Contagi, Usa: “Cina non è trasparente” L’Ue teme per il Pil

Washington accusa Pechino di scarsa trasparenza nella gestione dell’epidemia di Covid-19. Poche ore dopo che le autorità cinesi hanno annunciato i nuovi criteri utilizzati nel conteggio dei contagi, il consigliere economico della Casa Bianca Larry Kudlow ha portato l’affondo: “Il presidente Xi aveva promesso al presidente Trump che la Cina sarebbe stata aperta alla cooperazione, anche con l’Onu e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e che avrebbe accettato il nostro aiuto. Ma non lo stanno facendo”, ha detto l’esponente dell’amministrazione Usa. Che ha aggiunto: “Non è questione di Pil, ma di cosa sta accadendo alla salute del popolo cinese”.

Poche ore prima le autorità della provincia dello Hubei, epicentro dell’epidemia, avevano comunicato che in un solo giorno il coronavirus ha ucciso 242 persone, portando a 1.350 i decessi in Cina, dove i contagi salgono a quota “48.206”. Nello stesso aggiornamento, la commissione sanitaria ha confermato altri 14.840 nuovi casi. L’impennata è dovuta a una modifica dei criteri utilizzati nella definizione di “caso” decisa dalle autorità sanitarie. A partire dal 12 febbraio, ha confermato l’Oms, lo Hubei include tra i casi confermati anche quelli diagnosticati clinicamente. “Il cambiamento nella definizione è stato fatto per includere pazienti che presentano i sintomi della malattia, che ovviamente sono molti di più – spiega al Fatto Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene e Medicina preventiva dell’università di Pisa – Sono quelli che si trovano nei focolai epidemici, hanno febbre, tosse e polmonite ma non hanno ancora avuto la conferma di laboratorio”. “Ora nella provincia dello Hubeiun medico può classificare un caso sospetto di Covid-19 come caso clinicamente confermato sulla base di lastre del torace – prosegue il docente – Per questo il numero è aumentato. Lo scopo è includere nei programmi più gente possibile e sottoporla al più presto alle cure. Inoltre in questo modo la stima diventa un po’ più attendibile”, conclude Lopalco. Dei 14.840 casi aggiunti, si calcola, 13.332 sono dovuti alla nuova classificazione, mentre 1.508 sono realmente nuovi contagi.

Se gli Usa esprimono dubbi, Sergio Mattarella ha rinnovato il sostegno di Roma a Pechino: “Abbiamo un nemico comune nell’epidemia in corso e come ha scritto il presidente Xi Jinping nel messaggio che mi ha inviato, le difficoltà sono temporanee, le amicizie imperiture”, ha detto il presidente della Repubblica parlando al Quirinale in occasione dei 50 anni delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. “L’Italia – ha aggiunto – esprime fiducia e sostegno alla Cina nell’emergenza contro l’epidemia e nell’impegno per assicurare la sicurezza sanitaria internazionale”.

Da ieri il timore delCovid-19 serpeggia anche tra le pieghe delle previsioni sul futuro dell’economia europea che arrivano da Palazzo Berlaymont e nell’analisi che ne viene fatta negli uffici di via XX Settembre. Le stime per l’Ue a 27 e la Zona Euro restano invariate, ha comunicato la Commissione europea: nel 2020-2021 cresceranno rispettivamente di 1,2% e 1,4%, come previsto a novembre. “La crescita prosegue con passo costante e moderato”, scrive Bruxelles, che mette in guardia dai “nuovi rischi” come il Coronavirus che la lasciano le prospettive “ancorate al ribasso”. Per ora si vedono effetti globali “limitati”, ma “più a lungo dura e più essi impatteranno su sentimento economico e condizioni globali di finanziamento”.

Nel club dei Paesi Ue, prevede l’esecutivo comunitario, l’Italia è il fanalino di coda: Roma crescerà appena dello 0,3% nel 2020, dopo essere aumentato dello 0,2% nel 2019, per poi espandersi dello 0,6% nel 2021. Solo tre mesi fa la crescita prevista era dello 0,4% per quest’anno e dello 0,7% per il prossimo. Nel commentare i dati il ministero dell’Economia italiano ha sottolineato il “fattore di rischio per la crescita globale” costituito dal Coronavirus, “che impatterà anche sull’economia italiana per almeno due-tre mesi ma i cui effetti non possono ancora essere quantificati”.

Paolo Gentiloni inquadra addirittura l’epidemia come “primo rischio” per le prospettive dell’economia dell’Ue. L’impatto della malattia sulla “salute pubblica, sulle vite umane e sull’attività economica resta incerto”, dato che, ribadisce il commissario europeo all’Economia, “dipenderà molto dalla durata dell’epidemia e dalle misure di contenimento dispiegate e da quelle adottate dalla Cina”.

