Vita sentimentale del boss“Mia moglie è una santa”

Giuseppe Graviano ha voluto festeggiare San Valentino raccontando agli italiani in diretta web su Radio Radicale la sua storia d’amore con la moglie. Il boss di Brancaccio, 56 anni, 26 trascorsi in galera nell’isolamento, condannato per le stragi del 1992 e del 1993, mai pentito, ha deciso di stravolgere tutte le regole. Dopo aver tirato in ballo B. come presunto (e non dimostrato) partner di affari del nonno nei primi anni 70, ieri ha deciso di parlare d’amore davanti alla Corte di Assise di Reggio Calabria che lo sta giudicando come mandante dell’uccisione nel gennaio ’94 di due carabinieri.

Il pm Giuseppe Lombardo gli ha chiesto lumi sul concepimento, mentre era in cella, del figlio nato nel 1997. Miracolo riuscito anche al fratello Filippo, seguendo i suoi consigli. Graviano nel 2016, nelle sue conversazioni con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, faceva capire che la moglie fosse entrata in cella nascosta nel carrello della biancheria. Graviano ieri ha negato: “Ci sono riuscito per i fatti miei perché chi mi doveva sorvegliare …”. Poi ha lasciato la frase in sospeso: “Come ci sono riuscito non lo racconterò mai a nessuno perché sono cose intime mie e di mia moglie”. Il pm voleva capire se ci fosse un accordo che passava sopra la testa degli agenti del carcere visto che in cella si vantava di avere “trovato la strada giusta”. Graviano non ha portato acqua al mulino di chi intravede nel concepimento in cella un pegno della Trattativa Stato-mafia. Non c’entra la politica: “Ho approfittato della distrazione del Gom”, cioè i gruppi speciali della Polizia penitenziaria.

Molto più prodigo di particolari è stato sul versante sentimentale. Il boss ha reso un omaggio pubblico al sacrificio della moglie, che lo ha sposato e reso padre, non facendo felici i suoi, nonostante la sua carcerazione nel 1994. “Quando ricevo le ordinanze di arresto per i processi Lima e per l’omicidio di Libero Grassi, eravamo in barca sul lago con mia moglie e io dissi: ‘Bibiana, fammi la gentilezza, vatti a fare la tua vita. Lei più volte mi disse no, no, no. Quello che mi interessa è che un giorno ci sposiamo. So che non mi tradirai mai però devi giurare che mi darai un figlio”.

Il racconto era già stato fatto, con toni più lirici da Graviano al compagno di cella Adinolfi nel 2016: “Questa cosa non l’ho raccontata mai a nessuno, mi è successo al momento dell’arresto. Io ho una moglie che è una Santa. Ogni volta che tentavo di lasciarla mi succedeva qualcosa. Eravamo a Sirmione nel ’93. Avevo una villa sul lago. Lei aveva i capelli lunghi, belli… eravamo sulla barca e la guidava lei. Stavo appoggiato al vetro di questo motoscafo tipo Riva, è stato un momento molto romantico. Io ero coricato e i suoi capelli mi sbattevano sulla faccia (…) lei aveva 25 anni e le ho detto: lasciami abbiamo passato dieci anni insieme belli, perché ti devi violentare, cercati una famiglia, dimenticati di me”. A questo punto, commosso e compiaciuto, il boss ricordava: “Lo sai che mia risposto? Noi due possiamo andare a vivere anche sotto terra basta che ci sposiamo e mi dai un figlio. Non ti chiederò più niente”. Il 27 gennaio 1994 è il giorno dell’arresto: “Arrivano persone a Milano, quelli che mi hanno fatto arrestare … il giocatore del pallone … D’Agostino … suo padre, sua madre … porta tutte cose”. Compresa una lettera della famiglia di Bibiana. “Mia moglie si mette a piangere, aveva le lacrime agli occhi”. Il boss replica duro: “Gli ho detto: ‘Bibiana domani te ne vai … però non mi cercare più … è passato un’ora e mi hanno arrestato. Io non me lo immaginavo mai al mondo. (…) ero circondato da una copertura favolosa”. Lei finge di ubbidire e invece: “Ha preso l’aereo ed è andata a vivere con mia madre dicendo: ‘questa è casa mia’”. Il boss prosegue: “per farla sfiancare mi scriveva e io non le rispondevo”. Rifiuta persino di incontrarla nei colloqui. Finché la mamma gli ordina: “Giuseppe scrivigli che se no questa fa qualche sciocchezza, a lei va bene così, dice che nella sua vita c’è un solo uomo. Sei tu”. “Ci ho pensato e le ho scritto: ‘Va bene prepara i documenti che ci sposiamo’. Ci siamo sposati e allora le ho detto: “Ti ricordi quella promessa? Preparati”. Poi ne parla con il fratello Filippo e nascono i due cugini. Come? “Cose intime”. Una cosa sola conta per il boss: “Ho mantenuto l’impegno preso con mia moglie sul lago”.

