Preti sposati, Papa Francesco è democristiano

Papa Francesco ha scelto l’unità della Chiesa. Il lungo testo che “accompagna” – cerchiato di rosso da padre Antonio Spadaro, il direttore della rivista gesuita Civiltà Cattolica – il documento finale del sinodo di ottobre, l’esortazione apostolica Querida Amazzonia, non apre ai preti sposati e perciò chiude le tensioni interne che minacciano il pontificato. Jorge Mario Bergoglio non ha cancellato il vincolo del celibato neppure per una situazione speciale in un contesto speciale come l’evangelizzazione in Amazzonia, così possono tacere o ritenersi vincenti quei vescovi e quei cardinali che hanno suscitato il terrore tra le frange più tradizionaliste o che hanno trovato un facile pretesto per indebolire Francesco.

Una manciata di mesi di illazioni e guerriglia lasciano il libro del cardinale Robert Sarah con il contributo di Joseph Ratzinger e il congedo indotto di monsignor Georg Ganswein, emblema di una Chiesa ormai irrimediabilmente divisa. Francesco ha risparmiato il colpo più duro, ma ridurre l’intervento al ballottaggio preti sposati sì e preti sposato no – tra l’altro i vescovi erano per il sì in Amazzonia – è di una terrificante banalità, perché il sinodo per l’Amazzonia è il simbolo di una Chiesa in movimento e per l’appunto sinodale che Francesco ha immaginato sin dall’inizio e restituisce con un’esortazione apostolica dai molteplici profili. Tant’è che i principali collaboratori di Francesco si sono affrettati a dire che la questione del celibato rimane in sospeso e che comunque si procede con più slancio missionario: “C’è necessità di sacerdoti ma ciò – si legge dal punto 92 – non esclude che ordinariamente i diaconi permanenti – che dovrebbero essere molti di più in Amazzonia – le religiose e i laici stessi assumano responsabilità importanti per la crescita delle comunità e che maturino nell’esercizio di tali funzioni grazie a un adeguato accompagnamento. (…) Una chiesa con volti amazzonici richiede la presenza stabile di responsabili laici maturi e dotati di autorità, che conoscano le lingue, le culture, l’esperienza spirituale e il modo di vivere in comunità dei diversi luoghi”.

E poi in una nota viene citato l’articolo 517 del codice di diritto canonico: “È possibile, data la scarsità di sacerdoti, che il vescovo affidi a un diacono o a una persona non insignita del carattere sacerdotale o a una comunità di persone una partecipazione nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia”.

Spiega Spadaro nel suo commento: “L’esortazione presenta un paragrafo molto importante dal titolo ‘Ampliare orizzonti al di là dei conflitti’ Esso prende avvio dalla constatazione che ‘in un determinato luogo, gli operatori pastorali intravedano soluzioni molto diverse per i problemi che affrontano, e perciò propongano forme di organizzazione ecclesiale apparentemente opposte’. È questo il principio che guida Francesco nel discernimento circa la possibilità o meno di ordinare sacerdoti uomini sposati. Ma il principio si allarga a tutti gli ambiti pastorali”. Se fosse un politico, oggi Bergoglio sarebbe un perfetto democristiano.

Xu, il poliziotto con il cancro in prima linea contro il morbo

L’ordine di “dispiegamento emergenziale delle forze” nella sua città è arrivato alle 11 di sera, il 26 gennaio. Quando ha capito che il Dragone era entrato in guerra con un virus invisibile si è alzato dal letto, si è infilato la mascherina, ha dato un occhio ai dossier, ha riletto le precauzioni mediche da mantenere e si è avviato per raggiungere la ronda dei controlli delle divise, fregandosene di quello che lui stesso trasporta in corpo da anni: un cancro al fegato. Questa è la piccola vicenda del signor Xu Hui, delicata come il corpo che ormai abita, ma granitica come la prima linea rossa dove lui vuole rimanere a combattere i suoi ultimi istanti.

In divisa da trent’anni, il poliziotto Xu ha 56 anni, fa parte del Partito comunista dal 1987 e del dipartimento sicurezza dal 1990. È stato tra i primi ad arrivare quando si è reso conto della situazione. Nella provincia di Shaanxi, prossima a quella di Henan, zona rossa per i focolai, è impiegato nel dipartimento legale della polizia nella città di Xianyang, città dell’aeroporto di Xi’an. A chi voleva rispedirlo indietro, quando il virus ha cominciato a correre per le strade della Cina, Xu ha chiosato: “Sono un vecchio membro del Partito comunista, nel momento critico non devo perdere le staffe ma combattere sul campo”.

