Altro che Sturmtruppen, l’esercito tedesco è kaputt

I ministri degli Esteri della Nato hanno deciso di proseguire la missione di addestramento dei soldati iracheni, ma il governo tedesco nicchia, accampa scuse. “Senza un invito da parte irachena non possiamo intraprendere nessuna guerra contro il terrorismo”, ha detto la ministra della Difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer. Il motivo è semplice: l’esercito che ha tenuto in scacco il mondo, facendo dell’efficienza un marchio di fabbrica, è ridotto ai minimi termini. Basti pensare che per le esercitazioni chiede in prestito gli elicotteri all’Adac, il corrispettivo dell’Aci in Italia, in assenza di elicotteri da combattimento funzionanti. Ormai non sono solo le inchieste giornalistiche a mettere in evidenza le lacune nell’equipaggiamento, nei mezzi e di conseguenza nell’addestramento dell’esercito tedesco.

Il grido di allarme arriva direttamente dalle più alte cariche delle gerarchie militari. Due giorni fa l’ispettore dell’esercito, il tenente generale Joerg Vollmer, ha detto dalle pagine della Süddeutsche Zeitung che “il tallone d’Achille rimangono i materiali. Questo vale per la quantità, l’affidabilità e l’approvvigionamento tempestivo”. A mancare non sono solo zaini e scarponi, sono proprio i mezzi militari. E quando arrivano, dopo anni di ritardo, spesso e volentieri non funzionano. Facciamo qualche esempio: le Forze armate tedesche dispongono di 75 elicotteri multiruolo NH90, di questi 44 sono disponibili, ma in riparazione e appena 9 sono pronti per il volo, riferisce Der Spiegel. Un caso simile vale per gli elicotteri d’attacco Tiger dell’esercito: dei 53 consegnati, appena 36 sono disponibili e di questi solo 12 sono operativi. Da non dimenticare anche i carri armati Puma. In questo caso dei 284 mezzi acquistati, solo 191 sono disponibili ma appena 67 sono operativi.

La scarsità dei mezzi è causa di addestramento insufficiente. L’estate scorsa un pilota da combattimento, Alexander T., ha confessato a Bild di non volare da oltre un anno e mezzo, ed è di giugno scorso l’ultimo incidente che ha portato alla collisione di due Eurofighter durante un addestramento in Meclemburgo. I militari e il ministero accusano l’industria della Difesa tedesca di trattare le Forze Armate di casa propria come un cliente di serie B e non “come il cliente premium” che meriterebbero di essere.

“Vorremmo che la nostra industria fosse affidabile e servisse noi prima di tutto” ha detto Vollmer senza mezzi termini. L’accusa indiretta è che le grandi industrie tedesche servano in primis i clienti stranieri, per non perdere posizioni di mercato nella concorrenza internazionale, e invece mal ripaghino la fedeltà dei connazionali, costretti a rimanere in attesa con il portafoglio aperto. Ma l’industria non è l’unica causa del disastro in cui versa l’esercito tedesco.

Un rapporto recente dell’incaricato del parlamento del controllo delle Forze Armate, Peter Bartels, ha puntato il dito sull’ipertrofia della burocrazia militare tedesca. “Non tutto deve essere testato, definito in modo astratto, riscoperto, assegnato, certificato e alla fine ordinato e adottato nelle forze armate dopo 15 anni” dice Bartels. Si può anche comprare “secondo il principio Ikea: trovi, compri e porti a casa”, aggiunge senza mancare di ironia il deputato socialdemocratico. In altre parole: è vero che quella militare è industria di prototipi, ma non esageriamo: non c’è bisogno di inventare da capo la ruota ogni volta.

Alla luce di tutto questo, non è strano vedere temporeggiare la Germania di fronte alle richieste di Emmanuel Macron di un maggiore impegno militare tedesco nella zona del Sahel, dove i francesi combattono l’Isis. Se è vero che al momento la Germania è impegnata in 12 missioni militari nel mondo, in massima parte di addestramento, per prendere parte alla Task Force congiunta della Nato (VHR Joint Task Force) nel 2023 “alcuni articoli non saranno disponibili in tempo” ammette il tenente generale Vollmer e bisognerà, anche stavolta, chiederli in prestito.