La versione di Graviano: “B. tradì anche Dell’Utri”

Dice e non dice, ripete il nome di Silvio Berlusconi, e alla fine cita anche il grande convitato di pietra di questa storia: Marcello Dell’Utri. “Berlusconi ha tradito anche Dell’Utri, ha danneggiato anche il signor Dell’Utri”, sostiene Giuseppe Graviano. A cosa si riferisce il boss che custodisce il segreto delle stragi? Quando e perché il leader di Forza Italia avrebbe tradito il suo storico braccio destro? “Ha fatto leggi che hanno danneggiato anche lui e tutti i detenuti al 41 bis”, ha dichiarato il boss di Brancaccio, che per la terza udienza ha parlato al processo ’Ndrangheta stragista dove, assieme Rocco Filippone, l’uomo di fiducia della cosca Piromalli, è imputato per l’omicidio di due carabinieri.

Una ricostruzione confusa e poco credibile quella del boss di Cosa Nostra, visto che l’ex senatore di Forza Italia non è mai stato detenuto in regime di 41-bis: che intende dire quindi Graviano? Già prima di parlare davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria, il boss (difeso dall’avvocato Giuseppe Aloisio) ha dimostrato di nutrire risentimento per Berlusconi. E non solo durante le intercettazioni in carcere col compagno d’aria Umberto Adinolfi. “Berlusconi e Alfano hanno fatto delle infamità alla legge 41-bis, i politici non capiscono niente, sono i giornalisti che decidono cosa fare sul carcere duro”, diceva il boss durante un colloquio telefonico con i familiari nel penitenziario di Terni il 10 dicembre 2018. La relazione di servizio di quell’incontro è stata depositata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che ha contestato a Graviano quella frase: “Berlusconi e Alfano hanno fatto infamità sul 41-bis”. Fare “infamità”, viene da “infame”, che in siciliano vuol dire non rispettare i patti. È questo che intende dire Graviano? Si aspettava un trattamento carcerario più morbido? Incalzato dal pm, il boss smentisce quello che sa essere un passaggio cruciale dell’ipotesi accusatoria: “Io non ho fatto né trattative né patti. Ho avanzato le mie lamentele per il carcere nei confronti di tutti i politici”. A sentire il padrino “alcuni politici più garantisti, a loro dire, hanno fatto leggi ingiuste, vergognose. Tutto questo perché? Per non farmi uscire dal carcere perché sono rimasto io solo che sono a conoscenza di questa situazione, perché mio cugino è morto”. Di che situazione parla il mafioso? Dei soldi che il nonno avrebbe investito a Milano, come ha sostenuto una settimana fa? O è l’ennesimo messaggio di una deposizione fiume? “Io non sono uno che manda messaggi, anche se mi mettono sottosopra, ma non dirò niente” ha assicurato, mentre il pm gli ha fatto notare come, poco prima, lo stesso Graviano avesse confermato l’intenzione di mandare un messaggio a B. nel 2016, tramite il compagno d’ora d’aria Adinolfi. “Ma per i soldi, mica per altro. Per riscattare gli impegni con mio nonno”, ha risposto il boss.

Molto meno loquace quando è stato chiamato a chiarire sui figli che lui e suo fratello Filippo hanno concepito da detenuti: nelle intercettazioni sembra confidare di aver incontrato la moglie in carcere. Oggi ha smentito: “Non racconterò mai a nessuno come ho fatto, ho approfittato della distrazione degli agenti del Gom”. Quindi ha lanciato l’ennesimo, inquietante, messaggio: “Porterò altra documentazione su via D’Amelio, porterò a tante malefatte che ancora sono nascoste”. La versione di Graviano continua.

Salario minimo, “tutti soddisfatti”. Ma si discute di cambiare la soglia

Se accordo ci sarà si consumerà sul valore della soglia minima del salario orario lordo. La storica proposta di legge del M5S, a firma di Nunzia Catalfo, prevedeva 9 euro che al Pd e a Confindustria appaiono eccessivi. Oggi Nunzia Catalfo è la ministra del Lavoro e quindi può dare le carte della riforma e infatti ieri la riunione di maggioranza su “sicurezza del lavoro e salario minimo” si è tenuta nel suo ministero.

