“Io, segregata in casa: ma il mio ex salvato da un ricorso fermo 2 anni”

Un ricorso dimenticato nei cassetti della cancelleria della Corte d’appello per quasi due anni. E un uomo accusato di violazione di domicilio, danneggiamento e atti persecutori nei confronti della ex moglie e delle figlie minorenni che si salva grazie alla prescrizione. È l’epilogo di sette anni di processo che Maria (nome di fantasia), ha dovuto affrontare dopo la separazione. Ancora oggi preferisce non parlare in prima persona, ma per ricostruire la sua storia basta leggere le tre sentenze del processo contro il suo ex.

Tutto comincia nel 2010 quando un giudice stabilisce che la casa di proprietà del marito deve essere assegnata a lei e alle figlie minorenni. A novembre di quell’anno Maria aspetta le chiavi, ma quando alle otto di sera si presenta davanti all’appartamento capisce che le cose si stanno mettendo male: quel giorno trova l’ex marito a cena con i genitori e i pacchi ancora da fare. “Ricordo le lacrime, la delusione, quando con le tartarughe e le valigie, le cose che c’eravamo portate quel 12 novembre, siamo dovute andare via”, è la dichiarazione resa in sede dibattimentale della donna, che non riesce ad entrare in casa nè quel giorno nè nei mesi successivi.

Solo nell’aprile del 2011 “cinque mesi dopo la scadenza stabilita in via giudiziaria – ricostruiscono i giudici di primo grado – era riuscita a rientrare nell’abitazione in assenza del marito”. A quel punto Maria cambia la serratura ma l’ex torna a casa e prova ad entrare. “Me lo ritrovai nel giardino – racconta – (…). Aveva divelto la rete del giardino, aveva dato una spallata alla finestra della veranda e non è riuscito ad entrare dentro casa” “perchè c’era un’inferriata di ferro chiusa”. L’uomo però, stando a quanto riferito ai giudici dalla donna, non si arrende: “Si arrampicava su questa inferriata e ha preso il bastone che apre la tenda e ha tentato anche di spaccare un vetro sempre nel tentativo di metterci paura”. A questo punto l’ex non riuscendo ad entrare in casa, decide di rimanere in veranda per otto giorni “senza allontanarsi se non supportato dalla madre che ogni tanto gli dava il cambio”.

Così la vita di Maria e delle figlie cambia: “Eravamo completamente segregate, quindi con le serrande abbassate altrimenti avrebbe visto quello che facevamo in casa”. Come ricostruito dai giudici di primo grado, anche alcuni testimoni confermano quella “presenza dell’imputato nel giardino di casa, presenza trasformatasi in una sorta di assedio alla stessa”. Alla fine intervengono i carabinieri, ma Maria continua a vivere nella paura con l’ex che nel frattempo si era trasferito nelle vicinanze.

La storia finisce in tribunale e l’uomo nel 2015 viene condannato in primo grado a un anno e tre mesi di reclusione, pena sospesa. Due anni dopo, i giudici della Corte d’appello confermano la pena. Maria è convinta che di lì a poco il processo contro l’ex si sarebbe chiuso in Cassazione. Ma le sorti si ribaltano. E a favore dell’ex marito che intanto aveva presentato due ricorsi. Il primo arriva a sentenza a luglio 2018, con la quinta sezione penale della Cassazione che lo dichiara inammissibile. In realtà però era già stato depositato un secondo ricorso, presentato da un altro difensore dell’ex di Maria, che resta fermo in Corte d’appello per 20 mesi. La cancelleria infatti lo invia in Cassazione solo a marzo 2019. Un “errore materiale”. E così nel giugno dello stesso anno la Suprema Corte è costretta a revocare la sentenza del luglio 2018. Un pasticcio. Il caso deve essere trattato di nuovo: si ricomincia ma ormai è trascorso troppo tempo.

“Ci siamo ritrovati davanti a una situazione paradossale – spiega l’avvocato Veronica Arciero, che ha seguito in questi anni la donna –. La Cassazione ha emesso una sentenza per rigettare un primo ricorso dell’imputato. Ma vi era un secondo ricorso che giaceva in appello. Alla fine i giudici non hanno potuto far altro che constatare la prescrizione del reato. Sette anni di processo, sette anni di paure. Per che cosa?”. Eppure quel secondo ricorso che giaceva in Corte d’appello la Arciero l’ha cercato per mesi. “Sono andata personalmente – spiega –. Ho iniziato a cercarlo quando l’avvocato dell’imputato me ne ha parlato”. Il risultato è un nulla di fatto: nel novembre scorso la Cassazione stabilisce che “non tutti i motivi di ricorso” dell’ex marito “sono inammissibili, ma per lo più infondati”. Così “non potendosi pervenire al proscioglimento dell’imputato nel merito degli addebiti (…) deve rivelarsi che al momento attuale (…) è maturato il termine massimo di prescrizione, pari a 7 anni e 6 mesi, venuto a scadenza dopo la sentenza di appello”.