Il Cavalier Patuelli, noto banchiere, vuol dire fiducia

Dice: “È la parola fiducia quella che Antonio Patuelli pronuncia più volte in questa intervista”. L’attacco del colloquio, ingiustamente negletto, che Il Messaggero ha avuto col presidente dell’Abi, la Confindustria delle banche, è di quelli che ti inchiodano alla sedia. Dice: c’è incertezza, specie fra le imprese, e invece serve fiducia. Ma come trovarla, buon dio? Patuelli non ha dubbi: la crescita. Ma davvero? Certo, “si è esaurita ormai la fase in cui le politiche assistenziali producevano consensi. Si deve prendere atto che le garanzie sociali non mettono le ali alla ripresa e che la povertà si vince con lo sviluppo”. Lui, poi, è “preoccupato per i giovani”: qua si cercano “ingegneri qualificatissimi e non li si trova”. Dice: “Quando vedo la predisposizione a fare i lavapiatti a Londra e non in Italia significa che esiste una disaffezione verso il nostro Paese”. Dice: “Qui la domanda è superiore all’offerta: è un problema di fiducia”. Ah, questi disoccupati e questi expat a cui manca la fiducia per fare i lavapiatti o gli ingegneri qualificatissimi nella patria bisognosa d’affezione! La fiducia, si sa, è la prima cosa: conta pure più della salute. Guardate Patuelli: giovane liberale col pallino del Risorgimento, due legislature col Pli, un passaggio al governo e un bel vitalizio nella prima vita; nella seconda da 25 anni è presidente di Cassa di Ferrara e, da sette, dell’Abi mentre gli falliscono intorno gli associati. Tutto grazie alla fiducia: il Cavalier Patuelli non è fatto della materia di cui son fatti i sogni, ma solo di fiducia e chi dice il contrario non è figlio di Cavour.

A Giulia, Mattia & C. per nuotare insieme oltre le gerarchie

Cara Giulia e cari Andrea, Mattia e Roberto, questa lettera è indirizzata a voi in primis, ma intende anche aprire affettuosamente una riflessione su e con tutti coloro che si riconoscono nelle Sardine. L’espressione più bella per identificarle la dobbiamo a Mattia: le Sardine sono un esperimento, piuttosto che un movimento o un partito; uno straordinario e riuscito esperimento esemplare di cittadinanza attiva che, come ogni esperimento, è normale che proceda per prove ed errori. La cittadinanza attiva ha un potenziale democratico e politico che è stato chiamato da voi a esprimersi e la cui portata, all’inizio, è solo possibile immaginare, ma che da subito si presenta come necessaria in una società complessa per affiancare efficacemente una politica delegata che risulta ormai troppo spesso impotente rispetto agli enormi problemi del presente.

La vostra iniziativa è stata come una benedizione per noi sei, fra i primi partecipi convinti a essa e per tutte le decine di migliaia di aderenti a questo veramente innovativo esperimento. Il vostro faticoso impegno quotidiano fino al sacrificio dei vostri interessi privati è apprezzato da tutti noi con profonda riconoscenza. Tuttavia si aprono ora problemi difficili e peraltro inevitabili riguardo alle modalità di sviluppo e al destino del movimento che legittimamente avete guidato fino ad ora, ma che d’altronde non è e non può essere solo vostro come voi stessi sapete e volete che sia.

Non ci interessa qui né rilevare né commentare errori intrinseci, come si è detto, a ogni esperimento, a maggior ragione se, come questo, difficile e coraggioso, ma piuttosto di rilanciare nella discussione pubblica e trasparente i temi strategici che riguardano voi ma anche noi e tutti gli altri. Sappiamo e sapete che anche un prestigio meritatamente guadagnato non si concilia con tendenze all’autoreferenzialità né tantomeno al comando. Siamo sicuri, ad esempio, che organizzarsi attraverso deleghe e gerarchie formali mantenga lo stesso fascino per la moltitudine di cittadini che avete mobilitato e perfino entusiasmato? Ci dobbiamo impegnare per contribuire alla crescita generale della maturità politica e di stile della cittadinanza intera, o ai già visti e ripetuti tentativi di presentarsi come nuovo ceto politico, pronto a sostituire quello al potere secondo la facile retorica vuota del cambiamento? Siamo sicuri che un’organizzazione territoriale innovativa nelle relative differenze e autonomie non possa essere praticata, comunicata e condivisa nella spontaneità responsabile e coerente con lo spirito delle Sardine, all’interno del perimetro dei valori fondanti di civiltà accogliente, responsabilità civica e pratiche attive in direzione del Bene comune? E che le gerarchie emerse nelle pratiche, come nel vostro caso, risultino più efficaci, autorevoli e democratiche di procedure formali ed elettive?

Non c’è davvero nessuna certezza di risposte preventive in queste domande, ma qualunque pratica collettiva deve poter legittimamente e in maniera trasparente interrogarsi su questi temi complessi. Non diremo che uno vale uno, ma che uno vale quello che vale, quando mostra ciò che e quanto vale.

Vi preghiamo di considerare queste riflessioni assolutamente non come una presa di distanza dal vostro ruolo storico, ma come un solidale e leale contributo alla valorizzazione di un processo che ha le premesse per diventare storico, poiché esso ha sancito con forza che la dignità dei cittadini e l’espressione della loro potenza va bene al di là del loro ruolo di semplici elettori e di legittimi consumatori di servizi pubblici e che questa potenza è l’essenza/benzina della democrazia.