Un accordo definitivo non c’è stato, “diciamo che si è avviato un confronto fisiologico” dicono al ministero. Ma quello che si capisce è che la fatidica soglia dei 9 euro potrebbe essere ripensata o quantomeno discussa. Sicuramente non eliminata.

“Non è il caso di togliere una soglia – spiega infatti la ministra Catalfo – meglio invece stabilire una soglia dalla quale partire e quale sia il parametro di riferimento. Questo può essere un punto di approfondimento insieme a un altro punto chiave che è il rafforzamento della contrattazione nazionale alla quale la proposta è da sempre legata”.

La proposta del M5S, infatti, è sempre stata duplice: garantire il salario minimo a partire dai Contratti di categoria e/o territoriali e poi indicare una soglia di base, i 9 euro lordi l’ora, per coloro che non sono tutelati dal contratto. Per Confindustria questa soluzione ha sempre rappresentato un inaccettabile aumento del costo del lavoro mentre i sindacati hanno accusato la proposta di voler scavalcare il loro monopolio nella fissazione del salario. Il Pd, invece, sostiene che, fuori dai contratti di lavoro, il salario minimo orario andrebbe fissato da una Commissione paritetica da istituire presso il Cnel e formata da 10 rappresentanti dei lavoratori e 10 delle imprese. Un altro carrozzone burocratico di dubbia utilità.

Ieri il partito di Nicola Zingaretti si è detto molto soddisfatto: “Ci sono notevoli passi avanti. Abbiamo rivisto completamente le cose e stiamo arrivando al traguardo”, ha commentato il sottosegretario al Lavoro, Francesca Puglisi. Segno, quindi, di un possibile avanzamento. Italia Viva, invece, che ha partecipato alla riunione, ha sostenuto che “non è opportuno stabilire una cifra fissa di salario minimo legale perché potremmo avere un livellamento al ribasso della contrattazione”. Sono lontani i tempi in cui, la prima firma del senatore Laus, il partito di Renzi prevedeva che il valore orario non potesse “essere inferiore a 9 euro al netto dei contributi previdenziali e assistenziali”.

Reddito: in 40mila ora lavorano, il 65% a termine

“Ho iniziato a prendere il Reddito di cittadinanza ad aprile. A ottobre ho trovato un posto come magazziniere, ma dopo un mese e mezzo non mi hanno rinnovato il contratto. Talmente breve che l’assegno non è stato sospeso né ridotto”. La storia di Sergio (nome di fantasia) è comune tra quelli che beneficiano della misura contro la povertà.

In 40 mila hanno trovato un lavoro in questi mesi, ha detto ieri l’Anpal, ma per il 65% si tratta di impieghi a termine. Buona parte, quindi, è già tornata o comunque rischia a breve di tornare nella disoccupazione. Molti, in quella platea, anche lavorando non sono usciti dall’indigenza che li ha spinti a chiedere il sostegno e non hanno smesso di riceverlo. Tra l’altro, visti i dati generali, è verosimile che tra quei 40 mila vi siano molti part time, quindi con paghe basse.

Oggi in 2,5 milioni percepiscono il Reddito di cittadinanza; 908 mila sono obbligati a cercare un lavoro. Finora i centri per l’impiego ne hanno convocati 530 mila e il 25% non si è presentato al primo appuntamento. La risposta in termini di assunzioni – non tutte sono mediate dai centri per l’impiego – è lenta. Quasi 26 mila hanno trovato un posto a termine, 7.800 a tempo indeterminato e 1.500 hanno un contratto di apprendistato. Numeri agitati dai detrattori che parlano di flop, ma in realtà mostrano quanto il reddito si stia rivelando utile. Prendiamo l’esempio di Sergio: avendo lavorato per soli 50 giorni, non avrebbe diritto a sussidi. Il fatto di poter continuare a prendere il reddito (lo avrebbe perso solo guadagnando oltre 6 mila euro annui), lo aiuta economicamente e, obbligandolo a proseguire la ricerca e a formarsi, evita di spingerlo nell’inattività. La misura nata un anno fa sta fungendo da ammortizzatore universale per chi prima non aveva diritto alla Naspi. Inoltre, anche se 40 mila posti sono pochi, sembra che dacché – era settembre – è partita la fase 2 e sono state messe in moto le politiche attive, le assunzioni stiano aumentando: tra i posti creati 18 mila riguardano persone che avevano chiesto il reddito almeno sei mesi prima, cioè si tratta di contratti firmati dopo settembre.

