Video hot, Griveaux si ritira “Ma non siamo in America”

È scivolata su un video hot la candidatura a sindaco di Parigi, mai in realtà davvero decollata, di Benjamin Griveaux, l’uomo di Macron. Un vero colpo di scena all’americana che si abbatte sull’Eliseo: a un mese dalle municipali La République en marche, il partito di Macron, si ritrova ora senza candidato alla poltrona di primo cittadino della capitale. Poltrona che il presidente avrebbe volentieri scippato alla sindaca socialista Anne Hidalgo, che corre invece per il suo terzo mandato.

Ma la Francia non è l’America e nel pieno della bufera, tutti, anche i rivali, si sono schierati per una volta dalla parte di Griveaux, vittima di un “revenge porn” a tutti gli effetti, caso raro se non unico in Francia. Ma riprendiamo tutto daccapo. Ieri, di prima mattina, Griveaux registra una video-dichiarazione nei locali dell’agenzia France Presse: “Sapevo che la battaglia politica sarebbe stata dura – dice –. Ma questo è un fiume di fango. Nessuno dovrebbe mai subire una tale violenza”. In piena campagna per le municipali di marzo il candidato LaRem si ritira. Da alcune ore circolano sul Web delle conversazioni intime tra lui e una donna e un video in cui si masturba. Dietro lo scandalo c’è un certo Piotr Pavlenski, artista russo e militante anti-Putin che ha già fatto parlare di sé in passato. Dopo essersi cucito le labbra in sostegno alle Pussy Riot e aver dato fuoco alla porta della Lubjanka, sede dell’ex Kgb, nel 2017 ha chiesto e ottenuto asilo politico in Francia. Ma ha appiccato il fuoco anche alla facciata di una filiale della Banca di Francia e per questo è stato condannato a tre anni di prigione. Ora è indagato anche per violenze a mano armata. Al quotidiano Libération ha spiegato di aver voluto denunciare “l’ipocrisia” del candidato LaRem: “Dice che vuole essere il sindaco delle famiglie, ma fa l’esatto contrario”. La sua “fonte” sarebbe una ex amante che evidentemente aveva voglia di vendetta. Il video era stato messo in linea sul blog Pavlenski pornopolitique.com, prima di essere twittato da un ex deputato LaRem, Joachim Son-Forget e passare per un profilo di Gilet gialli. Sono immagini autentiche o un montaggio? Griveaux non ha smentito, ma sporgerà denuncia per violazione della privacy.

La campagna del fedelissimo di Macron era nata male. L’ex portavoce del governo, giovane – 42 anni – ma affettato, poco amato dai parigini, non è riuscito mai ad andare oltre il 14% nei sondaggi, molto indietro alla Hidalgo e a Rachida Dati, candidata della destra. Il matematico Cédric Villani, macronista dissidente, si era candidato contro di lui. Alcune sue proposte sono state ridicolizzate, come la promessa improbabile di creare un Central Park a Parigi “spostando” la Gare de l’Est. Ieri Villani ha denunciato una “grave minaccia alla democrazia”. Hidalgo e David Belliard, il candidato verde per Parigi, hanno chiesto il “rispetto della vita privata”. Per Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, potrebbe trattarsi di un “complotto”. Alexis Corbière della France Insoumise, sinistra radicale, ha denunciato l’“americanizzazione” della vita politica francese. Di fatto Griveaux non ha infranto la legge. Macron ha già perso ministri e collaboratori per ben altri guai, con la giustizia. Il centrista François Bayrou ha retto un mese al governo: scelto per difendere la legge sulla “moralizzazione” della vita pubblica, si era dimesso per “impieghi fittizi” al parlamento Ue. L’ex ministro dell’Ecologia, François de Rugy, ha lasciato il governo dopo le rivelazioni su festini a base di aragoste e champagne a spese dei francesi. Più di recente si è dimesso pure il “monsieur pensioni” di Macron, Jean-Paul Delevoye, alle redini della controversa riforma, ma che prendeva soldi dagli assicuratori. E poi c’è stato lo scandalo di Alexandre Benalla, l’ex uomo della sicurezza dell’Eliseo filmato mentre picchiava dei ragazzi durante un primo maggio, ma stracoperto dai vertici dello Stato. Se si aggiungono anche i mesi di proteste e scioperi, per Macron la vicenda di Griveaux è (solo) un colpo da incassare in più.

Lite da Barr, Trump prova a far fuori pure il procuratore

Adesso che non rischia più nulla, perché i democratici si sono ormai giocati malamente la carta dell’impeachment, Donald Trump non ha più freni inibitori: licenzia gli infedeli del suo staff rei d’avere magari detto il vero; ammette quel che aveva spudoratamente negato durante l’inchiesta, contro ogni evidenza e testimonianza; lascia le briglie sul collo ai fedelissimi che, per difenderlo, hanno mentito e rischiato. Ma questo, forse, è solo un “teatrino della politica”.

