allinearsi.

I contiani al bivio: il partito di Di Maio o il “listone” dem

Lui che è il ministro per i Rapporti con il Parlamento, di mediazioni se ne deve intendere per forza. E pure di intese. Però, Federico D’Incà ha ristretto il perimetro. E quando commenta il cartello “no alleanze” che ha colonizzato la piazza contro il ritorno dei vitalizi, pianta il suo paletto: “Ma non vi siete accorti che dietro c’era scritto ‘non con la Lega’?!”.

Rieccoci al punto. Perché mentre la base è tornata a riunirsi sotto le parole d’ordine delle origini, i vertici Cinque Stelle sono sempre alle prese con la direzione da prendere. Ovvero, decidere quale evoluzione dare al secondo governo Conte, quello col centrosinistra. Perché, come noto, per alcuni è una traiettoria irreversibile, per altri assolutamente no. E tra questi altri, c’è Luigi Di Maio, il capo che ha lasciato la guida e che questa piazza già vorrebbe veder tornare.

La piazza del “no alleanze” è la piazza di Luigi Di Maio. È la piazza che incrocia i ministri e i parlamentari e li accusa: “Stiamo digerendo tanto”, che tradotto significa “troppo”. In sottofondo è tornato l’inno del 2013, quel “non siamo un partito, non siamo una casta” che era sparito alle ultime kermesse. E il colore dominante è di nuovo il giallo, non più il blu ministeriale delle manifestazioni di questi due anni di governo.

È vero che quella di Santi Apostoli è una chiamata alle armi prettamente identitaria, necessaria a ridare fiato alla base che si stava smarrendo e a togliere alle Sardine – che proprio oggi torneranno a riunirsi in questo stesso angolo di Roma – il monopolio della mobilitazione di piazza.

Ma è anche vero che Di Maio è convinto che la linea da tracciare sia quella del Movimento che si muove in autonomia. E con lui Davide Casaleggio e i suoi fedelissimi a Roma, Pietro Dettori e Cristina Belotti. Non è un caso che all’indomani delle dimissioni da capo politico e da capo delegazione gli amministratori di alcune chat M5S abbiano subito pensato di fare a meno del contributo dello “staff” alla discussione collettiva.

Perché superato l’ex capo, la direzione è virata a sinistra. E immagina il futuro del Movimento in un contenitore riformista, ancora tutto da costruire, ma molto simile a quello in cui Nicola Zingaretti ha più volte dichiarato di voler far confluire anche il Pd. Non senza dimenticare di precisare che il nome di Giuseppe Conte è una risorsa per il centrosinistra del futuro.

È la stessa linea “contiana” dei ministri – da Stefano Patuanelli allo stesso D’Incà – e di una corposa fetta di parlamentari, convinti che il percorso iniziato l’estate scorsa non debba interrompersi, tanto più dopo lo scotto dell’esperienza di governo con la Lega.

Una ipotesi che ha bisogno di tempo per diventare solida e che diventa un collante anche per il prosieguo della legislatura. Ma necessita, almeno nei ragionamenti interni al Movimento, del benestare di Beppe Grillo. Che, va detto, è tanto silenzioso quanto convinto che la collocazione dei Cinque Stelle debba rimanere nell’alveo del centrosinistra. “Quando Beppe parlerà…”, ripetono i “riformisti”, non ci saranno più dubbi.

Nemmeno per Di Maio, che di finire a sinistra non ha alcuna intenzione, lui che è il teorico della “terza via” e del Movimento come “ago della bilancia”. In quest’ottica, potrebbe incrociare di nuovo la sua strada con quella dell’Alessandro Di Battista che vuole tornare e fare “proposte” e che parla tutta un’altra lingua rispetto agli esponenti del Conte 2. Nel nome di un Movimento che torna alle origini. Ridimensionato e compatto. Pronto, nell’eventualità, a fare di nuovo squadra anche con quel Matteo Salvini che Conte e gli altri non vogliono vedere più.

