La senatrice della porta accanto che proclama: “Sono io l’anti Trump”

“Il senatore della porta accanto”, recita il titolo della sua autobiografia. E l’immagine di cordialità, di buon senso tipico del Midwest è il cuore della storia politica e umana di Amy Klobuchar. Cinquantanove anni, Klobuchar è salutata come la “sorpresa” delle primarie in New Hampshire, dove ha conquistato il terzo posto dietro Bernie Sanders e Pete Buttigieg. Chi la conosce sa però che la “sorpresa” qui non conta niente. Ostinazione e disciplina rabbiosa sono le qualità che hanno tenuto in vita, sinora, il sogno presidenziale della senatrice del Minnesota. Lei ha raccontato spesso in campagna elettorale la sua storia: lo fanno tutti i candidati, in America vuol dire essere inspirational e sembra avere un ottimo effetto sugli elettori. I nonni materni venivano dalla Slovenia, quelli materni dalla Svizzera. Il padre Jim, che ha lavorato anche nelle miniere del Minnesota, è uno storico giornalista sportivo di Minneapolis, con problemi di alcolismo; ora, a 91 anni, è completamente sobrio. La madre era un’insegnante, talmente orgogliosa della figlia da appuntare sul frigorifero le sue pagelle. Educazione middle-class, da brava ragazza del Midwest, e voglia di non corrispondere a modelli femminili imposti sono due cose che tornano spesso nel mémoir di Klobuchar. Alle superiori Amy viene mandata a casa da scuola “perché indossavo i pantaloni, non la gonna”. Si laurea magna cum laude a Yale, lavora come avvocato delle grandi corporation, entra nei circoli politici democratici e diventa procuratore della contea di Hennepin nel 1998. La appoggiano un po’ tutti: stelle del firmamento democratico come Walter Mondale, un altro figlio del Minnesota, e una schiera nutrita di avvocati repubblicani. Il salto al Senato, nel 2006, è naturale. È la prima donna a essere eletta senatrice nella storia del Minnesota. Viene riconfermata nel 2012 e ancora nel 2016, conquistando la fama di chi sa lavorare con i repubblicani e portare a casa risultati; nella legislatura che termina nel 2016 è anzi il senatore che riesce a far approvare più leggi. Non mancano attacchi e pregiudizi. Un giorno, in Senato, si vede recapitare un biglietto anonimo: “Senatore, nasconda un po’ la scollatura”, c’è scritto. Lei non se la prende. “Non mi sono mai fermata. Io vado avanti. Vado avanti, sempre”, ha detto in una recente intervista.

Annuncia la sua candidatura nel febbraio 2019. Lo fa sotto una tempesta di neve e non potrebbe essere altrimenti, per chi vuole mostrarsi tosta, tenace, impossibile da piegare. Il suo programma è quello di una moderata: minimi salariali a 15 dollari, cauto allargamento dell’assistenza sanitaria, misure per alleviare il debito degli studenti, ma non cancellarlo, come vogliono Sanders ed Elizabeth Warren. Il suo mantra, continuamente ripetuto in campagna elettorale, è: “Posso vincere. So come vincere. Ho vinto qualsiasi cosa in cui mi sono impegnata, dalle scuole elementari”. A dimostrazione della presunta invincibilità, cita un dato: nel 2016 ha conquistato tutti i distretti elettorali rossi, repubblicani, quelli che come presidente hanno votato Trump. Con la candidatura alla presidenza, partono anche nuovi attacchi. Nei suoi otto anni da procuratrice, Klobuchar non ha aperto una sola inchiesta sui poliziotti responsabili di omicidi e violenze, elemento che potrebbe costarle il voto afro-americano. Soprattutto, si raccontano cose terribili sul trattamento dei collaboratori: insulti, violenze psicologiche, addirittura oggetti lanciati contro i malcapitati. Di fronte a proteste e crisi di pianto, il capogruppo democratico del Senato Harry Reid avrebbe, nel 2015, richiamato Klobuchar a una “condotta più consona”. Lei ha sempre negato. “Adoro i miei collaboratori – ha detto – è che sono dura e voglio sempre il meglio”. Ora, dopo un brutto risultato in Iowa, Klobuchar risorge in New Hampshire. Si propone come il candidato perfetto. Non così a sinistra come Sanders e Warren; non così anziana come Joe Biden; non così giovane come Buttigieg (che ha definito “un fighetto”). Difficile dire se e quanto la sua candidatura potrà andare avanti. Le manca il conto in banca, e l’organizzazione elettorale, di altri candidati. Lei è pronta ai prossimi appuntamenti: il Nevada, il South Carolina. Le parole d’ordine sono sempre le stesse. Forza. Ostinazione. Resilienza. “Una donna, in politica, deve essere dura – ha detto nel New Hampshire – tanto più dura, se vuole battere Donald Trump”.

Primarie dem, la sfida è “sinistra” contro “centro”

Tanto rumore per poco, o almeno per pochi delegati: conti alla mano, hanno ragione Joe Biden ed Elizabeth Warren, che dopo le batoste nello Iowa e in New Hampshire guardano a quel che deve ancora accadere e non a quel che è stato, nella corsa alla nomination democratica: una maratona, non roba da scattisti. Ma la politica non è semplice come l’aritmetica: i risultati d’un test magari modesto cambiano il ritmo della gara.