“I tweet del presidente mi rendono impossibile lavorare. Deve smetterla di twittare sul Dipartimento della Giustizia”, osa dire il segretario alla Giustizia William Barr in una intervista alla Abc, dopo che l’azione combinata sua e di Trump ha innescato dimissioni a catena fra i magistrati occupatisi dell’amico e consigliere e finanziatore del presidente Roger Stone.

Indagato e arrestato nell’ambito del Russiagate – sarebbe stato il tramite di Trump con Wikileaks, per la pubblicazione di migliaia di mail trafugate al partito democratico –, Stone è stato rinviato a giudizio con sette capi d’imputazione, tra cui ostruzione alla giustizia. I procuratori hanno chiesto che sia condannato a una pena tra i sette e i nove anni. Ma il presidente è subito intervenuto, definendo la richiesta “orribile e terribilmente iniqua”. E, poi, s’è congratulato con Barr, che interveniva raccomandando una condanna più mite. Conseguenze: uno stillicidio di dimissioni di magistrati, mentre l’opposizione urla allo scandalo per le interferenze sulla giustizia della Casa Bianca. E ora s’apprende che Barr starebbe pure ingerendosi nell’indagine su Michael Flynn, il primo consigliere per la Sicurezza nazionale dell’Amministrazione Trump, finito reo confesso nel Russiagate.

Nella bufera, il ministro, che non ama troppo comparire, dice alla Abc: “Penso sia ora che Trump smetta di twittare sui casi gestiti dal Dipartimento della Giustizia: non voglio essere né prevaricato né influenzato da nessuno, che sia il Congresso, l’editoriale di un giornale o il presidente”. E ancora: “Faccio ciò che ritengo giusto e non posso lavorare con un costante background di commenti che mi sminuiscono”. Con Barr, trova il coraggio di dire la sua il leader della maggioranza repubblicana al Senato Usa, Mitch McConnell: “Il presidente dovrebbe ascoltare il consiglio di Barr sui tweet … Se il ministro delle Giustizia dice questo, forse andrebbe ascoltato”. Critiche neppure troppo velate che vengono da uomini chiave nel sistema di potere di Trump. Barr, chiamato un anno fa giusto giusto a sostituire Jeff Sessions, ritenuto troppo “molle” sul Russiagate, s’è prestato a tutte le fantasie del presidente, a partire dall’inchiesta – finita in una bolla di sapone – su un presunto complotto democratico all’origine del Russiagate (venne persino di persona in Italia a cercarne le prove, che sarebbero state seminate dal professore maltese Joseph Mifsud). McConnell gli ha fatto scudo nel processo sull’impeachment in Senato.

Trump non reagisce troppo male allo sfogo di Barr: delle sue dichiarazioni, estrapola la frase in cui il segretario alla Giustizia afferma che “il presidente non mi ha mai chiesto di fare niente su alcun procedimento penale”, negando dunque ogni interferenza, soprattutto sul caso Stone. “Ma ciò non significa – puntualizza il magnate – che come presidente non abbia il diritto di farlo. Potrei farlo, ma ho deciso di non farlo!”. La reazione di Trump, insolitamente misurata e tollerante, induce molti a Washington a ritenere che si tratti di un “teatrino della politica”: Barr avrebbe informato il presidente di quello che voleva dire, per attutire la tempesta in atto al Dipartimento sul “caso Stone”; e McConnell si sarebbe prestato al gioco. “Se Barr resterà al suo posto, vuol dire che è così”, commenta al New York Times una fonte che non vuole essere citata.

E, galvanizzato dall’assoluzione nel processo d’impeachment, Trump, in un’intervista podcast con il noto giornalista Geraldo Rivera, ammette d’avere mandato il suo avvocato personale Rudy Giuliani in Ucraina per cercare informazioni sui Biden, padre e figlio, cosa che finora aveva sempre negato. “È stata una mia scelta”, perché era insoddisfatto a causa del Russiagate dell’intelligence Usa. Che intelligence, giudici e Trump non siano in sintonia lo ha ieri confermato il proscioglimento di Andrew McCabe, numero due dell’Fbi, che il presidente considera una “mela marcia”. Il presidente ha imparato qualcosa dalla lezione dell’impeachment? “Non ci sono forti segnali che l’abbia fatto”, dice a mezza bocca la senatrice repubblicana dell’Alaska Lisa Murkowski, una che sa cantare fuori dal coro.

Parasite, la rivolta è un barbecue

La pioggia di premi Oscar su Parasite e gli unanimi consensi di critica hanno celebrato il film del coreano Bong Joon Ho anche per la sua capacità di raccontare la disuguaglianza di condizioni economiche che, ormai ne sono convinti quasi tutti, è una delle minacce più serie alla coesione delle nostre società occidentali (la Corea del Sud è orientale nella geografia, ma occidentale nel modello di sviluppo).