Morte sul treno, c’era un pezzo “difettoso”

Il treno Frecciarossa è deragliato all’altezza di Ospedaletto Lodigiano a causa di uno scambio lasciato aperto e che invece era stato segnalato nel “corretto tracciato”. Alla base di questo errore c’è da ieri una certezza: l’attuatore, ovvero l’elemento che apre e chiude lo scambio, aveva un difetto di costruzione nei cablaggi, funzionava cioè al contrario. Per questo da ieri è iscritto nel registro degli indagati Michele Viale, l’amministratore delegato di Alstom ferroviaria con sede a Firenze, la società francese che produce questi elementi per Rfi. Il ricambio è stato costruito in Toscana.

Il difetto è stato riscontrato mercoledì dopo gli accertamenti irripetibili e comunicato alla Procura di Lodi. Salgono così a sette gli indagati. Dopo i cinque operai che la mattina del 6 febbraio hanno lavorato sul “deviatoio”, e dopo la società Rfi per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa, ora tocca al manager di Alstom. All’ad si contestano le stesse accuse dei manutentori: omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose. E visto l’ingresso di un nuovo indagato la prossima settimana dovranno essere rifatti gli accertamenti sullo scambio. Gli indagati, spiega la Procura, potrebbero aumentare soprattutto sul fronte di chi ha costruito l’attuatore. L’incidente ha provocato la morte dei due macchinisti e il ferimento di 31 persone. La notizia del difetto è stata comunicata dal direttore dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle Ferrovie, Marco D’Onofrio, durante l’audizione in commissione Lavori Pubblici del Senato. Subito, ha spiegato il procuratore di Lodi Domenico Chiaro, è stato diramato un alert sicurezza a livello Ue “perché quei componenti vengono venduti in tutta Europa”. Bisogna però dire che fino a oggi gli attuatori montati sulla linea alta velocità non hanno dato problemi.

Torniamo alle 4:45 del 6 febbraio, quando un fonogramma inviato alla centrale operativa di Bologna conferma che lo scambio, pur disalimentato, è stato messo in posizione normale. In quel momento i manutentori hanno concluso l’intervento. Conclusione parziale perché durante i lavori, metteranno a verbale i cinque dipendenti di Rfi, “sono emerse alcune incongruenze”. Non dicono “il pezzo era difettoso”, anche perché non possono accorgersene pienamente. L’attuatore aveva i cablaggi del movimento di apertura e chiusura invertiti. Particolare non riscontrabile dagli operai. Il pezzo, infatti, arriva sigillato e così viene montato. I cavi sono interni e su questi gli operai non hanno lavorato. Poco prima di chiudere l’intervento i manutentori comunicano con Bologna, il carteggio è stato sequestrato. La Procura esclude però responsabilità di Bologna. Perché lo scambio, pur disalimentato, era tracciato nella rete . Il segnale però era ingannevole, visto che l’attuatore funzionava al contrario, cioè chiuso significava aperto, ed è quello che ha visto Bologna. Anche per questo, ieri, D’Onofrio ha spiegato: “L’anomalia giustifica il problema che hanno trovato i manutentori”. Si tratta, però, di “una prima evidenza, ma non giustifica tutto”.

Questo passaggio introduce l’ipotesi di un errore umano. Quando gli operai, due in particolare, hanno richiuso lo scambio lo hanno fatto, spiega la Procura, in modo elettrico. Il comando si azione dalle palazzine di Livraga. “Noi – metteranno a verbale i cinque – lo abbiamo lasciato chiuso”. Ma se i comandi erano invertiti la chiusura equivaleva all’apertura. Quello che è mancato è stato l’ultimo check, ovvero tornare sul binario per accertarsi che fosse chiuso. Dovevano farlo? Non è detto, dipende dalle procedure che sono al vaglio del pm.

Bocciato l’aeroporto “renziano”. La rabbia di Lotti e Nardella

Una pietra tombale sull’ampliamento dell’aeroporto di Firenze voluto da Matteo Renzi e Marco Carrai. Con una sentenza di 95 pagine il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso di Toscana Aeroporti (il cui Presidente è lo stesso Carrai), Regione, Comune di Firenze, Enac e ministeri dell’Ambiente e dei Beni Culturali che l’estate scorsa si erano opposti alla prima bocciatura del decreto di Valutazione impatto ambientale (Via) da parte del Tar della Toscana. Adesso le istituzioni hanno annunciato che ripresenteranno la Via accogliendo le richieste del Consiglio di Stato, con due problemi: dopo le due sentenze amministrative il progetto rischia di essere stravolto e comunque si riparte da capo, con il rischio che i 5S del governo giallorosa si oppongano comunque.

Secondo i giudici amministrativi, infatti, la commissione che avrebbe dovuto valutare l’impatto ambientale ha esondato dalle proprie competenze: “Non si è limitata a dettare condizioni ambientali ma, da un lato – si legge nella sentenza – ha imposto la ricerca e/o lo sviluppo di nuove soluzioni progettuali, dall’altro ha richiesto l’effettuazione e/o l’approfondimento di studi che avrebbero dovuto essere presentati ex ante ai fini dell’ottenimento della Via e non semplicemente verificati ex post”.

Per questo i giudici di secondo grado hanno confermato la sentenza del Tar della Toscana che il primo giugno 2019 aveva accolto il ricorso dei sette sindaci della piana fiorentina (Prato, Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio, Calenzano, Carmignano, Poggio a Caiano e Signa) e dei comitati.

