La link campus ci tiene alla sua fama e non arretra. Era il luogo dove Luigi Di Maio, si dice, andava a scuola di potere. Ma poi, viste le frequentazioni trasversali di questo piccolo ateneo romano, qualcuno l’ha definito “l’università dei servizi segreti”. Un titolo meritato sul campo. L’ultimo ospite del rettore Vincenzo Scotti è stato ieri il leghista Raffaele Volpi, presidente del Copasir, che ha intrattenuto gli studenti con una relazione sui rapporti tra “Intelligence e Parlamento”. Prima del salviniano, a sfilare tra i vialetti e le aule di questo bel palazzo sull’Aurelia antica sono stati parecchi protagonisti della politica italiana, e dei suoi variegati intrecci con diplomazia e spy story. Per la Link Campus sono passati uomini di governo, come l’ex ministra alla Difesa Elisabetta Trenta e l’ex sottosegretario Angelo Tofalo (il grillino dalle mille gaffe che si fece pure una foto col mitra). E poi due pupille di Di Maio destinate alla carriera istituzionale, Paola Giannetakis (che i 5Stelle volevano ministra dell’Interno) ed Emanuela Del Re (viceministra agli Esteri). Da queste parti è transitato l’ineffabile prof. Joseph Mifsud, personaggio quasi letterario, assurdo protagonista del Russiagate. E a proposito di personaggi letterari, il crepuscolare baffino di Massimo D’Alema.
Luca e Matteo su Whatsapp. Il Vangelo si fa tecnologico
L’immagine scelta per il commento di ieri è quella di Fritz Schilgen, ultimo tedoforo delle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Il versetto è del Vangelo di Luca (10,1-9), un invito a portare la pace. Dopo la citazione di San Luca, c’è un commento delle sorelle Clarisse del convento di San Silvestro, frazione di Curtatone, una manciata di chilometri da Mantova: “È così che gli affamati si sfamano e i malati guariscono: ricevendo vicinanza, ascolto, accoglienza, comprensione, amore. Ed è così che portando queste cose, guariamo anche noi”.
Noi l’abbiamo letto online sul portale dell’Unità pastorale di Curtatone, ma se volete potete riceverlo sul vostro telefonino ogni mattina. Come?
Facciamo un passo indietro. Il monastero delle Sorelle Povere di Santa Chiara sorge accanto alla Casa del Sole, che per i mantovani è sinonimo di solidarietà e aiuto: è la struttura che dal 1966 si occupa dei minori con gravi disabilità motorie, cognitive, relazionali dai tre ai diciotto anni. Fondata da Vittorina Gementi, una formidabile maestra di campagna che negli anni Cinquanta aveva in prima persona toccato con mano le difficoltà dei bambini speciali, è da più di mezzo secolo un punto di riferimento per le famiglie con figli disabili. Una figura storica di educatrice (divenne anche assessore) a cui si deve anche di aver riportato, dopo due secoli, nella Diocesi di Mantova una comunità di clausura femminile. Il 15 novembre 1987 tre suore Clarisse della Federazione del Veneto-Emilia Romagna entrarono ufficialmente nella Diocesi di Mantova proprio a San Silvestro, presso il Centro Solidarietà della Casa del Sole. E oggi le loro consorelle, che continuano a vivere in clausura (sette in tutto, di cui due mantovane) hanno avuto l’idea di diffondere il Vangelo attraverso i servizi di messaggistica come Whatsapp: basta inviare una richiesta al numero 3714205633. “Ogni invio comprende una breve riflessione sul Vangelo del giorno, un’immagine con un riferimento simbolico che colpisce e un link al testo sacro per chi vuole approfondire — ha detto suor Giovanna Zangoli, madre superiora del monastero, 59 anni, di Rimini al Corriere –. Offriamo un piccolo contributo all’azione di evangelizzazione, una goccia nel mare, ma è un gesto importante”. Oltre al versetto del Vangelo scelto, c’è un’immagine simbolica, un commento scritto dalle sorelle e un link per approfondire il testo sacro. E alla fine un augurio di buona giornata. Il messaggio arriva come messaggio privato, non a un gruppo. Ed è questa la particolarità rispetto ai gruppi che si trovano sui servizi di messaggistica.