L’ultima volta che è stato ricoverato tra barelle e flebo del reparto di chemioterapia è stato a dicembre, mentre il virus trasmesso dai pipistrelli all’uomo si diffondeva senza che il mondo potesse saperlo. “Lao Xu”, l’anziano signor Xu, non ama la pubblicità, nelle interviste non parla se non per fornire dati ufficiali sulla strategia del contenimento della malattia: “Dopo lo scoppio dell’epidemia le priorità sono cambiate, l’ultima è quella di prevenire totalmente il contagio”, racconta. In ufficio identifica casi sospetti, fa bilanci, stila rapporti alla sua scrivania per gestire il bureau della brigata che amministra.

“Ma cosa ci fai tu qui, Lao Xu?”, sono le insistenze inutili dei colleghi quando lo vedono raggiungere la prima linea delle unità schierate da Pechino e dispiegate in tutte le province. “È una missione, ma anche una responsabilità”, spiega Xu, membro di un partito tra le cui fila è difficile accedere se non si è invitati o se non ci si è dimostrati leali alla linea, alla gerarchia, alle decisioni dell’organo centrale. “Tutti i giovani sono fuori, anche solo fare la guardia alla porta è alleviare gli altri da un pesante lavoro”, prosegue.

A celebrare il vecchio poliziotto intemerato e silenzioso è stata per prima la stampa locale assetata di storie ardite, di lotta e vittoria sul coronavirus, alla perenne ricerca di eroi e casi esemplari da offrire alla popolazione serrata in casa. È tradizione, è propaganda, ma anche coraggio. A far trapelare sussurrata in Italia la sua vicenda è sua nipote, Wen Tang, 32 anni. È appena rientrata da Shangai nelle Marche, dove ha conseguito un master in commercio internazionale all’università di Macerata. Innamorata dell’Italia e di un italiano, è madre di due figli. Quando gli hanno diagnosticato il cancro nel 2012, Xu non ha fatto richieste speciali al lavoro, né si è lamentato, racconta. Semplicemente si è fatto curare mentre lavorava e tra un turno e l’altro sostava in ospedale.

Xu promette impegno, sta in piedi sottile, come la mascherina che gli copre metà volto. Al confine tra coraggio e imprudenza, non ha paura della malattia fuori: il virus che ha reso le abitazioni cinesi delle celle di auto-confino, né teme la malattia dentro, il tumore che lo“ divora da tempo. Dal letto in cui chiunque altro si sarebbe dichiarato vinto, Xu si rifiuta di sentirsi malato ora che l’intera Repubblica rischia di esserlo. Ha un espressione a volte tesa e severa tra le rughe . Ma “Io sto ok, ora sono occupato”, dice ai familiari che lo chiamano perché raramente torna a casa. “Ho solo fatto quello che dovevo, pensando a quello che fanno i miei colleghi” ha detto mesto quando è stato dichiarato dalle autorità “pioniere dell’emergenza”.

“Senza assegno la famiglia torna nel baratro”

“L’assegno del Comune è stato una manna dal cielo. Ora che non c’è più, rischiamo di ritornare nel baratro”. Alessandra Vasta è fuori di sé. Sua sorella Barbara, malata di Sla dal 2012, è una delle 790 persone in graduatoria, con disabilità gravissima, che nel 2020 non otterranno l’assegno di sostegno da 700 euro al mese dal Campidoglio. Questo perché i fondi governativi stanziati dalla Regione Lazio, in totale 18,2 milioni, non sono sufficienti a soddisfare le 2.913 domande pervenute in Comune, 600 in più del 2019 e ben 2.500 in più del 2018.

“Appena” 8.400 euro in 12 mesi, soldi che le spetterebbero di diritto, dato che lo scorso anno ne ha usufruito, permettendole di assumere una badante che, per forza di cose, quest’anno dovrà licenziare. “Stiamo provando a pagarla un po’ per uno ma non è semplice”, racconta la sorella Alessandra a Il Fatto.

Barbara, residente all’Eur, si è ammalata all’età di 39 anni, nel 2012, subito dopo aver partorito il suo unico figlio. Oggi il bambino ha 8 anni e lei ne ha 47: “Aveva un lavoro alle Poste e l’ha mantenuto finché ha potuto – ricorda Alessandra – Poi ci hanno contattato e ci hanno detto che non era più il caso che continuasse a lavorare”. Da quel momento, alla sofferenza per la malattia di Barbara, si è aggiunto il calvario burocratico: “Abbiamo ottenuto quasi subito i 500 euro per l’accompagno – spiega – ma nonostante avessimo fatto richiesta da diverso tempo, ancora aspettando la pensione di inabilità, che potrebbe far tirare a tutti un po’ di fiato”. In questo contesto, l’assegno del Comune è stato “una manna dal cielo”. “Barbara ha bisogno di molte cure, e non solo lei – continua Alessandra – Suo marito, mio cognato, faceva l’insegnante e si è dovuto licenziare per seguire il bambino. Mia sorella ha bisogno di essere seguita costantemente, perché già adesso è sulla sedia a rotelle, parla con difficoltà e ogni anno che passa continua a peggiorare. Le dà una mano nostra madre, ma anche lei, da sola, non ce la fa più”.