Il progetto dell’ampliamento di Peretola era partito nel 2014, quando il consiglio regionale aveva approvato il piano d’indirizzo territoriale (Pit) con una nuova pista da 2.400 metri, già bocciato una prima volta dal Tar nel 2016. Il masterplan successivoe prevedeva un investimento di circa 350 milioni, di cui 200 finanziati da Toscana Aeroporti Spa: a inizio febbraio 2019, poi, la conferenza dei servizi del ministero delle Infrastrutture aveva dato il via libera tecnico. Il piano ha trovato ostacoli nella maggioranza gialloverde – il M5S è contrario mentre la Lega era a favore – e poi anche dai giallorosa. Matteo Renzi, dopo aver contribuito a formare il governo Conte, a settembre non l’aveva mandato a dire: “Sono certo che su aeroporto di Firenze e sistema museale fiorentino il Conte 2 avrà un approccio radicalmente diverso – aveva detto –, senza di noi non c’è governo, è chiaro?”.

I 5 Stelle negli ultimi mesi, in vista delleRegionali in Toscana, avevano alleggerito la propria opposizione astenendosi in consiglio regionale su una mozione presentata dal Pd sul rilancio delle “infrastrutture strategiche” tra cui proprio l’ampliamento di Peretola. Ieri però, dopo lo stop alla trattativa con i dem, la candidata grillina Irene Galletti ha esultato: “I giudici hanno bocciato il capriccio di Renzi e dispiace che Eugenio Giani abbia basato la sua campagna elettorale su un cavallo zoppo”. La stessa opinione dei comitati contro l’opera: “I giudici smontano tutto il progetto – dice al Fatto, il presidente Gianfranco Ciulli –, è la fine della nuova pista e ci vorrà una bella faccia di tolla per ripresentarlo. Ma se qualcuno lo farà, noi continueremo a fare i guardiani della Piana fiorentina”. A difesa di Peretola è intervenuto l’ex sottosegretario e ministro dello Sport, il toscano Luca Lotti: “Prendiamo atto della sentenza, ma resto fermamente convinto che l’aeroporto di Firenze abbia la necessità di dotarsi di una nuova pista”. Dello stesso tenore le reazioni del sindaco di Firenze Dario Nardella e del governatore Enrico Rossi: “Andremo avanti” dicono in coro. Come non è dato saperlo.

“Questo è il risultato se fai affari con al-Sisi”

Dopo anni di resistenza, prima verso la dittatura di Mubarak, quindi contro la deriva dispotica dell’ex presidente della Fratellanza Musulmana Morsi, e, infine nei confronti della repressione capillare di al-Sisi, lo scrittore e saggista egiziano Ala al-Aswani, il cui best seller Palazzo Yacubyan è il libro in lingua araba più letto dopo il Corano, ha deciso di non rientrare più nel suo paese.

“Un anno fa, mentre mi trovavo negli Stati Uniti per presentare il mio ultimo romanzo, Sono corso verso il Nilo, il mio avvocato mi ha informato che la magistratura militare del Cairo aveva aperto un’inchiesta su di me accusandomi di diffamazione ai danni dell’esercito e di diffusione di notizie false relativamente al contenuto del romanzo che peraltro tutte le case editrici egiziane avevano rifiutato di pubblicare costringendomi a rivolgermi a quelle straniere. Dopo essere stato bandito da tutti i media ed essere stato sottoposto a umilianti e pretestuose perquisizioni di ore in aeroporto ogni volta che tornavo dall’estero, pedinato e ascoltato nelle mie conversazione telefoniche, ho ritenuto che in Egitto non ci fossero più le condizioni per continuare a fare in modo indipendente il mio lavoro.

Forse non ho capito bene. La accusano di diffondere notizie false sulla base di quanto ha scritto in un romanzo, ovvero in un’opera dichiaratamente di fiction?

Sì, è così. Lo so che è illogico e assurdo ma ormai in Egitto, come in ogni dittatura, la realtà non conta più. L’unica logica imperante è schiacciare nel modo più violento possibile i diritti civili, tra cui la libertà di espressione, allo scopo di terrorizzare la popolazione. Uno degli ultimi esempi della dittatura paranoide e sanguinaria di al-Sisi coinvolge ancora una volta il vostro paese.

Si riferisce al caso di Patrick George Zaki, il ragazzo egiziano universitario a Bologna finito in carcere a Mansura?

Esatto. Purtroppo anche in questo caso risulta evidente che in Egitto si finisce sotto tortura e in carcere anche solo per aver messo dei like ad alcuni post a favore della libertà di espressione.

O per chiedere la verità sul caso Regeni?

Non c’è dubbio che il dittatore al-Sisi non tollera chi vuole vedere dietro le sbarre i mandanti e gli esecutori delle torture e dell’omicidio di Giulio.

È possibile che Patrick sia stato arrestato per la sua solidarietà nei confronti della famiglia Regeni?