Andrea è un fedele che vive a Mantova e appena può, il sabato, va a seguire i Vespri nella chiesa del convento. “Le sorelle sono molto brave. C’è anche un parlatoio, dove attraverso la grata le sorelle comunicano con chi cerca una parola di conforto. Io ci vado poco purtroppo, perché non sempre ho l’auto a disposizione. Ma è veramente un luogo di straordinaria pace. Forse adesso con questa pubblicità i fedeli scopriranno il monastero”. E per chi fosse lontano, c’è sempre Whatsapp…
Il virus sbarca in Egitto. E l’Oms difende Pechino
Un primo caso del nuovo Coronavirus in Egitto rilancia l’allarme che l’epidemia si propaghi nel continente africano dove vivono milioni di cinesi, anche in Paesi in cui – a differenza dell’Egitto – non sono arrivati i kit dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per rilevare il virus. “Non è una buona notizia”, ha detto Walter Ricciardi, professore della Cattolica di Roma, rappresentante dell’Italia nel board dell’Oms, sottolineando i pericoli per un “continente debole dal punto di vista della sanità pubblica, della capacità diagnostica e della capacità di risposta”. E proprio l’Oms interviene a difesa di Pechino, attaccata dalla sua amministrazione di Donald Trump: “Il governo coopera con noi, invita gli esperti internazionali, condivide le sequenze del virus, si apre al mondo”, ha detto il capo del dipartimento di emergenza sanitaria dell’Oms Michael Ryan. “Trovo che tutto questo non si adatti ai commenti del signor Kudlow, ma tutti sono liberi di esprimere la propria opinione”, ha aggiunto, riferendosi al consigliere della Casa Bianca Larry Kudlow che aveva accusato la Cina di “mancanza di trasparenza” sui dati del contagio.
Due giorni fa la Cina ha modificato i criteri di registrazione, inserendo anche le persone che presentano i sintomi del virus (tosse, febbre) e la Tac polmonare “sospetta” in aggiunta a quelle in cui la presenza del Covid-19 è confermata dal test, col risultato di far impennare i numeri di 15 mila casi in appena 24 ore. Siamo a 64.460 contagi, di cui 5.090 rilevati ieri (oltre 4.800 nell’Hubei), previa eliminazione di 1.043 casi a seguito di una “verifica”; sono 1.384 i decessi e poco meno di tremila le guarigioni. Ma gli Usa non si fidano dei dati cinesi perché “alcuni di questi possono dipendere dal caos di un sistema sanitario in crisi”. Così ieri il ministro della sanità americano, Alex Azar: “Abbiamo offerto il nostro aiuto sin dal 6 gennaio scorso, ma siamo ancora in attesa dell’approvazione finale per inviare sul campo a studiare il virus i nostri esperti”. Un messaggio di solidarietà per Pechino è stato diffuso dall’ambasciatore italiano Luca Ferrari ai “cari amici cinesi”, sottolineando “lo straordinario sforzo del governo cinese per combattere il virus e contenere i contagi e l’impegno professionale e la dedizione di tutto il personale medico e dei volontari negli ospedali in particolare a Wuhan e nella provincia di Hubei”.
Nella città al centro dell’epidemia si piange la morte dei sei medici che avevano curato i malati nei primi giorni dell’emergenza, quando le precauzioni Ieri sera è decollato l’aereo militare italiano che è andato a prendere il 17enne Nicolò, il ragazzo di Grado (Gorizia) che Pechino non aveva fatto partire con gli altri 56 perché aveva la febbre. Non ha il virus. “Sono contento che siete tornati, voglio rientrare in Italia”, ha detto al viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, che non era riuscito a farlo partire con il primo viaggio ed è tornato a prenderlo. Stamattina atterra a Pratica di Mare (Roma).
La Groenlandia verde è solo uno spot di Erik il Rosso, bandito furbo
Un’altra bufala climatica sempreverde è quella della Groenlandia cioè “Terra verde” nel medioevo. Siccome oggi è quasi tutta ghiacciata, vuol dire che allora faceva più caldo, semplice, no? La storia è quella di Erik il Rosso, brigante vichingo espulso dall’Islanda nel 982 e approdato sulla costa sud-occidentale della Groenlandia, che in realtà dagli Inuit fu chiamata più o meno nello stesso periodo Kalaallit Nunaat, cioè “Terra degli uomini”, senza traccia di verde.