M5S, la piazza anti-Casta diventa “no-alleanze”

La piazza contro i vitalizi è un ritorno al passato che molti Cinque Stelle vorrebbero futuro. Tante bandiere, diverse persone (a spanne 5mila, ma il Movimento sostiene che fossero il doppio), gli storici cori come “onestà, onestà” a riempire l’aria e molti insulti per i giornalisti, il vecchio nemico di cui in tempi di crisi i grillini si ricordano sempre. Alcuni cronisti vengono rincorsi con improperi e occhiatacce, e in serata il M5S deve scriverlo in una nota: “Le piazze del Movimento sono e devono essere pacifiche, i giornalisti hanno il diritto di svolgere la loro professione in piena libertà”. Però c’è anche altro nel tiepido pomeriggio romano in piazza Santi Apostoli, già luogo simbolo per Romano Prodi e il suo Ulivo.

C’è il congresso, che i 5Stelle chiamano Stati generali ma insomma, la sostanza è quella. Così nella calca di militanti dall’età media alta, in gran parte campani, appaiono come ordigni certi cartelli: “No alle alleanze”. Ovviamente un no al Pd, nelle regioni e magari anche altrove, qualora ricapitassero bivi di governo. Di sicuro un segnale, sul tema che potrebbe spaccare il Movimento dentro e fuori gli Stati generali. Così quei pezzi di carta diventano subito un caso, con un ministro che ringhia (“è uno scandalo”) e il presidente dell’Antimafia Nicola Morra che tace e scrolla le spalle. Meglio non commentare quei cartelli di cui non sapevano nulla nell’ufficio stampa del Senato, curatore dell’evento costruito da Paola Taverna con il via libera del reggente e senatore Vito Crimi. E dire che avevano l’identica grafica del materiale scaricabile dal blog delle Stelle. Alcune voci ne attribuiscono la paternità ai grafici del gruppo della Camera, ma i 5Stelle di Montecitorio negano: “Assolutamente no, se li sono fabbricati da soli alcuni militanti, non è difficile”.

Nel dettaglio sarebbero stati attivisti campani, anzi di Napoli, feudo di tanti grillini di rango, a cominciare dall’ex capo politico Luigi Di Maio. E di certo Di Maio si nota e vuole farsi notare, nella piazza dove non voleva che si parlasse solo di vitalizi. Crimi, il reggente, gli dà ampia soddisfazione dal palco: “Quello che abbiamo fatto finora non si tocca: il reddito di cittadinanza, lo spazza-corrotti, l’abolizione dei vitalizi e nessuno deve mettere il becco sulla prescrizione”. Tripudio, e del resto la star alla fine sarà proprio il Guardasigilli Alfonso Bonafede, a cui gli attivisti urlano di “non mollare”. Lo stesso Bonafede che sale sul palco da ospite a sorpresa e teorizza: “Questa piazza vuole fare solo una cosa, rivendicare il nostro diritto ad essere il Movimento”. E Taverna suona la stessa nota: “Questa è la piazza dell’orgoglio a 5Stelle”. Utile per ritrovarsi, per cercare l’unità e il senso smarriti: e la prescrizione e il Bonafede sotto attacco come balsamo vanno benissimo. Anche nella piazza dove i grillini vestiti da governo entrano ed escono con le scorte a fare scudo. E si torna a lì, al Di Maio che dietro il palco viene assaltato come il più atteso. Dal microfono parla di politica nazionale, e in pubblico non lo faceva dal 22 gennaio, il giorno delle sue dimissioni. “Questa è una piazza che ama l’Italia” inizia, ed è il senso di un discorso che celebra il tricolore e “l’uguaglianza”, presto interrotto dall’inno di Mameli cantato dalla folla, e Di Maio la imita volentieri.