Ripeto: in Egitto ormai si viene torturati e incarcerati con ogni pretesto e, siccome la magistratura ordinaria e militare è manovrata dal dittatore al-Sisi e dal suo entourage, non c’è speranza di ottenere giustizia dai giudici. Le accuse vengono prefabbricate senza remore, a costo di uccidere altre persone innocenti, come nel caso degli egiziani freddati dalle forze dell’ordine dopo una grottesca messinscena per far credere a voi italiani che fossero gli assassini di Regeni, come succede spesso del resto nelle dittature. Persino Mubarak non era arrivato a questo livello di repressione del dissenso.

Perchè al-Sisi può permettersi di massacrare anche i cittadini stranieri?

Perchè l’Italia, così come gli altri paesi democratici, è più interessata a difendere gli interessi economici, a continuare a commerciare con l’Egitto anzichè a difendere i propri cittadini.

Lei ora dove vive?

Sono ancora negli Stati Uniti e a breve andrò in Francia dove terrò dei seminari di scrittura.

Quando leggeremo una sua nuova opera?

Alla fine dell’anno uscirà la versione italiana del mio ultimo saggio che è stato pubblicato alcuni mesi fa in Inghilterra.

Come si intitola e di cosa tratta ?

Il titolo è La sindrome del dittatore ed è una riflessione sulle caratteristiche dei despoti a partire dal secolo scorso.

“Pace e petrolio”: il nuovo appello dell’Italia a Haftar

Annunci, razzi, ringraziamenti e smentite. L’incontro con l’altro protagonista della crisi libica, il generale Khalifa Haftar è per il ministro degli Esteri italiano occasione per ribadire che solo la soluzione diplomatica può portare la pace e, prima di tutto, il cessate-il-fuoco. Ma ciò che accade nel mentre Luigi Di Maio e il generale di Bengasi si intrattengono in un tête-à-tête di circa un’ora e mezza senza le delegazioni (come ha tenuto a far sapere l’entourage del ministro) non è parso di buon auspicio: razzi sono stati lanciati sull’aeroporto Mitiga di Tripoli, l’unico scalo aperto della capitale libica, che infatti ha dovuto chiudere per diverse ore.

Intanto i voli dall’Italia alla Libia non si fermavano: almeno tre velivoli dell’Aeronautica militare, facevano la spola tra la nostra penisola e il golfo di Sirte per controllare lo spazio aereo e portare aiuti e personale non specificato alla missione medica aperta dall’Italia nella roccaforte delle milizie pro-Serraj. Il governo di Tripoli fa sapere che per combattere assieme al generale della Cirenaica sono state assoldate anche bande di miliziani del Darfour, regione del Sudan.

Entusiasticamente, o forse furbescamente, il canale tv Al Arabiya annuncia l’accordo tra Haftar e Di Maio sulla protezione dei confini marittimi; mezz’ora dopo la Farnesina è costretta a smentire. Ciò non smorza il fervore dei media attorno ad Haftar tanto che viene riportato come il generale abbia “anche elogiato gli sforzi compiuti dal governo italiano per sostenere i mezzi per risolvere la crisi”. E le fatiche dell’Italia sono poi riassunti da Di Maio su Facebook: “La strada da seguire deve essere inevitabilmente quella del dialogo e della diplomazia. Stiamo lavorando concretamente affinché quella strada sia intrapresa da ambo le parti ed è fondamentale per noi che gli esiti della conferenza di Berlino siano rispettati. Non esitai a dire all’inizio del mio mandato alla Farnesina che era stato perso del terreno in Libia, oggi però è altrettanto doveroso dire che qualcosa è stato recuperato. Siamo tornati ad avere un peso determinante in Ue e una indubbia affidabilità con tutti gli attori coinvolti, questo grazie anche al lavoro dei nostri tecnici, del corpo diplomatico e dei nostri apparati di intelligence”.

In concreto i messaggi all’antagonista del premier riconosciuto da Onu e comunità internazionale occidentale Serraj, sono: stop alle azioni militari e maggior impegno sul dialogo del 5+5 (il gruppo di lavoro composto da 5 membri della Tripolitania e 5 della Cirenaica sulla stabilizzazione del cessate il fuoco, ndr) e la necessità di superare la chiusura dei terminal petroliferi, decretata da settimane da Haftar e costata già centinaia di milioni in mancati introiti per tutta la Libia. Su questo punto il ministro degli Esteri ha fatto sapere di essere stato particolarmente diretto: “In questo modo si affama solo la popolazione libica e poi ti ricordo che noi abbiamo l’Eni, ci sono anche i nostri interessi”, avrebbe detto all’interlocutore di Bengasi. Il generale si sarebbe detto di esser pronto a trovare una soluzione che si potrebbe discutere già il 18, appuntamento del prossimo incontro tra gli uomini di Serraj e quelli di Haftar.

La scaletta dell’attività del titolare della Farnesina per recuperare il tempo perduto e compiere tutto il diplomaticamente possibile prevede già domenica l’incontro con gli altri ministri degli Esteri europei, e martedì vedrà a Roma il ministro degli Esteri russo Lavrov, principale sostenitore di Haftar, per finire con il vertice italo-francese del 27 a Napoli.

