Omicidio Agostino 31 anni dopo, la Procura: “Gli esecutori sono i boss Scotto e Madonia”

Si chiama Francesco Paolo Rizzuto, all’epoca del duplice omicidio aveva 16 anni e con suo padre era compagno di pesca di Nino Agostino, del quale era anche vicino di casa e potrebbe avere assistito al delitto: è il “terzo uomo” dell’inchiesta, indagato per favoreggiamento aggravato, oltre ai boss Nino Madonia e Gaetano Scotto, nei cui confronti la procura generale si appresta a chiedere il rinvio a giudizio.

Dopo 31 anni di indagini, una richiesta di archiviazione della Procura, un provvedimento del gip che ha respinto due richieste di arresto e due avocazioni (la prima annullata dalla Cassazione) l’inchiesta sull’omicidio di Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, assassinati a Villagrazia di Carini (Palermo) il 5 agosto 1989, approda nell’aula di un’udienza preliminare: i pg Nico Gozzo e Umberto De Giglio, coordinati dal Procuratore generale Roberto Scarpinato, hanno notificato ieri ai tre indagati l’avviso di conclusione delle indagini. Commesso nell’estate infuocata dei “veleni” palermitani, subito dopo le lettere del Corvo e l’attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone, quel duplice omicidio è un crocevia di misteri e depistaggi che per oltre 30 anni hanno allontanato la verità.

A cominciare dal ruolo dell’agente ucciso: ufficialmente in servizio al commissariato San Lorenzo, Nino Agostino potrebbe aver fatto parte di una “squadretta segreta” destinata alla cattura dei latitanti mafiosi. Era stato affidato a lui, inoltre, il compito di “scortare” il “preside nero” Alberto Volo, interrogato più volte nella primavera dell’89 da Giovanni Falcone che indagava sulla pista nera del delitto Mattarella.

Le indagini incrociarono l’attentato dell’Addaura, e dopo anni saltò fuori che la vigilanza della villetta di Falcone era affidata al commissariato San Lorenzo (a trovare l’esplosivo sugli scogli furono gli agenti di quel commissariato), circostanza che era stata sempre esclusa. E il depistaggio scattò la sera stessa del delitto: il capo della Mobile Arnaldo La Barbera indirizzò le indagini verso un’improbabile pista passionale, mai riscontrata, nonostante nel portafoglio della vittima il padre Vincenzo trovò un biglietto con su scritto “se mi succede qualcosa cercate nell’armadio”.

Ma nella sua casa di Altofonte ad arrivare primo fu un poliziotto, Guido Paolilli, che, parlando con il figlio, ammise, intercettato, di avere fatto “sparire una freca di carte”. Indagato per favoreggiamento, la sua posizione è stata archiviata per prescrizione ma a Paolilli, all’epoca vicino a Bruno Contrada (la cui abitazione è stata perquisita due volte), il padre dell’agente ucciso, Vincenzo Agostino, ha chiesto un risarcimento di 50 mila euro, citandolo in giudizio con l’assistenza dell’avvocato Fabio Repici per avere depistato le indagini. Fu esplorato anche il ruolo dei servizi, ma senza successo: all’Aisi e Aise, i pm Di Matteo e Gozzo chiesero la lista degli agenti attivi in Sicilia nel periodo del delitto, ma venne opposto il segreto di Stato.

Pochi, tra i collaboratori di giustizia, hanno offerto indicazioni utili: per Giovambattista Ferrante Riina “ordinò un’indagine interna a Cosa Nostra” per individuare i responsabili dell’omicidio del poliziotto, ma “anche lui non riuscì a sapere nulla”.

Più dettagli ha fornito il pentito ex cutoliano Oreste Pagano, amico del narcotrafficante Pablo Escobar: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada. C’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche e alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì”.

“Il garantismo esiste alla fine soltanto per i colletti bianchi”

Sebastiano Ardita è stato pm a Catania e a Messina, magistrato antimafia e anche direttore del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che governa le carceri italiane. Oggi è componente del Consiglio superiore della magistratura.

Perché la legge Bonafede è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui applica “retroattivamente” il divieto di pene alternative ai condannati per corruzione?

Perché – a differenza di quel che è accaduto in passato – si è ritenuto che le norme di procedura che prevedono restrizioni alle misure alternative al carcere siano da parificare alle norme incriminatrici. Ciò perché, secondo la Corte, si tratta di norme che comportano una rilevante trasformazione della natura della pena e del suo impatto sulla libertà personale.

Ma le regole dell’esecuzione penale possono essere considerate al pari delle norme penali sostanziali?

Dovrebbero esserlo solo se incidono sulla quantità della pena in sé, anche se non si può negare che le misure alternative sono pene, ma con una struttura e qualità diverse.

Non si può essere condannati per un fatto commesso quando non era ancora previsto come reato, ma luogo e modalità dell’espiazione di una pena non dipendono dalle norme in vigore al momento della condanna?

Non è la prima volta che leggo interpretazioni giurisprudenziali che pongono sullo stesso piano norme sostanziali e norme di procedura, quando queste ultime incidono sulla qualità del trattamento sanzionatorio.

In passato, il divieto di pene alternative al carcere è stato immediatamente reso esecutivo per i condannati a reati di mafia e terrorismo e poi, via via, di violenze sessuali, prostituzione minorile, sequestro di persona, traffico di esseri umani, riduzione in schiavitù, contrabbando, pedopornografia. Perché corruzione no?