Oggi, Biden e la Warren non possono più fare passi falsi, mentre Bernie Sanders e Pete Buttigieg hanno il vento in poppa e Amy Klobuchar, quella che faceva tappezzeria, si scopre emergente. E, poi, c’è l’incognita del peso che avrà Mike Bloomberg, in lizza dal Super Martedì, il 3 marzo. Fino a giugno, il processo delle primarie toccherà tutti i 50 Stati dell’Unione, il Distretto di Columbia – dove sorge Washington – e cinque territori Usa, oltre ai Democrats Abroad. Dei 3.979 delegati alla Convention democratica del 13/16 luglio a Milwaukee, nel Wisconsin, solo 77 sono già stati assegnati – 41 più 26 -, meno del 2%; e, a fine mese, dopo i caucuses del Nevada, il 22, e le primarie della South Carolina, il 29, saranno 167, il 4%. Ma nel Super Martedì andranno al voto 14 Stati (Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont, Virginia), oltre alle Isole Samoa e alla constituency dei Democrats Abroad: saranno distribuiti in un giorno solo 1.344 delegati, oltre un terzo del totale. Dopo lo Iowa e il New Hampshire, la corsa alla nomination democratica è sempre più una partita ‘centro contro sinistra’, Sanders il socialista contro Buttigieg il moderato; e pure tra generazioni, ‘nonno’ Bernie, 79 anni, il più vecchio del lotto, contro Pete il ‘nipote d’America’, 38 anni, il più giovane. La Klobuchar è l’alternativa mediana, politicamente e anagraficamente, 59 anni.

Dopo il pasticcio dello Iowa, le primarie nel New Hampshire, stato tendenzialmente progressista del New England, un milione e mezzo di abitanti, grande come la Lombardia, hanno pienamente rispettato i pronostici: vince Sanders, che incassa oltre un quarto dei voti (25,7%), ma Buttigieg gli sta addosso (24,4%) e fa pari come delegati (nove ciascuno). La senatrice Klobuchar, in forte crescita nell’ultima settimana, conquista il podio sfiorando il 20% e prendendo gli altri sei delegati. Gli sconfitti, sotto il 10%, sono la Warren al 9,3% e Biden all’8,4%. Il New Hampshire è fine corsa per alcuni comprimari: Andrew Yang, ad esempio, imprenditore d’origine cinese, nei cui progetti c’era un reddito di base universale, una sorta di reddito di cittadinanza: adesso, si parla di lui come sindaco di New York dopo Bill de Blasio. Fuori anche il senatore del Colorado Michael Bennet e l’ex governatore del Massachusetts Deval Patrick, l’ultimo nero ed esponente di una minoranza rimasto in lizza.

Smog, Balcani letali. La Serbia come l’India: muori a ogni respiro

Prima di iniziare a leggere spalancate le narici, aspirate molto forte, gonfiate i polmoni per darvi coraggio. Poi arrivate alla fine di “Aria tossica: il costo dei combustibili fossili”, ultimo dettagliato report di Greenpeace sul male globale dell’inquinamento atmosferico. Lì dentro ci sono i numeri dei decessi totali, cifre e conseguenze pagate per l’uso di carbone, petrolio, gas: quasi cinque milioni di morti premature all’anno, insieme a circa 3.000 miliardi di dollari perduti, ovvero otto ogni giorno, che corrispondono al 3,3 per cento del Pil del mondo.

È l’allarmante e meticolosa ricostruzione di quanto costa l’inquinamento alla terra e alla sua economia affossata senza energie rinnovabili. Una piaga anche italiana dove si contano 56 mila decessi prematuri, in un’Europa dove in totale ce ne sono stati 412 mila in un anno. Aria tossica, “il più importante rischio ambientale per la salute umana”, ammette Alberto Gonzales, Agenzia Europea dell’Ambiente.

C’è una macchia più scura delle altre sulla mappa geografica del veleno invisibile. Quella dei Balcani, dall’orizzonte perduto in una nebbia cronica e perenne, composta da microscopiche particelle letali e polveri, che impedisce di vedere mentre cammini, pedali, guidi, vivi. Neri, grigi o completamente bianchi sono i fumi che attraversano come nuvole veloci le strade e i cieli da Skopje a Belgrado, da Zagabria a Sarajevo. Capitali che secondo Airvisual, istituzione del monitoraggio dell’aria, sono tra le più inquinate al mondo, non solo d’Europa.