Roma come Berlino: basta far ripartire il Sud

Potremmo essere come la Germania, o almeno la Francia. Dal punto di vista economico, s’intende. Potremmo essere il Paese più ricco d’Europa, o giù di lì, se lo sviluppo del Sud seguisse una logica industriale simile a quella del Nord. Lo sostengono due economisti autorevoli, Alberto Quadrio Curzio, presidente emerito dell’Accademia dei Lincei, e Marco Fortis (già consigliere d’amministrazione della Rai). “La Germania è ancora molto distante, ma la Francia è raggiungibile”, chiarisce Quadrio Curzio a FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani con un numero dedicato – con inchieste, reportage, interviste – alla questione Nord-Sud.

Non solo irrisolta 160 anni dopo l’Unità d’Italia, ma aggravata soprattutto dalla crisi economica di questi anni. I settori da cui ripartire con investimenti mirati in infrastrutture e non a pioggia ci sono: dall’agroalimentare ai porti, oltre al turismo. Potremmo essere la Germania, invece negli ultimi 16 anni hanno lasciato il Sud un milione e 183 mila residenti: la metà giovani tra i 15 e i 34 anni, un quinto laureati, si legge nell’ultimo rapporto Svimez. Certo, le differenze territoriali esistono ovunque, Germania compresa. Ma l’Italia “è un caso unico a livello europeo per la consistenza del divario e per la sua durata nel tempo”, ha scritto recentemente su Meridiana Carlo Trigilia, sociologo già ministro per la Coesione territoriale nel governo Letta. Snocciolando i dati – il Pil pro capite al Sud si dimezza, l’occupazione femminile pure e così via – Trigilia conclude che il Sud sarebbe collassato da tempo se non ci fossero due “ammortizzatori”: l’economia in nero – che FQ MillenniuM racconta in un reportage da Misterbianco, alle porte di Catania – e appunto l’emigrazione.

Nulla ammortizza però la caduta dei servizi pubblici essenziali. A Milano, per dire, c’è posto al nido per 36 bambini su 100, a Napoli soltanto per 11. Sul fronte dell’occupazione, nelle tre province meridionali che stanno meglio (L’Aquila, Teramo e Chieti) ci sono meno opportunità di lavoro che nelle tre settentrionali messe peggio (Novara, Rimini e Imperia). Non stupisce dunque che 160 anni dopo l’Unità, lo scontro fra Nord e Sud resti incandescente, anche dopo la svolta sovranista della Lega un tempo nordica: da un lato, la richiesta di autonomia differenziata proveniente dalle regioni più ricche – Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna – che rischia di allargare la frattura; dall’altro un revival di orgoglio “terrone” venato di nostalgie borboniche, con le truppe dei Savoia paragonate ai nazisti e i briganti trasfigurati in ottocenteschi Che Guevara. Fra gli opposti estremismi, chi studia a fondo la questione indica una strada diversa. “Il Nord è locomotiva se il Sud riprende a camminare, altrimenti si ritrova vagone della Germania”, dice il ministro per la Coesione Peppe Provenzano in una lunga intervista. E annuncia i suoi provvedimenti per il rilancio, a partire da 300 tecnici dell’Agenzia della Coesione “che dovranno sporcarsi le scarpe per sostenere gli enti bisognosi di capitale umano a progettare e realizzare gli interventi”. E in prospettiva, “il reclutamento di diecimila tecnici per attrezzare l’amministrazione, sia quella regionale che locale, ai livelli più alti di competenza”. E chi ci garantisce che le nuove risorse non si disperdano in ruberie e sprechi? “Di fronte all’inadempienza altrui, lo Stato commissaria, sostituisce, manda a casa. Fa saltare il banco delle convenienze occulte”.

Il Reddito spinge l’economia, lo ammette anche Gentiloni

Un riconoscimento atteso da tempo e di cui i dirigenti del M5S esultano, da Vito Crimi alla ministra del Lavoro Nunzia Catalfo. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ricorda al Fatto che lui lo aveva sempre detto e che si è anche prodigato in una serie di slide con dati e numeri presentati alla Commissione europea per convincerla della propria tesi. E oggi, per la prima volta, quella tesi viene riconosciuta: “I consumi privati spinti dal nuovo reddito minimo (inteso per cittadinanza, ndr) dovrebbero sostenere la crescita nel periodo oggetto della previsione”.

È il passaggio che riguarda l’Italia nel documento relativo alle previsioni economiche per l’inverno che la Commissione ha reso pubblico ieri. E che non contiene notizie positive. Il governo della Ue, infatti, lascia invariate le stime di crescita per la zona euro e per la Ue-27 che nel 2020-2021 cresceranno rispettivamente di 1,2% e 1,4%, come previsto nel novembre scorso. “La crescita prosegue con passo costante e moderato”, scrive Bruxelles, che segnala però “nuovi rischi” come il Coronavirus.