Qualcosa si muove anche in casa Anpal, l’agenzia per le politiche attive del lavoro. Giovedì Cgil, Cisl e Uil hanno trovato l’accordo per la stabilizzazione dei precari. Ancora non del tutto soddisfatte le Clap, sindacato che l’agenzia guidata da Mimmo Parisi non riconosce. Il testo non riporta numeri, ma la ministra Nunzia Catalfo ha parlato di 500 assunzioni (gli operatori a termine oggi sono 654). Lunedì l’intesa sarà votata dai lavoratori.

Air Italy licenzia tutti, crisi nera in Sardegna

Licenziamento collettivo per 1450 dipendenti Air Italy. Oltre 550 sono lavoratori sardi concentrati nell’area di Olbia dove la compagnia aerea ha il suo quartier generale. Che le cose non andassero bene era noto da tempo. I sindacati avevano infatti già allertato il ministero dello Sviluppo economico e quello dei Trasporti prima della messa in liquidazione di martedì scorso, ma nessuno si aspettava che la situazione precipitasse così rapidamente provocando un danno socio-economico rilevante in una regione con un tasso di disoccupazione (circa il 15%) superiore al doppio della media europea. “L’intera categoria e la stessa confederazione a tutti i livelli stanno chiedendo il blocco della procedura di liquidazione in bonis e la contestuale operatività della compagnia” ha spiegato il segretario della Filt Cgil regionale Arnaldo Boeddu. Anche perché in Sardegna senza i voli di Air Italy non è più garantita la continuità territoriale, come ha ricordato il coordinatore locale dei Cobas, Agostino Putzu.

Di qui la reazione immediata della Regione Sardegna, che sta valutando la possibilità di entrare nella partita attraverso la Sfirs, braccio finanziario dell’ente guidato dal governatore Christian Solinas. L’idea è che la società pubblica possa partecipare ad una ricapitalizzazione diventando azionista della compagnia aerea. Accanto a Solinas potrebbe peraltro scendere in campo anche il governatore lombardo, Attilio Fontana. Non a caso il ministro dei TTrasporti, Paola De Micheli, ha convocato per giovedì a Roma non solo i sindacati, ma anche le Regioni Sardegna e Lombardia. Inoltre ha anche chiesto ai liquidatori, Maurizio Lagro e l’ex commissario Alitalia Enrico Laghi, di cambiare strategia perché “la liquidazione danneggia pesantemente i lavoratori e la possibilità di garantire il trasporto aereo sulla Sardegna”.

In attesa dell’incontro di giovedì, il governatore Solinas dovrebbe vedere i due azionisti della compagnia: Alisarda, proprietaria del 51% di Air Italy, e Qatar Airways, che ha invece il 49. Secondo indiscrezioni, la compagnia di bandiera di Doha sarebbe disponibile a un aumento di capitale, di parere diverso sarebbe invece la società del principe Aga Khan. Se così fosse, il miliardario arabo direbbe addio per sempre ad un’avventura durata 57 anni: fu proprio lui, infatti, a credere nelle enormi potenzialità della Sardegna e a creare una compagnia aerea, Alisarda, a servizio del sistema turistico dell’isola. L’idea ha funzionato fino agli anni 90 quando la liberalizzazione del mercato ha reso più difficile la vita alla compagnia che nel 1991 prese il nome di Meridiana. L’avvento delle low cost complicò ulteriormente lo scenario. Successivamente arrivò la stagione delle acquisizioni con le operazioni Eurofly (2006) e Air Italy (2011).

La concorrenza selvaggia, però, ha portato a ribassi nei prezzi insostenibili per la dimensione della società. Così sono iniziate le perdite (230 milioni è la stima 2019 su un fatturato di circa 330 milioni) fino al triste epilogo della liquidazione in bonis e dei licenziamenti collettivi. Senza escludere, come hanno precisato i liquidatori, la vendita di rami d’azienda con cui verrebbe definitivamente smantellata la società e con lei anche il sogno della compagnia della Costa Smeralda.

Per i sindacati la vicenda di Air Italy è una storia inquietante che potrebbe essere la “prova generale” per il dossier, ben più spinoso, dell’Alitalia su cui sono puntati gli occhi della comunità finanziaria internazionale. Così, le sigle del trasporto aereo Filt Cgil, Fit Cisl, Uil trasporti e Ugl hanno proclamato per martedì 25 febbraio uno sciopero nazionale di 24 ore per tutto il personale del trasporto aereo. A Olbia intanto gli abitanti si sono dati appuntamento domenica alle 11:30 per un flash mob di solidarietà con i dipendenti di Air Italy nell’aeroporto “Costa Smeralda”. Vestiti di scuro, quasi a lutto, con un trolley o uno zaino in spalla, per ricordare “L’isola che c’è!”.