La prescrizione è tutta intorno a noi

Vivo a Venezia e ogni volta che guardo verso Porto Marghera e quella cattedrale d’industrie in disarmo non posso non pensare ai morti del Petrolchimico e al disastro ambientale di quell’area, a onta dei mirabolanti progetti a sfondo turistico. Non sono animato da giustizialismo o sete di vendetta, ma trovo inconcepibile che molti dei relativi reati, riconosciuti da sentenze definitive (di appello e di Cassazione), siano caduti in prescrizione e dunque nessuno, alla fine, abbia risposto.

Collaboro da anni con i licei di Vicenza e di Treviso, e ho visto in re cos’ha significato per un intero territorio il fallimento di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Non sono animato da giustizialismo o sete di vendetta, ma trovo inconcepibile che i processi per malversazioni di questa portata vengano condotti sotto l’incombere costante dello spettro della prescrizione (giudici che si dimettono, imputati assenti, udienze che saltano…).

Mia nonna vive a Colleferro, nel cuore dell’inquinatissima Valle del Sacco (liquami industriali, rifiuti, diossine): grazie a un movimento civico intelligente, a un sindaco capace e ai provvidi ripensamenti della Regione, un mese fa la discarica (seconda solo a Malagrotta) è stata finalmente chiusa, e le bonifiche avviate; ma quando vedo i due grandi inceneritori all’entrata del paese – fortunatamente chiusi – come non ricordare che per anni financo i dati delle loro emissioni inquinanti venivano truccati, mentre poco più giù la Centrale del Latte, accortasi della contaminazione da beta-esaclorocicloesano nella catena alimentare, si limitava a non rifornirsi dai pastori della zona, senza nemmeno lanciare l’allarme? Non sono animato da giustizialismo o da sete di vendetta, ma trovo inconcepibile che reati così odiosi nei confronti della popolazione tutta siano andati prescritti, dopo anni di tortuose chicanes giudiziarie.

Ho studiato a Pisa, e alla stazione di Viareggio sono sceso mille volte: per il mare, per il carnevale, per un’amica, per i quadri di Lorenzo Viani, per l’indimenticabile Cesare Garboli. Ora scendo anche per la statua commemorativa della strage del 2009. Non sono animato da sete di vendetta, ma quando passo trovo inconcepibile che alle famiglie delle case bruciate sia negata una qualche forma di giustizia.

L’altro giorno ero in Salento per lavoro, e sono passato nella cittadina di Oria, dominata da uno splendido castello medievale di età normanno-sveva, che racchiude in sé un’acropoli messapica, una chiesa bizantina, e il cortile da cui gli Aragonesi partirono per riconquistare Otranto ai Turchi: questo precipitato della storia d’Italia è di fatto chiuso al pubblico dal 2007, da quando una ditta l’ha acquistato dal precedente proprietario, intervenendo poi a squassarlo con malaugurati lavori di ristrutturazione volti a trasformarne la destinazione d’uso in location per banchetti nuziali. La magistratura è intervenuta, i responsabili della ditta hanno patteggiato, ma i funzionari della Soprintendenza, rinviati a giudizio per aver fornito autorizzazioni illegittime, veleggiano verso una felice prescrizione. (Il castello, intanto, rimane chiuso, e il ministro Franceschini potrebbe considerare la petizione di Mente Civica Oria che chiede di promuoverlo a “bene di interesse eccezionale”).

La prescrizione, come la Vodafone di Megan Gale, è tutta intorno a noi. Che la giustizia a un certo punto debba fermarsi è indubbio; ma non può ammettere di generare altro rancore e altra sfiducia, anche a livello simbolico. Perfino nella grande amnistia con cui Atene sanò la guerra civile che la lacerò all’indomani della Guerra del Peloponneso, fu fatta un’eccezione per gli omicidi e per chi aveva ricoperto cariche elevate: se volevano restare in città, dovevano sottoporsi al rendiconto. Che oggi la prescrizione, spesso raggiunta con artifizi, salvi proprio chi ha avuto più potere sulle vite degli altri, lo trovo inconcepibile.

Sud: l’idea geniale delle sardine

Le Sardine sono un movimento. I movimenti stanno alle istituzioni (partiti, sindacati, ecc.) come un mucchio di sabbia friabile e volatile sta a un mattone solido, compatto, strutturato. Ogni movimento esprime più desideri allo stato nascente che bisogni consapevoli, più proteste contro qualcosa da superare che progetti di qualcosa da costruire. Si limita a esprimere esigenze e denunziare problemi; sta poi ai politici, ai tecnici e ai burocrati risolvere questi problemi: sono pagati per questo. I movimenti sono acefali, non hanno ancora leader nominati o eletti che possano parlare in nome di tutti. Inutile, dunque, rimproverare alle Sardine di non comportarsi come un’istituzione, come un partito: non lo sono e non è detto che riusciranno mai a esserlo.