La storia di Maria è quella di tante altre donne. Con il codice rosso, il ddl che dispone le misure per tutelare le vittime di violenza domestica e di genere, approvato a luglio 2019, si sono stabilite pene più severe ma si è agito anche sul fattore “tempo” per velocizzare l’avvio delle indagini. Eppure, come afferma l’avvocato Teresa Manente dell’associazione “Differenza Donna” la strada è lunga. “Il problema – spiega – è che ancora oggi non viene applicato l’articolo 132 bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale che prevede che i processi relativi ai reati di violenza di genere (come atti persecutori, maltrattamenti) debbano avere priorità. A oggi la prescrizione interviene dopo molti anni, ma non serve allungare i tempi di estinzione del reato se non si applicano le leggi che tutelano le donne nell’immediatezza e prevengono il femminicidio”.

“I reati prescritti?. Sconfitta per la comunità”

“La prescrizione è una sconfitta non solo per la vittima, ma per tutta la collettività”. A intervenire non è un magistrato o un pericoloso “giustizialista”, ma l’avvocato penalista milanese Sara Turchetti, docente presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali dell’Università di Milano e iscritta alle Camere Penali. Turchetti è avvocato dal 2000 e negli ultimi anni ha difeso imputati in cause che sono diventate casi nazionali come, da ultimo, quello relativo ai dipendenti dell’Ikea di Corsico accusati di truffa (il pm una settimana fa ha chiesto l’archiviazione).

Avvocato Turchetti, che giudizio dà della legge Bonafede sulla prescrizione?

È una legge che allontana l’ipotesi della prescrizione rispetto al diritto previgente e in questo senso il giudizio è positivo perché può porre rimedio a una delle patologie di cui soffre la giustizia penale: tutte le volte che un processo viene iniziato e un reato si prescrive è una sconfitta non solo per la vittima, ma per l’aspettativa di giustizia della collettività. Nello stesso tempo, vedo due debolezze: sarebbe stato opportuno verificare prima gli effetti della legge Orlando e contemporaneamente intervenire sull’eccessiva durata del processo.

Si poteva osare di più fermando la prescrizione dopo il rinvio a giudizio e facendola decorrere da quando il reato viene scoperto?

Sì, si poteva certamente prevedere che la prescrizione si interrompesse con l’avvio del processo penale (come in Spagna e negli Stati Uniti), anche se gli interventi sulla prescrizione non possono essere l’unica soluzione per le patologie della giustizia penale.

Il blocco della prescrizione è un segnale da dare a tutti quei cittadini che, a causa di questa tagliola, spesso restano senza giustizia?

Certamente sì, con la riforma Bonafede esiti come quelli di cui vi siete occupati voi come la morte di Martina Rossi e la Moby Prince verrebbero scongiurati.

Quali saranno gli effetti positivi della legge Bonafede?

L’impossibilità di puntare alla prescrizione del reato può costituire un incentivo per la scelta di riti alternativi, come il giudizio abbreviato o il patteggiamento, come evidenziano anche i professori Gian Luigi Gatta e Glauco Giostra.

Molti avvocati e difensori del “garantismo” gridano alla barbarie. Che ne pensa?

Mi limito a osservare che tali soluzioni, ritenute barbare, sono adottate in Paesi esempio di civiltà giuridica.

Ci sono anche interessi economici nella contrarietà delle Camere Penali?

Di certo la disciplina previgente della prescrizione aumentava le possibilità di proscioglimento e quindi il successo per la difesa.

Quali modifiche per migliorare il processo penale?

Ci vogliono più investimenti dello Stato per aumentare l’organico dei magistrati e del personale amministrativo, incentivi ai riti alternativi e nuovi interventi di depenalizzazione.

Che ne pensa della pubblicazione delle intercettazioni?

Quando gli atti vengono depositati nella segreteria del pm viene meno il segreto e il contenuto di interesse pubblico può essere divulgato secondo le vostre regole deontologiche, memori del ruolo di cane da guardia della democrazia.

I suoi colleghi delle Camere Penali di Milano hanno provato a zittire Davigo. Cosa ne pensa?

Non sono andata all’inaugurazione dell’anno giudiziario perché avevo altri impegni, ma non condivido quella posizione: se un esperto viene per parlare, a mio avviso lo si ascolta, qualunque sia il contenuto del suo intervento.

L’Anm applaude la riforma: “Non ci saranno imputati a vita”

Giuseppe Conte l’aveva detto che non avrebbe ceduto a ricatti, all’opposizione “maleducata” di Matteo Renzi. E così il Consiglio dei ministri notturno, a cavallo tra giovedì e venerdì di San Valentino, ha approvato, con i ministri di Iv platealmente assenti, la riforma del processo penale del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Per la prima volta, come anticipato dal Fatto, si prevedono misure per accorciare i procedimenti, per impedire che almeno 120 mila processi all’anno vadano al macero per prescrizione.