Poi, certo, il ministro celebra Bonafede: “Finalmente abbiamo un ministro della Giustizia tutto di un pezzo e lo dobbiamo difendere, come dobbiamo difendere la riforma sulla prescrizione”. È proprio Di Maio a introdurre il Guardasigilli. Soprattutto, è l’ex capo a prendersi più cori di tutti (“Luigi, Luigi”) e a rimanere a lungo a bordo piazza anche a evento, per stringere mani e sottoporsi a selfie. “Si vuole riprendere tutto” sibilano voci ostili. Ma non sarà semplice, anche se in piazza l’ex capo si fa una foto con Crimi e Bonafede, come a celebrare legami. Però il saluto fuori scatto tra Di Maio e il reggente non è l’immagine del calore. Crimi, raccontano, non vuole schiacciarsi nello stereotipo del dimaiano che lo insegue da quando è subentrato. Parla, moltissimo, con tutti. E in silenzio sta provando ad anticipare gli Stati generali al 20 marzo, senza aspettare la data (ufficiosa) del 19 aprile. Non vuole due mesi di lotte interne.

Però l’organizzazione è ancora indietro, “e ci sono resistenze diffuse” raccontano. Poi, comunque, ci sono tutti gli altri. C’è l’Alessandro Di Battista ancora in Iran, che parla tramite agenzia (“sono con il M5S contro uno stomachevole privilegio”) e che non ha cambiato linea: appena tornato in Italia calerà una sua “proposta” per il congresso.

E c’è la Taverna che sul palco scandisce il discorso più lungo. L’intervento di chi è pronta alla partita per il vertice: “La nostra forza da quando siamo entrati in Parlamento non è cambiata, non ci possono abbattere. E siamo l’ideale per l’Italia”. Di Maio ascolta, sorridente. Ed è già futuro, è già battaglia.

Riveder le stelle

La piazza strapiena contro i vitalizi di ritorno e la restaurazione strisciante non risolve nessuno dei problemi drammatici in cui si è avvitato il M5S. Ma è un segnale. Anzitutto di vita. E poi del fatto che chi smette di guardarsi l’ombelico parlandosi addosso su questioni interne e sventola bandiere di principio e non di bottega trova sempre migliaia di cittadini pronti a impegnarsi. Il sentimento dominante, in piazza Santi Apostoli, era l’orgoglio per le cose fatte da un movimento vilipeso e combattuto da tutti che ha mantenuto molte promesse, ma non è stato ripagato, anzi paradossalmente è stato punito dagli elettori. I militanti sono cambiati e maturati come i loro eletti. Hanno rinunciato alle battaglie impossibili, sia quelle magari giuste ma irrealizzabili, sia quelle sbagliate e velleitarie del complottismo e dell’antieuropeismo. La sfida del governo ha fatto bene a tutti, dalla base ai vertici, costretti a diventare in fretta uomini di governo e molti – anche se non tutti e fra mille errori – ci sono riusciti. Tant’è che da due anni, altro paradosso, il “movimento del vaffa” è diventato il principale fattore di stabilità, prima contro il cazzaro verde, poi contro il cazzaro rosé. Ha espresso un premier, Conte, che ha imparato più in fretta di tutti. E un capo politico, Di Maio, che ha traghettato nelle istituzioni il più grande movimento di protesta mai nato in Italia, fino al gesto raro e dignitoso delle dimissioni.

Se i 5Stelle si riappropriano delle piazze, accanto a quelle delle Sardine che per prime ne hanno meritoriamente strappato il monopolio a Salvini, è un bene per loro e per tutti: anche perché la nuova piazza non è più contro il governo di turno (sarebbe autofagia), ma per alcune battaglie. A partire da quelle sulla legalità che hanno portato all’anticorruzione, al carcere per gli evasori, alla blocca- prescrizione e all’accorcia- processi, grazie anche alla santa pazienza di Bonafede, accolto ieri come una star. Ora però, anziché crogiolarsi nel primo bagno di folla dopo mesi di cicuta, il M5S dovrebbe far tesoro di quella piazza. La smetta di discutere di regolette interne e dispettucci ombelicali. Faccia alleanze nelle regioni dove può vincere un candidato presentabile. Fissi al più presto questo benedetto congresso degli “stati generali”, lo apra a tutti i contributi esterni possibili, si dia una leadership seria e credibile e un pacchetto di nuovi traguardi da tagliare. La casta gli ha regalato lo sdegno contro i nostalgici dei vitalizi e dell’impunità, oltre al demenziale referendum di marzo contro il taglio dei parlamentari. La casta lavora per i 5Stelle. I 5Stelle la smetteranno di giocare contro se stessi?