In attesa di una rivoluzione verde dell’energia tra miniere e ciminiere si muore in Bosnia. La polizia a Sarajevo è abituata a ripetere che “la sospensione delle attività scolastiche è dovuta, se necessaria”, avvisa quotidianamente i cittadini di dover indossare le maschere protettive e vieta l’uso di veicoli che non rispettano norme europee nella valle dove l’aria non circola, rimanendo prigioniera delle rocce che circondano la città. “Volevo fare un pupazzo di neve ma non potevamo uscire fuori, dobbiamo indossare le maschere sulla faccia”. È la voce di Sarah Kaidic, 9 anni, tra i banchi della scuola Samokovlija nella Capitale, dove i bambini sono arrabbiati “con i proprietari delle grandi fabbriche”, riporta l’ultimo dossier stilato dall’Unione europea. Oltre un anno: è quanto vivono in meno i cittadini delle 19 città dei Balcani occidentali analizzate in questo rapporto UN, secondo cui l’inquinamento dell’aria è responsabile supremo in luoghi come Tetovo, Macedonia del Nord, del 19% delle morti totali in generale. Malattie vascolari o respiratorie, infezioni ai polmoni o infarti, cancro. L’aria sporca è la causa certa della loro fine, finisce nei polmoni dei balcanici e spezza la vita ad almeno sette milioni di persone ogni anno in quell’area. Da un Paese all’altro, senza dogane alla frontiera di alcuna nazione per frenare i veleni. La linea che si traccia a quelle latitudini è rossa: “Le persone sono esposte alle più alte concentrazioni di inquinamento in Europa”. In ordine sparso e per effetto domino si tratta di Albania, Bosnia, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord, Croazia e Serbia. Perché “l’inquinamento non conosce confini”, spiega un report di Global Alliance on Health and Pollution: “Non solo nell’aria, ma nell’acqua e nei cibi che viaggiano da uno Stato all’altro”. Auto obsolete, stufe a carbone, industrie che non rispettano alcuna norma ambientale soprattutto in Bosnia e Serbia: a Tuzla, dove i limiti legali di emissione di gas tossico superano i livelli consentiti per 252 giorni l’anno, la centrale a carbone non è stata chiusa ma anzi ampliata da una compagnia cinese che l’ha rilevata, e dal Dragone arriva anche la Zijing Mining, che ha comprato il complesso minerario di Bor in Serbia. Vecchie nemiche di guerra, oggi città gemelle dall’ossigeno malato, sono le Capitali di Croazia e Serbia. Storie diverse eppure uguali. All’ospedale di Zagabria riferiscono che “in 15 anni metà dei malati hanno sviluppato allergie, l’inquinamento distrugge le membrane delle mucose respiratorie”. I colleghi dell’istituto pediatrico di Belgrado fanno dichiarazioni pari: “Registriamo un allarmante aumento di infezioni respiratorie”, conferma Andrej Sistaric, Istituto della Salute pubblica serba.

Nessuna restrizione rigorosa o decisione governativa ha invertito il timone dei politici serbi che parlano di “smog stagionale, che passerà in primavera”, mentre un nuovo inceneritore è stato costruito a Vinca, nei pressi della Capitale, nonostante la banca di investimenti europea si sia rifiutata di costruirlo, perché non rispetta standard di quell’Unione di cui la Serbia vuole far parte. A Belgrado, la quarta città più inquinata al mondo secondo Airvisual, la prima in Europa con più morti premature per mancanza di tutela ambientale, i cittadini sono scesi con il volto coperto dalle mascherine chirurgiche al grido di Ne davimo Beograd, non abbandoneremo Belgrado. Sono parole di denuncia che come pietre vengono periodicamente lanciate nello stagno della politica della regione che non modifica rotta né direzione. L’unico che la cambia è il vento, che trasporta polveri, veleni e morte ancora un po’ più in là.

Vola “altissimo” Il Colibrì della Sera

Domenica doppio avvistamento del colibrì di Sandro Veronesi sul Corriere della Sera, dopo i 43 (quarantatré) passaggi già registrati nei cieli di via Solferino dall’uscita a fine ottobre a Natale tra recensioni, riassunti, panegirici, avvisi di appuntamenti, colonnini, premi, eventi a tema. Doppio paginone: “La consegna a Sandro Veronesi del riconoscimento per il libro del 2019 diventerà l’occasione per una discussione sul romanzo con altri sette autori” (per approfondire un tema appena sfiorato); accanto, la recensione “L’acrobazia preziosa del Colibrì che canta una borghesia svanita”. È che da un prodotto di nicchia come questo non ci si aspettava tanto successo (500 mila copie vendute): “Il colibrì di Sandro Veronesi (che correrà al Premio Strega 2020) ha volato altissimo”. Il trochilide vola, anzi corre. Intanto, fino allo Strega, il birdwatching monouccello del Corriere non conoscerà soste né requie: in quanto a tutela della biodiversità si potrebbe far meglio (chiediamo alla Lipu).

Dai processi morti alle foibe, quanti sofismi e giravolte

Gli studiosi di comunicazione non potranno fare a meno di studiare l’inversione di paradigma avvenuta in questi mesi nel dibattito pubblico sulla prescrizione. Per anni i termini del discorso erano questi: in un sistema complesso (il sistema giustizia) compare un elemento (la prescrizione) che è sintomo di un male (la eccessiva lunghezza dei processi). È dichiarazione d’impotenza dello Stato di diritto, negazione di giustizia alle vittime, spesso privilegio per i potenti che hanno mezzi per resistere a lungo in giudizio, anche con trucchi e manovre dilatorie. Quando scatta, dimostra che il sistema è malato. La prescrizione come airbag: entra in funzione come conseguenza di un incidente. Dovrebbe essere residuale, eccezionale, straordinaria, invece è normale strumento deflattivo per buttare nel cestino migliaia di procedimenti.