Tutti i partiti sono nati come movimenti, ma solo pochissimi movimenti riescono poi a diventare partiti. I Cinque Stelle sono un esempio concreto di queste difficoltà. La maturazione dei movimenti in partito può avvenire solo per crescita interna, perciò le raccomandazioni e i suggerimenti dei professori di professione, oltre a essere inutili, sono ridicoli.

La road map che alcune Sardine stanno percorrendo nelle stanze dei bottoni può essere molto utile sia per un loro primo contatto soft con il mondo istituzionale, sia per i politici che, se intelligenti e sufficientemente umili, possono ricavarne spunti informati per le loro strategie. I resoconti degli incontri con il ministro per il Mezzogiorno e i suggerimenti che gli hanno offerto le Sardine mi sono parsi molto utili.

Le regioni meridionali godono una posizione epicentrica, tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest del mondo. Hanno un clima invidiabile; un patrimonio storico e artistico tra i più densi del mondo. Eppure il loro reddito pro-capite è un terzo di quello piemontese o lombardo. Perché? Francesco Saverio Nitti ha dato la sua spiegazione politica, Salvemini la sua spiegazione geografica, Gramsci la sua spiegazione marxista, De Martino la sua spiegazione antropologica. Ma, tutte insieme, queste spiegazioni non riescono a rendere conto dell’autolesionismo, della bellicosità, della fatuità meridionali: di questa nostra incapacità a elevarci sopra tutto ciò che è effimero, mediocre, caotico.

Secondo Pasquale Turiello (Governo e governati in Italia del 1882), il nostro sottosviluppo economico e civile dipende dalla “scioltezza eccessiva degli individui… radice unica di più disordini che appariscono in forme e colori diversi”. E il termine “scioltezza” significa mancanza di legami, di leggi, di nomos tra i cittadini; equivale cioè proprio a quel concetto di anomìa che ha fatto la fortuna di Durkheim. Ne consegue che “individui così naturalmente e socialmente disciolti pregiano più le virtù solitarie che le civili e, tra queste, più quelle in cui si patiscono cose forti che quelle in cui si operi fortemente”.

In un suo studio insuperabile su Napoli e la questione meridionale, Nitti individua (siamo nel 1903) quattro punti dolenti, che restano tuttora cruciali: la depressione economica, per cui il Pil della città è decisamente inferiore a quello di Roma o di Milano; la debolezza finanziaria per cui le banche e la Borsa di Napoli sono ridotte a una funzione gregaria rispetto a quelle di altre piazze; la patologia dei rapporti sociali, per cui la solidarietà e la vivacità descritte da Goethe sono ormai degenerate in diffidenza, malumore e aggressività; la vita pubblica avvelenata dal disimpegno politico, dalla rissosità amministrativa, dalla carenza di progettualità, da ritardi operativi, dall’asservimento della sfera pubblica da parte dei politici faccendieri, degli speculatori economici, della criminalità associata. Ai tempi di Nitti le condizioni erano talmente diverse da quelle attuali che mai il grande sociologo lucano avrebbe potuto pensare al benessere come prodotto da creare e da vendere. In quegli anni il futuro era l’industria. Ma oggi siamo in tutt’altra situazione e Nitti, se dovesse riscrivere Napoli e la questione meridionale certo non punterebbe più sull’industria pesante ma prenderebbe in più seria considerazione, accanto a tutte le attività intangibili, anche quelle che riguardano la qualità della vita, non escluso il turismo. Le attuali circostanze generali sarebbero favorevoli allo sviluppo del Mezzogiorno perché, dopo aver perso per ben tre volte il treno dell’industrializzazione, un nuovo treno epocale gli passa accanto: il treno della società postindustriale. Ma per afferrare al volo questo treno prezioso occorre una dote che manca ai meridionali e i settentrionali possono vantare: la capacità organizzativa, la professionalità nella gestione efficiente delle risorse.

Perciò mi pare geniale l’idea delle Sardine: un Erasmus dei giovani meridionali nelle università del Nord e dei giovani settentrionali nelle università del Sud consentirebbe ai meridionali di apprendere come ci si organizza ai settentrionali come non sprecare le risorse.