“Da operaio la svolta è arrivata con i dolci”

Dalla Toscana alla California, passando per l’Irlanda. I luoghi segnano le tappe della vita e della carriera di Damiano Carrara: 34 anni, ex metalmeccanico a Lucca, bartender a Dublino. Negli States si reinventa pasticciere, quindi concorrente nei talent e poi giudice-star nei cooking show della Food Network America. Dal 24 gennaio è su Real Time con la nuova stagione di Cake Star, che conduce per il secondo anno insieme a Katia Follesa.

Come ci si trasforma da operaio in pasticciere?

Si decide di cambiare vita. Avevo 18 anni e tanta voglia di migliorarmi e crescere. Sono partito per Dublino dove ho fatto per un anno e mezzo il bartender, poi sono tornato in Italia, e mi sono reso conto che all’estero si imparava molto di più. Così sono ripartito, destinazione Stati Uniti.

Crescere e realizzarsi è più facile lontano dall’Italia?

No, ma bisogna avere in testa che lo studio è alla base di tutto e che è importantissimo migliorarsi e non sentirsi mai arrivati. Io avevo bisogno di andar via. La situazione familiare è stato lo stimolo più forte, si arrivava a stento alla fine del mese. È stata dura, anche perché a Los Angeles la competizione è fortissima.

E in Italia aveva finalmente l’agognato contratto a tempo indeterminato. Ha pesato di più la determinazione o la follia?

Un po’ di follia ci vuole, ma conta più la voglia di fare.

Deve la passione per la pasticceria a suo fratello, Massimiliano, che oggi segue gli affari di famiglia mentre lei è diventato una celebrity.

Lui, a 14 anni, saltava la scuola per andare in laboratorio a imparare il mestiere. Mi ha trasmesso questa passione, gli devo tutto. Il primo marzo apriremo il nostro terzo negozio negli Stati Uniti.

Perché il cibo ha così successo in Tv?

È parte di noi, è la nostra benzina. Fa parte della nostra cultura. A tavola ci si ritrova, ci si racconta, il cibo è una passione che ci accomuna e ci tiene sempre insieme.

Latte, farina, sale e zucchero, gli ingredienti principali delle sue ricette, sono considerati i “killer bianchi” per la salute.

Come pasticciere, posso solo dire che i dolci sono un vero salvavita perché sono un toccasana per le giornate no. I dolci ci rincuorano dalle delusioni o quando ci arrabbiamo. Mi è capitato di consolare dei clienti che arrivavano al locale tristi con una fetta di torta. Certo, come in tutte le cose non bisogna abusarne per restare in salute. Io mangio molti dolci, però mi alleno anche tanto.

Qual è il primo dolce che ricorda?

Lo zuccotto che faceva la mia nonna, ma non potevo mangiarlo perché c’era l’alchermes.

César deve morire: caos ai Premi

È sempre colpa di Polanski. Quale novità. L’ultima puntata dell’affaire abita nella prestigiosa Académie des Arts et Techniques du Cinéma deputata ad assegnare i premi César, ovvero gli Oscar francesi.

La notizia ormai nota è che alla vigilia dalla cerimonia di premiazione (prevista il 28 febbraio) il Cda dell’Accademia si è dimesso in seguito alle polemiche per l’alto numero di nomination (12) ottenute dall’opera del regista polacco. Le accuse sul cineasta di J’accuse sono le solite, a cui si aggiunge una presunta e misteriosa “opacità nella gestione del premio” di cui sarebbe vittima (o carnefice) l’istituzione stessa.