Questa scelta proprio di Parasite come narrazione condivisa della disuguaglianza – e non, per esempio, un qualunque film di Clint Eastwood degli ultimi dieci anni – dovrebbe sollevare qualche perplessità: siamo sicuri che usare Parasite come paradigma del dibattito sulle disparità di redditi e ricchezza sia un passo avanti verso la soluzione del problema? O indica invece che siamo ormai rassegnati?

Chi ha guardato con attenzione il film capisce la domanda, perché la storia della famiglia Kim inizia come un tentativo di riscatto e si conclude (spoiler) con l’accettazione delle divisioni tra classi, con la rassegnazione all’impossibilità del cambiamento se non attraverso le illusorie promesse della meritocrazia. Parasite racconta la disuguaglianza, ma porta ad accettare lo status quo, dopo l’effimera ebbrezza della rivolta.

La Corea del Sud è un Paese con problemi simili a quelli delle democrazie occidentali. I vecchi invecchiano e i figli latitano: ha le famiglie più piccole del mondo, le donne fanno 1,1 figli in media (erano 5,6 negli anni Cinquanta, prima che il Paese iniziasse il suo fenomenale sviluppo industriale). La generazione a cui appartengono i giovani Kim di Parasite è quella dei “Sampo” che hanno rinunciato – o dovuto rinunciare – a tre cose: relazioni sentimentali, figli e matrimonio.

La disuguaglianza tra i redditi è alta: l’indice di Gini (tra 0 e 1 dove 1 è la massima concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi) è 0,35, più elevato che in Italia (0,33) ma più basso che negli Stati Uniti (0,39). Il record negativo, tra i Paesi industrializzati dell’Ocse, la Corea ce l’ha soltanto per la disparità di redditi tra uomini e donne, con queste ultime che hanno redditi più bassi del 61 per cento perché l’occupazione femminile è molto bassa. I problemi sono quindi più o meno quelli che hanno alimentato la rivolta populista in Occidente. Ma quali sono le reazioni che racconta Bo nel suo Parasite?

La prima parte del film sviluppa una storia all’apparenza molto hollywoodiana: Kim Ki-woo, giovane lasciato ai margini dal sistema ma brillante, ha la sua occasione di riscatto sociale: dare ripetizioni alla rampolla della famiglia Park, Da-hye. Tutto sembra destinato al lieto fine, lui si dimostra brillante, lei si innamora. Ma il film si chiama Parasite, non Paradise, e invece che puntare al paradiso i membri della famiglia Kim si scoprono parassiti (a spese di una famiglia Park a sua volta parassitaria della società, come tutti i ricchi visti da chi ricco non è). Il ciclo ripetuto in tanti film hollywoodiani – tentativo di riscatto, caduta, prova di volontà, ascesa meritata – si interrompe.

Il regista Bong Joon Ho riempie di concretezza anche l’espressione da talk show “guerra tra poveri”: in fondo alla scala sociale le gerarchie non sono meno spietate che in cima, i Kim consumano la loro ascesa parassitaria a spese di una lunga lista di altri semi-poveri, tutti i domestici di casa Park, allontanati con ogni bassezza (e, nella seconda parte del film, senza alcuna pietà).

Il momento di svolta, quando si perde ogni speranza di sovvertimento dell’ordine, è la notte del campeggio: la famiglia Park parte per un weekend fuori città e i Kim, finalmente padroni della casa in cui si sono infiltrati come domestici, si godono una serata di irresponsabili bagordi, tra alcol, saccheggi al frigorifero e jacuzzi piene di schiuma. L’abilità del regista è portare lo spettatore a dare un giudizio morale di censura agli stessi comportamenti che, quando attuati dai veri ricchi, i Park, non sollevano obiezioni: siamo tutti pronti a giustificare le disuguaglianze a cui siamo assuefatti.

Da quel comprensibile quanto irresponsabile cedimento dei Kim a godersi una ricchezza che non appartiene a loro inizia la degenerazione senza rimedio. I Kim vengono respinti in un abisso dove li attende la punizione per aver trascurato i propri doveri da poveri: lo scantinato in cui abitano davvero non si sarebbe allagato se fossero rimasti lì durante la notte di pioggia torrenziale.

Le scene di violenza finali alla Quentin Tarantino sono lo sfogo di una rabbia compressa, che il regista però non esalta, anzi. La scelta di trasformare in farsa quella che sembra essere la rivolta proletaria, con i coltelli da barbecue lanciati contro l’ingiustizia, toglie ogni epica al momento, ne rivela la sua vacuità. Infilzare allo spiedo un ricco può dare una qualche soddisfazione, ma non cambia l’ordine delle cose: al posto della famiglia Park, nella villa che domina tutta Seul, arriveranno altri ricchi, uguali a quelli di prima.