Se si riferisce agli effetti di questa ultima pronuncia, possiamo affermare che il principio espresso dalla Corte – in un futuro, in caso di restrizioni procedurali che incidano sulla pena – varrà per tutti i reati, nessuno escluso. Mentre la legge cosiddetta “Spazzacorrotti” ha esteso il divieto di benefici anche ai condannati per corruzione, inserendo il reato nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che dovrebbe essere uno strumento esclusivo della prevenzione antimafia. Ci sarà da ridere – o da piangere – quando qualche condannato per corruzione chiederà per sé l’applicazione del principio di recente elaborato dalla Corte: di estendere il principio, introdotto per i reati di mafia, in base al quale se si prova che è venuto meno il collegamento con le organizzazioni si possono ottenere i benefici: i corrotti condannati diranno che questo è per loro un requisito impossibile, perché non appartengono ad alcuna organizzazione e proveranno a far cadere la legge…

Il 41 bis è diventato immediatamente esecutivo, ma nessuno ha eccepito il suo uso “retroattivo”: fu approvato il 6 agosto 1992 e immediatamente ha portato 532 mafiosi nei supercarceri di Pianosa e dell’Asinara.

Sì, infatti, il 41 bis è importante e serve. Ma in questo momento storico il garantismo è rivolto in prevalenza ai colletti bianchi. E più in generale si dimentica che la corruzione nei territori di mafia, come argomento nel libro Cosa Nostra Spa (Paper First), è un fattore che sottrae risorse e servizi sociali ai più poveri e diventa un vero volano per le vocazioni alla criminalità militare. Ma esiste anche un’antimafia a uso delle classi dirigenti, che vede la mafia solo dove si spara e tace sul “concorso esterno” e nulla dice su chi, rubando risorse, crea vocazioni mafiose.

Le sezioni unite della Cassazione nel 2006 hanno stabilito il principio che le norme sull’esecuzione della pena “non riguardano l’accertamento del reato”, ma solo “le modalità esecutive della stessa”, dunque “soggiaciono al principio Tempus regit actum”. La Consulta è andata in un’altra direzione.

La giurisprudenza si evolve e poi la Corte costituzionale, come insegnano i giuristi autorevoli, ha una funzione “politica”, creatrice di diritto: perché adegua l’ordinamento alla sensibilità che esiste nella società in un dato momento storico, rispetto al rapporto tra una legge e la Costituzione. In questo momento la sensibilità – almeno quella delle classi dirigenti – è di preoccupazione nei riguardi degli strumenti di giustizia.

Perché quello che valeva per mafiosi, terroristi, sequestratori e pedofili da ora in poi non varrà più per i corrotti?

Il principio della Corte ora varrà per tutti, ma se si riferisce alla diversa “sensibilità politica” rispetto a queste differenti categorie di criminali, non possiamo dimenticare che i condannati per corruzione, ahimé, in più di qualche caso appartengono o sono appartenuti alla classe dirigente della nostra società.

Lo Stato ora dovrà risarcire per ingiusta detenzione?

Non credo proprio. Nei confronti di coloro a cui sono stati negati i benefici, fino a ieri è stata applicata la legge vigente in modo corretto. Altrimenti si farebbe scattare, sì… un’efficacia retroattiva.

Politici via da Rebibbia in taxi “Torniamo a casa a testa alta”

“Equindi uscimmo a riveder le stelle”. È ormai buio quando sembrano sospirare l’ultimo verso dell’Inferno dantesco della Divina Commedia Mirko Coratti, ex presidente dell’Assemblea capitolina, all’epoca potente del Pd romano, e Andrea Tassone, ex minisindaco di Ostia, eletto alla guida del municipio nel 2013 sempre nelle file del Pd. Sono quasi le sette di sera, ieri, quando i due mettono il piede fuori dal carcere di Rebibbia. Pochi passi insieme in via Raffaele Majetti, un rapido cenno di saluto e la ritrovata libertà si materializza nei taxi che, caricati i borsoni e le buste, ripartono insieme con le loro vite verso le strade della Capitale imboccando la grande arteria, via Tiburtina, a quell’ora molto trafficata, per rientrare nelle proprie case.

È merito o colpa, dipende dai punti di vista, della Corte costituzionale che ha cancellato gli effetti retroattivi della cosiddetta legge “Spazzacorrotti”. Erano tornati dentro, infatti, lo scorso ottobre dopo il sigillo della Cassazione al processo Mondo di mezzo, fu Mafia Capitale. Nel corso dell’interrogatorio del processo di primo grado Salvatore Buzzi, l’ex ras delle cooperative rosse ormai ai domiciliari, raccontò che Coratti “chiese 100 mila euro per fare approvare la delibera sul debito fuori bilancio a favore delle cooperative”. Una mazzetta da versare “in chiaro” e la cui metà sarebbe stata destinata proprio a Coratti. “Ci siamo rivolti a Coratti perché era presidente del consiglio comunale: era il nostro riferimento”. Di Tassone, che si dimise il 24 marzo 2015 da minisindaco di Ostia, Buzzi invece, come da intercettazione riportata nell’ordinanza del gip, disse: “Tassone è nostro eh… è solo nostro… non c’è maggioranza e opposizione, è mio”. Tassone incassò “somme non inferiori a 30.000 euro” per poi chiedere anche “un 10% in nero, il 10% in nero”. Soldi che il minisindaco ottenne per poter assegnare lavori come la potature delle piante e la pulizia delle spiagge.

Pochi minuti dopo si aprono di nuovo le porte del carcere su via Majetti. È il turno di Giordano Tredicine, ex onorevole capitolino, come vengono chiamati a Roma i consiglieri comunali, eletto col Pdl, già coordinatore regionale del Lazio di Forza Italia, braccio politico della potente e ricca famiglia di giostrai e caldarrostai che si trasferì a Roma da Schiavi di Abruzzo, in provincia di Chieti, nel 1959.