Tutti a casa, dunque, “per ritrovare serenità e procedere al rinnovo della direzione post premi”: è questa la sintesi del documento ufficiale a firma del presidente Alain Terzian. In ballo ci saranno addirittura, sotto la guida del potente Cnc (Centre national du cinéma et de l’image animée) modifiche allo statuto associativo come da richiesta pervenuta alcuni giorni fa da parte di 400 vip del cinema francese, che hanno redatto una lettera aperta pubblicata poi su Le Monde. Questi chiedono una “riforma profonda” dell’Académie e revisione dei conti su cui grava la sopradetta “opacità”.

In tutto ciò, però, cosa c’entra Roman Polanski? Facile scivolare nella retorica, ancor più codardo aggirare l’ostacolo partendo da vetusti vizi burocratici che gravano sull’Accademia per evitare il vis-à-vis: assecondiamo le contestazioni e cancelliamo tutto, sia mai che i César vengan rovinati da manifestanti davanti alle Salle Pleyel (che comunque ci saranno). Già ce n’è abbastanza di manifestazioni in giro per Parigi, almeno i premi lasciamoli stare. Ma fare gli struzzi è la peggior cosa, ce lo insegna proprio la limpidezza intessuta in J’accuse da cui, a quanto pare, nessuno ha imparato.

“Si vive una volta sola”: dottor Verdone rianima la commedia

Carlo Verdone si smarca, “non è un omaggio ad Amici miei, nonostante gli scherzi”. Piuttosto, si professa discepolo di Pietro Germi, il primo a “fare della commedia cinema d’autore”. Eppure, sarà che tra il suo professor Umberto Gastaldi, chirurgo internista vocato all’oncologia, e il primario Alfeo Sassaroli che fu di Adolfo Celi il parallelo regge, sarà che battute quali “Quasi quasi me faccio lesbica” (Anna Foglietta) sembrano riecheggiare il Melandri, l’indimenticata zingarata di Mario Monicelli (1975) non è questa sconosciuta per Si vive una volta sola, che riporta il regista romano dietro la macchina da presa a quarant’anni dall’esordio Un sacco bello (1980).

Dal 26 febbraio in sala con Filmauro, che produce, e Vision, prossimamente su Amazon Prime Video insieme a tutti i film di Verdone, la commedia corale trova i propri protagonisti in sala operatoria: l’équipe di Gastaldi è formata dall’assistente Corrado Pezzella (Max Tortora), la strumentista Lucia Santilli (Anna Foglietta) e l’anestesista Amedeo Lasalandra (Rocco Papaleo). A unirli non solo l’amicizia e gli scherzi ai danni della vittima designata Amedeo, ma anche la divaricazione tra il successo professionale e le difficoltà nel privato: c’è chi aveva la moglie “zoccola”; chi si ritrova con una figlia strappona, Tina (Mariana Falace), avuta incidentalmente da un’infermiera; chi ha una consorte dedita ai tartufi, e non solo quelli; chi ha un bello e possibile (Sergio Muniz), chissà se in esclusiva. Si tira a campare, ma quando un referto non lascia scampo tocca abbandonare la corsia e mettersi per strada: verso Sud, verso una Puglia di mare e masserie deluxe, per accompagnare un amico nell’ultimo viaggio.

Tranquilli, il voltaggio sarà pure esistenziale, lo spettro del cancer-movie dietro l’angolo, ma l’unico colpo letale che Verdone, alla scrittura con Giovanni Veronesi e Pasquale Plastino, assesta è alle commedie pudiche e compite ultime scorse, alle Feste trascorse senza i peti e i rutti dei cinepanettoni che furono, ai Pinocchi benigni e i migranti a modino di Zalone: qui i culi si vedono, i “cazzo!” si urlano, i ménage à trois e quatre non si risparmiano, e nemmeno il Kamasutra, i preservativi small e gli “hot dog” porcelloni tra le coltri.

