Un lago maledetto in Trentino, tra foto di occhi e cadaveri: torna il noir alpino

Un’isoletta sul lago, la leggenda maledetta di una strega, la nebbia, piante e alberi come ombre sinistre e assassine. E cinque bambini su una barca, di notte. Quattro femmine e un maschio. Maria e la sorellina Rosa, Lisa, Elena e Matteo. Lo sbarco sull’usola della Strega è orrore puro. Un richiamo inspiegabile verso il Male. I bimbi scoprono un albero con tante foto al posto delle foglie. Foto di occhi. Indi appare un uomo incappucciato. Scappano e due di loro inciampano sul cadavere di una donna. La fuga termina sulla barca ma non è finita. Maria cade in acqua e di lei si perde ogni traccia. Siamo in Trentino, nell’estate del 1999.

Ventuno anni dopo, una delle bambine, Lisa Harding, è una detective della Omicidi di Londra. È ricoverata grave in ospedale. Qualcuno ha cercato di ammazzarla, in un parcheggio. Lei si risveglia ma non ricorda nulla. Solo che stava indagando sull’omicidio di una donna, Eve Chandler. Il killer ha fotografato gli occhi, prima di morire. E poi Lisa continua a fare incubi e a rivivere quella notte del 1999. Così parte per l’Italia alla ricerca di un collegamento. Un passato buio che emerge a frammenti, fatto di morte e di dolore familiare: fu in quella vacanza che i suoi genitori decisero di divorziare. Lei rimase col padre, in Inghilterra. Voci nella nebbia di A. E. Pavani (i nomi di battesimo non sono noti) fa il suo esordio brillantissimo nel thriller. La trama s’inserisce a pieno titolo nel giallo alpino che vanta due autori di culto come Luca D’Andrea e Ilaria Tuti. E anche la Pavani può ambire a molto. A parte gli eccessi da eroina di Lisa, la soluzione è un rompicapo costruito molto bene.

 

Voci nella nebbia – A. E. Pavani, Pagine: 286, Prezzo: 18, Editore: Mondadori

Ma che piagnoni sono questi romani

Oltre che essere un secreto, nel catalogo delle emozioni le lacrime vengono considerate dalla cultura contemporanea come un segreto, da vivere con discrezione. Per questo, si è levato uno stupore mediatico quando nel gennaio 2016 Barack Obama, presentando una proposta di legge volta a limitare il ricorso alle armi da fuoco, si è commosso in pubblico ricordando una strage di bambini nel Connecticut. Eppure, il pudore per il pianto è un concetto dell’era moderna, o meglio un legato del cristianesimo, che ne ha esasperato l’aspetto doloroso (non a caso) come risposta emotiva ai mali del mondo, una ginnastica per l’ascesi. E, in più, ha adibito il pianto alle donne, trattandole da impudico oggetto filosofico dell’irragionevolezza, corroborando (in)direttamente la cultura machista dell’uomo che non deve chiedere mai.

Nel mondo antico, invece, le lacrime erano diffuse e pubbliche. Facile pensare all’antica Grecia, al profondo Socrate, alle fanciulle nel tiaso, ai giovinetti sotto gli archi dell’agorà. Più dei greci, che già piangevano abbastanza, sono gli antichi romani i veri piagnoni. A dirci che le lacrime scorrevano in abbondanza tra loro è la storica Sarah Rey, nel luminoso e originale saggio Le lacrime di Roma. Il potere del pianto nel mondo antico (Einaudi). “Gli imperatori, il popolo, i senatori, i soldati piangono. I dibatti pubblici, i processi, le ambasciate, tutto è pretesto per riversare emozioni” scrive Rey che passa in rassegna (abbeverandosi alle fonti con rigore storiografico) tutte le occasioni piagnucolanti dell’Urbe.