Non solo i processi dovranno durare tra i 3 e i 5 anni complessivi (per mafia e terrorismo nessun tetto) ma sono previste altre misure contro la malagiustizia. A partire dalle notifiche telematiche agli imputati, con una serie di doverose garanzie. A oggi si procede con la notifica a mano della polizia giudiziaria: è una delle armi, legittime, degli avvocati per rendere nulli gli atti e puntare così alla prescrizione. Già l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva previsto notifiche via mail agli avvocati, ma alla fine fu costretto alla rinuncia a causa delle barricate degli uomini di Angelino Alfano e Denis Verdini.

Via libera del Cdm anche alla modifica della prescrizione: il lodo Conte bis, ideato da Federico Conte, LeU. È il doppio binario per condannati e assolti, una mediazione respinta solo da Iv, tanto da votare per 3 volte con il centrodestra per ostentare il suo peso nella maggioranza. Senza successo, visto com’è andata in Cdm.

Ma Renzi è come il can che abbia e non morde. Poiché non vuole andare a votare né uscire dalla maggioranza, ecco che ieri fonti parlamentari di Iv hanno fatto filtrare che voteranno la fiducia al governo sul Milleproroghe. Quanto alla partita avvelenata sulla giustizia si arrampicano sugli specchi: “Il lodo Conte è incostituzionale. Ora è stato inserito in un ddl (con la riforma penale, ndr), quando arriverà in Parlamento si vedrà. Ma la velocizzazione dei tempi della giustizia per noi è una priorità”. La situazione politica è liquida e quindi solo a ridosso del 24 febbraio, quando è previsto alla Camera il voto sul ddl Costa, che chiede l’abolizione della legge Bonafede sulla prescrizione bloccata per tutti dopo il primo grado, si saprà se invece ci sarà il lodo Conte bis inserito come emendamento.

Il pacchetto votato dal Cdm incassa un giudizio positivo dall’Associazione nazionale magistrati che smentisce la posizione catastrofista di penalisti e dei partiti di centro e destra contrari al blocco della prescrizione, sia pure solo per i condannati: “Il principio è giusto – ha detto il segretario Giuliano Caputo – non ci saranno imputati a vita”. Riconosce che la riforma penale “insieme alle risorse stanziate, può effettivamente aiutare a velocizzare il processo” ma ribadisce che sarebbe “brutale” qualsiasi misura contro le toghe legata a tempi processuali.

Nella riforma, però, non c’è più l’ipotesi di sanzioni disciplinari. Si prevede, invece, che dal 2024 “il dirigente dell’ufficio” debba fare una segnalazione “all’organo dell’azione disciplinare” quando c’è una “negligenza inescusabile”. Invece, resta l’ipotesi che “integra un illecito disciplinare”, sempre per “negligenza inescusabile”, il mancato deposito da parte del pm dell’avviso conclusioni indagini alle parti nei termini stabiliti.

Il lodo Conte bis invece funziona così: la prescrizione si ferma definitivamente se c’è condanna in primo grado e in appello. Se, invece, dopo una condanna di primo grado segue un’assoluzione in appello, scatta il recupero dei tempi di prescrizione. Ma ci sono eccezioni importanti che hanno l’obiettivo di ottenere quasi sempre sentenze di merito. Se c’è un’assoluzione in primo grado la prescrizione continua, se, però, il pm fa appello e il reato contestato si prescrive in un anno, allora la prescrizione è sospesa per 18 mesi. Per la Cassazione, 6 mesi.

Tornando alla riforma accorcia-processi, ricordiamo che prevede, tra l’altro, priorità dei reati da perseguire indicate dai procuratori, stretta alle indagini preliminari, su cui l’Anm è critica, processi d’appello pure monocratici. Per velocizzare i processi in corso, previsto l’impiego di giudici onorari ausiliari che passano da 350 a 850. Assunti per due anni mille amministrativi.

Governo: l’operazione Responsabili va avanti

Togliergli ogni alibi: il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, prova a smontare l’offensiva di Matteo Renzi. Che ha preso a bersagliarlo ora che teme che Italia Viva possa essere sostituita da una pattuglia di parlamentari “responsabili” pronti a sostenere il governo. “Sono andato davanti ai cittadini a chiedere la fiducia per realizzare un programma. Secondo voi sarebbe normale lavorare a un Conte ter?” ha rassicurato il premier escludendo “orizzonti futuri che non mi appartengono”.

Niente showdown dunque a Palazzo Chigi dopo i fuochi di artificio delle ultime 48 ore? I toni sembrano tornati concilianti, almeno all’apparenza. “Ricucire? Mica ho rotto un filo, non ho rotto nulla” ha spiegato ancora Conte ribadendo che le porte per Renzi e i suoi sono aperte, ma che c’è bisogno di cambiare spartito: “Il fatto che negli ultimi giorni, una forza di maggioranza (Italia Viva, ndr) stesse votando sistematicamente con le opposizioni, il fatto che propongono ogni giorno una mozione di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia, di un compagno di viaggio, richiede un chiarimento da parte loro”.