Ma è nel finale (limitiamo gli spoiler) che Bong Joon Ho si distacca da ogni narrazione contemporanea sulla disuguaglianza, da ogni comizio di Bernie Sanders e da ogni sguardo commosso dei nostalgici di Pasolini: Kim Ki-taek, il padre della famiglia Kim, accetta che l’unico modo che ha di sopravvivere è scomparire, rifugiarsi così in basso nella società che nessuno lo andrà a cercare, tutti si dimenticheranno perfino della sua esistenza. Tutti tranne il figlio Kim-woo che, sopravvissuto ai traumatici eventi del film (innescati peraltro da lui stesso), dopo un congruo periodo di coma, sembra rinsavito, ha abbandonato ogni tentazione di scardinare il sistema. Ora è una persona normale e si ripromette di salvare il padre diventando ricco, così ricco da poter comprare la casa che un tempo era dei Park e quindi dimostrare – al padre, al mondo, a tutti gli altri ricchi – che lui che l’ha fatta, che il riscatto è compiuto. Gli ultimi minuti di Parasite sembrano l’inizio di ogni film hollywoodiano di caduta e riscatto.

Lo spettatore, come il regista, sa perfettamente che questa è la più illusoria delle promesse. Che l’equilibrio di società diseguali e spietate come quella degli Stati Uniti (e della Corea del Sud) si regge proprio sul fatto che chi sta in fondo alla scala sociale accetta e legittima le regole di un gioco che non può vincere. Ma, anche se sempre sconfitto, il povero rimane convinto che un giorno, anche lui, potrà salire in cima e guardare dall’alto in basso i suoi omologhi, a godersi i benefici di quelle disparità che ora condanna. È un’illusione, non succederà mai. Anche perché nel mondo di Parasite e di Bong Joon Ho non c’è lo Stato, non c’è neanche la comunità, nessun aiuto esterno per ridurre una disuguaglianza che, tra l’inizio e la fine del film, diventa ancora più drammatica.

Mail Box

 

“Rosso Istria” è sulle foibe, non sulla tragedia della Shoah

Rosso Istria è un film sull’orrore delle foibe, sulla figura di Norma Cassetto, universitaria istriana, violentata bestialmente, condannata a morte dai partigiani di Tito nel 1943 all’età di 23 anni. Non è un film sui mali del fascismo. Non è un film sui pregi e difetti dei comunisti italiani. Non è un film sulla Shoah. Ma la lettera del signor Sandro Mandracchia, da voi pubblicata in queste pagine, pare una malcelata giustificazione dell’agire dei partigiani iugoslavi.

Dario Bertuccelli

 

I talk corteggiano Santori & C. qualsiasi sciocchezza dicano

Ho visto l’intervista del capo Sardina Mattia Santori a Piazza pulita. Per l’ennesima volta, oltre all’avversione per Salvini, si rimarca la distanza siderale con l’unico movimento (M5S) che negli ultimi anni ha cercato, spesso riuscendoci, di portare avanti manovre di giustizia sociale a vantaggio delle fasce di popolazione più disagiate e bastonate dal riformismo à la page. Il solo fatto che i talk non facciano che incensare Santori, qualsiasi sciocchezza dica o faccia, è irritante. Ora tutti fanno a gara per avere ospiti le Sardine, e il loro Mattia, con interviste che nei toni e nel merito ricordano quelle che mago Zurlì faceva a Topo Gigo.

Paolo Sanna

 

Ecco perché sono diventato anch’io un “pesciolino”

Sono una Sardina perché non voglio prendere posizione su problemi di cui non ho una panoramica completa, ma non voglio nemmeno essere imbrogliato dal politicante di turno. Sono una sardina perché ho le idee chiare su principi come la correttezza dell’informazione, la giustizia sociale, i diritti umani, l’onestà e la solidarietà verso i miei simili. Sono una sardina perché non credo che chi fa parte di un’organizzazione debba per forza schierarsi dalla parte dei suoi membri anche quando sono farabutti per salvare il buon nome dell’organizzazione, anzi credo che il buon nome dell’organizzazione possa solo migliorare se questa cerca la verità e la trasparenza al suo interno. Se le Sardine prenderanno posizione sui problemi politici operativi diventeranno un partito e si sgonfieranno come già molti prima di loro, se si limiteranno a fare i censori del malcostume politico, rivendicando solo i princìpi sacrosanti della convivenza civile, potranno vivere in eterno ed essere gli anticorpi delle infezioni del sistema.

Armando Armando

 

Dal treno a Renzi, siamo un Paese in cui tutto deraglia

Sta emergendo sempre più limpidamente che contro questo disgraziato Paese operano forze potenti e distruttive: non bastano le quattro mafie principali, che ormai esondano anche dalle loro regioni. La decisione della Consulta di far scarcerare persone già condannate in via definitiva per la non retroattività, mentre in altri casi la retroattività valeva eccome, fa il paio con la decisione del Tribunale dei ministri di mandare a processo Salvini per il caso Gregoretti quando già il primo Pg propose di archiviarlo. Tutto ormai deraglia, dal treno Av (per uno scambio montato con fili invertiti) al governo, in cui un farlocco come Renzi finge di stare dentro mentre in realtà fa opposizione sulla prescrizione; dalle Sardine “benettoniane e prodiane” alla scoperta di essere spiati da 50 anni dai servizi americani e tedeschi. Quanto ancora potrà reggere questo Paese fra delocalizzazioni, migliaia di esuberi Unicredit, Conad ed Electrolux, virus cinesi e immigrazione selvaggia?