Anche Tredicine procede a passo stanco verso la libertà, c’è chi lo aspetta fuori per riportarlo a casa. La sorella Ilaria – pure lei in politica con un’esperienza da consigliere nel municipio di Romanina, Tuscolana e Don Bosco (Roma Est) tra il 2013 e il 2016 con Forza Italia – pochi minuti prima che il fratello esca dal carcere attacca: “Giordano è stato vittima di una ingiustizia e con lui tutta la nostra famiglia. In carcere non ci sarebbe dovuto proprio andare. Mio fratello non ha mai perso la forza d’animo. Non si è mai abbattuto. Anche in carcere, ha sempre mantenuto la fiducia. È stato ed è un grande uomo. Anche i suoi elettori, le persone che gli vogliono bene, non lo hanno mai lasciato da solo. Ritorna a casa a testa alta e noi siamo pronti ad accoglierlo”.

In tutto sono sette i condannati in via definitiva per il “Mondo di mezzo” incarcerati a ottobre in applicazione della legge Spazzacorrotti, che hanno lasciato ieri le celle dopo la pronuncia della Consulta per la bocciatura del divieto retroattivo di accedere a misure alternative per chi ha commesso reati contro la pubblica amministrazione, giudicato incostituzionale. Oltre Coratti, Tassone e Tredicine, fuori anche l’ex dirigente regionale Guido Magrini, l’ex capo segreteria di Coratti, Franco Figurelli, l’ex collaboratore dell’allora potente Luca Odevaine, Mario Schina, l’ex responsabile tecnico del comune di Sant’Oreste, Marco Placidi. E sceglie la giornata di ieri, forse non a caso, la sindaca di Roma, Virginia Raggi, per scrivere sui social: “Un anno fa è entrata in vigore la legge Spazzacorrotti, un momento di svolta fondamentale nella lotta a uno dei reati più diffusi in Italia. Il 18 febbraio, in Senato, ne parlerò insieme al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede”.

Non solo giustizia: i due Matteo d’accordo anche su sicurezza, evasione e plastic tax

Sicurezza, tasse, strategie politiche e naturalmente giustizia. Al di là degli scontri apparenti – culminati qualche mese fa nella reciproca legittimazione mediatica di fronte a Bruno Vespa – Matteo Salvini e Matteo Renzi condividono diverse battaglie politiche sia in Parlamento che a livello locale.

Gli amorosi sensi sulla prescrizione sono noti: da settimane i renziani rigettano ogni mediazione su eventuali modifiche ai termini del processo, votando insieme al centrodestra emendamenti e proposte contro la legge Spazzacorrotti. Sul tema gli schieramenti sono allineati anche in Regione Lombardia, dove dieci giorni fa Lega, Forza Italia, FdI e Italia Viva hanno votato un ordine del giorno per sollecitare il Parlamento a intervenire sul tema prescrizione. Operazione del tutto inutile dal punto di vista pratico, non muovendosi certo il Parlamento in base alle sollecitazioni della Regione Lombardia, ma utile almeno a fotografare una volta in più le alleanze sul tema.

D’altra parte ormai Renzi e Salvini hanno preso l’abitudine di darsi ragione. In autunno hanno condiviso la trincea contro la plastic tax che il governo – o per lo meno, il resto del governo – voleva inserire in manovra per disincentivare l’utilizzo di quel tipo di imballaggi e promuovere materiali green.

Comunione di intenti anche sul carcere agli evasori, altra bandiera del Movimento 5 Stelle. Dopo che la Lega aveva fatto di tutto per evitarne l’entrata in vigore durante il governo gialloverde, ora è il turno di Italia Viva. Nel dicembre scorso in Commissione finanze i renziani hanno infatti votato contro l’inasprimento delle pene voluto dalla maggioranza, proprio mentre il centrodestra abbandonava i lavori. Tutti allineati all’ordine di Salvini, secondo cui “l’evasione non si sconfigge con le manette ma abbassando le tasse”. E a proposito di tasse, altra vicinanza recente tra i due Matteo è l’opposizione comune alla stretta sugli affitti breve – la cosiddetta Norma su Airbnb – voluta dal dem Dario Franceschini, costretto però a rimandare il tutto proprio per le bizze degli alleati, seguiti in coro dalla Lega.

Di appena due giorni fa è invece il brindisi verde-fucsia in Toscana. Tema: sicurezza nelle città. Qui i consiglieri renziani hanno presentato un ordine del giorno per portare in Regione quel che la Lega aveva già approvato a Cascina, Comune pisano a lungo guidato dall’eurodeputata Susanna Ceccardi. La proposta prevedeva di integrare il servizio di polizia pubblica con l’uso di vigilantes privati, importando così un modello simil-ronde. Solo l’uscita dall’Aula del Pd, che poi ha mediato coi presunti alleati forzandoli a ritirare il provvedimento, ha evitato la crisi di maggioranza.

E chissà invece come andrà in Puglia, dove tra qualche mese si vota per le elezioni Regionali. Il Pd ha scelto di candidare l’uscente Michele Emiliano, ma Italia Viva non ci sta: ha boicottato le primarie e ora minaccia di presentare un proprio candidato che dunque toglierà voti al favoritissimo governatore dando speranza al centrodestra.