A Palazzo Chigi c’è piena consapevolezza che a questo punto diventa prioritario dotarsi di una rete di sicurezza per sterilizzare Renzi e renderlo non più indispensabile . “Continuare così in eterno, con il governo ostaggio del suo controcanto è impensabile”, trapela dall’esecutivo. Che guarda soprattutto al Senato e ai suoi numeri risicati per la maggioranza. Ma dove nelle prossime settimane si giocherà una serie di partite decisive, a cominciare dal dossier intercettazioni per proseguire con il rinnovo delle presidenze delle commissioni. Tutti possibili inciampi, anche dopo la polemica sulla prescrizione che vede ancora contrapposta Italia Viva al ministro Bonafede. Una polemica che non accenna a placarsi. E allora ecco che a Palazzo Madama si aguzza la vista. Soprattutto verso i senatori sospettati di voler cambiare casacca, anche se continuano a negare disponibilità al soccorso a Conte: è il caso degli eletti dell’Udc o di quelli di FI, come Massimo Mallegni. Il toto responsabili impazza comunque. Come quando nei giorni scorsi si è visto a Palazzo Madama Clemente Mastella, fresco di dimissioni da sindaco di Benevento in polemica con il centrodestra: qualcuno ha pensato che la sua incursione potesse preludere a qualche annuncio a sorpresa. Magari di sua moglie Sandrina Lonardo, senatrice azzurra. Perché questo è il clima, con diversi parlamentari preoccupatissimi del loro scranno e pronti a metterlo in sicurezza con il lavorìo dietro le quinte per stabilizzare l’attuale maggioranza.

“Non credo che Renzi voglia arrivare alla rottura con Conte: dovrà cedere e incasserà da un’altra parte con le nomine nella miriade di società pubbliche ”, confida al Fatto uno dei possibili soccorritori: “In ogni caso dieci senatori si trovano a occhi chiusi, 7-8 in FI e almeno tre dalle stesse file di Italia Viva”.

La retromarcia di Matteo:7 senatori Iv sono in bilico

“Grandissima tranquillità”: Matteo Renzi si sveglia di venerdì mattina con l’idea di trasmettere questo messaggio. Tanto è vero che Ettore Rosato annuncia che Iv voterà la fiducia al Milleproroghe e altre fonti renziane anticipano il sì alla riforma del processo penale. Una retromarcia rispetto allo scontro frontale degli ultimi giorni e ai toni ultimativi di giovedì. Ma più tattica che definitiva. Ora Renzi è pronto a scatenare la guerriglia sui temi economici. Su Facebook, in quello che definisce “l’ultimo post sulla prescrizione”, il senatore di Scandicci annuncia ancora battaglia: “La posizione del lodo Conte è incostituzionale secondo i principali esperti. Cercheremo di cambiarla in Parlamento”. Mentre sfida il premier (“ci sostituisca”), rinuncia all’affondo finale. La mozione di sfiducia a Bonafede è rimandata a dopo Pasqua.

Pesano le contrarietà nel gruppo di Iv al Senato di fronte a mosse potenzialmente suicide. Le variabili, nella strategia non proprio chiarissima dell’ex premier, sono più d’una. La prima riguarda, appunto, la tenuta del gruppo a Palazzo Madama. Iv conta 17 senatori. Qualche indiscrezione stampa dà sulla via del Pd Giuseppe Cucca, Leonardo Grimani, Eugenio Comincini e Gelsomina Vono.

I quattro hanno smentito nella chat collettiva. Eppure Cucca, giovedì, in Commissione Giustizia, quando si votava l’emendamento presentato da FI al decreto Intercettazioni per rivedere la norma Bonafede sulla prescrizione, ha aiutato a dilazionare i tempi e ha avvertito i colleghi del Pd che dovevano rientrare. E solo dopo, quando i numeri erano certi (12 a 12, che vuol dire che il testo è respinto), ha votato con il centrodestra. Il Pd a Palazzo Madama segue con attenzione tutti questi movimenti, convinto che i più nel gruppo renziano non vogliano far cadere il governo. Hanno avanzato critiche sulla gestione delle questioni economiche Mauro Maria Marino e Annamaria Parente. E nella lista di quelli che stanno in Iv, ma potrebbero essere ovunque, ci finisce anche Valeria Sudano. A parte Francesco Bonifazi e Davide Faraone, che con Renzi hanno stretto un patto di sangue, sulla fedeltà degli altri non ci sarebbe da giurare.

Dunque, il Pd aspetta il momento per intervenire sui più indecisi. La data è già individuata: ad aprile si vota per le presidenze delle Commissioni. A Iv ne toccano 2 al Senato e 1 alla Camera. Scontento collettivo scontato.

Se non succede nulla prima, magari con una mossa a sorpresa di Giuseppe Conte, che sale al Colle con in tasca i nomi dei Responsabili che sostituiscono i renziani, proprio il tempo che ci separa da aprile potrebbe, in realtà, servire all’ex premier per cercare di perfezionare il suo piano per la sopravvivenza. Continuare la guerriglia, puntando sulla caduta del governo e sostituirlo con un esecutivo di unità nazionale.