Ne La Saga di Erik il Rosso il mistero è presto svelato: tre anni dopo il suo arrivo, scontato l’esilio, volle favorire l’immigrazione di altri coloni in quella poco ospitale isola, e per questo utilizzò il nome accattivante di Terra verde, “perché gli uomini desidereranno maggiormente andarvi se la terra ha un bel nome”.
Nell’estate del 984 venticinque navi salparono verso i nuovi territori, ma ne arrivarono solo quattordici. Si trattò insomma di un’antica operazione pubblicitaria, peraltro nemmeno così tanto ingannevole, visto che è esplicitamente dichiarata e che comunque sulla costa sud-occidentale in estate, oggi come allora, prosperavano prati verdi. Purtroppo però la “verde Groenlandia” suscita nell’immaginario comune la visione di un’intera isola, di oltre due milioni di kmq, interamente ricoperta di foreste di mangrovie! Invece, da almeno un milione di anni, essa è in massima parte ricoperta di ghiacci spessi migliaia di metri. Il periodo in cui Erik il Rosso fondò le due colonie vichinghe, attorno al 986, attraversava una fase relativamente mite dell’Anomalia termica medievale, ma si è trattato di un fenomeno locale e comunque caratterizzato da temperature pressoché simili a quelle della seconda metà del Novecento, e per nulla più elevate di quelle attuali. D’altra parte è ancora lo stesso Erik che nella saga spiega come l’allora “verde” Groenlandia apparisse invece coperta di ghiacci: prese infatti il mare dalla località islandese di Snoefellsjokull (ghiacciaio della montagna di neve) e arrivò sulla costa orientale della grande e sconosciuta isola in una zona glaciale chiamata Blaserk. L’esploratore norvegese e premio Nobel per la Pace Fridtjof Nansen nel suo In Northern Mists (1911) analizza la desolata geografia di questo primo approdo di Erik il Rosso, e parla solo di giganteschi ghiacciai.
Da lì il nostro esule fece rotta verso capo Farewell, estremo meridionale della Groenlandia, stabilendo due insediamenti, l’Orientale e l’Occidentale che ebbero qualche secolo di prosperità agropastorale e poi si estinsero 450 anni più tardi in parte per il raffreddamento della Piccola Età Glaciale e soprattutto per l’incapacità della cultura vichinga ad adattarsi alle tradizioni alimentari Inuit, storia magistralmente narrata da Jared Diamond in Collasso (Einaudi, 2005). Dunque la troppo facile conclusione di una favolosa terra verde trasformatasi in pochi secoli in un inospitale deserto di ghiaccio è priva di fondamento, e le prove si trovano nelle carote glaciali estratte sull’inlandsis negli ultimi cinquant’anni. Bo Mollesoe Vinther, docente di Glaciologia all’Università di Copenaghen ne ha analizzate sei, pubblicando su Nature nel 2009 i risultati in Holocene thinning of the Greenland ice sheet, dove si nota che le temperature attuali sono le più elevate da almeno duemila anni mentre un periodo appena più mite c’è stato ma circa 6000 anni fa, causato da fattori astronomici. In Recent warming in Greenland in a long-term instrumental (1881–2012) climatic context a firma di Edward Hanna dell’Università di Sheffield, apparso su Environmental Research Letters , spicca un riscaldamento attuale molto forte, confermato dallo studio Recent Warming Reverses Long-Term Arctic Cooling“ di Darrell S. Kaufman della Northern Arizona University, uscito su Science sempre nel 2009. L’inedito riscaldamento della Groenlandia sta portando a ingenti perdite di massa glaciale: nell’articolo uscito su Nature nel dicembre 2019 Mass balance of the Greenland Ice Sheet from 1992 to 2018 si individuano perdite fino a circa 335 miliardi di tonnellate nel 2011. Dal 1992 al 2018 la fusione dell’inlandsis groenlandese ha contribuito all’innalzamento dei livelli marini per un centimetro. Ci sono oltre sette metri di livello marino stoccati nei ghiacci della Groenlandia, Dio non voglia che collassino per il caldo: Venezia, Rovigo, Rimini, se ne accorgerebbero subito! E questa è pure la miglior prova che ai tempi di Erik il Rosso la terra verde era sempre stata bianca di ghiacci, altrimenti con sette metri di mare in più, la geografia medievale sarebbe stata diversa.