Il pianto nell’antica Roma è un affaire sociale. Quasi istituzionale, poiché ogni istituto civile prevede la sua commozione. Si inizia dal tradizionale lutto per i morti, che scandiva il compiangere lungo tutto il funus (il rito funebre) sia durante la processione che durante l’elogio, e fino all’epitaffio, in cui si sancisce la promessa di tristezza per la scomparsa. Dopodiché, si chiudono i rubinetti. Ma l’aspetto più importante è l’utilizzo delle lacrime come strategia politica. Mentre oggi si suona il citofono, Cesare (secondo Lucano nella Pharsalia) ci costruì la sua carriera: piange di fronte alla statua di Alessandro Magno, come atto di stima e ispirazione ai molteplici successi ottenuti dal condottiero macedone, e replica in Egitto dinnanzi alla testa mozzata di Pompeo. Anche Augusto non è da meno: quando nel 2 a.C. riceve da Valerio Messala Corvino il titolo di pater patriae, non la smette di frignare. Le lacrime servono a muovere il popolo, umanizzando il volto del potere. L’aspetto suasivo del pianto si declina anche in tribunale.

Un esempio? Siamo nel 149. a.C., Servio Sulpicio Galba deve difendersi dall’accusa di massacro dei lusitani in Spagna. Ben lungi dal promuoversi innocente, giunge in tribunale scortato dai figli e un bambino orfano di cui è tutore. Se venisse condannato, rimarrebbero soli. Piangono tutti: l’imputato, i bambini e la giuria. Assolto! Ha proprio ragione Virgilio, quando scrive Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt: La storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente.

 

Le lacrime di Roma – Sarah Rey, Pagine: 176, Prezzo: 24, Editore: Einaudi

Ma chi si rivede: El Chapo ed Herrera di nuovo protagonisti di “Narcos: Messico”

Miguel Ángel Félix Gallardo è un ex poliziotto federale dello Stato di Sinaloa. L’amicizia con Rafael Caro Quintero, che negli anni 80 studia un nuovo tipo di marijuana in grado di crescere nel deserto, gli permette di entrare nel mondo della droga. Prima l’erba e poi il trasporto della cocaina negli Stati Uniti: grazie alla fitta rete di contatti politici, in pochi anni il cartello di Guadalajara fondato diventerà il dominatore incontrastato del narcotraffico in Messico e ribalterà i rapporti di forza con i potentissimi cartelli colombiani.

Con lo stesso stile con cui Narcos ha raccontato la parabola di Pablo Escobar, lo spin-off Narcos: Messico (Netflix) ripercorre l’avventurosa ascesa e la caduta di Félix Gallardo. La prima stagione è tutta giocata sulla rivalità con Kiki Camarena, l’agente della Dea che riuscirà a scoperchiare l’enorme sistema di corruzione che ha permesso all’industria del narcotraffico di proliferare. Proprio l’omicidio di Camarena chiude il primo capitolo e apre il secondo, che ricostruisce l’affermazione dei cartelli messicani ma anche il declino di Gallardo, accerchiato dalla Dea e dalle piazze affamate di soldi. In Narcos: Messico 2 assumono più rilevanza le figure di Benjamín Arellano Félix, a capo della plaza di Tijuana, e di Joaquín Guzmán, meglio noto come El Chapo.

Sin qui la storia. Ma il fascino di Narcos: Messico, come quello di Gomorra, di Breaking Bad e della stessa Narcos, sta nella capacità di raccontare dal di dentro la nascita e lo sviluppo di un’organizzazione criminale come se si trattasse di un’azienda, il cui successo dipende dalla visione imprenditoriale, dal carisma e dalla capacità di costruire relazioni del fondatore. La scelta vincente dietro lo spin-off, poi, è stata quella di scegliere una storia nuova ma profondamente legata a quella vecchia. Quando nella prima stagione compare Escobar, o nella seconda Pacho Herrera, a chi ha guardato Narcos sembra di reincontrare dei vecchi amici.