Ci sono – e se la cavano egregiamente – Papaleo, Tortora e Foglietta a lasciare sotto i ferri il bon ton e, perché no, il politically correct, ma anche Boldi e De Sica si sentirebbero a proprio agio, sentite qua: “Io co’ ‘sto culo c’ho fatto il picco d’ascolti”, “Fatte fa’ ’na scopata con David Bowie”, “Chi è? Sto cazzo”, “Scopi solo col vento a favore”, “Ho fatto una vomitata straordinaria, sto benissimo”, “Ho capito perché quella colite ulcerosa, lei ce gioca troppo con quel culo”, “Quando viene (orgasmo, ndr) morde”, “Ma quale cazzo di bananone!”. Insomma, il Paradiso può attendere, e forse è davvero una buona novella: il glioblastoma è lo spauracchio, ma anche il Papa ha bisogno del tagliando, e la cistifellea sotto osservazione viene proprio da Un sacco bello.

La competenza farmaceutica di Verdone è notoria, non è la prima volta che incarna un medico – però il chirurgo è inedito – e la confidenza col camice è palpabile, nondimeno l’obiettivo è più il mutuo che il pronto soccorso: “Quanti ne conosco di fenomeni con una vita privata che non corrisponde alla venerazione del pubblico”. Capita, come a questi quattro, che “tra noia e scherzi l’amicizia degeneri”, nondimeno, Verdone confessa di aver burlato i propri affetti a più riprese, con esiti infausti: il figlio calciatore, cui simulò una telefonata del segretario di Totti desideroso di conoscerlo, non gli parlò per un mese e mezzo; la madre, che si ritrovò la casa sottosopra e la passata di pomodoro per terra a mo’ di sangue, quasi ci rimase.

Dopo Benedetta follia, Si vive una volta sola conferma su spartiti diversi il buono stato di salute e di famiglia – Papaleo, Tortora e Foglietta sono indovinati e possono tornare – di Carlo, ma c’è un corpo estraneo da contenere se non rimuovere: tra relais, bollicine e auto, un product placement imbarazzante, anche per gli standard Filmauro. Non se lo merita, Verdone.

 

Non sono solo canzonette, ma musiche da Oscar

L’orchestra del Dolby Theatre suonava Quando quando quando alla cerimonia per gli Oscar, mentre Parasite faceva incetta di statuette. Se chiedete al regista Bong Joon-ho come gli sia venuta l’idea di piazzare nella scena clou In ginocchio da te (ancor prima utilizzata da Canet per Blood Ties) vi risponderà che suo padre possedeva una vasta collezione di 45 giri italiani. Lui è andato a cercare Gianni Morandi sul web, e ha scoperto che la canzone era anche un fortunato “musicarello” girato a Napoli nel ‘64.

La scatola sudcoreana del gioco di memorie cinemato-pop contiene una domanda: nel mondo hanno più considerazione per la nostra musica leggera della Golden Age di quanta ne abbiamo noi? Le produzioni internazionali, hollywoodiane e non, ripescano volentieri per le colonne sonore i classici vintage del Belpaese. Prima che la Carrà fosse incoronata da Sorrentino, A far l’amore comincia tu tambureggiava su Gocce d’acqua su pietre roventi di Ozon e in una puntata di Doctor Who; Scorsese omaggiava Paoli con Il cielo in una stanza su Quei bravi ragazzi; Meravigliosa creatura e la Nannini spuntavano in Festen di Netzer e il Jovanotti di Una tribù che balla faceva capolino in Un boss sotto stress di Ramis; Gloria echeggiava dentro The wolf of Wall Street, ma Tozzi era un must (con Stella stai) nel soundtrack di Spiderman: Far From Home; Mina è musa per Almodóvar in Tacchi a spillo (reinterpretata da Bosè) e in Dolor y Gloria. Spiazzano i Ricchi e Poveri e la loro Sarà perché ti amo ne L’effrontée di Miller, per non dire de Il mondo di Jimmy Fontana in Questione di tempo di Richard Curtis.