Ubi, in dubbio onorabilità e indipendenza dei vertici
Ubi Banca sotto osservazione da parte di Consob (la commissione che controlla i mercati finanziari) e Bce (la Banca centrale europea che garantisce la vigilanza). Non per problemi di bilancio, ma di indipendenza e onorabilità dei suoi amministratori. Il terzo istituto di credito italiano ha i suoi vertici e padri fondatori sotto processo a Bergamo per illecita influenza sull’assemblea sociale e ostacolo agli organi di vigilanza. Procedimento lungo, minacciato dalla prescrizione (che per il primo reato scatterà già nel novembre prossimo). Ma dalle pieghe del processo sono intanto emersi altri problemi, su cui ora la Consob potrebbe accendere i riflettori.
Indipendenza. Tutte le banche e le società quotate devono avere nei loro organigrammi una quota di consiglieri indipendenti, non espressione del blocco uscito vincente dall’assemblea sociale. Ubi non li ha. Indipendenti dovrebbero certamente essere Letizia Bellini Cavalletti, che fa parte del consiglio d’amministrazione ed è presidente del comitato nomine, e Alessandro Masetti Zannini, presidente del comitato per il controllo di gestione. Ma entrambi – secondo quanto è emerso dal processo di Bergamo – hanno rapporti patrimoniali con Ubi, o li hanno società da loro amministrate. Dunque non hanno le caratteristiche di indipendenza necessarie per ricoprire i loro incarichi.
Appartengono del resto alla lista che ha sempre vinto le assemblee, espressione dei due gruppi fondatori di Ubi, quello bresciano di Giovanni Bazoli e quello bergamasco di Emilio Zanetti, accusate dalla Procura di Bergamo di aver sempre comandato nell’istituto imponendo nomine “a pettine” tra bergamaschi e bresciani, secondo patti segreti, non comunicati alle autorità di vigilanza, che escludevano chiunque altro volesse partecipare alla gestione.
Della “Lista Uno” sono espressione anche gli altri quattro consiglieri del comitato per il controllo di gestione, che dovrebbero essere indipendenti: Alberto Carrara, Monica Regazzi, Francesca Culasso, Simona Pezzolo De Rossi. Per questo Consob dovrebbe avere inviato lettere di contestazione a Ubi e ai due consiglieri Bellini Cavalletti e Masetti Zannini. Ma alla richiesta di conferma del Fatto quotidiano la Commissione ha opposto un “no comment”.
Onorabilità. Un secondo problema riguarda i requisiti di onorabilità. Chi non li ha, per aver ricevuto sanzioni o condanne, non dovrebbe accedere a ruoli di gestione nelle banche. Ma ai vertici di Ubi i dirigenti senza quei requisiti sono almeno quindici. A partire dal presidente, Letizia Brichetto Moratti, sanzionata dalla Corte dei conti per i “consulenti d’oro” di cui si era circondata quando era sindaco di Milano. Segue Victor Massiah, amministratore delegato e numero uno operativo della banca, che è imputato nel processo di Bergamo. Imputati (nello stesso processo) anche Marco Mandelli, Italo Folonari e Flavio Pizzini. Gli altri sanzionati nel cda sono Osvaldo Ranica (da Bankitalia, per “carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione del credito” quando era nel cda di Ubi Leasing), Alberto Carrara (da Bankitalia, per “carenze nei controlli” come membro del collegio sindacale di Banca 24/7), Simona Pezzolo De Rossi (da Bankitalia, per “posizioni ad andamento anomalo e previsioni di perdita non segnalate all’organo di vigilanza” quando era nel cda di Ubi Factor). Sanzionatissimi (sette su dieci) gli attuali componenti del consiglio di Ubi Factor, società controllata del gruppo: tre sanzioni per Gian Cesare Toffetti, due per Costantino Vitali e Giovanni Lupinacci, una per Piero Fenaroli Valotti e per due dei tre sindaci, Marco Confalonieri e Paolo Golia.