Per l’Italia la situazione è la peggiore: le previsioni per il 2020 parlano di un +0,3% e di una crescita dello 0,6% nel 2021. Ma anche Germania e Francia stanno poco meglio (anche se non hanno lo zero prima della virgola) finendo penultime in classifica con una crescita dell’1,1% per il 2020. Record di crescita invece per Malta e Romania: 4% e 3,8% nel 2020.

L’Italia fa un po’ meglio del 2019, in cui la crescita si è fermata allo 0,2, anche per effetto di un calo drastico nell’ultimo trimestre. E la Commissione vede qualche spiraglio per l’avvio del 2020 dato che la fiducia delle industrie è cresciuta mentre l’attività dei servizi dovrebbe sostenere il Pil nel medio termine.

Ma il punto è che, in questo quadro, l’incidenza del Reddito di cittadinanza è molto rilevante, se non assoluta. A confermarlo è il commissario italiano, Paolo Gentiloni, responsabile dell’Economia e che nella nuova veste assume l’occhio obiettivo e asettico di Bruxelles tanto da dover specificare che le sue osservazioni non implicano “un giudizio positivo o negativo sulla misura”. Lui, in realtà, è sempre stato piuttosto critico con la misura-simbolo dei 5Stelle che invece, assicura ora, “dovrebbe avere un effetto sulla crescita 2020 stimato tra 0,1 e 0,2 punti percentuali, rappresentando quindi una parte consistente della debole crescita prevista per l’anno venturo”.

La Commissione, però, non si limita a valutare l’effetto quantitativo del reddito, ma anche il suo impatto sociale e il suo effetto stimolante sull’occupazione riportando persone sul mercato del lavoro.

Osservazioni che rimbalzano nella Relazione annuale della Corte dei Conti resa pubblica ieri dal suo presidente, Angelo Buscema. “L’istituzione del Reddito ha segnato un rilevante cambiamento e un potenziale progresso nelle politiche di protezione sociale del nostro Paese”, dice Buscema e “ha testimoniato lo sforzo del legislatore, da un lato, di muoversi in continuità con le esperienze più recenti in tema di lotta all’esclusione”.

La Corte dei Conti invita a considerare che il Reddito si compone di due ambiti che vanno distinti: la lotta alla povertà e quella alla disoccupazione. In questo caso, “limitato è stato finora il contributo nella ricerca di un’occupazione” visto lo scarso impatto dei Centri per l’impiego di cui “appare cruciale il rilancio, che richiederà tempi certamente non brevi”.

La trincea di Davide nel salotto di Vespa

Bruno Vespa è sempre il più furbo del gruppo. Ieri il salotto di Porta a Porta, per i Cinque Stelle era un luogo ostile in un tempo di cui non c’è più memoria, ha celebrato l’esordio su Rai1 di Davide Casaleggio, accolto per una replica a un altro programma del servizio pubblico, Presadiretta di Rai3.

Casaleggio aveva promesso una risposta alla “vomitevole” inchiesta di Riccardo Iacona su Rousseau, la piattaforma che gestisce le politiche dei Cinque Stelle, legate all’omonima associazione di cui Davide è presidente. Prima e dopo la messa in onda Iacona ha offerto a Casaleggio uno spazio per un intervento, ma il figlio di Gianroberto ha preferito Porta a Porta. E da Vespa, dunque, Davide non ha soltanto difeso Rousseau, che dagli eletti riceve 300 euro al mese per le sue attività, ma ha anche respinto tutte le accuse di conflitto di interessi che riguardano la Casaleggio Associati. “Il mio presunto conflitto d’interessi dov’è? Non ho mai influenzato la politica a favore dei miei clienti, neanche i più critici potranno mai dirlo; non firmo decreti e non voto leggi. Ci sono invece 120 parlamentari – ha ribattuto – che possiedono un’azienda, siamo sicuri che non abbiano mai presentato una legge o votato una legge che favoriva la loro azienda?”. Casaleggio ha rivendicato, soprattutto, l’autonomia e l’importanza della piattaforma per la vita del Movimento: “Se l’associazione Rousseau è il padrone del Movimento? I padroni e gli utilizzatori del M5S sono i cittadini che partecipano al Movimento. È sempre stato così. Abbiamo dimostrato che il potere è una risorsa illimitata, a differenza del potere nel Novecento; è il potere distribuito, quello di cambiare le cose”.

Casaleggio ha insistito sul concetto di democrazia diretta: “Le decisioni importanti sono sempre state prese dagli iscritti: far partire il governo Conte 1, il Conte 2, il programma delle elezioni 2018, anche la costruzione delle liste elettorali, in quest’ultimo caso un unicum in Italia. Ci sono due notai che certificano i risultati del voto e una società esterna, informatica, che verifica se ci sono anomalie durante le votazioni online. I parlamentari sono contenti di supportare Rousseau con il contributo di 300 euro perché è la voce degli iscritti”. Casaleggio ha usato parole dolci per Luigi Di Maio, che un mese fa si è dimesso dalla carica di capo politico dei Cinque Stelle, e ha lanciato la manifestazione di domani contro la “restaurazione”: “Ho condiviso il suo auspicio di mettere al centro del dibattito i temi e non le persone. Di Maio ha fatto un passo indietro come capo politico ma è sempre in prima linea, sia nelle attività interne sia in piazza, domani per la manifestazione contro i vitalizi”.