 

“Notte sbagliata” per Tano il giusto

Chi non ha mai preso in vita sua una pasticca di Zyprexa? Gaetano detto Tano, ad esempio, se ne fa due dosi al giorno perché questo antipsicotico, prescritto per la schizofrenia et al., lo aiuta a sentirsi “giusto”, laddove “sbagliata” è la notte che lo inghiotte, fatale e tragica al limite dell’irrealtà.

Una notte sbagliata si intitola appunto lo spettacolo di Marco Baliani, che ha chiuso la sua “personale” milanese al Teatro Menotti e prosegue in tournée in tutta Italia. Protagonista è un povero cristo pazzerello, habitué del Cps, perseguitato da strane visioni, che si rivelano finanche premonizioni: non è il solo matto di casa; con lui vive infatti il cane Uni – perché “unico” –, portato a far pipì ai giardinetti in una sera maledetta. Trattati entrambi con disprezzo e ferocia da quattro poliziotti frustrati a fine turno, il cagnolino si spaventa, Tano di più, tanto da “prendersi le colpe dei casini che l’altro (l’animale) combina: questo è l’amore”. Seguono provocazioni, una crisi psicotica, un pestaggio a morte: se ne va così un uomo malato, senza neppure scomodare la banalità del male.

“La paura fa succedere proprio quello che alla fine succede”, sostiene Tano, mentre all’attore-autore interessa raccontare la “storia di ogni persecuzione, della violenza e dei capri espiatori”, l’umana scissione tra crudeltà e terrore, odio e fratellanza: anche per questo inserisce nella pièce una specie di conferenza stampa per (tentare di) spiegare l’assurda e barbara dinamica dell’omicidio, seguita da una confessione di un abuso subito in prima persona negli anni della contestazione, quando Baliani rischiò la vita per le botte prese da un gruppo di fascistelli. Mentre questi si accanivano sul suo corpo inerme, il giovane artista scoprì la “solitudine estrema”, forse il rifugio in cui infilarsi per non morire.

Diretto da Maria Maglietta e accompagnato in scena dai video di Lucio Diana e dai “paesaggi sonori” del figlio Mirto, Baliani è un ottimo interprete che sa districarsi in una narrazione schizoide – come il protagonista –, “loop verbali in cui il tempo oscilla”, un pastiche di monologo, racconto, immagini, drammaturgia sonora, teatro didattico, mémoire, dibattito fronte pubblico (la succitata conferenza stampa: la parte meno riuscita, fin pedante). “Oggi la sfida del teatro – scrive nelle note – è nel montaggio, che tenga conto delle nuove percezioni con cui viene veicolata la realtà: visioni performative in cui il dramma venga spezzato da incursioni continue e in cui l’oralità dispersiva della voce prevalga sulla linearità della scrittura”.

Lo spettacolo, nel complesso, ha qualche limite, ma la scena della morte di Tano vale l’intera recita, con quegli ultrasuoni emessi dal corpo dilaniato, che nessuno può sentire se non l’amato cane Uni e i “balordi” compagni di follia del Cps. Una notte sbagliata è davvero potente, commovente, anche per chi non è stato massacrato di botte o mai ha assaggiato una compressa di Zyprexa.

 

Una notte sbagliata Di e con Marco Baliani. Napoli, 28 febbraio – 1° marzo; Casalecchio di Reno (Bo), 6 marzo; Asolo (Tv), 7 marzo; Bellinzona, 10 marzo; Ancona, 4 aprile; Genova, 21-22 aprile

 

Parlarsi a Ferrara, lasciarsi a Roma e morire ad Atene

Pupi Avati tornerà sul set a fine marzo per dirigere tra Cinecittà e Rho Ferrarese una nuova ed emozionante storia d’amore ispirata a Lei mi parla ancora, il romanzo/elegia in cui Giuseppe Sgarbi aveva rievocato e celebrato l’intenso rapporto con la moglie Rina. Il regista ha ultimato la sceneggiatura del film con suo figlio Tommaso e ha già scelto per i ruoli principali Stefania Sandrelli e Massimo Boldi, oltre a Fabrizio Gifuni, Isabella Ragonese, Chiara Caselli e Alessandro Haber.