Toffetti è il recordman delle sanzioni: ne ha incassate due da Bankitalia, come consigliere di Ubi Factor (“posizioni ad andamento anomalo e previsioni di perdita non segnalate”) e di Banca 24/7 (“carenze nell’organizzazione e nei controlli interni”); e una dalla Consob, come consigliere di IwBank.
Nonostante questo, Toffetti continua ad accumulare cariche nel gruppo: è consigliere di Ubi Factor e IwBank e presidente di Prestitalia. Lupinacci resta presidente di Ubi Leasing e consigliere di Ubi Factor, malgrado le sanzioni ricevute da Bankitalia per le sue attività in quelle due società. Vitali è vicepresidente di Ubi Factor benché sia stato sanzionato da Bankitalia come consigliere di Ubi Leasing e di Centrobanca (“carenze nell’organizzazione e nei controlli interni”). Sui requisiti di onorabilità dovrebbe vegliare la Bce, che ha sostituito Bankitalia. La legge che recepisce i criteri europei ed esclude chi non ha i requisiti c’è, ma nessuno degli ultimi governi ha varato i decreti attuativi.
Divania, Profumo & C. a processo
La storia risale ormai a quasi dieci anni fa, ma, stando alle accuse, è indicativa di un certo modo delle banche di gestire i rapporti con le imprese. E i nomi coinvolti sono di primo piano. Il gup del Tribunale di Bari ieri ha rinviato a giudizio per concorso in bancarotta fraudolenta 16 ex manager e funzionari di Unicredit, tra i quali gli ex amministratori delegati Federico Ghizzoni (oggi in Rothschild Italia) e Alessandro Profumo (attualmente alla guida di Leonardo Finmeccanica), imputati per il crac della società barese Divania.
Sono accusati di aver ingannato il titolare dell’azienda, l’imprenditore Francesco Saverio Parisi, inducendolo a sottoscrivere 203 contratti derivati che in pochi anni, secondo l’accusa, avrebbero portato la società al dissesto e al successivo fallimento. Il processo inizierà il 5 maggio prossimo, e – viste le aggravanti contestate – non rischia la prescrizione prima del 2026.
Stando alle indagini, coordinate prima dall’ex pm di Bari Isabella Ginefra e poi dal pm Lanfranco Marazia, Unicredit dopo avere convinto Parisi a sottoscrivere i contratti derivati assicurandogli che si trattava di una operazione a costo zero, avrebbe invece distratto più di 183 milioni di euro dai conti correnti della società Divania, senza autorizzazione del correntista, per portare a temine l’operazione. Avrebbe così impedito “di fatto di svolgere la normale attività produttiva” e contribuito al fallimento, nel 2011, dell’azienda di divani con sede nella zona industriale di Bari-Modugno, chiusa da allora con il conseguente licenziamento degli oltre 400 lavoratori. Un crac stimato in 198 milioni di euro, da cui Parisi è risultato del tutto estraneo.
Il ruolo dell’allora amministratore delegato Profumo sarebbe stato – secondo l’accusa – quello di coordinatore delle “strategie” e della “commercializzazione alle imprese clienti dei contratti derivati”. Ghizzoni, invece, non avrebbe adempiuto alla “diffida di restituzione degli oltre 183 milioni di euro” inviata nell’aprile 2011, due mesi prima del fallimento, dal titolare di Divania, ormai in liquidazione, “contribuendo a determinare l’insolvenza della società”.
Gli altri dirigenti e funzionari della banca, alcuni tuttora in servizio, avrebbero materialmente predisposto e fatto sottoscrivere i contratti derivati. Quattro di loro rispondono anche di estorsione per aver fatto firmare all’imprenditore, “con la minaccia di far fallire” la società, un atto di transazione con il quale Parisi “veniva costretto a dichiarare di rinunciare a qualsiasi pretesa nei confronti della banca per qualsivoglia ragione o titolo connesso ai contratti derivati”.
Ieri Unicredit non ha voluto commentare la notizia. Nell’udienza preliminare Parisi si è costituito parte civile con un centinaio di ex dipendenti.