I pm di Catania chiederanno il processo per Matteo Salvini

Il capo della Lega conta di ribaltare i pronostici per spiazzare gli avversari che già lo danno alla sbarra e intanto medita che fare. “Non sono ancora sotto processo”, dice Matteo Salvini all’indomani del voto con cui il Senato ha dato l’autorizzazione a procedere contro di lui per la gestione dei migranti a bordo di Nave Gregoretti, richiesta dal Tribunale dei ministri di Catania. Il fatto è che il capo della Lega non si dà pace: medita di tornare in sella, al governo, per poter “rifare quello che abbiamo fatto, cioè difendere confini”. Ma intanto spera ancora di poter evitare il processo per Nave Gregoretti, almeno il processo pubblico. Mentre ancora non ha definito al dettaglio i contenuti della memoria difensiva che invierà entro lunedì prossimo sulla nuova richiesta di autorizzazione a procedere che lo riguarda. Quest’ultima è arrivata dai giudici di Palermo per il caso della nave Open Arms dell’agosto 2018: i reati contestati sono sequestro aggravato di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Si pronuncerà in prima battuta il 27 febbraio la Giunta di Palazzo Madama di fronte alla quale Salvini ha scelto intanto di non farsi ascoltare.

Ma l’attenzione resta sul caso della Nave Gregoretti dove il reato contestato all’ex ministro è quello di sequestro di persona per lo sbarco ritardato dei 131 migranti che erano a bordo nell’estate scorso, aggravato dall’abuso d’ufficio: il Senato deve restituire gli atti al Tribunale dei ministri di Catania perché li trasmetta al Procuratore della Repubblica il Tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello competente per territorio. Cioè Catania. E questo perché, verificata dal Senato la procedibilità contro Salvini, stabilito cioè che non agì per salvaguardare un preminente interesse nazionale, il procedimento ora esce dalle modalità speciali imposte per i reati ministeriali e prosegue per impulso del pubblico ministero, come prevede la legge, con il rito ordinario.

Ora il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che in questi anni ha usato la linea dura contro le Ong e come è noto ha già chiesto una volta l’archiviazione per Salvini sul caso Gregoretti, ha già deciso di chiedere il rinvio a giudizio e quindi la fissazione dell’udienza preliminare. Non chiederà l’archiviazione già negata dal Tribunale dei ministri. Questo perché ritiene che l’autorizzazione del Senato equivalga a un’ordinanza di imputazione coatta, come quella che possono emettere normalmente i gip nel respingere una richiesta di archiviazione. Si rivolgerà dunque all’ufficio dei gip di Catania perché fissino appunto l’udienza davanti al gup.

Che potesse essere lo stesso Tribunale dei ministri a svolgere la funzione di giudice dell’udienza preliminare (dopo aver svolto quella di organo delle indagini preliminari) è stato escluso dalla Corte costituzionale con una sentenza del 2002. A Catania a quanto risulta hanno anche escluso che il gup possa essere un Tribunale dei ministri in diversa composizione, come pure sostenuto in questi giorni da alcuni giuristi in mancanza di consolidati precedenti nell’applicazione di norme molto generiche. Infatti le autorizzazioni a procedere per reati ministeriali, dal lontano 1989 quando è stata introdotta la legge costituzionale in vigore, sono cosa rara. Dal momento della richiesta di rinvio a giudizio, Salvini sarà tecnicamente imputato e non più indagato.

Se ci sarà un dibattimento pubblico è una decisione che spetta al gup al termine dell’udienza preliminare. Qui si costituirà Salvini con i suoi difensori, forse Giulia Bongiorno. Ma anche le persone offese identificate dalla Procura, cioè migranti e richiedenti asilo trattenuti a bordo della Gregoretto, eventualmente qualche associazione, potranno chiedere di costituirsi parte civile. E tutti, come la Procura, potranno chiedere ulteriore attività istruttoria e depositare atti e memorie. Solo al termine presenteranno le loro conclusioni e lì la Procura potrà confermare la richiesta di processare il capo della Lega ma anche chiedere il non luogo a procedere, cioè il proscioglimento di Salvini. Così come il leader della Lega potrà chiedere, per esempio, il rito abbreviato per farsi giudicare dal gup. Il “processo” come dice il “Capitano” del Carroccio, non è ancora iniziato, ma l’udienza preliminare sarà fissata a breve. E nel giro di pochi mesi inizierà.