Il Piano per il Sud (un altro) “scippato” di 840 miliardi

L’ultimo era stato quello di Matteo Renzi nel 2015, ieri in Calabria Giuseppe Conte ha presentato quello del suo governo: è l’ennesimo grande Piano per il Sud, questo con l’orizzonte al 2030 si candida a spendere nelle otto regioni meridionali 123 miliardi. Ovviamente il piano è benvenuto e contiene molte ottime cose, alcune raccolte dalle proposte dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile: d’altra parte il ministro del Sud e della Coesione territoriale, Giuseppe Provenzano, è l’ex vicepresidente dello Svimez e conosce bene la canzone dei bisogni del Mezzogiorno. Di Piani per il Sud, però, è piena la storia d’Italia fin dagli anni 70 dell’Ottocento, allorché il termine “questione meridionale” fece la sua apparizione nel dibattito pubblico per non lasciarlo mai più.

I progetti di Conte e soci, come detto, sono ambiziosi non solo in termini di soldi (33 miliardi per lavori infrastrutturali in accordo con Anas e Rfi da far partire entro il 2021), ma anche di riorganizzazione della macchina pubblica che deve accompagnare il nuovo sviluppo del Sud: dal contrasto alla dispersione scolastica al tempo pieno (e simbolicamente ieri c’era anche la ministra Lucia Azzolina), dall’assunzione di 10 mila giovani con competenze di alto livello nella Pubblica amministrazione a una macchina burocratica più vicina ai territori che aiuti a progettare e realizzare interventi non a pioggia, dalla cosiddetta “alleanza dei talenti” con chi il Mezzogiorno l’ha lasciato alla transizione ecologica (a partire da Taranto, ovviamente), dagli aiuti alle imprese per l’accesso al credito agli incentivi per la loro crescita dimensionale.

Si vedrà al 2030 se le buone intenzioni saranno buone pratiche, però va sottolineata una novità rilevante che potrà essere verificata a breve: il governo s’impegna entro il 31 marzo a varare il Dpcm che renda operativa la regola per cui il 34% delle spese in conto capitale – percentuale che corrisponde a quella dei residenti nel Meridione rispetto al totale nazionale – vada appunto al Sud. Se questa previsione, varata ai tempi del governo Gentiloni e mai applicata, diventasse realtà sarebbe quasi una rivoluzione: di soldi “nuovi” infatti nel piano Conte non ce ne sono, garantisce la formuletta “senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica”, ma rivedere le percentuali di spesa porterebbe al Mezzogiorno nel triennio 2020-2022 oltre cinque miliardi e mezzo di investimenti in più, da aggiungere ai due miliardi stanziati nella legge di Bilancio. Se non altro, un’inversione di tendenza.

E qui forse va chiarita una cosa rispetto alla vulgata secondo cui il Sud succhia spesa pubblica al resto del Paese: non è così, semmai il contrario. Il Mezzogiorno va risarcito della disattenzione (dolosa) dei governi nazionali e, non bastassero i doveri di solidarietà che sarebbero ovvi in una comunità, proprio per tutelare l’interesse dell’intero Paese.

Un po’ di numeri: se gli investimenti pubblici in Italia nel decennio 2008-2018 si sono ridotti di circa un terzo in media, al Sud siamo oltre il 50% (da 21 a 10,3 miliardi); si sono ridotti pure gli abitanti visto che dal 2002 al 2017 due milioni di residenti hanno lasciato le otto regioni meridionali (la metà avevano meno di 35 anni, circa 240 mila erano laureati).

Quel che deve far riflettere, senza per questo negare problemi antichi e colpe “autoctone”, è la disparità di trattamento tra Centro-Nord e Sud. I numeri che seguono sono contenuti nel “Rapporto 2020” che Eurispes ha presentato qualche giorno fa. Prendendo un indicatore oggettivo come la spesa pubblica pro capite si scopre che nel Centro-Nord lo Stato tra il 2000 e il 2017 ha speso in media 3.482 euro a cittadino in più rispetto al Sud (sono, ad esempio, 21.750 euro in Lombardia e 9.761 in Calabria, fanalino di coda): applicando la “regola del 34%” – che comunque non varrà per la spesa corrente – scopriremmo che in quel lasso di tempo il Mezzogiorno ha perso 46,7 miliardi di euro l’anno, 840 miliardi in 18 anni.