Enrico Costantini

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo pubblicato mercoledì su Il Fatto Quotidiano dal titolo “Air Italy e le altre. L’Aereo Italiano ha smesso di volare” il Gruppo Uvet precisa che: non vi sono procedimenti penali in corso a carico dell’attuale amministrazione di Blue Panorama Airlines. A carico del Gruppo non vi è e non né vi è mai stata alcuna procedura fallimentare. L’eventuale ipotesi di bancarotta fraudolenta non è da ascriversi al gruppo Uvet ma alla precedente gestione. Blue Panorama Airlines spa è stata acquistata direttamente dal Mise (Ministero dello sviluppo economico) senza soluzione di continuità con la passata gestione e i dati preconsuntivi forniti dalla compagnia aerea di bandiera italiana giovedì 13 febbraio indicano che il fatturato del 2019 si attesta a 324 milioni di Euro, in crescita dell’11 per cento rispetto al 2018 con un Ebitda positivo di 4,5 mln di euro. Inoltre, sempre nel 2019, sono stati effettuati diversi investimenti annunciando anche l’entrata in flotta di tre Airbus A330 e il personale dipendente è aumentato a 624 persone nel 2019 contro le 521 del 2018.

Salvatore Sacco, Marketing & Communication Manager

 

In relazione all’articolo di ieri di Marco Palombi devo precisare che il dottor Patuelli è Presidente della Cassa di Ravenna (e non di Ferrara) e che non percepisce il vitalizio da ex deputato.

Chiara Mancini, Direttore Relazioni Istituzionali e media dell’ABI

 

Ho confuso, e non so come sia stato possibile, CariRavenna con CariFerrara: errore di cui mi scuso, anche se cambia poco il senso del pezzo. Quanto al vitalizio, abbiamo scritto solo che l’ha maturato: non lo percepisce perché glielo vieta la legge sulle incompatibilità, non è una gentile concessione.

Ma. Pa.

Mussolini. Resta cittadino onorario di Salò: è uno sdoganamento degli orrori fascisti

 

Gentile redazione, ho sentito in radio che Mussolini resta “cittadino onorario” di Salò, nonostante la mozione presentata in consiglio comunale. La maggioranza di centrodestra e due consiglieri di area leghista si sono giustificati dicendo che la mozione era “anacronistica”. A me sembra invece che questi signori non abbiano senso né rispetto della storia.

Elena Fanetti

 

La decisione della maggioranza consiliare di Salò è un sintomo di un clima di acquiescenza se non di sdoganamento che si è creato nel Paese nei confronti del regime mussoliniano. Del quale si continua a dire che “fece però anche delle cose buone”. Si dimentica del tutto la fase squadristica della conquista del potere con l’uccisione mirata di alcuni leader dei diversi movimenti antifascisti: un sacerdote coraggioso, don Giovanni Minzoni, a bastonate come avvertimento ai suoi confratelli e anche all’Azione cattolica; due liberali fondamentali, Giovanni Amendola, anch’egli picchiato a sangue fino a morirne, come il più giovane Piero Gobetti, ideologo di punta dell’antifascismo, e naturalmente Giacomo Matteotti, rapito e probabilmente subito ucciso dalla squadraccia di Amerigo Dumini nel giugno 1924, eliminando così il più pericoloso, anche perché il più coraggioso, degli oppositori socialisti. Il Tribunale speciale del fascismo istituzionalizzò la repressione sistematica delle opposizioni con 5 mila persone condannate a pene varie, in carcere o al confino (e in carcere di rischiava di venire “sucidati” come toccò a Gastone Sozzi, segretario dei giovani comunisti nel carcere di Perugia) per complessivi 28 mila anni di segregazione. Senza contare le mille e mille intimidazioni personali. O le violenze immediate inferte a chi, per esempio, aveva osato votare No ai plebisciti che avevano schede trasparenti. Ci furono alcune condanne a morte eseguite contro chi, l’anarchico Michele Schirru, aveva soltanto manifestato l’intenzione di effettuare un attentato contro il duce. Uno degli atti più sconsiderati fu certamente la creazione della Repubblica sociale italiana con capitale a Salò, la quale innescò un’inevitabile guerra civile e una resistenza armata: le truppe tedesche e quelle della Rsi abbondarono in episodi di crudeltà, dalla tortura all’esposizione dei cadaveri appesi ai lampioni delle piazze in varie città. Sdoganando il regime mussoliniano si favorisce ancor più un clima di odio, di violenza verbale e non solo, di intolleranza per ogni diverso e di xenofobia e, finora, dal 1945 non c’era mai stato.