Gli antagonisti che si confrontavano nel discorso pubblico erano da una parte i difensori della giustizia, che proponevano di eliminare o almeno ridurre la prescrizione, che impedisce di dare giustizia, mortifica lo Stato di diritto e offre ai potenti il privilegio dell’impunità; e dall’altra i sostenitori di una distorsione e di un privilegio.

Nell’inversione avvenuta in questi mesi, invece, la distorsione è stata presentata come un caposaldo dello Stato di diritto, una nobile bandiera di libertà dei cittadini che non possono restare “imputati a vita”. L’airbag è diventato il logo della casa, simbolo prezioso e “glam” dell’auto: e ve lo vedete un marchio automobilistico fare pubblicità alle sue vetture non puntando sulla bellezza della linea e l’eccellenza delle prestazioni, ma sull’utilità dell’airbag in caso d’incidente? Eppure sta andando così.

Ora gli antagonisti del discorso pubblico sono da una parte i paladini del diritto e del cittadino, eroicamente difeso dal “fine processo mai”; e dall’altra i manettari che, dimenticando la Costituzione, vogliono il processo eterno. Vorrebbero invece – insieme – processo più breve e prescrizione residuale. Sanno che la peste non si cura con il colera e che i due mali vanno guariti entrambi. Ma questo fa fatica a emergere nel frastuono del discorso pubblico.

Non approfondiamo qui i motivi dell’inversione, che sono tutti politici e, in alcuni casi, bassamente strumentali. Restiamo sul piano della comunicazione: il rovesciamento del discorso sulla scena pubblica ha funzionato. È avvenuto quello che – abbiamo appena celebrato il “giorno del Ricordo” – è scattato per le foibe. Mi rendo conto che è quasi una bestemmia paragonare ad altro, a qualsiasi altra cosa, gli eccidi e le stragi, ma è forte l’impressione che la “giornata del Ricordo” permetta un’altra, più grave inversione di comunicazione. Per anni, a chi ricordava la Shoah, il progetto di scientifica eliminazione degli ebrei, i sistematici eccidi, da parte di nazisti e fascisti, degli oppositori, dei “diversi”, degli antifascisti, qualcuno alzando il ditino opponeva la domanda: “E le foibe?”.

Crimine gravissimo, ingiustificabile rappresaglia contro l’imperialista e fascistissima occupazione italiana delle terre oltre il confine orientale, l’italianizzazione forzata, i 7 mila jugoslavi uccisi dai fascisti. Dopo quella vendetta terribile dei titini che fanno sparire migliaia di italiani nelle foibe del Carso, gli eredi dei fascisti ribaltano il discorso pubblico, rivestono i panni delle vittime che chiedono giustizia dalla Storia, pretendono di equiparare “giornata del Ricordo” e “giornata della Memoria”: sperando di elidere l’una con l’altra.

Meno olio e vino: Capalbio muore nel cemento

Il paesaggio della Maremma collinare, fra boschi, oliveti e vigneti, è di nuovo in pericolo. Lo denunciano Wwf, Legambiente, Italia Nostra, Carteinregola, Green Italia, Coordinamento produttori biologici in un fitto e argomentato documento contro l’attuale Giunta di Capalbio (Grosseto) guidata da alcuni mesi dal geometra Settimio Bianciardi. Un ex Pci di peso, protagonista delle politiche edilizie del centro maremmano quando si parlò di un “partito dei geometri”. A partire dal mega-parcheggio sotto le mura, largamente fallito come impresa economica (si riempie giusto il mese di agosto e nei weekend estivi) dietro il quale si aggira il sospetto di una robustissima piattaforma per qualcos’altro: magari per una bella serie di villette a schiera con tanto di garage incorporato…

Insediato da poche settimane, Settimio Bianciardi ha posto in conferenza stampa un problema inaspettato: dare a tutti i capalbiesi una casa. Inaspettato perché la popolazione del Comune, raggiunta la punta di 4.306 residenti nel 2009 è scesa a 4.068 nel 2018. Gli immigrati non sono pochi, il 16 per cento, soprattutto romeni, integrati nei lavori agricoli e turistici. Ma stabili. E allora? Forse una tecnica psicologica per preparare il terreno a nuove edificazioni diffuse.

Quando Bianciardi venne eletto, qualcuno soffiò all’orecchio mio e di altri: “Vedrete che rispunterà il golf…”. Puntualmente rispuntato. Fu una delle ultime campagne polemiche di un coraggioso urbanista milanese trapiantato qua come tecnico e come agricoltore biologico, Valentino Podestà, purtroppo scomparso poco dopo. Nel 2103 una società facente capo a un avvocato calabrese aveva presentato il progetto per un golf con tanto di Club House in una zona delicatissima: sul lago Aquato che appare e scompare a seconda della intensità delle piogge e dove i vigneti doc lasciano il posto a pascoli anch’essi utili all’economia locale, nella quale il Pecorino, soprattutto il Capalbiaccio, potrebbe avere ben altro mercato, insieme ai vini e all’olio d’oliva di pregio, se esistesse uno straccio di politica locale a loro favore.