Fra qualche tempo, la donna potrebbe dover avere bisogno anche della “peg”, gastrostomia endoscopica percutanea, un sondino collegato allo stomaco che alimenta direttamente il paziente. Per ora lei non ne vuole sentire parlare, ma è una eventualità che va considerata e che necessità di cure ancora più specializzate: “Mia sorella ha una forza d’animo incredibile – racconta Alessandra – il suo cervello funziona meglio di tutti. Dentro casa comanda lei, è incredibile. Ora si è affezionata a questa badante, togliergliela per passare a quelle assistenze random, dove non sai chi ti mandano, sarebbe una cattiveria”. Il riferimento alle istituzioni è diretto. “Avevamo un punteggio di 48 – dice – hanno alzato il limite a 50. A me della politica non interessa, non lo so chi ha la colpa in tutta questa faccenda. Ma si mettano una mano sulla coscienza, tutti quanti. Come si fa a dire che mia sorella non ha diritto al sussidio? Erano una famiglia tutto sommato benestante, non gli mancava nulla. Non avrebbero mai chiesto nulla. Adesso non arrivano a fine mese”. Non solo. “Mio cognato, a 50 anni, dove lo trova un lavoro flessibile che gli permette di badare anche al bambino? Leggo sui giornali che tutti vogliono essere aiutati dallo Stato, ma poi non ci sono nemmeno i soldi per i malati gravi”.

Tagli su due fronti: allarme disabilità a Roma e nel Lazio

ARoma ci sono 790 disabili gravissimi, su 2.914 complessivi, che quest’anno non prenderanno i 700 euro al mese di sussidio del Comune di Roma. Fra loro, moltissimi malati di Sla, sclerosi laterale amiotrofica, terribile malattia neurodegenerativa che porta alla progressiva paralisi muscolare fino a ridurre il paziente allo stato vegetativo, pur rimanendo pienamente cosciente. Molte delle loro famiglie, alcune in partenza anche benestanti, in pochi anni sono finite sul lastrico per accudire i loro congiunti. Nonostante questo, non potranno contare sull’assegno del Comune, che pure avevano percepito gli anni precedenti. E probabilmente, dal prossimo anno, vedranno anche ridotta l’assistenza sanitaria domiciliare da parte della Regione.

Il problema, come spesso accade in queste situazioni, si è creato per la costante insufficienza dei fondi, che in questo caso vengono assegnati dalla Regione Lazio sulla base della ripartizione di soldi provenienti dal governo nazionale. E, in parte, anche per il boom di domande, che dalle 2.300 circa dello scorso anno sono salite fino a superare quota 2.900: basti pensare che nel 2018 i destinatari del sussidio erano poco meno di 400. Non è un caso che a 2019 ancora in corso, il dipartimento capitolino ai Servizi sociali avesse già erogato gran parte dei 14,2 milioni di euro disponibili. A quel punto, il Campidoglio ha impegnato altri 4 milioni recuperati nelle pieghe del bilancio pur di completare l’anno: il patto non scritto fra Comune e Regione Lazio era di coprire il fabbisogno anche l’anno seguente.

Ma probabilmente c’è stato un errore di valutazione. Quest’anno, infatti, le domande pervenute (e accettate) sono state molte di più, ben 2.914, e per soddisfarle tutte ci sarebbe voluto un budget di circa 25 milioni. La Regione Lazio, invece, ha confermato lo stanziamento dei soliti 14,2 milioni, aggiungendo per il 2020 solo altri 4 milioni, per un totale di appena 18 milioni di euro. Il risultato è che il Campidoglio ha elevato da 34 a 50 il punteggio qualificante per l’ottenimento del sussidio, lasciando dunque fuori quasi 800 persone, fra cui persone che già percepivano l’assegno. “Un punteggio altissimo, ci sono malati di Sla che non lo raggiungono e si fermano a 49”, ha detto il delegato alla disabilità del Campidoglio, Andrea Venuto.

