Si chiama Francesco Paolo Rizzuto, all’epoca del duplice omicidio aveva 16 anni e con suo padre era compagno di pesca di Nino Agostino, del quale era anche vicino di casa e potrebbe avere assistito al delitto: è il “terzo uomo” dell’inchiesta, indagato per favoreggiamento aggravato, oltre ai boss Nino Madonia e Gaetano Scotto, nei cui confronti la procura generale si appresta a chiedere il rinvio a giudizio.
Dopo 31 anni di indagini, una richiesta di archiviazione della Procura, un provvedimento del gip che ha respinto due richieste di arresto e due avocazioni (la prima annullata dalla Cassazione) l’inchiesta sull’omicidio di Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, assassinati a Villagrazia di Carini (Palermo) il 5 agosto 1989, approda nell’aula di un’udienza preliminare: i pg Nico Gozzo e Umberto De Giglio, coordinati dal Procuratore generale Roberto Scarpinato, hanno notificato ieri ai tre indagati l’avviso di conclusione delle indagini. Commesso nell’estate infuocata dei “veleni” palermitani, subito dopo le lettere del Corvo e l’attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone, quel duplice omicidio è un crocevia di misteri e depistaggi che per oltre 30 anni hanno allontanato la verità.
A cominciare dal ruolo dell’agente ucciso: ufficialmente in servizio al commissariato San Lorenzo, Nino Agostino potrebbe aver fatto parte di una “squadretta segreta” destinata alla cattura dei latitanti mafiosi. Era stato affidato a lui, inoltre, il compito di “scortare” il “preside nero” Alberto Volo, interrogato più volte nella primavera dell’89 da Giovanni Falcone che indagava sulla pista nera del delitto Mattarella.
Le indagini incrociarono l’attentato dell’Addaura, e dopo anni saltò fuori che la vigilanza della villetta di Falcone era affidata al commissariato San Lorenzo (a trovare l’esplosivo sugli scogli furono gli agenti di quel commissariato), circostanza che era stata sempre esclusa. E il depistaggio scattò la sera stessa del delitto: il capo della Mobile Arnaldo La Barbera indirizzò le indagini verso un’improbabile pista passionale, mai riscontrata, nonostante nel portafoglio della vittima il padre Vincenzo trovò un biglietto con su scritto “se mi succede qualcosa cercate nell’armadio”.
Ma nella sua casa di Altofonte ad arrivare primo fu un poliziotto, Guido Paolilli, che, parlando con il figlio, ammise, intercettato, di avere fatto “sparire una freca di carte”. Indagato per favoreggiamento, la sua posizione è stata archiviata per prescrizione ma a Paolilli, all’epoca vicino a Bruno Contrada (la cui abitazione è stata perquisita due volte), il padre dell’agente ucciso, Vincenzo Agostino, ha chiesto un risarcimento di 50 mila euro, citandolo in giudizio con l’assistenza dell’avvocato Fabio Repici per avere depistato le indagini. Fu esplorato anche il ruolo dei servizi, ma senza successo: all’Aisi e Aise, i pm Di Matteo e Gozzo chiesero la lista degli agenti attivi in Sicilia nel periodo del delitto, ma venne opposto il segreto di Stato.
Pochi, tra i collaboratori di giustizia, hanno offerto indicazioni utili: per Giovambattista Ferrante Riina “ordinò un’indagine interna a Cosa Nostra” per individuare i responsabili dell’omicidio del poliziotto, ma “anche lui non riuscì a sapere nulla”.
Più dettagli ha fornito il pentito ex cutoliano Oreste Pagano, amico del narcotrafficante Pablo Escobar: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada. C’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche e alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì”.