Processo ai capi del porto: “Abusi e falsi pro Grimaldi”
Adesso non c’è più spazio per le polemiche. Il ministro dei Trasporti del Pd, Paola De Micheli, dovrà prendere una decisione sui vertici dell’Autorità Portuale di Livorno: ieri il giudice per l’udienza preliminare Mario Profeta ha rinviato a giudizio il presidente Stefano Corsini, il Segretario Generale Massimo Provinciale con l’accusa di abuso d’ufficio e falso ideologico e l’ex dirigente dell’area Demanio dell’Autorità portuale (oggi ad Ancona) Matteo Paroli. Questi sono accusati dalla Procura di Livorno di aver favorito illegalmente il gruppo Grimaldi provocando danni milionari per l’erario e interferendo nella libera concorrenza.
Per questo a processo con loro andranno anche quattro imprenditori, uno referente al gruppo Grimaldi, il manager Costantino Baldassarra, l’amministratore della Seatrag Autostrade del Mare Massimiliano Ercoli e i cugini omonimi con grossi interessi nel porto di Livorno, Corrado Neri. Il giudice invece ha deciso di non dover procedere nei confronti dell’ex presidente dell’Authority, l’avvocato Giuliano Gallanti deceduto nel giugno scorso. La prima udienza è fissata per il 9 giugno prossimo. Il gup di Livorno Profeta ha quindi confermato l’ipotesi accusatoria della Procura che, grazie al lavoro della Guardia di Finanza guidata dal colonnello Gaetano Cutarelli, aveva scoperto una gestione illecita del porto per parecchi anni: secondo l’accusa, per ben 28 volte, le banchine sarebbero state affidate alla compagnia Grimaldi senza rispettare a pieno le necessarie procedure a evidenza pubblica. A febbraio scorso i vertici dell’Autorità portuale erano stati interdetti con il porto di Livorno che era rimasto decapitato per mesi, anche se il provvedimento di interdizione è stato annullato a luglio dalla Cassazione. Ieri però è arrivato il rinvio a giudizio.
Lodi, gli operai: “Non controllammo sul posto se lo scambio fosse chiuso”
La mattina del 6 febbraio, pochi minuti prima che il Frecciarossa Etr 9595 deragliasse a Ospedaletto Lodigiano provocando la morte dei due macchinisti, i 5 manutentori di Rfi non sono andati a vedere fisicamente se lo scambio sul quale avevano lavorato fosse effettivamente chiuso (non lo era), ma lo hanno manovrato da remoto. Questo il dato emerso dai verbali. Che però non implica una colpa definitiva. Lo vedremo.
Torniamo alle 3:35 del 6 febbraio. In quel momento il lavoro è terminato, ma non completato. L’attuatore nuovo (sorta di pistone che regola apertura e chiusura dello scambio) montato sul deviatoio cinque mostra delle incongruenze, così come spiegato dai lavoratori. Si decide di rimetterlo nella posizione normale ovvero nel corretto tracciato per il passaggio del treno, dopodiché lo si disalimenta. Prima di togliere l’elettricità si constata che la freccia accanto alle rotaie e che segnala l’apertura dello scambio non funziona. Si procede a una chiusura manuale che non riesce. Gli operai quindi si spostano in una delle palazzine di Livraga per operare da remoto. Viene dunque attivato il comando di chiusura che restituisce un segnale corretto. Il problema però sta nell’attuatore prodotto da Alstom ferroviaria. I cablaggi interni, infatti, risulteranno invertiti e quindi, secondo i pm, dare il comando di chiusura significa mantenerlo aperto. Su questo aspetto non vi è responsabilità degli operai. Il pezzo arriva sigillato e così viene montato. Lo scambio, dunque, resta in deviata ma ai terminali appare chiuso. Fatta questa operazione, i manutentori inviano il fonogramma a Bologna: scambio disalimentato e messo in posizione normale. Bologna fa un check e come i manutentori vede un segnale erroneo di corretta chiusura. Si procede così al via libera per il movimento in Full Supervision, è il cosiddetto superverde che fa procedere il treno a 300 chilometri orari. Quando il Frecciarossa arriva al chilometro 166,5 si trova davanti un binario in deviata che andrebbe percorso a 60 chilometri all’ora.