Alicia Vikander, John David Washington (BlacKkKlansman), Boyd Holbrook (Logan) e Vicky Krieps (Il Filo Nascosto) sono i prestigiosi protagonisti del thriller Born To Be Murdered, diretto ad Atene e nell’Epiro da Ferdinando Cito Filomarino e prodotto da Luca Guadagnino. In scena le vicende di una coppia in vacanza in Grecia, coinvolta suo malgrado in un intrigo di crimine e violenza che avrà conseguenze tragiche. Guadagnino, Marco Morabito e i co-produttori Francesco Melzi e Gabriele Moratti hanno coinvolto nell’ambizioso progetto internazionale (ora in fase di montaggio a cura di Walter Fasano) il musicista premio Oscar Ryuichi Sakamoto, lo sceneggiatore Kevin Rice e il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom (Chiamami col tuo nome).

Si intitola Lasciarsi un giorno a Roma il quinto film di cui Edoardo Leo sarà sia regista che protagonista, grazie a una coproduzione tra Lucisano Media Group, la società spagnola Neo Art Producciones e Vision Distribution. Forte dei consensi per l’interpretazione di La dea bendata di Ozpetek, l’attore porterà in scena con il consueto sguardo ironico e disincantato una commedia sentimentale sulle complicazioni della separazione di una coppia dopo anni di convivenza.

 

Il lago delle oche selvatiche. Yinan trova stile e forma perfetta sul “Lago”

Dopo l’Orso d’Oro alla Berlinale 2014 per Fuochi d’artificio in pieno giorno, il cinese Diao Yinan ritorna sul luogo del delitto con Il lago delle oche selvatiche, presentato in Concorso all’ultimo festival di Cannes. Stavolta l’analisi critica della Cina contemporanea è più laterale e meno programmatica, eppure il realismo sociale non abbandona questo mesmerizzante noir, che tracima stile, financo manierismo, da ogni inquadratura. Sostiene il regista, la scelta del genere crime è richiesta dalla situazione stessa del Paese, in cui il crescente divario tra ricchi e poveri catalizza il crimine.

Non solo questione estetica, dunque, ma poetica. Dai personaggi di Humphrey Bogart alla Nouvelle Vague godardiana (Fino all’ultimo respiro), da Hitchcock (Intrigo internazionale) per la suspense e Fritz Lang (M – Il mostro di Dusseldorf) per la caccia all’uomo e l’amalgama di stili, Diao aiuta a ripassare la Storia del Cinema, senza che la natura derivativa prenda il sopravvento. Professandosi devoto al cinema italiano, “tutto, dal Neorealismo al porno”, con la stoffa dei nostri maestri si ritaglia una recensione su misura: “The Wild Goose Lake è come un film di Antonioni diretto da Sergio Leone”. Già, calza a pennello.Protagonisti sono un bandito e una prostituta: Zhou (Zenong Hu Ge) che uccide per errore un poliziotto e si ritrova tutti, sbirri e gang, alle calcagna; Liu (Gwei Lun Mei), una bathing beauty, in mandarino peiyongnv, che riceve i clienti sul lago e forse s’innamora di questo bullo gentile. Romanticismo a scomparsa, disperazione diffusa, sopra tutto, potere all’immagine: scarpe fluorescenti che coreografano balli come risse, ombrelli a mo’ di arme letali, ombre cinesi, luci alla Wong Kar-way e milieu alla Jia Zhangke, i luoghi sono fatiscenti e malati, le azioni erratiche e parossistiche, e Diao semplifica al massimo la storia per esaltare il racconto. Sulla Croisette ebbe Quentin Tarantino per spettatore ammirato, ora porta anche nelle nostre sale eleganza e sensualità, fascinazione e stupefazione, nonché inquadrature che rimangono indelebili a distanza di mesi: il controcanto delle fiere allo zoo, il sesso esplicito sul lago, le auto che tagliano la collina nella notte, le sagome combattenti.