Ma manovre politiche sono in corso anche in altre parti d’Italia. A Teramo il sindaco di centrosinistra Gianguido D’Alberto potrebbe perdere presto l’appoggio dei renziani, che l’altro giorno hanno già dato dimostrazione visiva della crisi sedendosi per un po’ tra i banchi dell’opposizione. Nelle Marche, invece, l’ambiguità di Italia Viva si è resa palese ieri: per qualche ora ha circolato sui social un post con tanto di logo del partito che criticava il presidente dem della Regione Luca Ceriscioli, reo di aver assunto un collaboratore a pochissimi mesi dalla scadenza del mandato. La polemica, come ovvio, è stata cavalcata dalla destra, che poi ha pure infierito sui guai della maggioranza sottolineando come il post di Italia Viva fosse stato poi rimosso: “Italia Viva nelle Marche è ancora maggioranza?”. Suggerimento: magari ne sogna una alternativa.

“Basta farsi logorare”. Il premier non vuole fare la fine di Letta jr.

Il presidente è “nero” da giorni. E ieri ha deciso di non farne più mistero. Così Giuseppe Conte a metà pomeriggio torna quello del 20 agosto, quello del benservito a Matteo Salvini. Solo che stavolta il Matteo è un altro e il benservito non glielo si può ancora dare, almeno fino a quando la maggioranza giallorosa non troverà altre sponde a cui appoggiarsi. Però bisogna rompere la spirale del “logoramento”, quella in cui Renzi è campione assoluto, e che a tutti ormai ricorda i tempi di Enrico Letta. Così, prima che gli dicano #staisereno, il premier decide di alzare la voce. Ci pensava almeno da lunedì, prima che il suo lodo sulla prescrizione non venisse escluso dal Milleproroghe. Meditava addirittura un video, l’avvocato. Ma lo stop al lodo, deciso dopo gli informali quanto chiari segnali dagli uffici tecnici del Colle (perplessi sulla tenuta giuridica dell’emendamento) aveva congelato anche la sfuriata di Conte. Ieri, però, dopo aver assistito all’ennesimo voto di Renzi insieme a Salvini, Meloni e Berlusconi, il premier ha smesso di sopportare “cose che da un partito di opposizione che volesse fare una opposizione aggressiva e maleducata si possono anche accettare” ma che sono impossibili da mandare giù da quello che dovrebbe essere “un compagno di viaggio”. “Credo – aggiunge il capo del governo – che Italia Viva debba dare un chiarimento, ma non a me, a tutti gli italiani”.

Prima di rendere pubblica la sua rabbia, ne ha parlato con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che è edotto anche della possibilità che una pattuglia di “responsabili” possa intervenire in caso di defezioni renziane. Poi ha avvertito Nicola Zingaretti, ieri pomeriggio al telefono. E anche con lui ha convenuto che “se Renzi rompe, qualcosa succede”. Ci sono i forzisti di Mara Carfagna, i centristi dell’Udc e pure quelli di Italia Viva che non se la sentiranno di seguire le avventure dell’ex premier. Però la tenuta dei numeri è tutta da verificare, soprattutto in Senato: ieri sera, fonti di governo spiegavano che i primi tentativi di staccare renziani dal fu rottamatore a Palazzo Madama si sono rivelati infruttuosi. E la stessa Iv fa trapelare che “Renzi non vede smottamenti” e che i numeri per una maggioranza diversa “non ci sono”.

Invece alcuni big grillini assicurano che “diversi di Iv sono preoccupati, quasi spaventati dal gioco al rialzo di Renzi”. Di certo nel Movimento la sensazione diffusa è che Renzi “a questo punto voglia davvero farsi cacciare dalla maggioranza per cannoneggiare da fuori, e contrattare su tutto”. E il capo politico reggente, Vito Crimi, pare quasi auspicarlo: “Chi ha voglia di fare per il bene del Paese è benvenuto, per altro non c’è spazio”.

È in questo clima da coltelli che ieri sera si è aperto il Consiglio dei ministri. La scelta di Matteo Renzi di non far presentare le due ministre di Italia Viva è stata presa con sconcerto e giudicata “ingiustificabile”. Pazienza se Teresa Bellanova era a Mosca già dal giorno prima e alla riunione di governo non sarebbe andata comunque: l’importante è fare rumore. È la tesi del “bluff”, quella che fanno filtrare gli spin doctor del Nazareno, che sperano di ridurre a macchietta l’ex segretario del Pd.

Per questo, Nicola Zingaretti, ieri, si presenta nella sede del partito per illustrare il suo “Piano per l’Italia”, su cui avvierà una consultazione nei gazebo nell’ultimo weekend di febbraio. Ed è costretto ad ammettere che comprende lo sguardo attonito dei giornalisti che lo sentono parlare di “innovazione” e “rivoluzione verde” mentre intorno tutto frana. Ma la convinzione dei dem è che la linea della “responsabilità” paghi nei sondaggi e che l’unica arma sia continuare a battere sulla “agenda che da troppo tempo è annunciata e fatica a prendere forma”. Ovvero uscire dal “pantano”, come lo chiama Andrea Orlando.

La certezza è che il governo ieri sera è andato dritto e ha approvato il ddl con la riforma del processo penale, quella del 5Stelle Bonafede, con all’interno il lodo Conte bis che risolve il nodo della prescrizione. In barba alle ostruzioni di Renzi.

Renzi, provocazione finale a Conte: “Stacchi la spina?”

Rieccoci: siamo di nuovo al gioco del cerino. Matteo Renzi spinge il governo verso la crisi: provoca, annuncia, logora, lancia sassaiole verbali e nasconde goffamente la mano. “Se Conte vuole staccare la spina – dice – faccia pure”. Ma è lui che da settimane, con zelo, scava il fossato dei giallorosa. Il pretesto è il solito: la prescrizione.