Podestà constatò che sul lago Aquato, oltre la Sgrilla e Monteti, nell’area dell’ipotizzato golf, c’erano due ruderi agricoli, uno di 34 e l’altro di 64 metri quadrati ai quali “aggrapparsi”. Nient’altro. Gli fu facile dimostrare che “un centro golf a nove buche consuma fra gli 800 e i 1.000 metri cubi d’acqua al giorno, quasi l’85 per cento dei consumi idrici di Capalbio”, dove il servizio alle abitazioni d’estate fatica già non poco soprattutto nel borgo medioevale e promette erbicidi e pesticidi a schiovere. Progetto bocciato a tutti i livelli, seccamente in Regione. Ebbene, la Giunta Bianciardi ora lo ripropone con un albergo da 50 posti letto e cubature di 2.500 mc per questo e per alcuni agri-alberghi vicini (in modo di acquisire consensi a quell’insidioso progetto).

Tutto ciò rientra in un pacchetto di misure urbanistiche ed edilizie decise – fanno notare le associazioni naturaliste – senza alcun procedimento di Valutazione ambientale strategica (Vas), senza aver svolto la conferenza di co-pianificazione prescritta quando i terreni siano esterni al “perimetro del territorio urbanizzato”, utilizzando invece la “procedura semplificata”. Una serie di misure a vantaggio dell’edilizia e a detrimento di agricoltura e zootecnia: a) tettoie impermeabili fino al 40 per cento della superficie coperta a servizio delle aziende; b) bonus essenzialmente in volumetrie edilizie; c) riduzione da 3.000 a 1.000 mq delle pertinenze agricole se si costruiscono ville; d) rarefazione della densità arborea da una pianta ogni 20 mc a una ogni 100 mc in presenza di nuove edificazioni; e) trasferimenti di volumetrie fino a 2.000 mc fra aziende agricole dell’intero Comune (molto vasto, ben 187 kmq). Insomma, meno olio, vino, pecorino o ricotta e più cemento. La solita, decrepita, sfruttata ricetta del passato. Senza futuro.

Altri delirii togati sulla prescrizione

La estrema violenza dell’attacco alla riforma Bonafede sulla prescrizione non accenna a diminuire, anzi tutt’altro. La parte politica più scatenata è quella diretta dal finto rottamatore Renzi (Italia Viva) che, facendo parte della maggioranza, minaccia una crisi di governo e, addirittura, paradossalmente, una mozione di sfiducia verso il ministro di Giustizia.

A dar man forte a questa scomposta reazione sono stati, ancora una volta, alcuni magistrati, uno dei quali è giunto ad affermare che tale “resistenza” alla legge “accrescerebbe la dignità politica” di Italia Viva. Si tratta dell’ex pm veneziano Carlo Nordio, già consulente per il nuovo Codice penale del ministro di Giustizia leghista Castelli, le cui gesta sono state incisivamente narrate dal direttore di questo giornale nell’editoriale dell’11 febbraio. Pontifica il Nordio, con affermazioni giuridiche del tutto infondate, che la riforma Bonafede “sgretola definitivamente i principi minimi del diritto”, soprattutto del “diritto alla difesa”.

Ma, a parlare di “obbrobrio” è stato anche l’ex pm anticamorra, oggi alla Polizia giudiziaria di Napoli (dopo essere stato bocciato dal Csm alla Dna), Catello Maresca, assurto agli onori della cronaca, anche televisiva (“Voce narrante di una docufiction”) perché ritenuto artefice della cattura del boss della camorra, il superlatitante Michele Zagaria (per la verità la cattura dei latitanti è opera delle “sezioni catturanti” della polizia e dei carabinieri all’esito di complesse operazioni di osservazione, appostamenti, pedinamenti, intercettazioni, ecc. anche se, in alcuni casi, qualche pm vuole essere presente alla fase finale della cattura).

Costui, in un convegno organizzato dalla forzista Mara Carfagna (che lo avrebbe voluto candidato a governatore della Campania), ha affermato che “il blocco della prescrizione è un obbrobrio giuridico”. Ora, è davvero incomprensibile come possa definirsi un “obbrobrio” quel blocco che serve a dimezzare (peraltro, solo per il 40 per cento) l’oscena mattanza di 130.000 processi l’anno che si sostanzia – perché di questo si tratta – in denegata giustizia per le parti offese e, seppure in misura molto minore, per gli stessi imputati.

Ma come è possibile che questi magistrati non si rendano conto che la prescrizione è un’anomalia del processo penale che ne altera il naturale esito (sentenza di assoluzione o di condanna) e che, in quanto tale, dovrebbe essere una evenienza eccezionale, laddove la sciagurata legge ex Cirielli del 2005 – scientemente inserita nel già inceppato meccanismo del processo penale – l’ha resa un evento (reciuts: una patologia) usuale, costante, tant’è che coloro che avversano la riforma Bonafede hanno buon gioco nel farla passare come una terza modalità di definizione del processo penale che si aggiunge a quella di assoluzione o condanna, al punto da considerare paradossalmente tale anomalia, tale patologia, come “un diritto inalienabile”, “una garanzia costituzionale” dell’imputato.