Per questo, ha spiegato l’assessora capitolina alle Politiche Sociali Veronica Mammì, “abbiamo chiesto alla Regione che vengano almeno riviste le linee guida in modo da assegnare i fondi in base alla gravità della disabilità”. Già, perché le 2.914 domande si potrebbero evadere tutte assegnando in media 520 euro al mese ciascuno. Ma dalla Regione affermano di non voler “mettere a rischio la sostenibilità futura della continuità assistenziale”, come dichiarato dall’assessora al Welfare Alessandra Troncarelli, che ha annunciato una diminuzione dei fondi extra per il 2021.

Ma non è tutto. La Regione Lazio – la cui sanità è commissariata da anni – con una delibera del 19 dicembre, ha previsto in “3 accessi infermieristici al giorno” l’assistenza domiciliare per i “pazienti complessi”. Fra cui, ovviamente, i malati di Sla. Considerando che ogni accesso dura un’ora e che oggi gli infermieri seguono questo tipo di pazienti dalle 9 alle 24 ore al giorno, è evidente come il provvedimento rappresenti una drastica diminuzione del servizio.

La Regione per il momento ha prorogato al 1 gennaio 2021 l’entrata in vigore della delibera e la direzione Sanità ha inviato alle Asl una circolare dove si chiede di non modificare i livelli di assistenza. Ma potrebbe non bastare, perché una delibera regionale è di certo superiore a una circolare interna. L’associazione Viva la Vita onlus, fa sapere, a proposito, che “si mobiliterà in una protesta di piazza per far stralciare dalla Delibera regionale l’alta complessità assistenziale, per riottenere il fondo sociale per i malati di Sla e chiama a raccolta tutti i malati, familiari e amici per rivendicare dignità e rispetto”.

“Da Moro alla strage di Bologna. Quando la P2 era al governo”

“Non userei il termine ‘doppio Stato’. È fuorviante. Preferisco ancora il più tradizionale ‘settori deviati dello Stato’. La storia d’Italia è sempre stata popolata da forze e ambienti contrari alla legalità repubblicana. Facevano – e fanno – parte dello stesso Stato. Fino a oggi le nostre grandi contraddizioni ci hanno salvato”. Giuliano Turone, 79 anni, ex magistrato, è per tutti l’uomo che, insieme al collega Gherardo Colombo, nel 1981, “scoprì la P2”. E che la loggia sia esplicitamente indicata dalla Procura generale di Bologna – nell’avviso di conclusione indagini dell’inchiesta sui mandanti –, come organizzatrice e finanziatrice della strage di Bologna, non è notizia che lo coglie di sorpresa.

Dottor Turone, appunto. Forse l’ultimo a stupirsi è proprio lei…

Sulla vicenda specifica dell’inchiesta della Procura generale, ovviamente, non posso dire molto. Si sono fatte delle indagini che, verosimilmente, preludono a una richiesta di rinvio a giudizio di tre personaggi minori, più il presunto esecutore Bellini. Per quanto riguarda i vari Gelli, Ortolani, D’Amato e compagnia, ho scritto un libro che racconta gli eventi della seconda metà degli anni 70 fino al 1980, i cinque anni di massima potenza del sistema di potere occulto. Dal caso Moro alla strage di Bologna, è evidente che il sistema P2 è stato il filo conduttore di tutto. È stato il quinquennio di massima potenza di quel golpe strisciante che si era dato, con il piano di rinascita democratica, una sorta di costituzione. Un golpe strisciante, come lo chiamò Tina Anselmi nella relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta P2. strisciante perché da noi, grazie alla ricchezza delle nostre contraddizioni, i golpe tradizionali, pur tentati, non sono mai riusciti.

Dall’inchiesta di Bologna, qualora l’impianto accusatorio dovesse reggere un processo, emerge non un apparato statale “deviato”, ma un vero “doppio Stato”, strutturato e operativo?

Doppio Stato mi sembra una formulazione non particolarmente corretta. Forze contrastanti e contraddittorie hanno agito all’interno di un unico corpo. Per fortuna sono esistite le contraddizioni.

Paolo Bellini, che secondo la Procura generale di Bologna avrebbe portato l’ordigno del 1980, è un personaggio da romanzo. Il suo nome fa capolino anche nella storia delle stragi di mafia del 1993 contro il patrimonio artistico italiano. Anche quello fu lo stesso doppio Stato o è un altro capitolo?

Su Bellini sono impreparato, è un personaggio su cui non mi sono mai imbattuto nella mia carriera di magistrato. Ma Gelli e i Servizi segreti intrisi di P2 sono già stati condannati in via definitiva per il depistaggio. Quanto alla vicenda della trattativa Stato-mafia, come sappiamo, non è ancora definita. Aspetto le sentenze finali prima di commentare.