Se il trionfo agli Oscar di Parasite mette sotto i riflettori la Corea, Il lago delle oche selvatiche ci rammenta l’altra superpotenza cinematografica dell’Estremo Oriente: non solo per il mercato che gareggia con quello nordamericano, non solo per la diffusione e il successo della sua produzione commerciale, ma per la forza dei suoi autori. Attorno a un trinomio cardine della settima arte (il gangster, la femme fatale, il destino ineluttabile), Diao fa esercizio di stile e trova la forma perfetta. Basterebbe l’incipit in stazione con Zhou e Liu sotto la pioggia e il frastuono dei treni: i dialoghi sono inintelligibili, ma che è grandissimo cinema lo si capisce bene.

 

“Il Bestiario d’amore”, desiderio di Medioevo

Pulsioni ataviche, strade inaspettate, magari tortuose: certe cose arrivano addosso e basta. Solo il tempo può definire la traiettoria, svelare il senso. “Sono arrivato a questo bestiario per vie strane”, dice Vinicio Capossela accarezzando il volume illustrato da Elisa Seitzinger. Lo tocca, gli si legge l’orgoglio nei movimenti delle mani, nel suo riportarlo sempre sotto lo sguardo, le volte in cui non tormenta la barba con le dita. È Il Bestiario d’amore (La Cupa/Warner Music Italy), l’opera di quattro brani (disponibile da oggi) che trova la sua ispirazione in un componimento letterario dell’intellettuale del XIII secolo Richard de Fornival e che chiude il cerchio del viaggio medievale dell’artista, iniziato già con Ballate per uomini e bestie.

“Questo componimento nasceva per parole e immagini, De Fornival diceva di essersi privato del canto perché ‘meglio cantava, peggio gli andava’: io ho provato a mettercelo, mantenendo però parole e immagini”. Così si articola l’opera in scena stasera alla Union Chapel di Londra, per poi proseguire con il tour italiano – alla quale hanno contribuito filologi e storici tra prefazioni, commenti e analisi nelle Università. “Io stesso non capisco cosa ho fatto, per cui mi voglio confrontare con chi invece quelle cose le ha studiate”, dice Capossela sorridendo. Quell’attrazione magica verso la produzione medievale invece, da dove arrivi si sa. Una radice chiara, un magnetismo che aggancia il passato al presente, perché solo così si parla di storia. Altrimenti, il tempo diventa una sequela di post figli di uno scroll sullo schermo che, selvaggiamente, scompone. “Ho iniziato ad appassionarmi ai bestiari medievali perché hanno iconografie bellissime e perché nel Medioevo la realtà e la verità non coincidevano affatto. La realtà come osservazione oggettiva delle cose, era una cosa. La verità, qualcosa di irriconoscibile, che appartiene all’interiorità e alla poesia, un’altra. Due piani diversi che nei bestiari convivevano”. Perché è nel Bestiaire d’Amours che De Fornival usa il racconto di animali e fiere immaginarie per convincere la donna amata ad averlo come amico. Che prende in prestito grilli, serpenti, scimmie e unicorni per disvelare ciò che dell’amore attanaglia e libera, eleva e poi gambizza. “Così a voi/mi rivelai/per primo senza di/nulla saper di voi/rendendovi tanto arrogante e forte/e così feroce da smarrir la voce: una sensazione attribuiti al lupo, ma chi non l’ha provata, esponendosi in amore?”, spiega l’artista riprendendo in mano il suo bestiario.

Qui risiede la grande capacità dell’opera trobadorica: tutto è credibile, che si parli di draghi o di donnole. “Quelle erano evidentemente cose dell’altro mondo, mentre oggi si danno per certe molte cose che non le sono. Si è rinunciato alla dimensione della verità e si è trasformato la realtà in qualcosa di non più certificabile. Allora tanto vale usare queste allegorie, che sono dichiaratamente altro”.