Ma è davvero così difficile prendere atto dell’enorme spreco di energie processuali che troppo spesso si è verificato quando la prescrizione è maturata dopo l’espletamento di accertamenti complessi, frequentemente già sfociati in sentenze di condanna non definitive. Una simile situazione frustra la legittima pretesa punitiva dello Stato e le istanze di tutela della vittima del reato, disincentivando al contempo i riti alternativi e favorendo la presentazione di impugnazioni a scopo puramente dilatorio per conseguire l’obiettivo della prescrizione.

È veramente difficile comprendere che detta evenienza ha scardinato l’efficienza e la credibilità del diritto penale, poiché in tali casi, pur in presenza di un forte quadro probatorio, il giudice ha dovuto pronunciare il non luogo a procedere per estinzione del reato e ciò avverrà ancora per almeno 4-5 anni dall’entrata in vigore della riforma Bonafede.

E non è forse per questo che organismi sovranazionali operanti nell’ambito del Consiglio d’Europa, fin dal 2009, hanno invitato (inutilmente) l’Italia alla individuazione di soluzioni che consentano di addivenire a una pronuncia di merito, in un tempo ragionevole e ad adottare le misure necessarie al fine di “giudicare effettivamente” i responsabili di fatti-reato.

Il fuoco di sbarramento incrociato di politici e magistrati ha già sortito, però, un primo effetto negativo, avendo il governo deciso di modificare la riforma circoscrivendo il blocco della prescrizione alle sole sentenze di condanna, così aprendo la strada a eccezioni di incostituzionalità per disparità di trattamento tra condannati e assolti, con il pericolo che salti l’intera riforma.

Mail box

 

Regionali in Toscana, per chi voterà questa volta Benigni?

Caro direttore, vedendo Benigni all’Ariston, mi son venuti alla mente i suoi film, quando prese in braccio Berlinguer, le presenze strepitose in tv, i suoi monologhi. Mi son ricordato però anche le sue giravolte rispetto al referendum costituzionale del 2016, quando il premio Oscar passò dal sì al no per ritornare al sì. Intervistato allora da Ezio Mauro, si giustificò: “Ho dato una risposta frettolosa, dicendo che se c’è da difendere la Costituzione, col cuore mi viene da scegliere il ‘no’. Ma con la mente scelgo il ‘sì’”. Il referendum fu perso da Renzi. Oggi maliziosamente sarei curioso di sapere come Benigni voterà alle regionali in Toscana.

Salvatore Giannetti

 

Lo squallore caricaturale del giornalismo italiano

Forse con l’età si diventi intolleranti: come lettore, non ho interesse a incensare nessuno, ma prima del Fatto non riuscivo più a leggere i giornali. Mi disgustavano la faziosità di chi ci scriveva e l’adesione tremebonda e lecchina alle linee politiche editoriali. Tra i tg, inguardabili quelli aziendali del Caimano, o padronali come Sky, nauseanti quelli lottizzati della Rai, rimaneva quello de La7. Di recente, la figlia di Tortora ha mandato a quel paese Travaglio. Non ha attaccato lo squallore caricaturale del giornalismo italiano, ma se l’è presa con uno dei pochi che interpreta ancora in modo degno quel mestiere.

Mario Frattarelli

 

“Rosso Istria”, un film dal retrogusto fascista

Domenica sera è stato trasmesso su Rai Movie il film Rosso Istria, in cui veniva rappresentata la figura di Norma Cassetto, istriana, condannata a morte dai partigiani iugoslavi titini nell’ottobre del 1943 all’età di 23 anni. Sono rimasto sconcertato di come il regista, Maximiliano Hernando Bruno, ha raccontato questo triste e tragico evento e come ha descritto i personaggi di questa tragedia. Nel raccontare il dramma usa un’accentuazione melodrammatica: il capobanda titino è descritto come il male assoluto, il comunista italiano è un traditore della propria gente, salvo poi riscattarsi per amore in un finale improbabile. Viene messa in sordina tutta la politica che il fascismo ha adottato in quelle regioni dal 1919 fino al 1943: dall’italianizzazione forzata all’invasione della Iugoslavia, che ha creato come reazione il fenomeno partigiano con le conseguenti, ovvie violenze. Il film mi è sembrato una malcelata giustificazione delle scelte politiche del fascismo. E non è accettabile il paragone con la Shoah.