Determinante la consapevolezza che nella partita delle nomine entrerà solo in maniera marginale: dopo aver ottenuto la riconferma di Ernesto Ruffini all’Agenzia delle Entrate, non gli spetterebbe molto. Il piano, allora, è quello lanciato da Giancarlo Giorgetti a dicembre. Che lo stesso ex premier ha riproposto ieri, indicando come possibili presidenti del Consiglio, Mario Draghi e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri (il quale si è affrettato a smentire ogni possibile ipotesi che lo riguarda). Fonti della Lega confermano che un tentativo di portare avanti questa operazione è in campo, visto che lo stesso Salvini si sarebbe convinto che – senza la possibilità di andare al voto prima di settembre – sarebbe una buona opzione.

A quel punto, però, ci sarebbe il no di Nicola Zingaretti. Da settimane tra i vertici del Pd e quelli appena nominati di M5S, sono in corso contatti. Oggetto: l’eliminazione di Renzi dal governo. Resta da vedere quale piano andrà in porto prima: l’attacco finale dell’ex premier o il contropiede di Conte.

Guerra delle nomine, Renzi è tornato sul luogo del delitto

Il 14 febbraio 2014, Enrico Letta salì al Quirinale per dimettersi da presidente del Consiglio. La fretta di Matteo Renzi di fargli le scarpe a colpi di #enricostaisereno, con il supporto logistico di Giorgio Napolitano, aveva un’unica spiegazione: installarsi a Palazzo Chigi in tempo per gestire la tornata di 400 nomine nelle società controllate dallo Stato, a cominciare dalle più appetibili, Eni, Enel, Poste e Leonardo. L’analisi di Riccardo Fraccaro, esponente non di primissimo piano dei Cinque Stelle, fu assai severa: “La verità è che ha fretta di gestire la prossima infornata di poltrone. Il neopremier è un cinico arrivista, un arrampicatore politico senza scrupoli. Invece di occupare militarmente le poltrone, adotti una procedura trasparente per il rinnovo dei vertici dei più importanti gruppi d’Italia”.

Sei anni dopo, anche ieri la festa di San Valentino è stata segnata dai venti di crisi soffiati da Renzi. Ancora una volta la vera posta in palio, nell’immediato, è la spartizione delle poltrone. Solo che stavolta è Fraccaro al tavolo principale. Spentasi la stella di Luigi Di Maio e passata la meteora Stefano Buffagni, è lui, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, a rappresentare i Cinque Stelle al suk delle poltrone (per la verità non trasparente come Fraccaro pretendeva da giovane). M5S e Pd, come azionisti di riferimento del governo Conte, conducono il gioco. Nicola Zingaretti ha la sponda dell’amico Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, aiutato a sua volta nel disbrigo della pratica dall’attivissimo capo della segretaria Ignazio Vacca. Essendo Gualtieri titolare del decisivo potere formale di proposta dei grossi nomi da portare al Consiglio dei ministri, in questa fase il ruolo di Giuseppe Conte è ridimensionato, non avendo voluto, o potuto, accollarsi la mediazione tra i variegati appetiti della maggioranza. Anche se non ci sono tavoli formali, sono Fraccaro e Zingaretti (alias Gualtieri, alias Vacca) a condividere la discussione, già fitta a quattro-cinque settimane dall’appuntamento con le nomine, con i piccoli azionisti della maggioranza, ex Leu e Italia viva, e con un grande vecchio come Massimo D’Alema che gioca più che altro a titolo personale e, ringalluzzito dalla nomina dell’amico Rodolfo Errore alla presidenza della Sace, si dà molto da fare convinto com’è di poter ancora contribuire al bene del Paese suggerendo qualche nome giusto per una delle circa 400 poltrone in palio.

A differenza di sei anni fa, non potendo sbancare Palazzo Chigi e fare bottino pieno, Renzi è costretto a minacciare sfracelli per ottenere qualche poltroncina in più. “Finora non ci hanno fatto toccare palla”, piagnucolano i suoi, anonimamente, per giustificare le insensate intemperanze del capo sulla prescrizione. Martedì in aula è in agenda la partita preliminare per le autorità per la Privacy e per le Comunicazioni, con otto mesi di ritardo e con una forte sensazione di ennesimo rinvio. Al momento Renzi è fuori dalla contesa, un pessimo segnale che l’ha innervosito. Neppure stavolta, però, i deputati e i senatori dovrebbe riuscire a scegliere i quattro componenti della Privacy e i quattro dell’Agcom più il presidente che spetta al governo con l’avallo dei due terzi delle commissioni competenti.

In mancanza di accordo nel collegio, la Privacy va al più anziano: il centrodestra aveva puntato sul candidato senatore Ignazio La Russa, classe 1947, il centrosinistra ha replicato col giurista Pasquale Stanzione (1945), il centrodestra ha sfoderato l’imbattibile Raffaele Squitieri (1941), ex Corte dei Conti. In questo stato di salute la maggioranza di governo si prepara ad affrontare i dossier Eni & C con un’accortezza: non toccare gli amministratori delegati, anche se vacillano Luigi Ferraris di Terna e Alessandro Profumo di Leonardo, e cambiare i presidenti, con le eccezioni di Gianni De Gennaro di Leonardo e Patrizia Grieco di Enel, protetta dall’ad Francesco Starace, il manager che è talmente tranquillo da spendersi per altri e non per sé.