Vittorio Emiliani

Non basta la multa per risanare il servizio pubblico

“Perché (…) il centrosinistra non pose mano, con forza e chiarezza, al problema fondamentale delle ‘garanzie’ per la più grande impresa di comunicazione nazionale, salvaguardandola alla maniera della Bbc o della Télévision de France?”. (da Affondate la Rai di Vittorio Emiliani – Garzanti, 2002 – pag. 17)

Sembra quasi una disposizione testamentaria, ma in ogni caso meglio tardi che mai. La delibera con cui l’Autorità di garanzia sulle comunicazioni – già scaduta a giugno e ora in regime di “prorogatio” – in vista del rinnovo del suo collegio ha comminato una multa di un milione e mezzo di euro alla Rai per violazione dei principi d’indipendenza, imparzialità e pluralismo, è tanto tardiva quanto fondata e opportuna.

Forse sarebbe stato meglio che l’Agcom fosse intervenuta con maggiore tempestività e decisione, per impedire la reiterazione di una condotta prolungata e recidiva che ha privilegiato una parte politica, cioè il centrodestra trainato da Matteo Salvini, compromettendo così l’immagine e la legittimità del servizio pubblico radiotelevisivo. E tuttavia, bisogna dare atto all’Authority di aver finalmente sanzionato l’azienda guidata dal presidente sovranista Marcello Foa e dall’amministratore delegato Fabrizio Salini, corresponsabili di un abuso di Stato commesso ai danni dell’opinione pubblica e in particolare dell’attuale maggioranza parlamentare.

In questa operazione di “disinformatia” sistematica, documentata dai dati pubblicati e contestati dalla stessa Agcom, si sono distinti innanzitutto i telegiornali, a cominciare dal Tg2 di Gennaro Sangiuliano, ribattezzato “Tele-Salvini”. Ma anche alcune trasmissioni cosiddette politiche, più show che talk, come Porta a Porta di Bruno Vespa. È stata proprio la sua redazione a trasmettere, alla vigilia delle elezioni regionali in Emilia Romagna, un mega-spot propagandistico a favore di Salvini. Il conduttore che s’è trasformato in “artista”, per aggirare il tetto degli stipendi per i dipendenti pubblici, se n’è assunto pubblicamente la responsabilità. E allora, c’è da aspettarsi che una parte di questa multa gli venga addebitata “pro quota” invece di ricadere sul bilancio di Viale Mazzini e quindi sulla tasche dei cittadini che pagano il canone.

Non basta, però, una sanzione amministrativa per risolvere la crisi di un servizio pubblico allo sbando. Qui siamo di fronte ormai a una violazione per così dire strutturale dello stesso contratto di servizio che regola i rapporti fra lo Stato e la Rai. Una malagestione che utilizza le reti, i programmi, le frequenze pubbliche a fini di parte o di partito, in funzione di questo o quel leader politico.

Se alla delibera dell’Agcom non seguirà dunque una riforma radicale dell’azienda, quel milione e mezzo di multa andrà a fondo perduto. I tg continueranno ad alterare od occultare la vita politica, come stanno facendo anche in questi giorni ignorando il referendum del 29 marzo sul taglio dei parlamentari. E i conduttori, gli “artisti” e gli influencer radiotelevisivi continueranno a fare propaganda più o meno occulta piuttosto che informazione.

Sarà stato pure un successo l’ultimo Festival di Sanremo, sia per gli ascolti sia per la raccolta pubblicitaria, ma non può diventare l’alibi dietro cui nascondersi per invocare un’assoluzione generale per la tv di Stato. Lo scandalo di quei 634 dirigenti in trasferta è il sintomo rivelatore di un malcostume che non è compatibile con la missione e la credibilità del servizio pubblico. E in nome della trasparenza, sarebbe ora di scoperchiare una volta per tutte il pentolone maleodorante dei maxi-compensi, degli appalti esterni e degli agenti televisivi.

Torino, italia: per gli operai la vita è agra

Per due giorni, da giovedì a venerdì scorsi, a Torino, in piazza Castello, la piazza aulica della città (Palazzo Reale, Palazzo Madama, la Regione, il Teatro Regio), si è mostrata in pubblico la solitudine operaia. Una “48 ore contro la crisi” del settore metalmeccanico e dell’automobile – promossa da Fim, Fiom e Uilm – è diventata, come ha titolato l’edizione torinese di Repubblica, “il palcoscenico per la vita agra delle tute blu in cassa” (integrazione). Ricordandoci implicitamente quanto ci vorrebbero oggi scrittori come Luciano Bianciardi per narrare, appunto, la Vita agra delle operaie e degli operai. Invece i nostri romanzieri di adesso inseguono i “colibrì” e i politici replicano ogni giorno le futilità da oratorio dell’Alberto Sordi di Mamma mia che impressione!, o si fanno arrestare per corruzione o mafia.