Sandro Mandracchia
Associazione Libertà e Giustizia

 

Antisemitismo e razzismo sono il virus da debellare

Quando vediamo una stella di David o la scritta “Jude” disegnate su una porta; quando notiamo svastiche che deturpano le tombe d’un cimitero ebraico; quando sentiamo che è stato profanato il Giardino dei Giusti; quando leggiamo un messaggio antisemita, una scritta razzista, una qualsiasi parola offensiva e denigratoria; quando veniamo a conoscenza di atrocità – noi tutti, donne e uomini, giovani e anziani, di qualunque colore sia la nostra pelle, il nostro credo religioso e la nostra fede politica, non cadiamo nel tranello di reagire con rancore a tanta cattiveria ma isoliamo questi virus maligni, che offendono ogni valore di solidarietà e di pace. Isoliamo ogni traccia indegna e sostituiamola con pensieri e concreti atti d’amore.

Raffaele Pisani

 

Una via per Craxi: lasciate che decidano i cittadini

Anche il sindaco di Pesaro si è accodato ai colleghi di altri Comuni, annunciando di voler intitolare un via a Bettino Craxi. Ovviamente seguiranno le solite e giuste alzate di scudo da parte delle opposizioni locali e nazionali e allora, mi chiedo, perché ogni sindaco non sottopone preventivamente questa idea al parere dei propri cittadini e lascia che decidano loro? Sarebbe una scelta più giusta e democratica e, ne sono certo, ci sarebbero grosse sorprese.

Francesco Forino

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’articolo dell’8 febbraio, “La vita demolita da una truffa”, il ragioniere Nicola Nardin viene citato come “commercialista”, pur non essendo iscritto all’Albo dei Dottori commercialisti e degli esperti contabili. Ricordiamo che il titolo di “commercialista” è riservato solo ai professionisti che sono nell’Albo. Tutti gli altri si possono chiamare “consulenti fiscali”, “consulenti tributari”, “fiscalisti”… Chiediamo la massima attenzione e sensibilità da parte delle redazioni affinché non contribuiscano a divulgare informazioni che creano un danno reputazionale e di immagine alla categoria professionale dei commercialisti.

Massimo Da Re, presidente dell’Ordine Commercialisti, Venezia

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo uscito ieri con il titolo “Truppa Rai a Sanremo, non erano 600 ma 800” è stato erroneamente scritto che tra il pubblico del Festival era presente anche Alberto Romagnoli, corrispondente Rai da Bruxelles. Romagnoli non era a Sanremo. Ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

Gi. Ros.

Denatalità. Meno figli = aborti è un nesso pericoloso che ci fa tornare al passato

Egregio Direttore, se la denatalità è in crescita, bisogna pure tener conto che oggi è molto più facile abortire e i dati, secondo me per difetto, parlano chiaramente: negli ultimi 40 anni, vi sono stati 5.895.368 interruzioni di gravidanza. Come se in Italia fossero sparite Roma, Milano, Napoli e Palermo. E questi bimbi mai nati, se fossero venuti al mondo, avrebbero pure loro potuto procreare. Sono cambiati i modelli della società: non sarà qualche incentivo economico a modificare questo trend.
Enzo Bernasconi

 

Gentile Enzo, è dal 1983, da quando per la prima volta nel nostro Paese il saldo naturale fra nascite e morti risultò passivo – e il tasso di fecondità si stabilizzò tra i più bassi al mondo – che autorevoli demografi e sociologi si interrogano su “cosa stia succedendo in Italia”. Ma riproporre il nesso denatalità-aborto, come fa lei, non solo risulta antistorico – mi permetta – ma, nelle sue premesse, si rifà a un pericoloso falso. Innanzitutto, non è vero che “oggi è molto più facile abortire” in Italia. Secondo l’ultima relazione sull’attuazione della legge 194 presentata al Parlamento – su dati 2017 – l’obiezione tra i ginecologi è arrivata al 68% (ma ci sono regioni in cui, per la stra-presenza di medici obiettori, per le donne è materialmente impossibile abortire e ciò le costringe a spostarsi e intraprendere dei viaggi solo per vedere rispettato un loro diritto). In più, mi duole doverglielo sottolineare, a oggi le interruzioni volontarie di gravidanza nel nostro Paese sono 80.733, un numero in continua diminuzione (-66% rispetto al 1982, anno in cui si osservò il più alto numero di Ivg, 234.801). Qualunque sia la ragione che spinge una donna a farlo, l’aborto non è mai una decisione semplice. Spesso, resta un pensiero fisso, in dei casi straziante, che si ripropone nella vita di quelle donne ogni giorno. Ma è una possibilità, o meglio un diritto sancito per legge. Certo, nel mondo assistiamo alla moltiplicazione di città, consigli comunali, Stati interi che impongono il divieto di interruzione di gravidanza dichiarandosi “abortion free” (penso al Texas, per stare sull’attualità). Ma delegittimare questo nostro diritto non risolverà il problema della denatalità. Qualche anno fa, l’Institute of Family Policies ha calcolato che “il numero di aborti nei Paesi membri Ue in un anno equivale al deficit nel tasso di natalità in Europa”. Ma non è che, per invertire la tendenza, allora possiamo permetterci di dire che le donne devono tornare a far figli (sottinteso: procreare è necessario ed è un dovere naturale per il genere femminile). Anche perché la denatalità è iniziata sì negli anni in cui l’Italia ha conosciuto l’aborto, ma anche i “dinks”, “double income no kids”: doppio stipendio niente bambini. Giusto per rimanere nel campo delle reciproche libertà, ecco.
Maddalena Oliva