Per la multinazionale del petrolio serve l’impresa più coraggiosa: dimostrare che le vicende giudiziarie di Claudio Descalzi e i conflitti d’interessi con gli affari passati della moglie non siano una variabile. A chiedere la conferma del numero uno pare siano scesi in campo i Paesi dove l’Eni estrae greggio, con i quali Descalzi si è dato molto da fare, e la loro domanda di continuità non ha trovato insensibile il Quirinale.

I Cinque Stelle non farebbero barricate se però il Pd ci mette la faccia intestandosi il terzo mandato dell’amministratore delegato. In tal caso Marco Alverà di Snam, legato al sistema dell’ex ad Paolo Scaroni e in campagna elettorale da mesi, aspetterebbe il prossimo giro. In Poste si aspetta la formalità per brindare al bis di Matteo Del Fante, adottato dai renziani e poi adorato dai pentastellati, ma soprattutto scortato dal vice Giuseppe Lasco; invece Emma Marcegaglia, il presidente di Eni, non ha speranze e Giampaolo Massolo (oggi in Fincantieri) scalpita.

In Fincantieri, sotto la guida di Giuseppe Bono, è cominciata la carriera di Fabrizio Palermo. Il capo di Cassa Depositi e Prestiti si considera uomo di industria e pensa a un ritorno nel settore, magari in Leonardo, ma Profumo ha un buon rapporto con M5S e Pd e la spinta del Quirinale. Palermo libererebbe l’ambita poltrona in Cdp. Ma un governo così debole non può permettersi un disegno così ampio. La politica si accontenta di ritoccare qua e là i vertici delle aziende e di scannarsi per i consigli di amministrazione.

(1 continua)

Un anno bullissimo

Da quando ha abbandonato per sempre la politica, Renzi è un uomo d’affari che bada al sodo: cioè al soldo. Almeno finché troverà qualche fiera di paese o sagra della porchetta disposta a pagarlo per dire le stesse fesserie che prima, quando era un politico, diceva gratis. Quindi interrogarsi sulle sue idee, principi, programmi, riforme, o sulla partecipazione dei suoi al Consiglio dei ministri non è sbagliato: è inutile. La cosiddetta Italia Viva non è un partito: è una ditta a conduzione familiare con più ministri, sottosegretari, deputati, senatori, capigruppo, capidelegazione, capicommissione, dirigenti, tesorieri e nominati statali e parastatali che elettori. E la totale assenza di elettori, esiziale per qualsiasi partito, per una ditta è manna dal cielo.

Immaginate che fine farebbe, se fosse ancora in politica, Renzi dopo aver così lodato ieri su Facebook l’amico Macron, quello che in Francia non può più mettere il naso fuori dall’Eliseo perché se no lo linciano: “Macron che va sui ghiacciai del Monte Bianco a sottolineare l’urgenza della grande battaglia sul climate change fa una cosa giusta. Noi siamo con lui e con tutti quelli che hanno a cuore il futuro del Pianeta. Senza ideologia, ma concretamente. Continuo a pensare che servano leader capaci di guardare al futuro, non solo al giorno dopo giorno”. Detto da chi s’è opposto persino alla plastic tax e ha votato per l’inquinantissimo Tav Torino-Lione, è roba da perdere tutti gli elettori in un colpo solo: ma lui non ne ha e non corre pericoli. Nemmeno quando scrive che “il Lodo Conte è incostituzionale secondo i principali esperti (Briatore e Lele Mora, ndr). Cercheremo di cambiarlo in Parlamento prima che venga bocciato dalla Corte Costituzionale come già avvenuto alla legge Bonafede”. La Bonafede non è stata affatto bocciata: la Consulta ha ribaltato 30 anni di giurisprudenza costante per contestare l’interpretazione “retroattiva” data dai giudici a una norma sull’esecuzione delle pene. E finora l’unico leader gialllorosa ad aver firmato leggi incostituzionali è proprio Renzi, per la precisione tre: il Jobs Act, la riforma Madia della PA e l’Italicum. Figurarsi poi che gli farebbero i suoi eventuali elettori se gli sentissero dire che “Conte è il massimo esperto nel cambiare maggioranze” (è ciò che accade nel sistema proporzionale voluto da Renzi col Rosatellum e, se abbiamo il governo Conte-2, è grazie alla fiducia dei renziani) e “il tono di Conte è sbagliato, ma ai falli da dietro del premier rispondiamo senza falli di reazione” (dopo che in tre giorni ha votato tre volte con le destre contro il suo governo).