C’è anche un indagato “minore” che risulta essere amministratore di condominio in via Gradoli, la prigione di Moro e, notizia recente, zona di covi dei Nar nel 1981… C’è da fare un fritto misto.

Anche questo personaggio mi è totalmente ignoto, non sapevo neanche chi fosse.

Via Gradoli rossa e via Gradoli nera. Una storia in comune?

La storia dell’eversione nera è indissolubilmente legata agli apparati deviati dello Stato. Per quella di sinistra il discorso è più articolato. Sappiamo che il caso Moro nacque da un’iniziativa autonoma delle Brigate rosse, ma è altrettanto noto che il comitato di crisi costituito dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga era composto al 90% da piduisti. La P2 si è inserita anche in questo cuneo.

Su Bologna siamo davvero di fronte a una svolta o 40 anni di distanza, ormai, sono troppi per conoscere tutta la verità?

Bisognerebbe capire cosa intendiamo per verità. È chiaro che dopo 40 ani la verità giudiziaria è un po’ più difficile da raggiungere. Tuttavia, dato l’intreccio tra la storia del nostro Paese e quella di molte imprese criminali, la ricostruzione storica si può tentare continuamente. Oggi, in presenza di nuovi elementi, potremmo anche riscrivere la storia delle guerre puniche. Temo solo una cosa.

Cosa?

Il disorientamento dei ragazzi. Per noi era naturale sapere cosa fosse successo 30, 40 anni prima della nostra nascita. Oggi purtroppo no.

Poliziotti a caccia di soldi e società. Ecco il fronte anti ’ndrangheta

La ’ndrangheta non è più solo mafia militare capace di accordi con la politica. Le cosche oggi imboccano la strada di un evoluto brokeraggio mafioso che va ben oltre i confini nazionali. Nel 2019 la Polizia ha svelato una camera di controllo in Canada, individuato decine di attività di riciclaggio tra Piemonte e Umbria. Queste nuove evidenze sono sul tavolo della Direzione anticrimine della Polizia di Stato (Dac) e del suo direttore Francesco Messina, poliziotto che ben conosce le evoluzioni dei clan, a partire dalla strategia stragista di Cosa Nostra fino agli affari delle ’ndrine all’ombra della Madonnina.

Oggi la Calabria è solo la prima camera di compensazione del business. Secondo un report della Banca d’Italia pubblicato nell’ottobre scorso il 23% degli affari delle ’ndrine proviene dalla Calabria, il restante 77% si forma fuori dai confini regionali e nazionali.

Spiega Messina: “Oggi ci troviamo di fronte a una deriva mercatista della ’ndrangheta ed è su questo che dobbiamo concentrarci, l’azione di contrasto va modulata non più solo con riferimento all’apparato militare dei clan”. Tradotto: bisogna aggredire i patrimoni, in Italia e all’estero, e non farlo solo con i sequestri derivanti dalle indagini penali, ma implementando le misure di prevenzione patrimoniali. Le ’ndrine sono presenti nel mercato legale. Cosa che rende gli emissari mafiosi dei fantasmi.

“Oggi – spiega un investigatore – è impensabile intercettare un summit di mafia come quello filmato nel 2010 a Polsi durante l’indagine Crimine-Infinito”. Bisogna cercare in altre stanze. Spiega Messina: “La strategia di inabissamento si insinua nei meccanismi della società legale, tanto sotto il profilo economico quanto politico. Il salto di qualità è intervenire sui mercati finanziari”. Per questo la Dac oggi sta formando poliziotti “patrimonialisti”. “Attaccare sotto il profilo delle indagini patrimoniali – spiega Messina – è la nuova frontiera nella lotta alla mafia”. Dare la caccia ai soldi con le indagini penali porta a sequestri limitati e legati solo a ciò che è dimostrato essere il provento del reato. “Le misure di prevenzione patrimoniali – prosegue Messina – prescindono dalla consumazione del reato”. Ciò che serve è la “pericolosità sociale” e “l’attualità”, il resto è un terreno di caccia ben più ampio che si allarga anche alle persone vicine all’indagato. Fino a oggi le misure di prevenzione, che non hanno valore penale, sono sempre arrivate dopo gli arresti limitando sia le indagini giudiziarie sia i sequestri.