Gli operai, dunque, dopo aver attivato il comando di chiusura non sono andati sul posto per accertarsene visivamente. Se lo avessero fatto avrebbero visto lo scambio aperto. Questo il dato che però non implica una colpa diretta per i lavoratori. Al momento non è chiaro cosa prevedano le procedure di Rfi in casi del genere. I documenti sono allo studio del pm. Se le procedure non dovessero prevedere un check visivo, la posizione degli operai ne uscirebbe molto ridimensionata. Allo stato gli indagati sono sette. Oltre ai cinque lavoratori anche Rfi per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa e l’ad di Alstom ferroviaria Michele Viale. L’attuatore è stato costruito dal gruppo francese nella sua sede di Firenze. Il pezzo difettoso – è stato spiegato ieri dalla Procura –, faceva parte di un lotto preciso. Di questo, gli elementi già collocati sulla rete dell’alta velocità non mostrano difetti. Intanto da domani inizieranno i lavori di rimozione del treno.
Diabolik e quel summit per la pax mafiosa a Ostia
Una guerra di mafia a Ostia, scongiurata dalla mediazione di due boss. Da una parte Salvatore Casamonica, referente dell’omonima famiglia Sinti e oggi detenuto al 41-bis, dall’altra Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, l’ultrà della Lazio ucciso lo scorso 7 agosto al parco degli Acquedotti, con un colpo di pistola alla testa. Tra i due ambasciatori, c’è una giovane avvocatessa, Lucia Gargano, arrestata ieri con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, perché considerata dai pm Ilaria Calò, Mario Palazzi e Giovanni Musarò della Dda capitolina, “la trait d’union” tra i boss per raggiungere la pax mafiosa.
Sul litorale ostiense infuoca lo scontro tra gli Spada, la famiglia sinti del capo Carmine detto “Romoletto”, contiguo ai Casamonica e legata ai Fasciani, e il gruppo criminale di Marco Esposito, detto “Barboncino”, vicino ai Triassi poi arrestato nell’ottobre 2018. Siamo a fine 2017, gli Spada affrontano un momento di forte difficoltà: Romoletto è sottoposto all’obbligo di dimora, ma teme per la sua vita, avendo subito due attentati tra il 4 e l’8 novembre dell’anno precedente. A inizio novembre inoltre finisce in carcere Roberto Spada per la testata inflitta al giornalista Daniele Piervincenzi. Esposito, che nutre vecchi rancori verso i rivali, quindi decide di sferrare il suo attacco. Tra il 23 e 25 novembre, avvengono una serie di attentati: prima vengono gambizzati Alessandro Bruno e Alessio Ferreri, quest’ultimo fratello di Fabrizio e cognato di Ottavio Spada, già detenuto in carcere. Poi si spara alla porta di casa di Silvano Spada, nipote di “Romoletto”, e alla vetrina del bar “Music”, attività riconducibile al clan.
Così per evitare l’escalation di violenza, intervengono Casamonica e l’avvocatessa Gargano come ambasciatori degli Spada, e Diabolik a curare gli interessi di Esposito. La Gargano, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, avrebbe svolto il ruolo di trait d’union tra Romoletto e Diabolik, che non potevano incontrarsi perché “il primo era sottoposto a obbligo di dimora” a Roma, e “il secondo a sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Grottaferrata”, Comune dei Castelli romani.
E qui il 13 dicembre, al ristorante “Oliveto”, viene organizzato un summit per discutere dell’opportunità di stringere una pace. All’incontro partecipa anche un infiltrato della Guardia di Finanza, che registra tutto. “Ti ripeto Fabri’, sappi che io e te ci stiamo mettendo in mezzo per fare da garanti”, dice Casamonica a Piscitelli. “Sui miei ti metto tutte e due le mani sul fuoco”, risponde Diabolik. “Io la stessa cosa, capisci che ti voglio dire?”, replica Casamonica.
Al tavolo siede anche la Gargano, che Piscitelli presenta come un suo “avvocato di fiducia”. Una presenza “non casuale” per il gip, perché “in qualità di collaboratrice dell’avvocato Angelo Staniscia”, non coinvolto nell’inchiesta, già difensore di diversi affiliati degli Spada.