Così, alle operaie e agli operai di Torino, e di tutta l’Italia, perché questa è Torino-Italia, non resta che occupare pochi metri quadrati di una piazza e raccontare, nella indifferenza generale, storie di cassintegrati, di fabbriche chiuse, di padroni che fanno spezzatini delle aziende, di famiglie monoreddito allo stremo. Narrano la loro solitudine, la solitudine del lavoro operaio, del lavoro frantumato, disprezzato, cancellato, da Torino al resto del Paese. Come racconta un lavoratore delle Presse della Fiat (Fca) Mirafiori: “Eravamo 3.000, ora solo 500. E non c’è nessuno a cui passare le nostre conoscenze e il testimone”.

Muore, nella solitudine, il lavoro operaio; muore una storia, se ne va un pezzo di Storia, si perde un patrimonio umano e politico, morale e culturale, e ciò che resiste per poco è solo sopravvivenza. Si “vive alla giornata”, dice quell’operaio delle Presse, “sperando di lavorare un giorno in più la settimana successiva”.

Va in scena alla giornata la solitudine operaia, in questa Torino-Italia, in questa Italia-Torino.

Come andava in scena, e si annullava, in solitudine, in La vita agra di Bianciardi, il tentativo del protagonista di vendicare i minatori morti nella tragedia di Ribolla. Oggi, poi, qui da noi, nella Torino-Italia, o Italia-Torino, non c’è nemmeno un epigono di Bianciardi, o di Ken Loach, per dire di quella solitudine operaia. Si fa la “guerra” mediatica, politicamente strumentale, sulle foibe, sul ricordo e sulla memoria, ma non c’è più memoria del lavoro, delle operaie e degli operai, di quella classe operaia che con gli scioperi del 1943 e 1944 contribuì alla fine del nazifascismo e, negli anni Sessanta-Settanta, a tante conquiste democratiche.

Per 48 ore, a Torino, si è visto un piccolo palcoscenico della vita agra delle tute blu. Lo si vede e lo si vedrà altrove, ma sempre per 48 ore.

Sardine, il principino delle banalità

Mattia Santori, dopo la foto ilare con Benetton, il flop a Scampia e le tortoiate prese da Sallusti e Senaldi (avessi detto Frazier), è tornato a spron battuto in tivù. Fa piacere. Lo ha fatto come ospite di Merlino e Formigli, puntando sulle one to one per non correre il rischio di qualche ospite impazzito che lo mettesse in difficoltà anche solo chiedendogli “Pizza o calzone?”.

In tivù, e non solo in tivù, Mattia ride sempre. Fa piacere pure questo, sebbene di tutta questa ilarità non se ne capisca granché il motivo. Nelle interviste lo trattano spesso con un mix di indulgenza e deferenza, e se la prima è naturale la seconda suona surreale, perché se Santori induce deferenza allora Cacciari va eletto seduta stante Imperatore delle Galassie. Santori dice che i grillini ce l’hanno con le Sardine perché “rappresentano quello che loro non sono più”, e ci prende il giusto. Sentenzia che “non bisogna vergognarsi di essere di sinistra”, e lo fa con la gravità definitiva di chi ha raccolto l’eredità morale di Bobbio. Fa battute da asilo nido, asserendo – in uno dei suoi frequenti crolli contenutistici – che “Salvini è un erotico tamarro e noi un erotico romantico” (eh?). Propone (parola grossa) idee da liceale che occupa la palestra per far colpo sulla compagna di classe in prima fila, tipo “un Erasmus tra nord e sud” (autentica urgenza del Paese: altro che Reddito di cittadinanza!). E arriva a rivelare che per incontrare Conte bisogna “far coincidere le nostre agende”, quasi che la sua Smemoranda avesse di colpo acquisito il peso granitico dei quaderni di Gramsci (che chiaramente Santori mai ha letto).

Siam sempre lì: le Sardine sono uno splendido movimento spontaneo (sì, spontaneo), eterogeneo e per questo impossibile da tramutare in partito. Strepitose come catalizzatrici democratiche di indignazione, al momento (legittimamente) afasiche nel complicato passaggio da protesta a proposta. Va bene tutto: non puoi chiedere la Luna a una Sardina. Solo che hanno scelto come frontman quello (forse) più fotogenico, ma (sicuramente) più respingente e meno efficace. Siano benedette le piazze che hanno riempito e riempiranno: lo siano un po’ meno le nenie laiche espettorate dal principino azzurro delle Sardine.

Santori passa il tempo a criticare tutto quello che non gli somiglia, e questo va benissimo, ma non si capisce a nome di chi parli: se di se stesso va bene, se di tutte le Sardine allora è un problema. Sì, perché il Santori bastona (per quel che può) leghisti, fascisti e grillini, che per lui più o meno pari sono. E poi Conte, colpevole di avere avallato quegli obbrobri dei due decreti Sicurezza (dei quali, va da sé, Santori conosce giusto i bignami pubblicati dall’Espresso). Il principino azzurro delle Sardine, con la sua voce vezzosamente in slow motion e l’aria di chi al ristorante ordina per ultimo per esser certo di distinguersi dalla massa, si dimentica però sempre di criticare con analoga nettezza colui che più di tutti sta facendo il gioco dell’odiato Salvini: ovvero Renzi. E perché mai non lo critica? Facile: perché Santori era (era?) renziano. Gli piaceva (piaceva?) il nulla ammantato di nulla del renzismo. Votò convintamente “sì” il 4 dicembre 2016. E ancora adesso, quando parla, somiglia più a un Calenda impreparato che non alla bravissima Elly Schlein (che vale 187 mila volte Santori).