È in quell’altro lì, in quelle rappresentazioni che prendono sul serio l’immaginazione, che anche le singole ritrovano il senso, come “desiderio” ne La Lodoletta, la seconda traccia dell’opera. “Il desiderio dovrebbe essere la forma più autentica dell’espressione di sé. Come l’amore, come la speranza, richiede una componente attiva, a differenza della paura, che è un sentimento passivo. Viviamo una fase del capitalismo tale in cui che secondo me le persone non sono esattamente certe dei propri desideri, perché sono a volte indotti così sottilmente da essere scambiati per i propri. E invece bisogna aver cura dei propri desideri, sono una cosa seria”.

Capossela conosce i suoi, di desideri. Si espone – anzi, mi corregge, lui espone le cose – “ma sempre in uno spazio in cui sia possibile il chiaro scuro”. “Preferisco una luce da lume di candela di una che svela tutto, ragione per cui io, fisicamente, non riuscirei ad andare a una manifestazione come Sanremo”.

Che poi, guarda caso, tra la luce e l’ombra risiede la complessità, perché complesso è l’essere umano: “Però attenzione, perché la complessità è un mezzo, non un fine. Così come la semplicità è sempre virtuosa e la semplificazione no, è un trucco, come mentire. Un bestiario che tira in ballo 56 creature per parlare d’amore è una moltitudine, complessa come il pantheon dei greci, che evidentemente pensavano che il divino meritasse rappresentanza per ogni natura dell’uomo”.

L’uomo che poi, dopo il buio, rinasce. “Il medioevo resta il periodo in cui rimane spazio per l’irrazionale, per l’epica, per tutta una serie di cose di cui siamo stati privati con quello che Wilde ha definito il ‘triste rinascimento classico’ – risponde Capossela – Non so neanche se sia auspicabile un Rinascimento, ma sì: il prossimo disco lo farò rinascimentale, così ci metto del mio”.

“Per capire le guerre serve un fotoreporter”

Da quando il fotoreporter milanese Gabriele Micalizzi venne ferito gravemente dall’esplosione di un razzo anticarro lanciato dall’Isis contro una postazione curda a Baghuz, in Siria, è trascorso un anno esatto. Nonostante le numerose operazioni per ricostruirgli un occhio, i timpani perforati e la perdita di una falange, in questi dodici mesi Micalizzi non si è fermato.

Non solo è tornato in Libia per documentare la guerra mercenaria in corso, ma ha anche scritto un libro assieme all’amico Moreno Pisto intitolato In guerra.

Nelle oltre duecento pagine, Micalizzi ripercorre le tappe principali della sua carriera iniziata nel 2009 in Afghanistan. Un decennio in cui Micalizzi è diventato uno dei fotografi di guerra più noti e apprezzati a livello internazionale nonchè membro di ‘Cesura’, fondato da Alex Majoli, dove incontrò e fece amizia con il collega Andy Rocchelli, ucciso 6 anni fa da un colpo di mortaio nel Donbass.

Micalizzi, la fotografia serve a raccontare la verità?

No, la fotografia serve a provocare un’emozione, una riflessione. A testimoniare. Il resto sono solo stupidaggini

Per diventare un fotografo di guerra cosa serve?

Scarpe buone e passione. Scherzi a parte, bisogna stare quanto più possibile tra la gente del posto e documentarsi sulla storia del paese perché aiuta a comprendere meglio le caratteristiche degli attori coinvolti. Quando andai per la prima volta sul campo, in Afghanistan, mi ero buttato sull’onda della frenesia di testimoniare e capire cosa stesse accadendo. Mi trovai invece scortato ovunque dai militari italiani, dato che ero andato con loro in un contesto che non aveva nulla a che vedere con Apocalypse now, come invece pensavo. Da allora ho capito che le guerre contemporanee si combattono in modo molto diverso rispetto alla guerra del Vietnam, per riallacciarmi al film citato.