La Gargano, che “aveva la possibilità di incontrare” gli “esponenti del clan anche se detenuti”, si sarebbe impegnata “a comunicare a Ottavio” “un messaggio di Casamonica e Piscitelli”. “Gli stai a scrivere questa cosa? Senti, ma lui la legge lì, la strappa subito o se la porta? Stanno cose delicate – dice Diabolik all’avvocatessa –. Questa cosa di Ostia è importante! Io e Salvatore… parlasse con Ottavio, se volete noi possiamo mettere di tutto e fare la pace, però deve essere la pace”. Così il 21 dicembre la Gargano va a Rebibbia a “colloquio con Ottavio” per “comunicargli il messaggio”. La donna, però, è preoccupata delle inchieste in corso: “Mo’ riarresteranno pure il mio povero Diabolik – dice a un collega –. Secondo te mi arrestano? Sicuro mi indagano”.
Faccia d’angelo, la dura vita dell’ex padrino
Risse, un occhio nero, provvedimenti disciplinari, minacce e pure un memoriale sui suoi anni criminali che tira in ballo la ex che lo ha fatto finire nuovamente in cella. Oltre a una nuova collaborazione con i magistrati veneti. C’è di tutto nella nuova vita dietro le sbarre di Felice Maniero, in carcere dal 19 ottobre con l’accusa di aver maltrattato la compagna Marta Bisello, per 24 anni al suo fianco. Ieri mattina per l’ex boss del Brenta doveva iniziare il processo a Brescia, città dove viveva sotto falso nome e dove è stato arrestato. L’udienza è durata meno di un’ora. Maniero voleva essere presente ma il ministero della Giustizia prima e il giudice poi hanno detto no. “Questioni di sicurezza”. E sulla sua incolumità fisica Maniero ne sa qualcosa se è vero che da alcuni giorni ha un occhio nero. Regalo di un ergastolano nel carcere di Voghera. A oggi, l’ex boss pentito ha già subito 30 giorni di provvedimenti disciplinari per non aver rispettato le regole carcerarie. Dura la vita da (ex) collaboratore che ha pure incassato una denuncia da un altro carcerato. Il napoletano Gennaro Polizzy, condannato per aver ucciso a bastonate un amico, che in una querela ha raccontato di un piano che Maniero avrebbe avuto per ucciderlo. Il caso è sul tavolo del sostituto procuratore di Brescia, Lorena Ghibaudo, che ieri ha appesantito il carico di accuse nei confronti di “Faccia d’angelo”. “Ha minacciato la figlia, il figlio, una cognata e continuato a maltrattare psicologicamente la compagna”. Tutto durante cinque mesi di detenzione. La figlia 18enne, ascoltata a inizio febbraio, ha negato tutto: “Non mi ha minacciata, rimango neutrale tra i miei genitori”. Di diverso avviso il figlio maggiore: “Papà mi ha detto che se non avessi convinto Marta a ritirare la denuncia mi avrebbe fatto sequestrare l’appartamento”. Marta Bisiello non ha ritirato le accuse nei confronti del temuto ex. A inizio mese in una stanza della questura di Firenze ha detto: “Confermo tutto”. E ancora: “Mia figlia mi ha detto che Felice non vuole farsi altri 5 anni di carcere. Mi ha fatto dire a chi dovevo scrivere per ritirare tutto: alla Procura di Brescia, al tribunale, all’avvocato Luca Broli che lo difende. E se non lo avessi fatto sarebbe andato a parlare alla Dda di Venezia”. Ma di cosa? “Quando ero rinchiuso nel carcere di Novara gestivo dalla cella la mia organizzazione mafiosa tramite pizzini che lei portava dentro e fuori e che dava o a mia madre o ad altri componenti della banda del Brenta” ha scritto a mano su un foglio a quadretti ora agli atti dell’inchiesta. “Lei ha comprato appartamenti con i soldi assolutamente illeciti. E lo sapeva. Così come dell’evasione che avevo personalmente organizzato dal carcere di Padova”. Verità o vendetta? “È tutto dimostrabile”.