Mail box

Domani sarò in piazza per difendere la Bonafede

Gentile Direttore, si susseguono i tentativi di “restaurazione”. I risultati ottenuti dal M5S sono a rischio di abolizione o depotenziamento, anche in base al risultato di una elezione regionale che non si può equiparare a delle politiche. E allora? Bisogna continuare a combattere, come sta facendo il Fatto con una informazione corretta e obiettiva, perché queste riforme introdotte grazie al M5S non vengano abolite o stravolte, ma invece calate nel tessuto sociale affinché tutti si rendano conto che senza queste riforme l’Italia è finita. Io sono qui pronta a impegnarmi per sostenerle, innanzitutto continuando a leggervi e a informarmi. Intanto sarò in piazza domani a tutela della Legge blocca-prescrizione e del taglio ai vitalizi. Quando leggo il Fatto ho un moto di orgoglio e mi sento meno sola, cosa che mi accade spesso quando vedo lo sconfortante, attuale “andazzo”: credo fortemente nell’onestà, nella lealtà e nel rispetto delle leggi come conditio sine qua non di una vita civile. Grazie e continuate così: io sono al vostro fianco.

Carolina Pandolfi

 

La denatalità non ha nulla a che fare con gli aborti

Riguardo la denatalità trattata ieri nella vostra rubrica “Lo dico al Fatto”, apprezzo la risposta puntuale e documentata di Maddalena Oliva e aggiungo che il tasso di abortività in Italia è inferiore a quello riscontrato in Francia e tra i più bassi nel mondo industrializzato; inoltre, laddove sono state introdotte legislazioni che hanno negato il ricorso all’aborto nella legalità non si è osservata alcuna crescita della natalità ma una crescita della mortalità materna.

Michele Grandolfo, Epidemiologo

 

Quella svolta “a 5 Stelle” di Papa Francesco

Tra le tesi che Marzano contrappone sulla (non) svolta di Bergoglio, forse ve n’è una terza: Bergoglio, alla fine, si è dovuto piegare al dogma unico della Chiesa romana. Molto probabilmente, Francesco aveva capito che “questa” Chiesa è ormai un inevitabile preludio a una lenta e agonizzante estinzione… Forse esiste un parallelo speculare con la parte politica del Paese: Papa Francesco voleva dare alla Chiesa una svolta “a 5 Stelle”, e si è ritrovato, suo malgrado democristiano.

Giovanni Marini

 

Solidarietà a Zaki: il governo prenda decisioni ferme

Massima solidarietà per il giovane Zaki arrestato in Egitto e sottoposto a torture per essere un dissidente politico. Un paio di osservazioni sono obbligatorie: contro di lui era stato spiccato mandato di cattura già il 23 settembre 2019; nonostante ciò il giovane è partito per l’Egitto. Inoltre fra i tanti che protestano contro la sua carcerazione figurano anche personalità di spicco del governo, che fanno un parallelo tra il “caso Zaki” ed il “caso Regeni”. Bene, perché non fanno l’unica cosa che avrebbe un senso concreto, anziché mulinare solo parole e inviare comunicati stampa, cioè rompere le relazioni diplomatiche con l’Egitto?

Giancarlo Callegari

 

“Italiani brava gente”: un mito pernicioso da sfatare subito

In un carteggio che ho avuto anni fa con il sociologo britannico di origini ebraiche Stanley Cohen, osservai una rilevante lacuna presente in una delle sue più note pubblicazioni che parlava dei crimini di guerra (Stati di Negazione – La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci). Nel testo erano stati palesemente omessi i crimini commessi dall’Italia, ovvero dagli italiani, durante il periodo coloniale e durante la seconda guerra mondiale. Stan mi rispose concordando pienamente e invitandomi a collaborare alla riedizione dello stesso libro, ma si ammalò gravemente e il progetto svanì nel nulla. Il recente Giorno del ricordo mi ha suscitato la memoria di questo episodio. Le esternazioni di Salvini come anche di altri personaggi che condannano solennemente i crimini delle foibe nei confronti degli italiani e della Shoah da parte dei nazisti, tralasciando naturalmente quelli del fascismo, fanno sentire con particolare impellenza la necessità di sfatare il consolidato mito degli “italiani brava gente” che sostanzialmente consiste nel sentirsi al cospetto dell’altro (“slavi barbari”, “tedeschi nazisti”…) sempre e solo come vittime e mai come carnefici. Mito che, come sosteneva Cohen (ma non solo, anche don Milani), sarebbe la rappresentazione psicotica di uno stato collettivo di negazione di massa attuato più o meno coscientemente da un’intera classe politica e come tale, quindi, assolutamente nocivo per la salute di un popolo.

Adam Seli

 

La pericolosità patologica e dispotica di Salvini

Salvini è stato mandato a processo per sequestro di persona, ma dovrebbe esserlo per pericolosità patologica. Chi ha un ego ipertrofico l’altro nemmeno lo considera, non ne capisce i bisogni, le necessità, le paure. Annega nel proprio ego e considera l’altro in modo solo strumentale, usandolo come un oggetto inanimato per i propri scopi, come fa lo schiavista con lo schiavo o il politico disumano con i gruppi deboli di cui può servirsi per i propri scopi. Ingoia l’altro nella sua pancia. È totalitario e dispotico. Respingere in modo assolutistico ogni diverso prima che disumano è demenziale. La piaga del genere umano è proprio la paura e il rifiuto della diversità. Solo un pazzo o un fanatico o un uomo poco intelligente possono pretendere che ci sia un solo modo giusto per vivere, per fare religione o medicina o diritto o sesso. Questa pretesa è una perversione. Ma nella storia questa perversione è stata imposta come anticamera delle dittature.