“Noi – dice Messina – puntiamo alla contemporaneità dell’azione”. Azione penale e azione patrimoniale devono andare assieme. Cosa che sotto la direzione di Messina sta già avvenendo con scambi informativi tra il direttore dello Sco (Servizio centrale operativo) Fausto Lamparelli e il direttore dello Sca (Servizio centrale anticrimine) Giuseppe Linares. Oggi poi, dopo l’aggiornamento del decreto 208 del 2001, tutte le sezioni di criminalità organizzata delle Squadre Mobili stanno sotto il controllo della Dac. Per rafforzare la portata del sequestro preventivo è necessario che le misure patrimoniali abbiano la firma congiunta del Procuratore distrettuale e del Questore. Il primo esempio lo si è avuto con l’indagine milanese sulle pizzerie Tourlè. La figura di Giuseppe Carvelli, dominus della catena di ristorazione, è stata fissata per la prima volta dalla Sezione anticrimine di Milano guidata dalla dottoressa Alessandra Simone con le intercettazioni preventive, il cui contenuto ha dato benzina all’indagine penale conclusa il 9 novembre 2019 con diversi arresti. “Carvelli – spiega Messina – interpreta la nuova figura che stiamo indagando. Si è fatto 20 anni di galera per droga, uscito si adatta al nuovo sistema, apre società, schermandosi dietro prestanome”. Nel primo semestre del 2019, secondo i dati della Dia, sono state analizzate 6.113 segnalazioni per operazioni sospette (Sos) collegate al crimine organizzato.

La prova di questa “deriva mercatista” la si ha poi dalle intercettazioni. Ne parla il boss Saverio Razionale, già legato alla cosca Mancuso, e coinvolto nell’indagine Rinascita-Scott coordinata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Razionale spiega: “Bisogna fare i discorsi giusti. Ci dobbiamo mettere giacca e cravatta. Noi dobbiamo essere gente finanziaria (…). Milano ci aspetta, nei migliori locali, supermercati, centri commerciali”. L’intercettazione traduce il ragionamento di Francesco Messina che aggiunge: “La ’ndrangheta si è insinuata nei flussi finanziari delle più evolute realtà produttive nazionali attraverso l’impossessamento di aziende in grave crisi di liquidità”. A questo va aggiunta “la professionalizzazione delle strutture serventi all’infiltrazione illecita, oggi il mafioso ha la necessità di far emergere l’enorme quantità di denaro e lo fa rivolgendosi a un non affiliato”. Giovanni Barone è un professionista nel settore e sarà coinvolto anche lui nell’ultima indagine di Gratteri con il ruolo – spiega il pm – di riciclatore per conto della cosca Bonavota. Barone, stando agli atti, ha avuto ruoli in diverse società inglesi, tra cui la Liquidi Finance Limited. La “mission” della Liquid finance è “l’acquisizione e il sostegno finanziario di aziende (…) che versano in difficoltà economica”. Il filo è complesso. “Di certo – spiega Messina – tale evoluzione è legata alla connivenza degli imprenditori”. Come dimostra l’ultima indagine della Procura di Milano a carico di 18 persone. Diverse le accuse, dall’associazione all’aggravante mafiosa.

Qui l’imprenditore Alessandro Magnozzi, vicino alla cosca Morabito, dice: “Lavoriamo con tutte le famiglie mafiose, siamo tutti amici”. Il nuovo progetto Dac di avere firme congiunte di procuratore e questore sulle misure di prevenzione è rivoluzionario, ma non senza difficoltà. A oggi hanno aderito 13 procuratori distrettuali. Entro il 19 novembre 2020, poi, i Paesi europei dovranno adottare il regolamento approvato dalla Ue che prevede il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di sequestro anche in assenza di condanna. Dopo la Brexit, sarà esclusa l’Inghilterra che in realtà, come abbiamo visto, è oggi terra privilegiata dei riciclatori mafiosi.

Uno Stato ostaggio della minaccia del rating

Questo libro doveva chiamarsi Traditi. Dopo lunghe riflessioni assieme all’editore, poi, il titolo è cambiato in Sotto attacco. Ma quella scelta originaria è rimasta in controluce e, soprattutto, mi è rimasta nel cuore; una presenza costante, forse ingombrante, ma a cui non posso rinunciare completamente. Perché è vero, siamo stati (e siamo) pesantemente sotto attacco ma, soprattutto, siamo stati (e siamo) traditi. Traditi – e lo dico da magistrato – anche nelle comuni e quotidiane aspettative di giustizia; ed è questo, credo, il tradimento più grande, poiché se non si assicura giustizia si uccide la speranza.