Come i bulli sui campetti di periferia, che entrano a gamba tesa sull’avversario e poi si rotolano per terra per ingannare l’arbitro. Ora se un politico dice una cosa e fa l’opposto – tipo farsi eleggere nel Pd e poi tentare (invano) di distruggerlo, patrocinare un governo per poi impallinarlo, promettere di abolire la prescrizione dopo il primo grado e poi difenderla quando Bonafede la abolisce dopo il primo grado – rischia di incontrare uno che l’ha votato e gli sputa in faccia o gli mette le mani addosso. Ma questo rischio gli uomini d’affari non lo corrono: a nessuno verrebbe in mente di chiedere loro coerenza, ma solo fatturati e utili netti. E, da questo punto di vista, Renzi è irreprensibile. Nel gennaio 2018 esibì in tv un estratto conto da 19 mila euro. Ora, due anni dopo, dichiara un milione di euro annui, fra stipendio di senatore e conferenze a gettone. S’è comprato una villa senza avere i soldi, ma glieli ha prestati la mamma di un amico casualmente nominato da lui a Cdp, poi li ha restituiti grazie ai 500 mila euro avuti da Lucio Presta per l’imperdibile documentario su Firenze che il Nove ha pagato 20 mila (il resto mancia).
Ora però il guaio è che Italia Viva sfugge ai radar e ai sondaggi. Ed è viva solo in questo Parlamento, grazie ai voti fregati al Pd, e sui media che intervistano questi noti frequentatori di se stessi un giorno sì e l’altro pure, grazie agli editori a suo tempo beneficati dal renzismo. Dunque, per restare viva, deve sabotare il governo Conte giorno e notte, sennò nessuno si accorge che esiste. Ma deve pure evitare di farlo cadere, altrimenti possono accadere tre cose, che la trasformerebbero in Italia Morta. 1) Arrivano i “responsabili” da FI e i renziani diventano peli superflui anche nell’unico luogo dell’universo – il Senato – dove sono decisivi. 2) I renziani affezionati al governo ma soprattutto alla poltrona per altri tre anni diventano “responsabili” anticipando i forzisti in fuga e mollando Renzi a giocare a briscola con la Boschi, la Bellanova e Marattin. 3) Il governo cade, Conte brutalizza Renzi in Senato come ad agosto l’altro Matteo (siamo pronti con i pop corn) e si torna al voto. Soluzione esiziale per molti motivi fuorché per uno: almeno un Matteo su due ce lo leveremmo dalle palle, sempre per via di quel problemuccio dell’assenza di elettori.
Infatti è bastato che l’altroieri il padrone Conte tirasse un po’ il guinzaglio perché il chihuahua tornasse a cuccia e smettesse di ringhiare. Ora il partito-ossimoro annuncia che voterà tutto quel che giurava di non votare né ora né mai: riforma Bonafede del processo, lodo Conte-bis e, se del caso, pure tris e quater. Per un politico sarebbe una figura barbina, ma per un uomo d’affari è tutto fatturato: tra poco arrivano le nomine, 400 posti in palio con relative prebende, guai se la ditta resta a bocca asciutta proprio sul più bello. Naturalmente la tregua durerà un paio di giorni, poi il bullo e i bulletti ricominceranno a bulleggiare. Così, se al loro posto arriveranno i “responsabili”, anche i moralisti più intransigenti tireranno un sospiro di sollievo. Oggi, grazie a Renzi, persino Scilipoti ha un suo perché.

“C’è forse una galassia nel mio ombelico?”

“I panini si arrabbiano quando li mordi?”; “Le ruote non si stancano mai di girare?”; “Le cavallette prendono lezioni di salto?”. Sono i bambini spesso a farsi e a farci queste bizzarre domande che spiazzano i grandi. Kari Anne Holt, sposato con tre figli e insegnante di scrittura creativa in Texas, dove vive, ne ha raccolte una batteria e grazie a Mondadori ne è uscito un simpatico libro da leggere ai più piccoli: Mi domando.

Le illustrazioni di Kenard Park arricchiscono l’albo che ha un unico scopo: invitare i bambini a meravigliarsi di fronte ad ogni scoperta e a non smettere mai di interrogarsi su ciò che li circonda. Un “lavoro” per nulla faticoso per chi si trova ancora nell’età dell’infanzia: sono proprio i più piccoli a farsi le domande più buffe che spesso rivelano anche una profondità che gli adulti non sanno sempre cogliere. Holt riesce a “scovarle” e a far divertire anche il lettore: “Mi domando se le scarpe sono tristi quando non mi stanno più” oppure “Potrebbe esserci una galassia nel mio ombelico?” o ancora “Come fa l’orologio a sapere sempre che ora è?”.  Ma tra gli interrogativi di questo libro non mancano domande che fanno pensare, quasi filosofiche: “Mi domando come farà domani a sapere il modo di arrivare qui”.