Perché è un dato che dovrebbe preoccupare tutti, anche la ricca Lombardia? Perché il Mezzogiorno è ancora il maggior mercato di sbocco di beni e servizi prodotti al Nord. Com’è noto, e come ribadisce Eurispes citando uno studio di Banca d’Italia e Unicredit del 2010, il modello economico italiano è rimasto uguale dall’Unità in poi: il Nord produce e il Sud compra. Il deficit commerciale delle regioni meridionali rispetto al Nord è tutto in abbondante doppia cifra e viceversa (anche se ora le cifre sono probabilmente diverse, nel 2010 la Lombardia “esportava” al Sud il 21,3% della sua produzione). Quel pezzo di trasferimenti da Roma al Mezzogiorno che finisce così spesso sulle pagine dei giornali nella categoria “sprechi” – che oggi torna di moda con l’autonomia “secessionista” chiesta da Luca Zaia, Attilio Fontana e, in parte, Stefano Bonaccini – serve, insomma, anche a far girare l’economia delle aree più ricche del Paese. Lo stesso governo nel suo Piano stima un effetto “moltiplicatore” di 40 centesimi al Nord per ogni euro di investimenti fatto al Sud.

E già che si parla di autonomia sarà il caso di ricordare a quali paradossi conduce il criterio dei “fabbisogni standard” sponsorizzato dai patrioti ex padani. Con questo stratagemma, per dire, a Reggio Emilia sono riconosciuti 139 milioni di euro, a Reggio Calabria 104 nonostante abbia 9 mila abitanti in più.

Cirielli (FdI): “Bandire i partiti comunisti, compreso PaP”

Bando a chi si richiama apertamente all’ideologia comunista. Ma pure a chi in qualche modo non ne rinnega “la storia criminale”, come “Potere al Popolo”. La proposta arriva da Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia che ha presentato una proposta di legge costituzionale per equiparare il divieto di riorganizzazione del partito fascista alla “costituzione, sotto qualsiasi forma, di partiti che esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica si propongano l’instaurazione di regimi totalitari di ideologia comunista”.

Così posta, la questione sembra astratta, perché difficilmente un giudice potrebbe attribuire a Marco Rizzo o Maurizio Acerbo – leader del Partito Comunista e di Rifondazione – ambizioni da colpo di Stato sul modello dei carri armati a Praga. Ma è lo stesso Cirielli a confermare che la proposta è ispirata anche dai partiti esistenti: “Questo lo dovrebbe decidere la magistratura, ma per esempio potrebbe riferirsi a Potere al Popolo”. D’altra parte Cirielli si può far forza di una risoluzione votata a settembre dal Parlamento europeo che ha equiparato nazismo, fascismo e comunismo. Ora tutto viene di conseguenza: “Mi piacerebbe estendere anche ai partiti comunisti la legge Scelba”. La proposta di Cirielli è zeppa di riferimenti al passato. Anche in Italia, scrive il deputato, il “Pci apparentemente propugnava ideali pacificisti e democratici, ma conteneva al proprio interno organizzazioni che costituivano una minaccia per la democrazia”. Non potendo intervenire sul passato, Cirielli prova a fermare i comunisti di oggi.

E ora Casellati “rinnega” la crociata contro i tagli. Ma Forza Italia si ribella

Alla fine ha ceduto e chissà quanto le sarà costato. Visto che a nominare tutti i componenti della commissione Contenziosa è stata proprio lei. Ma ora, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, sembra prendere le distanze dalla sua creatura sollecitando il passo indietro dei componenti dell’organismo, così come chiesto dal Movimento 5 Stelle dopo le rivelazioni del Fatto sulla delibera già preconfezionata per ripristinare i vitalizi con tutti i loro privilegi sforbiciati appena un anno fa a Palazzo Madama e a Montecitorio.

“L’astensione annunciata dal presidente Caliendo è stato un atto di responsabilità teso a sgombrare il campo da qualsiasi possibile strumentalizzazione politica e a salvaguardare la credibilità dell’istituzione Senato. E a questo punto credo che, dopo le dimissioni dei supplenti, una riflessione da parte di tutti gli altri componenti della commissione Contenziosa contribuirebbe a spazzare via qualsiasi dubbio sulla sua terzietà”, ha affermato Sua presidenza Casellati in un’intervista al Messaggero, in continuità con il suo interventismo degli ultimi giorni. Teso a limitare il danno dopo le critiche rivolte al suo operato. E già, perché insieme a questo invito al “rompete le righe”, si appura adesso, retroscena inedito, che la prima frana del sistema pro-vitalizi – l’astensione dal giudizio sui ricorsi degli ex senatori annunciato in aula dal presidente della commissione Contenziosa Giacomo Caliendo – non è stata propriamente un gesto spontaneo dell’esponente forzista. Ma il frutto di una robusta sollecitazione, un autentico pressing della stessa presidente del Senato e del suo entourage. Una ritirata ingloriosa seconda solo a quella del capo di gabinetto della stessa Casellati, Francesco Nitto Palma che, dopo aver anche lui fatto ricorso per riavere, in quanto ex senatore, il vitalizio tutto intero, era stato costretto, sempre per ragioni di opportunità, a ritirare l’istanza nel tentativo di allontanare anche da sé l’ombra del conflitto di interessi, non fosse altro per l’antica e consolidata amicizia con l’ex magistrato Cesare Martellino. Sorprendentemente nominato da Casellati quale componente laico della commissione Contenziosa destinata a calare la mannaia sul ricalcolo su base contributiva degli assegni che così generosamente la Casta si era concessa.