Ecco, quasi-compagno Mattia, va bene tutto. Le banalità un tanto al chilo, l’entusiasmo credo sincero e persino quel buonismo posticcio da Benigni mai stato Cioni Mario. Va bene perfino la tua idea di “cambiamento”, così annacquata da risultare graditissima a quello stesso sistema che dici di voler – più o meno – scardinare. Però, di grazia, prima di rampognare gli altri dall’alto di un piedistallo immaginario, fai una bella cosa: scendi dal pero, esci dal favoloso mondo di Santorì e combatti anche chi sta consegnando il Paese a Salvini. Ovvero quel Matteo che votavi fino all’altroieri e che già sogna – spero invano – di cederti un giorno il posto da vicecapitano nella bad company chiamata “Italia Viva”.

Tra uno strale moscio e un’invettiva stitica, quasi-compagno Mattia, trova il tempo per criticare quel che eri e forse ancora sei. Dicci che su Renzi sei stato come minimo un bischero. Che hai sbagliato tutto. E che solo oggi hai compreso (se lo hai compreso) che in fondo tra lui e Salvini l’unica differenza è il cognome. Fallo, una volta per tutte. Solo a quel punto, forse, le tue intemerate disinnescate potranno sembrare veramente convincenti. Altrimenti, e perdonami la mezza grevità, resterai sempre l’ex rappresentante di Liceo che faceva il politicizzato per conquistare le fighe. In classe lo abbiamo avuto tutti, ed era proprio uguale a te.

Le notizie sparite dai giornaloni

La giornata, va detto, era di quelle difficili: troppi spunti, troppe notizie. E così meglio ignorarle tutte in blocco. I fratelli Paolo e Gianfelice Rocca, per dire, due tra gli imprenditori più ricchi d’Italia, vengono rinviati a giudizio a Milano per le presunte tangenti pagate a un dirigente della brasiliana Petrobras? La notizia viene derubricata a breve su tutti i giornali. Tutti eccetto il Corsera, che però evita di nominare i Rocca nei titoli. E così a giudizio ci va solo “la San Faustin”, cioè la holding di famiglia (e dire che i Rocca sono milanesissimi). Giovedì è stata però anche la giornata che ha visto la scarcerazione di 7 politici condannati per l’inchiesta Mafia Capitale, primo effetto della bocciatura da parte della Consulta dell’applicazione “retroattiva” della “spazzacorrotti”. Anche qui, notizia scomparsa dai titoli e relegata, ma solo in alcuni casi, a qualche riga nei pezzi (solo il Tempo gli ha dedicato un articolo). Ma le vette più alte si raggiungono sul Reddito di cittadinanza, il cui impatto sui consumi è stato riconosciuto dalla Commissione europea nelle sue stime per il 2020. L’impatto sulla pur debole crescita (Pil a +0,3%) è stimato in +0,1-0,2%. E non poteva essere altrimenti, visti i 5 miliardi spesi via sussidio anti-povertà. Risultato? Eccetto La Stampa di Torino, la notizia è scomparsa dai titoli (e, in molti casi, pure dai pezzi).

Il sindaco-sardina di liverpool

È proprio un periodaccio per Matteo Salvini. Non bastavano le Sardine italiane a guastargli la festa in diverse città, ora ci si mettono anche gli inglesi. Dalla Perfidissima Albione arriva infatti l’ultima sberla al fu ministro, ormai contestato pure nei posti in cui non decide di fare comizi. Tutto parte quando la Lega nel Mondo, organizzazione internazionale che raccoglie i simpatizzanti del Capitano, mette su un paio di eventi tra Londra e Liverpool inserendoli in agenda tra marzo e aprile, con tanto di pubblicazione su Facebook. Apriti cielo: la sola notizia che Salvini possa presenziare scatena il sindaco di Liverpool, che lo bolla come “un fascista” per nulla benvenuto in città, e soprattutto provoca la reazione di parecchie associazioni locali scandalizzate dal fatto di ricevere visita dal leghista. Nel giro di qualche ora Salvini smentisce, assicurando che quegli eventi saranno normalissime cene tra attivisti del partito che vivono nel Regno Unito, ma a cui mai aveva pensato di partecipare. Non solo: già che c’è, Salvini invita il sindaco a mangiare polenta e ossobuco a Milano. Il danno, però, è fatto. Giusto per sapere: come si dice Sardine in inglese?