Viviana Vivarelli

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, nel commento di Antonio Esposito “Altri delirii togati sulla prescrizione”, abbiamo erroneamente sciolto “Pg” in Polizia giudiziaria, quando invece l’ex magistrato si riferiva alla Procura generale. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

Fq

“La Napoli-Bari serve eccome” “No, con 6 miliardi si poteva fare ben altro”

Buongiorno direttore, ho letto l’articolo di Giorgio Ragazzi sul Fatto Quotidiano di mercoledì, dal titolo “Napoli-Bari, 6 miliardi per risparmiare mezz’ora”, su un progetto delle ferrovie per la linea dell’Alta velocità.

L’analisi dell’autore replica i motivi per cui si è preferito investire al Centro-Nord (si vedano in proposito gli studi di Legambiente sul trasporto ferroviario), ma con questa mentalità il Sud Italia rimarrà sempre una colonia interna. Riattivare solo due corse al giorno nella tratta Bari-Napoli significa condannare all’insuccesso l’iniziativa, ovvero la profezia che si autoavvera. Inoltre l’autore dell’articolo dovrebbe spiegare perché l’Alta velocità esiste solo al Centro-Nord e perché mai sarebbe uno spreco solo se la si fa al Sud. Cordiali saluti.

Michele Putignano

Gentile signor Putignano, gli investimenti in ferrovie dove non vi sia sufficiente traffico per giustificarli sono uno spreco di risorse, al Nord come al Sud, e indeboliscono l’economia. Dovrebbe condividere questa preoccupazione anche chi vive al Sud, se si sente parte della comunità nazionale che paga le imposte. Se invece considera l’Alta velocità come un “regalo” pagato prevalentemente dal “Nord” allora dovrebbe chiedere che le risorse del “Nord” siano indirizzate nei settori più efficaci per promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. Con 6 miliardi si troverebbero certo impieghi migliori che non ridurre di mezz’ora il tragitto da Napoli a Bari per poche migliaia (o centinaia?) di passeggeri al giorno.

Giorgio Ragazzi

I fratelli Rocca a processo per corruzione

La notizia in sé dirà poco al lettore: i fratelli Gianfelice e Paolo Rocca sono stati rinviati a giudizio, ieri a Milano, per corruzione internazionale insieme a Roberto Bonatti, tutti e tre considerati soci di riferimento e amministratori di San Faustin, la holding lussemburghese che contiene l’impero dei due fratelli, rinviata a giudizio anch’essa. L’accusa, ci torneremo, è aver corrotto tra il 2009 e il 2012 un dirigente della compagnia petrolifera pubblica del Brasile, Petrobras, per ottenere commesse quantificate in quasi un miliardo e mezzo dell’epoca.

Un processo tra i tanti se non fosse per i fratelli Rocca, poco mediatici ma assai importanti, ancorché milanesissimi, “imprenditori dei due mondi”. Se il nome dice poco non importa: i due, secondo la classifica 2019 di Forbes, con 4,1 miliardi di euro sono all’ottavo posto, giusto dietro Silvio Berlusconi, nella classifica dei più ricchi d’Italia; il solo Paolo Rocca, che risiede in America Latina, è al posto 199 del Bloomberg Billionaire Index. Roba grossa, insomma, che affonda le sue radici nella storia d’Italia. Il nonno degli attuali proprietari del gruppo si chiamava Agostino Rocca e fu uno dei manager che, guidati da Oscar Sinigaglia, tentò di riorganizzare la siderurgia italiana su incarico di Mussolini. Sinigaglia, dopo la guerra, guidò la Finsider (Iri), Agostino Rocca invece se ne andò in Argentina e fondò la sua prima fabbrica di tubi in acciaio senza saldatura, cioè il prodotto a marchio Techint che ha fatto la fortuna sua e dei suoi eredi.

Vuole la leggenda che il fondatore partì per il Sudamerica il 15 febbraio 1946, giorno di San Faustino, ed ecco spiegato il nome della holding con dentro “più di 450 società che operano in 45 Paesi impiegando 80.000 persone”, dice la stessa società rigettando le accuse dei pm Costa e Palma. Dentro San Faustin ci sono anche le attività esclusivamente italiane come l’Istituto clinico Humanitas di Milano, fondato da Gianfelice, peraltro dal 2013 al 2017 presidente di Assolombarda, cioè il ramo di Confindustria nella regione più importante del Paese a livello economico.