Verso l’azzeramento dell’organo dunque dopo l’esternazione della presidente? O solo un tentativo di spuntare le unghie alla protesta di piazza organizzata oggi a Roma dal Movimento 5 Stelle contro il ripristino dei vitalizi?

“Vai a capire quello cosa hanno in testa a Palazzo visto che prestigio e ruolo delle istituzioni, quando si parla di interessi della casta sembrano passare in secondo piano. Certamente non è stata scritta una bella pagina parlamentare: il colpo di mano per azzerare il taglio a uno dei privilegi più odiosi dei politici resterà scolpito come uno sfregio all’immagine del Senato”, spiega il senatore pentastellato Primo Di Nicola. Vedremo nei prossimi giorni.

Quel che è certo, come il Fatto è in grado di anticipare, è che martedì sulla annunciata astensione di Caliendo si pronuncerà Luigi Vitali, presidente del collegio di appello, organo di secondo grado del sistema di “giustizia” interna del Senato (autodichia). Il quale dovrà stabilire le “gravi ragioni di convenienza” che giustificherebbero l’astensione dell’attuale presidente della commissione Contenziosa. Oppure che Caliendo può restare in sella e a quel punto decidere sui vitalizi. Infischiandosene di tutte le ombre che ormai incombono sull’operato della sua commissione minata dal conflitto di interessi.

Una brutta gatta da pelare per il povero Vitali, che ne avrebbe fatto volentieri a meno. Se i vertici di Palazzo Madama non avessero infilato il Senato nel pasticciaccio brutto dei vitalizi.

“Non dateci per morti. La nostra non è solo una festa anti-Casta”

Giancarlo Cancelleri, viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, oggi sarà in piazza in difesa del taglio dei vitalizi. Una bandiera del Movimento Cinque Stelle.

Non è solo una bandiera, ma una legge voluta dagli elettori: sui vitalizi abbiamo ricevuto un mandato specifico. Al contrario di chi vorrebbe tornare indietro con una fronda.

Tra tagli e vitalizi, pare che abbiate una missione: punire i parlamentari. Perché ce l’avete con le istituzioni?

Al contrario, vogliamo permettere ai cittadini di guardare alle istituzioni con fiducia. I miei genitori hanno lavorato per 40 anni per avere la pensione. Intanto in Parlamento c’era gente che si è presentata una volta in cinque anni e ha percepito un ricco assegno. Riparare questa ingiustizia diminuisce la diffidenza verso le istituzioni.

A giudicare da elezioni e sondaggi, le battaglie anti-Casta non servono. Forse i vostri elettori si aspettano altro?

Da sole non bastano, ma noi non abbiamo fatto solo quello. Reddito, Quota 100, investimenti… un esempio: nel 2020 il 52% degli investimenti di Anas saranno nel Sud Italia, non era mai successo.

Insisto: il consenso è diminuito. Perché?

Abbiamo commesso errori, non solo comunicativi. Abbiamo fatto talmente tanto in due anni che è come se ci fossimo sentiti svuotati. Ma ora ci stiamo mettendo in discussione. Voglio dirlo a tutti quelli che recitano il de profundis del Movimento: mi dispiace, non succederà. Gli Stati generali di marzo ci aiuteranno a mettere a fuoco gli obiettivi. A partire da due battaglie identitarie sulle quali non stiamo indietreggiando: prescrizione e concessioni autostradali.

Ecco, la prescrizione: vale la pena far cadere il governo per questa battaglia? Faccio l’avvocato di Renzi, lui dice: parliamo d’altro, cantieri, crescita, lavoro.

Il problema è che di prescrizione parla solo lui. Una legge peraltro già approvata, entrata in vigore dal primo gennaio. Abbiamo mediato, trovando un accordo totale sul lodo Conte bis con Pd e LeU. Tutti tranne Renzi. Vale la pena sacrificare il governo? Chiedetelo a lui. Parla come fosse un campione di serie A, ma mi pare che ormai abbia numeri da campionati minori.