Cioè ?

Si tratta di guerre asimmetriche, dove la linea del fronte è aleatoria, in continuo spostamento e dove ci sono sempre meno soldati regolari e sempre più mercenari, come quelli dell’agenzia di sicurezza privata russa Wagner che opera in Libia, così come i mercenari siriani mandati da Erdogan. Inoltre è ormai raro poter seguire entrambe i fronti dello scontro. Solo in Ucraina, nel Donbass, sono riuscito a documentare ciò che accadeva sia nella zona sotto il controllo dell’esercito di Kiev sia in quella controllata dai separatisti. Ma in Libia, da dove sono tornato la scorsa settimana non è più così.

Cosa è cambiato?

Intanto il fatto che per muoversi è necessario chiedere continuamente permessi alle autorità locali. A causa dell’esistenza dei social inoltre, prima di darti un permesso, queste vanno a cercare se hai pubblicato foto o articoli sull’argomento e, se si accorgono che hai scritto qualcosa contro di loro, te lo negano. Ovviamente conta anche l’esperienza maturata, come è accaduto a Misurata dove mi conoscevano e sapevano come lavoro. A Tripoli è stato invece molto complesso.

A proposito di social, cosa ne pensi delle persone che grazie a quelle piattaforme si trasformano in giornalisti?

Nulla in contrario, ma non è giusto che le loro testimonianze sostituiscano quelle degli inviati. Per evitare spese e rischi, ormai molti giornali e tv usano i reportage fatti dai locali ma una figura super partes come il fotoreporter rimane fondamentale per raccontare cosa sta succedendo.

Idlib, più bombe per tutti. È colpa dei “terroristi”

In Siria, è sempre così, da ormai quasi nove anni: a fasi alterne, tutti sparano su tutti. E l’asserto è sempre lo stesso: “Combattiamo i terroristi”, dove, volta a volta, terroristi significa oppositori, o sostenitori, del regime; o curdi che combattono l’Isis, ma sono terroristi per i turchi; e talora pure bande vicine ad al Qaida o miliziani integralisti, cioè – loro sì – potenziali veri terroristi. Cui alcune delle parti in lotta, specie la Turchia, nelle pause degli scontri, forniscono armi.

L’ultima recrudescenza di un conflitto mai cessato, nonostante una litania di tregue, è nel nord-est del Paese, a Idlib, dove il ministro della Difesa turco Hulusi Akar riconosce: “Stiamo inviando truppe aggiuntive per difendere il cessate-il-fuoco e renderlo permanente. Controlleremo l’area e prenderemo ogni misura necessaria contro chiunque non lo rispetti, compresi i gruppi radicali”. L’agenzia di stampa turca Anadolu riferische che un convoglio con numerosi obici Firtina (Tempesta) e mezzi blindati è stato scortato fino al distretto di Reyhanli della provincia di Hatay.

L’offensiva siriana, sostenuta dalla Russia, è indirizzata contro milizie ribelli filo-turche.

Incidenti e scontri si succedono da quasi due settimane: ieri, i turchi riferiscono di avere “neutralizzato”, cioè ucciso o ferito, almeno 55 soldati dell’esercito di Assad, che vanno sommati ai 152 già rivendicati nei giorni precedenti, a fronte di 14 perdite turche. Damasco non conferma le cifre. Ankara accusa il regime di Assad anche “di attacchi aerei e terrestri” nella zona di de-escalation creata nel nord-ovest dopo l’operazione turca anti-curda Fonte di Pace dell’autunno scorso, che mirava a istituire una zona di sicurezza lungo il confine profonda una trentina di chilometri e “libera da curdi”. L’operazione, favorita dal pilatesco atteggiamento degli Stati Uniti, che, pur strepitando contro Ankara, avevano lasciato via libera ai soldati turchi, ritirandosi dal loro cammino, era stata conclusa con un accordo tra Russia e Turchia, che prevedeva il ritorno nell’area delle forze lealiste. Dal Nord-Est continuano a giungere informazioni contraddittorie su un incidente verificatosi giorni fa, con vittime civili, di cui sono stati protagonisti militari americani.