La strategia della tensione renziana prende forma al Senato, in Commissione Giustizia. Forza Italia alza la palla, Italia Viva schiaccia: i berlusconiani presentano un emendamento alla legge sulle intercettazioni che introduce una modifica alle norme sulla prescrizione. Il renziano Giuseppe Cucca si schiera con le opposizioni, la votazione finisce 12 a 12: per il regolamento del Senato l’emendamento forzista è respinto, ma ormai siamo ai cavilli tecnici.

È vera voglia di crisi o l’ennesima provocazione? Matteo Renzi sa fare di conto: era chiaro che il voto di Cucca non avrebbe fatto andare sotto la maggioranza. Voleva mandare un altro messaggio. Ma è pure l’antipasto di quello che rischia di succedere la prossima settimana, quando si dovrebbe andare al voto in Aula sul famigerato “lodo Costa”, la norma di Forza Italia per disinnescare la prescrizione.

La temperatura continua ad alzarsi. Renzi fa sapere che le due esponenti di Italia Viva, Elena Bonetti e Teresa Bellanova, non avrebbero partecipato al Consiglio dei ministri in serata, nel quale si sarebbe affrontato il tema della discordia (Bellanova peraltro è in missione in Russia). Il presidente del Consiglio replica finalmente con durezza: “L’atteggiamento di Italia Viva è surreale, paradossale. Ce lo si aspetterebbe da un partito di opposizione che fa un’opposizione aggressiva e anche un po’ maleducata”. L’assenza delle due ministre è “ingiustificata”. E i renziani “dovrebbero dare un chiarimento, non al sottoscritto, ma agli italiani”. Il “chiarimento” di Renzi arriva alle 18 e 30 tramite diretta Facebook, format salviniano per eccellenza. Nessun passo indietro, ma la prevedibile danza del cerino. “Caro presidente del Consiglio – scandisce il toscano dal suo ufficio a Palazzo Madama – se vuoi aprire la crisi, aprila. Noi ti abbiamo chiesto altro, di aprire i cantieri, di fare le riforme, di parlare di crescita”. Sulla prescrizione è apocalittico: “Non si può dire che garantismo e giustizialismo siano la stessa cosa. È come se qualcuno dicesse che democrazia e dittatura sono la stessa cosa: il garantismo sta alla democrazia come il giustizialismo sta alla dittatura”. E ancora: “Se qualcuno vuole staccare la spina lo faccia prendendosi la responsabilità. Noi non accetteremo mai né ricatti né minacce”.

In serata, ospite di Paolo Del Debbio su Rete 4, Renzi parla esplicitamente di elezioni: “C’è la possibilità che si vada a votare, siamo pronti a questa ipotesi”. Nel frattempo i suoi deputati tentano il secondo blitz parlamentare: alla Camera Iv vota con le destre un emendamento al Milleproroghe sulle concessioni autostradali. Anche questo tentativo fallisce, ma la strategia della tensione è chiara.

Sembra di essere tornati ad agosto, alla crisi del mojito di Salvini. A differenza del leghista, Renzi non ha numeri: Italia Viva nei sondaggi galleggia poco al di sopra della soglia di rilevazione. Guidare una zattera del genere nel ciclone elettorale pare una follia. Forse l’ex premier spera di riciclarsi all’opposizione, nell’ipotesi che Conte sopravviva senza i suoi voti: “Se tu vuoi, puoi cambiare maggioranza – lo ha provocato nella diretta Facebook – Lo hai già fatto del resto, sai come si fa”. La sensazione è quella di un ludopatico che continua ad alzare la posta e si avvicina alla mano finale. Tanto che ieri, a margine del concerto con l’ambasciatore cinese, al Quirinale circolava questa battuta: “Più che una crisi di governo, sembra una crisi di nervi”.

Salvaladri2, la vendetta

La scarcerazione alla spicciolata dei detenuti per corruzione, concussione e peculato (prima pochi, ora zero), grazie all’incredibile sentenza della Consulta sulla Spazzacorrotti, riporta indietro le lancette dell’orologio al 14 luglio 1994. La notte precedente, mentre gli italiani sono distratti dalla semifinale mondiale Italia-Bulgaria (2-1, doppietta di Baggio), il primo governo B. vara il decreto Biondi, che vieta la custodia cautelare per i reati di Tangentopoli e la mantiene per quelli di strada. È la prima di una lunga serie di leggi ad personam, fatta per salvare dalla galera i manager Fininvest che corrompevano la Guardia di Finanza e naturalmente i finanzieri corrotti, ma anche per mantenere con altre norme le promesse fatte a Cosa Nostra nella Trattativa. E quel mattino le Procure d’Italia sono impegnate a scarcerare centinaia di ladroni di Stato indagati nelle varie Tangentopoli e a revocare i nuovi mandati di cattura. Il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli approfitta di una ricorrenza storica per una delle sue battute taglienti: “È singolare che, nell’anniversario della presa della Bastiglia, si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e Opera. Il governo, invece di disporre misure idonee a impedire il perpetuarsi del sistema di corruzione, mostra la preoccupazione opposta. Evidentemente considera la magistratura troppo efficiente…”.