Con questo libro vi racconto delle fragilità sistemiche di uno Stato (ancora) sovrano, permanentemente esposto ad attacchi speculativi. Come accaduto nel 2011, quando le ripetute “bocciature” dell’Italia da parte delle agenzie di rating alimentarono quel montante clima di sfiducia dei mercati finanziari internazionali che portò il Paese a un passo dal precipizio, ossia il suo fallimento (default). Ebbene, solo attraverso un’indagine imbastita da una Procura di periferia si è potuto accertare, in via definitiva, che talune delle informazioni finanziarie più rilevanti divulgate sul conto dell’Italia da una agenzia di rating e poste a base del giudizio di declassamento del gennaio 2012 (una bocciatura che, di fatto, determinava una massiccia fuga di investimenti dal Paese) non brillarono per trasparenza. E si tratta di scenari che potrebbero ripetersi mettendo a rischio i nostri destini, al pari di quelli di qualsiasi altra nazione.

È un Paese, il nostro, che ha un disperato e urgente bisogno di maggiore protezione e di migliore giustizia, tanto sullo scacchiere politico-finanziario internazionale quanto sul versante interno, dove sono indifferibili maggiori tutele a fronte degli innumerevoli scandali bancari che continuano a martoriare il tessuto connettivo della comunità; al punto che è lecito chiedersi se si possa ancora nutrire fiducia nelle banche.

Se è vero che in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo il bisogno di maggiori tutele e di migliore giustizia si fa sempre più urgente, è innegabile che mai la magistratura italiana è rimasta sorda a tale bisogno: unica istituzione sempre testardamente in campo a tutela del “popolo”, con un’azione che – pur scontando i limiti oggettivi di un sistema lento e macchinoso, dotato di risorse materiali e umane limitate e assolutamente insufficienti – ha sopperito alle tante disfunzioni, quando non addirittura alle carenze o alle inefficienze delle attività di controllo e vigilanza delle autorità di settore.

Si parla continuamente di emergenze, ma eccola la vera emergenza: non sentirsi più “comunità”, ma cittadini singoli, abbandonati a se stessi, delusi e disillusi, traditi poiché non adeguatamente tutelati e, proprio per questo, infinitamente più deboli; afoni spettatori, quando non addirittura vittime, di quotidiane ingiustizie, piccole e grandi.

A questa emergenza occorre porre rimedio, prima che sia troppo tardi, soprattutto prima che la dissoluzione dello Stato-collettività favorisca – nell’assordante silenzio di fondo – l’instaurazione di regimi realmente autoritari e liberticidi.

Ho tentato di spiegare, in questo libro, quanto sia importante fare fronte comune alla rarefazione di fiducia collettiva nello Stato, quale diretta conseguenza della percezione, ormai diffusa in tutti gli strati della popolazione, di una condizione di eguaglianza fra cittadini meramente nominale e “formale”, non già sostanziale (come la Costituzione vorrebbe).

Insomma, a essere “tradita” e “sotto attacco” è l’essenza stessa di uno Stato, la fiducia che i cittadini ripongono in esso, nelle sue istituzioni e nella politica; una fiducia erosa da una generalizzata irresponsabilità a fronte della quale resta un’unica via d’uscita: una nuova, autentica ri-evoluzione interiore nel superiore interesse del Paese.

Capaci, colpo di scena in aula. Non c’è l’ex agente indagato

Giovanni Peluso, ex poliziotto, ieri non si è presentato all’udienza del processo Capaci bis: è accusato dalla procura di Caltanissetta di essere stato “compartecipe ed esecutore materiale della strage” che uccise i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro il 23 maggio 1992. Peluso, cacciato dalla polizia di Stato nel 2007, è stato tirato in ballo dal pentito Pietro Riggio, ritenuto attendibile. L’ex poliziotto campano vive tra la provincia di Caserta e Pisa, dove si troverebbe in questi giorni. Nei giorni scorsi aveva comunicato alla Procura generale che avrebbe potuto incorrere in “degli impedimenti”, ma non ha poi inviato nessun atto formale che confermasse l’assenza né alla Corte d’assise d’appello né alla Procura generale.

Avrebbe dovuto riferire proprio rispetto a quanto verbalizzato dal pentito Riggio: “Mi confidò di aver partecipato alla fase esecutiva dell’attentato a Falcone, si sarebbe occupato del riempimento del canale di scolo dell’autostrada con l’esplosivo, operazione eseguita con degli skateboard”; affermazioni che Peluso ha già provato a smentire in un confronto col collaboratore di giustizia davanti ai pm. Nell’aula bunker di Caltanissetta, tuttavia, ieri tutti si sono chiesti che fine avesse fatto l’ex poliziotto Peluso, citato alla prossima udienza con accompagnamento coattivo dalla presidente della Corte d’assise d’appello Andreina Occhipinti.