Un’altra maggioranza senza Renzi è possibile? Magari pescando qua e là parlamentari “responsabili”?

Ho letto le dichiarazioni di Conte e mi pare abbia detto che non è alla ricerca di niente. Vediamo cosa succederà. Spero che si inizi a parlare delle cose da fare.

Sui responsabili però non mi ha risposto.

È una questione di cui, in caso, si occuperà il capo politico.

Tornando alla manifestazione di oggi, a chi spetta l’intervento finale? A Crimi, Taverna o Di Maio?

Onestamente non lo so. Tutti e tre parleranno dal palco: uno è il capo politico, l’altra è l’organizzatrice dell’evento e Luigi, per me, rimane il leader. Ma sarà soprattutto la festa dei nostri attivisti. Non ci aspettavamo tante adesioni, solo dalla Sicilia partono 12 autobus.

Prima citava gli Stati generali. Come cambiera il Movimento?

Io e Stefano Buffagni stiamo lavorando alla proposta di un politburo, un gruppo di sei dirigenti da affiancare al capo politico alla guida del M5S.

Una segreteria, in pratica.

Diciamo politburo, ma non ci affascinano i nomi. Il principio è distribuire le responsabilità: le pressioni su un singolo leader possono diventare insostenibili.

Di Maio tornerà in corsa per il ruolo di capo politico?

Non so se ne abbia voglia. Negli ultimi giorni l’ho visto molto più rilassato e concentrato nel ruolo delicato di ministro degli Esteri. Valuterà lui. Io sono convinto che uscirà fuori un Movimento con nuovi volti e nuove energie.

Non è il caso di anticipare la data degli Stati generali? Il governo non ha bisogno di un Movimento stabile?

Parliamo di 15 giorni di differenza: la data balla tra il fine settimana precedente al 29 marzo e quello successivo. Non credo siano due settimane a cambiare le prospettive.

Cosa farete alle Regionali? È il momento di un’alleanza organica col Pd?

Sarò banale, ma il Movimento è nato post-ideologico e deve continuare a esserlo. Abbiamo deciso di sposare le idee, non gli schieramenti. Le nostre battaglie sono coincise a volte con la destra, altre con la sinistra. Dobbiamo restare visceralmente alternativi ai blocchi politici tradizionali.

Vitalizi, oggi M5S in piazza: sul palco c’è anche Di Maio

L’occasione è quella di tenere il punto su una bandiera storica, riconciliandosi in parte con quella base perduta e che ha percepito il Movimento come lontano dai suoi attivisti.

Oggi i 5Stelle tornano in piazza – l’appuntamento è in Santi Apostoli a Roma – e rispolverano la battaglia sui vitalizi, una delle più identitarie, per la quale l’anno scorso avevano festeggiato, ma che adesso richiede un nuovo impegno per scongiurare che tutto torni come prima, viste le centinaia di ricorsi degli ex parlamentari. In piazza ci saranno tutti i big, al netto della rinuncia di Roberto Fico – pure la Camera dovrà esprimersi sul ricorso, dunque la protesta del presidente sarebbe inopportuna – e dell’assenza di Virginia Raggi per impegni istituzionali. Ci sarà il nuovo capo politico Vito Crimi, certo, che ieri ha ricordato che “la manifestazione non ha nulla a che vedere con il governo” e che chiuderà gli interventi dal palco, ma anche Paola Taverna, che si è fatta promotrice della piazza.

E poi ci sarà Luigi Di Maio, l’ex capo che per la prima volta dopo il passo indietro di un mese fa avrà occasione di parlare in pubblico di temi nazionali. Con loro anche i ministri in quota 5 Stelle e alcuni referenti regionali del nuovo corso del Movimento – da poco organizzato in facilitatori responsabili del dialogo coi territori –, oltre ai rappresentanti del gurppo Facebook di attivisti da cui è nata l’idea della manifestazione.

Mitigata qualche polemica sulla scaletta, il programma della giornata prevede soltanto interventi sul tema vitalizi: “La nostra battaglia sta andando avanti – ha detto ieri Paola Taverna a Sono le Venti –, abbiamo visto una certa resistenza da parte della casta e dobbiamo ribadire i nostri temi col sostegno della piazza”.

E in effetti i 5 Stelle sono ottimisti anche sulla partecipazione, perché a Roma dovrebbero arrivare tra le 4 e le 5 mila persone. Niente di oceanico, ma abbastanza per riempire la piazza – già più grande di San Silvestro, inizialmente scelto come ritrovo della manifestazione – e restituire un po’ di compattezza in vista degli Stati generali in programma ad aprile.