L’accusa è questa: il brasiliano Renato Duque sarebbe stato corrotto con 6,5 milioni di euro per assegnare nel periodo 2009-2012 a Confab, società all’epoca controllata da San Faustin, commesse Petrobras per i tubi da 1,45 miliardi. I soldi sarebbero arrivati da società uruguayane del gruppo a un intermediario che li avrebbe poi messi a disposizione di un prestanome di Duque: i pm considerano i Rocca e Bonatti direttamente responsabili di questa corruzione. San Faustin nega le accuse, fa presente che in quegli anni ha fatturato 90 miliardi e, in sostanza, che non si capisce perché sia stata rinviata a giudizio in Italia visto che nessuna società coinvolta è italiana.

Il cda fa pranzi luculliani? Ecco il “mini-pasto” del pilota Alitalia

Una mini-mela dal diametro di appena due falangi dell’indice, una fettina trasparente di pomodoro e una di melanzana, un paninetto avvolto nel cellophane non più grande del mignolo, verdurine anemiche miste in una ciotolina, due fettine esangui di bresaola con fogliette verdi di qualcosa che un tempo somigliava alla rucola. Ogni volta che in cabina gli arriva quel pasto da lillipuziano, il pilota di Alitalia che ci ha consegnato queste foto tristanzuole, scattate davanti agli strumenti di pilotaggio, non riesce a reprimere un vaffa (tra sé e sé, naturalmente, perché è ben educato). Dice che la stessa reazione ce l’hanno tutti i colleghi con cui gli capita di scambiare due chiacchiere. Da ieri il suo vaffa è ancora più convinto.

Da “Radio Pista” gli erano arrivate voci di catering luculliani ordinati a suo tempo dai manager italo-arabi per celebrare le nuove “strategy”, costati nel complesso 600 mila euro, e divorati dai nuovi capi, i quali, come Maria Antonietta a Versailles con la folla fuori che issava i forconi, non si vergognavano di strafare nonostante fosse chiaro a tutti che la compagnia stava perdendo inesorabilmente quota.

Come se la tragedia non li riguardasse, mai sfiorati dal dubbio che mentre ai dipendenti veniva imposto di tirare la cinghia forse loro potevano rinunciare almeno a qualche ostentazione. Qualche giornale l’aveva anche scritto di quei catering fuori luogo, ma il pilota, un tetragono aziendalista, non ci voleva credere.

Leggendo Il Fatto il pilota ieri ha avuto la conferma: quei pranzi inopportuni e le relative, costose fatture hanno calamitato l’attenzione anche dei magistrati della Procura di Civitavecchia che pure in quelle spensierate occasioni conviviali hanno individuato tracce di reato. Perfino con quei rilassanti e succulenti pranzetti i grandi capi, amici e complici di Alitalia-Etihad, non hanno resistito all’impulso della furbata e arrivati al prosit hanno tentato con poco garbo di fare come quegli screanzati che a Roma fanno il “vento”, sparendo per non pagare il conto o peggio facendolo pagare al più fesso. E a questo punto al pilota il solito pranzo, si fa per dire, con quelle misere porzioni da bimbi dell’asilo, gli è andato pure di traverso.

Parlando col Fatto gli sono venute in mente le mille volte che ha dovuto buttar giù rospi durante quegli anni da incubo. Come quando successe che una signora presentata come una super-manager dai nuovi padroni arabi volle dare un tocco di classe al look delle assistenti di volo della compagnia italiana imponendo a tutte, comprese compassate signore a due passi dalla pensione, di presentarsi con labbra dipinte rosso fuoco e calze color verde prato. E specificando pure cosa dovessero indossare sotto come intimo.

Il pilota ricorda di quando gli arabi arrivarono con in bocca la promessa di aumentare il numero degli aerei e dopo 6 mesi dalla flotta erano scomparsi i primi 4 jet: “Capii che ci stavano prendendo per i fondelli e che sarebbe finita male”. Così fu, purtroppo. Ma siccome Dio acceca chi vuole perdere, sulle scempiaggini di quella stagione non è stata messa una pietra sopra. I manager venuti dopo hanno cambiato nome e padrone e si chiamano commissari, ma non hanno perso il vizio. Tutti i giorni il pilota deve salire su un aereo non pulito o pulito male e ogni volta si chiede chi, tra i nuovi capi di Fiumicino, ha avuto la fulminante idea di non far più pulire a ogni volo la cabina dei passeggeri per risparmiare. Così chi sale per un nuovo volo trova i sedili con le briciole del volo precedente mentre gli assistenti di cabina non sanno dove guardare per la vergogna. Il pilota ricorda che due anni fa, proprio negli stessi giorni in cui decisero di non pagare la tredicesima ai dipendenti per risparmiare, la flotta aziendale dei capi fu rinnovata con una quarantina di vistosi suv Cherokee.