Tra la Turchia di Erdogan e la Siria di Assad non corre buon sangue. I russi, che sono alleati e garanti del regime di Damasco, affermano che le forze armate siriane, nella provincia di Idlib “stanno conducendo una lotta contro i terroristi nel proprio territorio”: “Sono adempimenti previsti dagli accordi di Sochi – intercorsi tra Putin ed Erdogan, ndr – obblighi assunti dalle parti…”. Il dialogo anche militare tra Ankara e Mosca resta aperto: ieri, il capo di Stato Maggiore russo, generale Valery Gerasimov, ha discusso la situazione siriana con il suo omologo turco, generale Yasar Guler.

Ieri mattina, l’esercito turco ha bombardato con le artiglierie postazioni governative siriane, cercando di rallentare l’avanzata delle truppe di Damasco verso l’interno della provincia di Idlib, ultima roccaforte delle opposizioni siriane sostenute da Ankara nella Siria nord-occidentale. Secondo fonti locali citate dai media internazionali e avallate dall’agenzia governativa Sana, l’artiglieria turca martella la zona di Saraqeb lungo l’autostrada Hama-Aleppo, che era stata presa dalle forze governative nei giorni scorsi col sostegno dell’aviazione russa.

Naturalmente, le fiammate del conflitto hanno costi umanitari. Nelle ultime 48 ore, l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) conta 100mila i civili siriani sfollati nella Nord-Ovest del Paese martoriato dall’offensiva governativa e dalla risposta turca. Decine di migliaia di civili si dirigono da sud-ovest di Aleppo verso il confine turco: donne e bambini, in larghissima parte. L’Onu calcola che siano 700 mila gli sfollati dall’inizio dell’anno.

Consulenze d’oro, la mezza verità di Ursula von der Leyen

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è stata ascoltata ieri a Berlino dalla commissione parlamentare di inchiesta che indaga sullo scandalo delle consulenze al ministero della Difesa. Nel periodo in cui era alla guida del dicastero, tra il 2015 e il 2018, secondo la Corte dei Conti tedesca sono stati aggiudicati in modo non corretto contratti con consulenti esterni per un valore di 200 milioni. Von der Leyen, in carica fino a luglio scorso, ha ammesso la sue responsabilità: durante il suo mandato “si sono verificate violazioni degli appalti pubblici”. Del resto “i servizi di supporto e di consulenza sono sempre esistiti nel ministero della Difesa”. Al suo arrivo negli uffici di Berlino nel 2013 l’obiettivo era modernizzare e invertire la rotta nell’incrostato sistema militare. E la digitalizzazione delle Forze Armate, uno degli ambiti dati in carico a terzi “non poteva essere realizzato senza un aiuto esterno”, si è giustificata la ex ministra. Sotto la sua direzione, dal 2015, il budget della Difesa tedesca è salito per la prima volta dalla Riunificazione, tanto che il bilancio 2019 ha previsto 43,2 miliardi, un 12% in più rispetto al 2018. Gli investimenti però al momento non hanno prodotto risultati visibili nelle Forze armate. “Sono state realizzate molte cose buone, ma sono stati commessi anche grandi errori nei lavori di ricostruzione”, ha detto VdL. Per questi lavori la ministra si era affidata alla sottosegretaria Katrin Kuder, ex manager McKinsey, che aveva chiuso contratti di consulenza a privati, in deroga alle norme previste. Pratica che nel 2018 le è costata il posto. La commissione non è parsa convinta dall’audizione: “Risposte molto deboli”, le ha giudicate una deputata liberale. Restano infatti da spiegare le cancellature nei 4000 fascicoli provenienti dalla Difesa e la memoria dei messaggi cancellata dal cellulare di servizio della ex ministra.