Nel giro di sette giorni vengono scarcerati a norma di decreto 2.764 detenuti, liberi di tornare a inquinare prove, minacciare testi, commettere nuovi reati o fuggire. In serata Antonio Di Pietro, attorniato dagli altri pm di Mani Pulite, legge un comunicato: “Il decreto non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti persone raggiunte da schiaccianti prove su gravi fatti di corruzione non potranno più essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere e a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, talora persino comprando gli uomini a cui avevamo affidato indagini nei loro confronti. Pertanto chiederemo al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico, nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone”. Subito, a Milano e in altre città, migliaia di cittadini scendono in piazza per manifestare in difesa del Pool e contro il decreto, convocati da Società civile, cui si uniscono Pds, Rete, Rifondazione e Verdi. Ma in piazza ci sono anche molti leghisti e missini. L’indomani la Voce di Indro Montanelli chiama a raccolta il “popolo dei fax” per poi pubblicare migliaia di messaggi ricevuti.

La prima pagina de la Voce viene sventolata come una bandiera, insieme a quella di Repubblica, diretta da Eugenio Scalfari, contro il “Decreto Salvaladri”. Fini per An, Bossi e Maroni per la Lega si dissociano dal decreto a furor di popolo e minacciano la crisi se non sarà ritirato. E alla fine B. è costretto alla resa.

Oggi la situazione è ancor più grave. Intanto perché non s’indigna più nessuno. Ma perché il nuovo Salvaladri non riguarda la custodia cautelare (per “presunti non colpevoli”), ma l’espiazione della pena (per condannati definitivi). E non porta la firma di politici, ma della Corte costituzionale: che, dopo aver avallato per 28 anni la “retroattività” delle leggi che negavano pene alternative al carcere e benefici a mafiosi, terroristi, pedopornografi, stupratori, contrabbandieri e sequestratori, s’è svegliata all’improvviso per bocciarne l’estensione (per la Spazzacorrotti) a corruzione, concussione e peculato. O meglio: la Bonafede vale solo per chi ha avuto la sventura di delinquere dopo la sua entrata in vigore. Chi invece ha avuto l’accortezza di farlo prima sconta la condanna comodamente a casa o ai servizi sociali, purché la pena sia sotto i 4 anni (come per i politici condannati per Mondo di Mezzo) o la sua età sia sopra i 70 (come per Formigoni). E, se era finito dentro, può chiedere e persino ottenere il risarcimento dallo Stato per “ingiusta detenzione”: cioè per la “reclusione” che era, sì, scritta nel Codice penale e nella sentenza, ma si dava per scontato che fosse finta. Dalle motivazioni della Consulta capiremo se il carcere finto vale solo per corrotti, corruttori e peculatori o anche – come sarebbe doveroso – per tutte le altre categorie finora inserite dal Parlamento nell’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario: quello sul carcere “ostativo”, cioè vero, senza eccezioni, benefici, alternative e scappatoie. A partire dai mafiosi che nel ’92, in base all’applicazione “retroattiva” della nuova legge del 41-bis, furono deportati dalle carceri ordinarie a quelle speciali di Pianosa e Asinara e ivi sigillati gettando la chiave, anche se condannati per delitti commessi prima. Ora Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione e mandato a casa dopo appena 5 mesi, anziché accendere un cero alla Madonna si lagna pure per i ben 150 giorni trascorsi in carcere sui 2029 previsti dalla sua sentenza: “Ho subìto alcuni mesi di ingiustificata detenzione”. Povera stella. Gli avevano spiegato che l’espressione “anni 5 e mesi 10 di reclusione” in calce alla sua sentenza era uno scherzo, nel Paese notoriamente più giustizialista del mondo. Poi, quando scoprì che era diventata una cosa seria, ci rimase male. Ora i suoi santi protettori della Consulta potrebbero mandarlo a spiegare alle centinaia di criminali finiti in carcere ostativo come mai, quando frignavano loro, nessuno se li filava, mentre se frignano i politici la Consulta scatta sull’attenti. Poi, si capisce, dovranno dichiarare incostituzionale anche la barzelletta che inspiegabilmente continua a campeggiare nelle aule di giustizia: “La legge è uguale per tutti”. C’è chi è morto dal ridere per molto meno.

“L’Eliseo chiuderà, ma è colpa dell’invidia”

Lo ha annunciato nel marzo 2017 quando non aveva ancora ottenuto i contestatissimi 8 milioni di euro assegnatigli al di fuori delle regole che disciplinano i contributi dello Stato allo spettacolo. Luca Barbareschi torna a urlarlo dal palco del suo teatro Eliseo durante una conferenza stampa: “Senza i nuovi finanziamenti non possiamo andare avanti. Non chiuderò fino ad aprile, perché rispetto i lavoratori e il pubblico. Preferisco perdere 400mila euro al mese, ma intanto dovrò iniziare a mandare le lettere di licenziamento. La morte di un teatro è un genocidio culturale”. Le commissioni congiunte Affari costituzionali e Bilancio hanno bocciato gli emendamenti presentati al dl Milleproroghe che avrebbero permesso al teatro romano di ricevere 4 milioni di euro dal 2020 al 2022. Dodici milioni di euro fuori dalle regole del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) che alle associazioni di categoria – Federvivo, Agis e Cresco – sono sembrati l’ennesimo modo per aggirare le regole con provvedimenti ad personam, a favore di un teatro privato che naviga in cattive acque da tempo.

È furente e irrefrenabile il direttore artistico dell’Eliseo (“L’ho acquistato nel 2014 mettendoci 5,6 milioni di tasca mia” e l’ha fatto ristrutturare spendendone altri 7) mentre cerca di spiegare a una platea composta perlopiù da giornalisti che nei suoi confronti c’è solo tanta ostilità. “Hanno bocciato l’emendamento perché vogliono farmi chiudere. C’è chi trama contro di me e contro l’Eliseo. Anche ai miei colleghi Mario Martone o Sergio Rubini non interessa: c’è della pavidità”, urla Barbareschi dal palco. Il regista e produttore poi attacca il ministro dei Beni e delle Attività culturali, Dario Franceschini: “È venuto qui a farsi le foto con i lavoratori e a dire che il teatro non avrebbe mai chiuso, poi è sparito. Per non parlare della sindaca di Roma Virginia Raggi completamente assente”.