Mi domando – Kari Anne Holt, Pagine: 40, Prezzo: 16, Editore Mondadori

L’unica avventura di Spider-Man senza lieto fine: una vita normale

I supereroi non invecchiano mai. Il primo numero di Spider-Man risale al 1962, da allora generazioni di autori si sono inventati di tutto per mantenere Peter Parker adolescente o almeno giovane, in modo da permettere ai suoi lettori di immedesimarsi. Viaggi nel tempo, dimensioni parallele, patti col diavolo che cancella il matrimonio tra Peter e Mary Jane. Ma come sarebbe stata la vita di Peter Parker e quella di Spider-Man se il tempo avesse seguito il suo flusso tradizionale? La risposta la danno lo scrittore Chip Zdarsky e uno dei disegnatori ragneschi più importanti, Mark Bagley, in una miniserie che esce ora in un volume in Italia: Spider-Man, la storia della mia vita. Ogni capitolo è un decennio, gli eventi quelli raccontati in alcune storie celebri (l’arrivo del clone di Spider-Man, i problemi con Venom ecc.). Ma il nemico che Spider-Man non riesce proprio a sconfiggere è lo scorrere del tempo e la contingenza: si tormenta per anni sulla guerra del Vietnam, che gli ha strappato un amico: da supereroe doveva andare a combattere? E su quale fronte? Liberato dalla trappola dell’immobilità, Peter Parker si scopre un uomo normale, invecchia e si confronta con le sue debolezze. Diventa ricco, grazie alle sue intuizioni scientifiche, cede alla tentazione di una amante, si spaventa quando – ormai passati i cinquanta – capisce che ogni battaglia in costume potrebbe essere l’ultima. Si sente perfino un po’ patetico a lottare a fianco di altri vecchi in abiti sgargianti. Per ragioni commerciali, Spider-Man deve restare giovane. Ma tutti i lettori cresciuti con lui, e che giovani non sono più, resteranno grati a Zdarsky e Bagley per aver visto finalmente Peter Parker affrontare la più imprevedibile delle avventure, l’unica senza lieto fine. Quella di una vita vera.

 

Spider Man: La storia della mia vita, di Chip Zdarsky e Mark Bagley, Pagine: 200, Prezzo: 23, Editore: Panini Comics

 

Altro che Pop: Jim Dine è un maestro

Jim Dine (Cincinnati, Usa, 1935), artista celebre, riconoscibile, vivace, è presente, ampiamente raccontato, nell’intero pianoterra del Palazzo delle Esposizioni di Roma: una mostra esemplare, curata da Daniela Lancioni, con oltre 80 opere, datate dal 1959 al 2018, provenienti da collezioni pubbliche e private, europee e americane. Un percorso cronologico così diligente e puntuale da indurci a cambiare idea su quell’aspetto leggero, legato alla Pop Art, cui Dine viene inserito sin dagli esordi.

Emerge sin dalla prima stanza la fuga da qualsiasi tipo di classificazione della sua vita artistica, nell’aspetto strutturale e concettuale. Con i suoi inizi legati a performance caustiche e destabilizzanti, poco prima del 1960, insieme a tele figurative di ritratti, che segnalano una ricerca formale, ostinata e umorale, ironica poi plumbea, poi effervescente e ancora languida, che non si è tuttora esaurita. Con svolte, citazioni e rimandi che ci narrano la fertilità internazionale di quel decennio cruciale, dai 60 ai 70, che forgerà in Italia grandi artisti Pop e vedrà la nascita dell’Arte Povera.

Le prime grandi opere esposte, come Two Nests del 1960 e A Black Shovel del 1962 mostrano il primo dissidio e l’inserimento dell’oggetto su grandi tele monocrome, neutre. Da qui in poi le opere mostrano sempre più l’interrogativo che Dine ripete a se stesso: la convivenza e l’equilibrio tra l’oggetto, sempre attrezzi di lavoro e qualche arredo quotidiano, e la potenza della pittura cupa e poi allegra, cui viene accostato o integrato. La sua inquietudine formale tralascia totalmente l’aspetto pop legato ai beni di consumo: i suoi oggetti sono personali, il suo orizzonte è ancora impegnato sulla centralità della pittura. Four Rooms del 1962, quattro grandi tele di tonalità dal bianco al grigio, con accostate una poltrona di pelle e l’asta di una doccia, ne è l’esempio lampante: scenografia, oggetti domestici e intensa pittura convivono in un raffinato bilico formale. Da citare in questo senso l’eccellente The Studio del ’63, ma forse è solo nel ’74, con A Thin Kindergarten Picture, che l’equilibrio appare perfetto: pittura e oggetto sono sullo stesso piano morale.

Ma Dine non si ferma qui, continua libero e trasversale, con l’infinita e recente serie di Cuori, questa volta solo pittura, cui è dedicata una sala, alcuni realizzati nel Vermont nei primi anni 70. L’intensa mostra personale termina con una sala dedicata ai suoi Pinocchi, sculture in legno realizzate nei primi Duemila, con suoi testi inediti sulle pareti. Un diverso registro, un’altra immersione: l’ennesima sfida tra forma e contenuto, per un grande artista inafferrabile e sorprendente.

 

Jim Dine, Palazzo delle Esposizioni, Roma, fino al 02.06