“Azoto e non ossigeno a mio figlio. Dopo 9 anni tutto in prescrizione”

Quei 68 minuti gli sono costati maledettamente cari. In quel tubo doveva esserci ossigeno e invece c’era protossido di azoto, un gas anestetizzante molto pericoloso. E così fu con Andrea Vitale, neonato da pochi giorni all’Ospedale di Palermo, che dopo quell’errore da parte dei medici siciliani ha subito danni irreversibili. Oggi, a nove anni, non cammina, non parla e ha continuamente bisogno di assistenza. Tutta la sua vita sarà così. Eppure nessuno pagherà per quell’errore gravissimo che, il 28 ottobre 2010, ha rovinato la vita al piccolo Andrea e ai suoi genitori. Dopo la condanna in primo grado e una parziale assoluzione in appello, infatti, tutti i reati sono andati prescritti: “Nessuno finirà agli arresti per quello sbaglio – racconta amareggiata la madre Cecilia Fecarotta – questa non è giustizia”.

La Procura di Palermo aveva aperto un’inchiesta e a processo erano finiti, con l’accusa di lesioni colpose gravissime, il titolare della ditta Sicilcyro di Marineo, Francesco Inguì, che nel 2010 aveva eseguito i lavori sull’impianto di gas medicali del reparto maternità del Policlinico, il direttore dei lavori Aldo La Rosa e l’ex direttore del dipartimento materni infantile dell’ospedale Enrico De Grazia. In primo grado il Tribunale di Palermo aveva condannato tutti e tre gli imputati: tre anni ciascuno a chi si doveva occupare dei lavori e un anno e sei mesi al dottor De Grazia. Nelle motivazioni della sentenza, il giudice scrisse che “non fu eseguita alcuna prova di gas specificità, né le opere vennero collaudate” ma nonostante questo “le prese erano state dotate di flussometri e attacchi che rendevano immediatamente fruibile l’impianto di gas medicale”. Non solo: “L’omissione, lungi dall’essere accidentale – aggiunge il giudice – è risultata sostanzialmente programmata dal direttore dei lavori in ragione dell’urgenza di restituire gli spazi ospedalieri oggetto dei lavori ai rispettivi reparti e rendere fruibile l’isola neonatale”. Ad aprile scorso, però, i giudici di Appello di Palermo hanno ribaltato in parte la sentenza assolvendo De Grazia e Inguì e dimezzato la pena a un anno e mezzo al tecnico La Rosa. Ma né la famiglia come parte civile, a cui pure sono andati 1 milione e 200 mila euro di provvisionale, né la Procura di Palermo possono fare ricorso in Cassazione: dopo nove anni dall’accaduto, è tutto prescritto.

Signora Fecarotta, non ci sarà mai giustizia per Andrea?

No, mio figlio è rimasto disabile al 100% per quell’incredibile errore, ma per la giustizia italiana nessuno è colpevole.

Ci racconti bene i fatti.

Appena nato Andrea aveva una leggera asfissia, una cosa normale dopo un parto cesareo, e quindi dovevano dargli dell’ossigeno, ma quell’impianto non era mai stato collaudato. Così, per più di un’ora gli hanno fatto inalare azoto anziché ossigeno.

E voi eravate lì?

Sì, ma non abbiamo capito niente: mio figlio è stato portato subito in terapia intensiva e la sera stessa ci hanno detto che era colpa della ditta che aveva fatto i lavori all’impianto. Andrea poi è stato un mese in terapia intensiva e durante quel periodo i medici mi tranquillizzavano dicendomi che avrebbe avuto delle difficoltà ma non gravi: un lieve ritardo o che avrebbe iniziato a camminare un po’ dopo. Ma non era vero nulla: dopo poco iniziò ad avere crisi epilettiche, piangeva e alzava gli occhi di continuo. I danni sono stati permanenti: oggi Andrea ha un’invalidità motoria al 100%, è in carrozzina, non cammina e non parla.

Com’è cambiata la vita da quel giorno?

Sono impazzita, mi hanno distrutto la vita. A causa di questo fatto mi sono ammalata, ho il morbo di Crohn, e ho dovuto lasciare il mio lavoro, in un bar nel quartiere Carini. Ho dovuto rinunciare a tutto.

E Andrea, come vive oggi?

La sua è la vita difficile di un disabile a Palermo, con tutte le difficoltà del caso. Oggi, per esempio, mio figlio doveva partire in gita con i compagni ma non ci è potuto andare perché non ci sono autobus in grado di farlo salire. Andrea soffre continuamente di polmonite e il dottore probabilmente dovrà presto mettergli una sondina per potersi nutrire: la sua vita diventerà ancora più complicata, mentre la nostra famiglia è stata distrutta e non è possibile che nessuno sia colpevole.

Tutto prescritto.

Esatto, io vorrei anche un risarcimento perché quando io un giorno non ci sarò più, Andrea potrà pagarsi una badante per aiutarlo. Ma comunque la nostra giustizia non funziona: in sette anni sono cambiati sette giudici al processo e poi tutto è andato in prescrizione. Per questo sono favorevole alla legge del governo che la blocca dopo la sentenza di primo grado, nel nostro caso avremmo potuto impugnare l’assoluzione in Cassazione e magari ottenere qualche condanna.

Cosa farà adesso?

Continuerò a lottare per ottenere giustizia e non mi faccio certo fermare adesso. Io voglio andare alla Corte di Strasburgo, ormai della giustizia italiana non mi fido più.