L’Eliseo, tra i teatri di rilevante interesse culturale (Tric), è quello che nel 2018 ha ricevuto meno contributi da parte degli enti territoriali: poco più di 231 mila euro contro i 4,2 milioni del Biondo di Palermo o i 2,4 milioni dello Stabile di Venezia. Ma anche sul fronte dei finanziamenti ministeriali Barbareschi si colloca all’ultimo posto: 578 mila euro contro, rispettivamente, 1,25 e 1,22 milioni ricevuti dall’Elfo e dal Parenti di Milano. Mentre i finanziamenti del Fus sono crollati da 1,3 milioni al mezzo milione di euro attuale.

Ora l’ancora di salvezza per Barbareschi è il tavolo di trattative che il viceministro dell’Economia Antonio Misiani ha annunciato di aprire con la disponibilità del ministro Franceschini, anche se – dice il direttore artistico – “quando nelle scorse ore ho chiamato il ministero nessuno ha saputo darmi risposte. Per la mia esperienza politica, so bene che aprire un tavolo è un modo per prendere in giro le persone, forse anche perché sono l’unico direttore di teatro non di nomina politica”.

Intanto Barbareschi è accusato di traffico di influenze dalla Procura di Roma, insieme al suocero ed ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e al lobbista Luigi Tivelli, perché avrebbe fatto pressioni illecite per fare ottenere al teatro 4 milioni di euro dalla legge di Bilancio 2017.

De André, il concerto ritrovato e quel telefonino sotterrato

Il 18 febbraio 2020 Fabrizio De André avrebbe compiuto ottant’anni. Il giorno della sua nascita verrà celebrato con la proiezione in 370 sale cinematografiche del docu-film Il concerto ritrovato, diretto da Walter Veltroni e prodotto da Sony Music con Except.

“È un viaggio nel tempo e nello spazio” racconta Veltroni alla conferenza stampa del progetto, “ci troviamo di fronte a una strana cosa. Da uno scrigno della memoria è emerso questo documento, è arrivato fino a noi con i rischi di essere distrutto. Meritava di esser rispettato questo scrigno, soprattutto non interrompendo il concerto di Genova del 3 gennaio 1979. Oltre alle riprese dal vivo restaurate anche nella parte audio, c’è l’immagine di un piccolo treno che viaggia tra le colline di Genova con i protagonisti a ricordare la genesi di questo incontro. Volevamo restituire il clima civile, sociale e culturale del tempo. Questa operazione nasce da due diversità musicali che sarebbero rimaste parallele fino a quando si è voluto demolire il recinto tra canzone d’autore e rock: l’incontro ha generato una meraviglia. È un bootleg visivo e permetterà anche a chi non era presente al concerto di rivivere questa esperienza unica”.

Il “motore” di questo piccolo gioiello ritrovato è stato Franz Di Cioccio e paradossalmente non viene mai inquadrato nelle immagini, a dimostrazione di quanto sia lontano dall’ego di molti altri artisti. È venuto a sapere che qualcuno aveva le immagini del concerto al padiglione C della fiera di Genova, Piero Frattari. L’ha cercato e ha ritrovato la cassetta originale in tre quarti di pollice, contenente le riprese con una sola telecamera, quasi fissa sul palco. “Fabrizio mi autorizzò a riprendere il live” racconta Frattari, “ma non sopportando la tecnologia mi arrivò il suo monito a essere una presenza invisibile. Le riprese non furono utilizzate e finirono insieme ad altre quarantamila cassette. Riuscì a recuperarla e digitalizzarla”.

Restaurato nelle immagini e, soprattutto, nell’audio con un duro lavoro per ricreare lo stesso impatto sonoro della serata originale, viene oggi riproposto quasi per intero a esclusione di tre brani “solo perché le immagini erano troppo scure” commenta Veltroni. È interessante la conversazione tra David Riondino – all’epoca presentatore del concerto – e Di Cioccio nel voler stigmatizzare le tensioni durante il tour, le contestazioni di due parti di pubblico lontane per formazione e gusti musicali. Ma anche le tensioni politiche, le cariche della polizia e la continuazione del “processo politico agli artisti” la cui immagine più emblematica fu l’attacco a Francesco De Gregori al Palalido di Milano il 2 aprile 1976.

Il film inizia con la voce di Dori Ghezzi e le immagini della loro casa in Sardegna, con un episodio inedito: Dori convinse Fabrizio a comprare un telefono cellulare per parlare con lui durante uno degli ultimi tour. Fabrizio accettò e per due anni lo utilizzò salvo poi decidere di sotterrarlo nel giardino della sua casa. Prima di visionare il concerto – arricchito dai testi sovrapposti con la calligrafia di Fabrizio –, ci sono i commenti dei membri della P.f.m. e di alcuni ospiti: “Nel tour riproposto l’anno scorso ho visto nelle prime file ragazzini di quindici anni cantare tutte le canzoni a memoria” racconta Premoli. “L’arte di Fabrizio rimane e rimarrà anche dopo di noi, ormai è lettaratura”.