A proposito di Oscar, il polacco Ida rilanciava 24mila baci e Guarda che luna. “Noi italiani siamo provinciali, troppo critici sul patrimonio della nostra canzone. Ci siamo vergognati pure di Sanremo”, riflette Mara Maionchi: “Ma in quelle storie di tre minuti ci ritrovavamo tutti, era una condivisione culturale duratura, grazie anche alla loro cantabilità. C’erano arrangiatori come Morricone o Bacalov, e poeti che mettevano le parole giuste sulle melodie. Lo spirito nazionale induceva all’ottimismo, al sogno. Un vento che è soffiato poi oltre i nostri confini”.

Mario Lavezzi, autore di successi per tutto il pattuglione di big tricolore, ora in tour per il suo box E la vita bussò, spiega: “All’estero amano i nostri evergreen perché riverberano un’era in cui avevamo valori molto più solidi, non solo nella musica: design, moda, auto, cucina. Noi emulavamo gli anglosassoni, ma a Sanremo Wilson Pickett cantava per Battisti. Come catturavamo la magia? Io suonavo la chitarra davanti allo specchio, senza registrare. Avevo imparato a non arrendermi dopo che ero stato costretto a lasciare i Camaleonti per la naja. La svolta, al ritorno, fu Il primo giorno di primavera”.

Alberto Salerno, penna illustre su Io vagabondo, Terra Promessa o Lei verrà, sottolinea: “Certe canzoni hanno bucato tempo e spazio perché erano davvero popolari, alla portata di tutti. Sono state rivalutate negli anni, mentre allora si approvavano solo le cose d’autore, più complesse e intellettuali. A noi ragazzi dei 60 servivano motivetti per baciare le ragazze, e nei 70 per capire chi eravamo. Mi commossi sentendo intonare Io vagabondo da una folla di giovani ai funerali di Muccioli a San Patrignano. All’Oscar non ci sono arrivato: giusto uno spot per il brodo Knorr con uno scampolo di Donne”.

Ma qualcuno, anche se per vie indirette, può rivendicare un piccolo merito sul trionfo italiano del 1965, quando Ieri oggi e domani fu scelto dalla Academy come miglior film straniero. Racconta Edoardo Vianello: “La sera in cui conobbi la Loren mi presentai: ero l’autore de La partita di pallone, che il suo personaggio canticchiava a cappella prima dello spogliarello. Sophia sorrise. Mi disse che non ne sapeva nulla ma meritavo di essere citato, e che avevamo qualcosa in comune. ‘Anche mio figlio si chiama Edoardo’, spiegò”.

Vianello ha firmato brani che hanno venduto 60 milioni di copie, sigle indelebili delle estati senza fine dei 60, “un’epoca di innocenza in cui il juke box ci aiutava a rimorchiare, a vivere le cotte”. Lo hanno saccheggiato in tanti: da Dino Risi ai Vanzina, e Totò lo ha parodiato. “Due anni fa, nella serie tv Usa Masters of none Alessandra Mastronardi accennava a Guarda come dondolo. Per un paio di settimane quel mio pezzo è rientrato, mezzo secolo dopo, nella top ten americana. Un miracolo: visto da qui appare inspiegabile”.

Turista detenuto “per una pacca sulla spalla ad agente” Zaki, oggi l’udienza

Il presidente della Camera dei deputati egiziana, Ali Abdel Aal, ha tacciato di “inaccettabile ingerenza” le parole di David Sassoli, presidente del Parlamento europeo che aveva chiesto “l’immediato rilascio” dello studente Patrick Zaki, arrestato una settimana fa. Oggi il Tribunale di Mansoura, città dove il 27enne dottorando a Bologna, era tornato per rivedere la famiglia, deciderà se prolungare la detenzione (solitamente di altri 15 giorni) o scarcerare il giovane accusato d’esser un attivista anti-regime. Ieri la madre di Giulio Regeni ha criticato il ministro degli Esteri Di Maio: “Andate a vedere cosa ha detto nel 2016 su Giulio (sul ritiro dell’ambasciatore, ndr) quando era all’opposizione e che cosa dice ora da ministro su Zaky. È vergognoso. Fa parte della serie di chi entra nei ‘palazzi’, cammina sui tappeti rossi, e cambia”.