Meglio morire lentamente che rischiare sulle riforme

La rivoluzione di Bergoglio è finita. Anzi, non è mai iniziata. Con il respingimento inequivocabile della domanda dei padri sinodali dell’Amazzonia di poter ordinare sacerdoti dei diaconi sposati, Francesco ha seppellito ogni eventualità di riforma del celibato e chiarito una volta per tutte la natura del suo pontificato. In assoluta continuità con i papati precedenti di Giovanni Paolo e Benedetto e in piena sintonia con i cardinali Sarah e Ruini, il papa ha confermato l’esclusione del diaconato femminile e l’assoluta impossibilità di accedere al sacerdozio per i maschi sposati anche in una regione dove le distanze geografiche e la mancanza di preti determinano l’impossibilità di celebrare con regolarità la messa domenicale. L’esortazione di Bergoglio ha anche definitivamente mandato in soffitta ogni ipotesi di riforma del centralismo assoluto che caratterizza il cattolicesimo, chiudendo ogni spiraglio all’autonomia delle chiese locali. Il papa ha implicitamente ribadito che il potere assoluto resta tutto intero nelle mani del sovrano. Le periferie dell’impero hanno diritto di domandare, il capo romano ha il pieno diritto, come ha fatto in questo caso, di ignorare del tutto le loro richieste.

Sul piano strategico, anche se ha sorpreso molti, la decisione di Bergoglio non è certo un fulmine a ciel sereno. L’energia riformatrice del papato, ammesso che mai vi sia stata, si è spenta da anni. Cambiare la Chiesa Cattolica è un’impresa molto complicata e forse impossibile. Le contraddizioni e le divisioni interne sono talmente numerose, i rischi che dal mutamento di un equilibrio derivino conseguenze imprevedibili e sgradite è talmente elevato che l’immobilismo radicale praticato da Bergoglio appare certamente come una strategia comprensibile e sensata. Meglio morire lentamente per effetto di una malattia progressiva ma lenta, che rischiare di rimanerci all’istante in conseguenza di qualche riforma avventata.

Sul piano tattico, il comportamento di Bergoglio è di lettura decisamente più complicata. Perché il papa ha dapprima incoraggiato la convocazione del Sinodo e poi lo ha gelato con una sconfessione? Io qui vedo due interpretazioni possibili. La prima è che il papa abbia caldeggiato, due anni fa, il processo sinodale senza nutrire certezze sul suo approdo. Privo di un progetto preciso, nel corso del tempo vuoi per le resistenze e le perplessità di molti autorevoli gerarchi, vuoi per il timore di un “contagio riformatore” che dall’Amazzonia si sarebbe potuto trasferire all’Europa, e in particolare all’inquieta Germania, il papa si sarebbe spaventato per le conseguenze di quella che all’inizio gli era sembrata solo un’innocente soluzione eccezionale per un serio problema locale e avrebbe, dopo mille esitazioni e perplessità, redatto il documento oggi sotto i nostri occhi. Si tratta di una spiegazione all’apparenza plausibile (e scommettiamo che sarà piuttosto diffusa nei prossimi giorni), ma nella quale il papa argentino prende le sembianze di un ingenuo, di un leader piuttosto sprovveduto, incerto e balbettante, non in grado di prevedere le conseguenze delle sue scelte e in definitiva piuttosto inadatto al ruolo che occupa. Io a questo scenario non credo nel modo più assoluto: Bergoglio è tutto fuorché un ingenuo, o un uomo privo di esperienza e di saggezza. Al contrario è un politico abile e assai sottile.

Per questo motivo, a me sembra molto più probabile una seconda possibilità: e cioè che il papa abbia deliberatamente pianificato sin dal principio di infliggere, sul tema delicatissimo del celibato e delle donne, un colpo mortale ai riformatori.

La ragione per cui l’avrebbe fatto è molto semplice: ha voluto fornire all’intero mondo cattolico, e soprattutto alla folta platea di chi lo accusava di voler pericolosamente ammodernare la Chiesa, una plateale e inequivocabile dimostrazione della sua piena ortodossia, della sua prossimità politica con chi l’ha preceduto sul soglio di Pietro, del suo affetto per la dottrina tradizionale, della sua attenzione per la tutela degli interessi della casta clericale che governa l’istituzione. Francesco ha insomma mostrato di essere capace di resistere alla tentazione di accontentare chi lo adulava e idolatrava dal mattino alla sera, chi lo considerava già santo, e cioè i riformatori, per difendere la vera Costituzione materiale della Chiesa Cattolica, e cioè quell’insieme di norme che giustificano e garantiscono i privilegi dei maschi celibi formati nei seminari. Schiaffeggiando con violenza i suoi tifosi progressisti Bergoglio pretende ora di godere della fiducia di tutti gli altri, dei conservatori più accaniti, ma anche dei moderati difensori del quieto vivere che si erano agitati nei primi anni del suo pontificato a causa dei ventilati cambiamenti. Staremo a vedere se l’operazione gli sia riuscita.