Guido Harari fotografò l’intera tournée: “La foto più rappresentativa l’ho scattata a Fabrizio sdraiato di fianco a un termosifone, nel corridoio del padiglione. La frase sua che ricordo più spesso è questa: ‘Ci crediamo tutti coraggiosi, ma temiamo il momento di verificarlo’”. E Dori Ghezzi chiosa: “Ben venga questo video: non c’è nessuna nostalgia nel film ma una grande sensibilità del raccontare questa esperienza”.

Benjamin, una vita in fuga. A 80 anni dal suo suicidio

Il 26 (ma secondo alcuni 27) settembre del 1940, nella stanza 4 dell’alberghetto Fonda Francia di Port Bou, sulla frontiera tra Francia e Spagna, muore uno dei più luminosi geni del Novecento. Walter Benjamin ha 48 anni e la sera prima alle 22 ha ingoiato diverse pasticche di morfina. Stava tentando di raggiungere insieme ad altri ebrei e fuggitivi un porto della Spagna per scappare in America. Sente i nazisti alle calcagna (è già stato tre mesi nel campo di prigionia di Nevers); ma, da studioso di Kafka, sa che i nazisti non sono che una delle incarnazioni che può assumere il male. Infatti sono i doganieri spagnoli a fermare il gruppo per un decreto entrato in vigore proprio quel giorno: l’indomani verranno scortati alla frontiera francese. Dirà il suo amico più caro, lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem: “Benjamin non fu abbastanza saldo per reggere di fronte agli avvenimenti del 1940”.

Adelphi ha appena pubblicato il volume Walter Benjamin-Gershom Scholem. Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, a cura di Saverio Campanini, che raccoglie le 128 lettere intercorse tra Benjamin e Scholem prima di quella notte, molte sequestrate dalla Gestapo e disperse per anni (vedi G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi) finché Scholem non le ha recuperate dalla Repubblica Democratica Tedesca nel 1977. Il carteggio ha davvero qualcosa della stanza per lo sviluppo fotografico: asciugate dagli anni, le lettere lasciano emergere la terribile disperazione di Benjamin e la imperdonabile dissipazione del suo ingegno ad opera delle “iene intellettuali” tedesche mentre l’Europa viene divorata dai demoni.

Scholem è professore a Gerusalemme; Benjamin è esule tra Parigi, Ibiza, Sanremo. Vive una vita di stenti, scrive articoli e traduce Proust; non ha ottenuto l’abilitazione all’insegnamento a Francoforte (la sua tesi, Il dramma barocco tedesco, non è stata giudicata all’altezza) e quando è a Parigi è quasi sempre chiuso nel “cerchio magico” della Bibliothèque nationale. Con Scholem parla di problemi di salute, di suo figlio Stefan, finito in un giro di giocatori d’azzardo, di donne che hanno “aperto strade da ingegneri” dentro di lui, di Max Brod, amico e biografo di Kafka che Benjamin detesta (“A Brod manca troppo spesso il ritegno. Passa la misura tanto nel modo in cui esalta Kafka quanto nella confidenza con cui lo tratta… un’amicizia che, tra gli enigmi della vita di Kafka, non è certo tra i più piccoli”) e di soldi. Vive con 500 franchi al mese, provvedutigli da Theodor W. Adorno, che lo ha voluto come collaboratore dell’Istituto di Sociologia di Francoforte. “Per me spesso riuscire a trovare il denaro necessario (ad affrancare lettere, ndr) è difficile come andare io stesso in capo al mondo”, scrive. “Sono preso dal problema dei prossimi mesi, a cui non so neanche come riuscirò a sopravvivere, in Germania o altrove”.

Non riesce a trovare un editore disposto a pubblicare Infanzia berlinese, capolavoro di scrittura in filigrana tra l’autobiografia e l’etnografia, rifiutato sia dagli editori antisemiti che dagli editori sionisti, che non lo ritenevano abbastanza “ebraico”. Da marxista messianico, crede che l’arte e la fotografia libereranno le masse; che la metropoli è il luogo dell’incanto; che le merci esercitano un sex-appeal dolcissimo e letale.

Nel 1933, in brucianti notti estive tra Marsiglia e Ibiza, fa l’esperienza più strana della sua vita: quella del crock (germanizzazione del francese croc, che significa “gancio”). Mentre i compagni – intellettuali e rifugiati politici in fuga dalla Germania nazista – redigono da lucidi i verbali delle sedute, Benjamin assume dosi controllate di hascisch e oppio, provando nel dormiveglia la sensazione calma, pacificata ed ebbra “che la vita fosse stata chiusa in una scatola di conserva”. “L’hascisch”, scrive, “ha il potere di convincere la natura a concederci, meno egoisticamente, quello spreco della nostra esistenza che contrassegna l’amore”.

Prima di morire quella notte di 80 anni fa, scrive a Scholem la sua professione di fede e di identificazione in Kafka: “Per rendere giustizia alla figura di Kafka nella sua purezza e nella sua singolare bellezza non si deve mai dimenticare una cosa: è quella di un fallito. Le circostanze di questo fallimento sono molteplici. Si vorrebbe dire: una volta che fu sicuro del suo fallimento finale, tutto ciò che intraprese nel frattempo gli riuscì come in sogno”. Il giorno dopo il suo suicidio, i suoi compagni riusciranno a passare la frontiera, aiutati dai doganieri che chiuderanno un occhio.

C’è una bellezza – una clemenza – della burocrazia: nel certificato di sepoltura a Port Bou, in corrispondenza del loculo 563 a picco sul mare (“dove i fiori scottano”, scrisse Paul Klee), si leggeva: “D. Benjamin Walter, de 48 años, natural de Berlín, transeunte”.