È di ieri la notizia che Tony Remo Camoccio, 51 anni, cittadino britannico, è detenuto da sabato a Hurghada, sul Mar Rosso, dopo aver “molestato sessualmente” un agente di polizia all’aeroporto del resort. I familiari hanno raccontato che la molestia non è altro che una pacca sulla spalla in risposta a quella che il poliziotto aveva elargito al turista nelle fasi d’imbarco. Il tribunale deve decidere se prolungare la detenzione di altri 15 giorni per approfondire le indagini.

Rocchelli e Mironov erano nel “posto sbagliato”

Blu e giallo, come la bandiera bicolore di Kiev, è lo sfondo della sala stampa della Camera dei deputati dove ieri, a sei anni dalla morte dei giornalisti Andy Rocchelli e Andrey Mironov – avvenuta il 24 maggio 2014 a Slavyank, Donbass di guerra, Ucraina –, è stato presentato il progetto The wrong place, il posto sbagliato, titolo del documentario di Cristiano Tinazzi, Olga Tokariuk, Danilo Elia, Ruben Lagattola. La scelta del nome è stata “dettata dal senso di casualità degli eventi, chi lavora in aeree di crisi si può trovare in situazioni di cui non si può prevedere l’esito, dove succede l’improbabile” spiega Tinazzi al telefono. Per concorso in omicidio dei due reporter il soldato della Guardia nazionale ucraina Vitaly Markiv, 30 anni e doppia cittadinanza, sia italiana che ucraina, imputato unico del processo, ha ricevuto dalla Corte d’Assise di Pavia una condanna a 24 anni di reclusione dopo i 17 richiesti in precedenza dal pm Andrea Zanoncelli.

“L’obiettivo era fare chiarezza sui dubbi causati dalla sentenza, partendo dai dati delle carte dell’accusa che non si è recata in loco, siamo andati a Slavyansk per compiere rilevamenti tecnici avvalendoci dell’aiuto di esperti militari, balistici, cartografi” spiega il regista del lavoro presentato ieri a Roma con il supporto dei radicali italiani, Igor Boni e Silvia Manzi, che chiedono chiarezza per Andy e per “l’amico e militante radicale Andrey Mironov”. Per loro “giustizia non è arrivata con la condanna in primo grado a Vitaly Markiv”, una sentenza prodotta “dopo un processo lacunoso, viziato dalla propaganda russa e mancata conoscenza di fatti storici essenziali”.

“Andy e Andrey cercavano di dare voce ai più vulnerabili, in quei giorni cercavano di capire chi sparava in direzione dei civili” ricorda da Londra la nipote di Andrey Mironov, Sofia Keyes. “Dico solo due cose: mio zio era molto più che un traduttore come è stato scritto dalla stampa, era un giornalista, attivista per i diritti umani”. Aggiunge che rimane “preoccupante la campagna per assolvere i responsabili, per minare lo sforzo di assicurare i colpevoli alla giustizia per l’uccisione dei giornalisti”.

“Liberate Markiv”. Il 7 febbraio scorso il presidente Volodimir Zelensky, ringraziato pubblicamente dalla madre del soldato, ha discusso con il premier Conte il ritorno a casa del militare della Guardia Nazionale: “Capisco che il primo ministro non possa influenzare la Corte italiana, ma gli ho detto nei dettagli cosa è successo, a che distanza si trovava dalla scena dell’omicidio, e che dobbiamo far uscire il ragazzo”. Una dichiarazione consultabile sulla piattaforma governativa ucraina del Capo di Stato.

“Indagini supplementari”, commenta infine da Pavia Rino Rocchelli, padre di Andy, “sono compito delle autorità ucraine, è responsabilità dello Stato ucraino fornire spiegazioni che finora hanno lasciato a desiderare”, ricordando che “in Italia vige la divisione dei poteri”.