Siae, Franceschini aumenta l’obolo su smartphone e tv

Le passioni, si sa, non si piegano alle leggi della ragione. E questo lo sa bene Dario Franceschini, il ministro dei Beni culturali, che tra una settimana riuscirà a riaccenderne una delle sue preferite, grazie all’approvazione del nuovo decreto che aumenta i “compensi per copia privata”. Che altro non sono che il tributo che i consumatori pagano alla Siae sull’acquisto di un qualunque dispositivo di memoria per la possibilità, anche solo potenziale, di copiare opere protette da diritto d’autore. Un obolo che solo lo scorso anno ha fruttato 130 milioni di euro grazie alla tassa, inglobata nel prezzo, su smartphone, computer, tablet, schede di memoria, chiavette usb, cd e dvd e presto anche sugli smartwach che viene girata alla Siae, visto che su questi supporti viene riprodotta (o meglio potrebbe esserlo) musica, video e altre opere tutelate.

La stangata è stata inserita nella bozza di decreto ministeriale che verrà discussa il prossimo 20 febbraio in un’audizione con Agcom, Confindustria, sindacati e 38 tra associazioni di categoria e dei consumatori chiamati a dire la loro. Lì dovrebbe compiere la strana recita: Franceschini si opporrà alle accuse di non poter obbligare il consumatore a pagare anche per le copie che non può fare. Del resto, in tempi in cui nessuno fa più copie private, il balzello dovrebbero essere se non azzerato almeno fortemente ridotto. Ma nello stesso tempo il ministro spiegherà che non si può non rivedere le fee al rialzo e firmerà il decreto. Agli italiani non resterà altro che sborsare soldi per qualcosa che da anni ha perso ragione d’essere. Una pratica che non c’entra nulla con la pirateria: si parla, infatti, di copie effettuate dagli utenti di opere legittimamente possedute e si paga sulla base della presunzione di utilizzo.

Come emerge dalla bozza, il nuovo tariffario prevede leggere limature al ribasso per schede Usb, schede di memoria e supporti vergini, ormai quasi spariti dal mercato. Ma riversa i maggiori rincari sui device di maggior utilizzo con l’introduzione del compenso anche sugli smartwatch, per i quali è previsto un prelievo variabile tra 2,20 euro e i 5,60 euro a seconda della memoria. Nel dettaglio, sale poi l’importo per i pc che passa da 5,20 a 6,90 euro. Mentre per quanto riguarda smartphone e tablet il compenso viene pesantemente aumentato: si riducono di soli 10 centesimi i tagli sotto i 16 gigabyte di memoria, resta costante a 4,80 euro il taglio tra 16 e 32 Gb, ma oltre i 32 Gb si passa da 5,20 euro a 6,90 euro. Basta moltiplicare questo importo per il numero di smartphone venduti in Italia per farsi un’idea di quanto guadagnerà la Siae. Modifiche contro cui si è già schierato il mondo delle imprese. “È una proposta di decreto che finirà col penalizzare l’innovazione e che va in contrasto alle abitudini dei consumatori che non ricorrono più alla copia privata per fruire dei contenuti audiovisivi”, ha commentato Marco Gay presidente di Anitec-Assinform. Mentre Altroconsumo ha sempre sostenuto che “la tassa che la Siae dovrebbe ridistribuire ad autori ed editori, di fatto va agli artisti più importanti”.

Ma nulla si può contro le passioni. Tanto che questa è la seconda volta che il ministro Franceschini fa approvare la tabella dell’equo compenso con stangata incorporata. Un po’ di storia. Ha apposto la sua firma nel luglio 2014, quando con l’adeguamento che ha imposto (la tassa era stata creata da Sandro Bondi il 31 dicembre 2009) ha consentito alla Siae, che ha il compito di redistribuire il gettito agli iscritti, di guadagnare in un solo colpo oltre 50 milioni di euro in più rispetto all’anno precedente, pari a un incremento del 75%: dai 67,1 milioni del 2014 ai 117,5 del 2015. E le solite malelingue ricordano che Franceschini adeguò le tariffe a quelle attuali, raddoppiando la raccolta, rendendo pubblico il decreto praticamente durante la partita dell’Italia ai Mondiali di calcio.

Guardando agli ultimi 10 anni, l’ammontare complessivo dei compensi per copia privata, che valeva 44 milioni di euro nel 2009, ha toccato quota 129,4 milioni di euro nel 2017 e 127,7 milioni nel 2018, pari a circa il 20% dell’intera raccolta Siae per diritti d’autore. Come nel 2014 Franceschini ha esteso l’obbligo a nuove categorie di prodotti (come televisori, tablet e hard disk), anche questa volta ha allargato la platea dei device coinvolti come gli smartwatch e gli altri device che si possono indossare. Le passioni sono per sempre.