Peluso nel 1992 non era neppure trentenne, oggi ha 55 anni, di corporatura robusta, alto più di un metro e ottanta, porta folti capelli bianchi molto mossi e il pizzetto. Riggio e Peluso si sono conosciuti in carcere nel 1998, l’ex poliziotto finì dentro mentre ancora indossava la divisa per minaccia, danneggiamento e tentata estorsione; condanna a tre anni e quattro mesi passata in giudicato nel 2006 e l’anno successivo, mentre era in servizio alla questura di Roma, è stato destituito. Fra le affermazioni che Riggio ha riferito essergli state fatte da Peluso anche questa: “Mi ha detto: ‘Giovanni Brusca ancora è convinto di avere schiacciato lui il telecomando…’”.

Assente Peluso, è stato ascoltato invece il pentito Francesco Geraci, collegato in videoconferenza, che ha parlato della “missione romana” con Matteo Messina Denaro del febbraio 1992: “Cercavamo Maurizio Costanzo, Michele Santoro, Pippo Baudo e Giovanni Falcone perché dovevamo ucciderli. Si parlava di mettere il tritolo in un bidone dell’immondizia o in una macchina vicino al teatro dove si faceva il Costanzo Show (il Parioli, ndr). Io e Sinacori siamo andati a fare un sopralluogo”. Questo il racconto di Geraci della spedizione in continente: “Quando partimmo per Roma io sono andato con Enzo Sinacori in aereo. Messina Denaro è partito con Renzo Tinnirello. E Giuseppe Graviano è partito con Fifo De Cristoforo. La macchina l’abbiamo affittata a nome mio perché avevo la carta di credito. Per quella trasferta Messina Denaro diede cinque milioni di lire ciascuno. Siamo stati a Roma circa nove giorni”. Perché c’erano Santoro, Costanzo e Baudo nel mirino di Cosa nostra? “Per allontanare l’attenzione dalla Sicilia e creare casini al Centro Italia. Portare l’attenzione sui vecchi brigatisti. Ne parlava Messina Denaro”.

Santoro e Costanzo avevano condotto il 26 settembre 1991, a reti unificate Rai3-Canale5, uno speciale Samarcanda – Costanzo Show per alzare la voce contro Cosa nostra che meno di un mese prima, il 29 agosto, aveva assassinato Libero Grassi, imprenditore pubblicamente contro il sistema-racket di Palermo; partecipò anche Pippo Baudo. Il 2 novembre 1991 fu fatta saltare in aria la villa di Acireale di Baudo, in quel momento vuota. Quindi la “missione romana” del febbraio 1992. Poi Costanzo scampò per pochi metri all’attentato del 14 maggio 1993 in via Fauro a Roma.

Pro & Contro. Erasmus tra Nord e Sud Italia?

“Perché non ripristinare fin dall’Università una sorta di Erasmus tra Regioni del Sud e del Nord?”. Questa la proposta che le Sardine hanno presentato l’altro ieri al ministro per il Sud Giuseppe Provenzano per favorire una connessione tra diverse aree del Paese, mentre ieri c’è stato l’incontro con il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia. L’idea ha, però, innescato sui social numerose polemiche con le pagine Facebook delle Sardine Jasmine Cristallo e Mattia Santori prese di mira dai commenti negativi. Tra i sostenitori, si avvalora la tesi che l’Erasmus possa rappresentare un valore aggiunto per risolvere la questione meridionale.

 

PRO – Jasmine Cristallo
“Strumentalizzata un’idea di incontro per il Sud ferito”

Il modello Erasmus tra università del Nord e del Sud si configurava come un’idea all’interno di un discorso ben più ampio nell’interlocuzione col ministro Giuseppe Provenzano. È mortificante essere rappresentati come chi pensa di risolvere la secolare Questione meridionale con una proposta del genere.

Mattia Santori ha semplicemente sostenuto che sarebbe interessante pensare a un sistema in cui uno studente del Politecnico di Torino possa svolgere nel proprio percorso di studi un periodo in una realtà meridionale, ad esempio, perché come è giusto e importante conoscere il resto d’Europa sarebbe bene prestare il proprio talento anche alle realtà del Sud Italia. Questa era soltanto una delle idee, appunto, su cui come Sardine abbiamo voluto ragionare col ministro. Noi non siamo economisti, politici di professione o giuristi, stiamo studiando e riteniamo l’opportunità del dialogo con le istituzioni un’importante occasione per provare a dar voce a chi non ce l’ha o non si sente rappresentato. Invece, alla prima occasione, si è estrapolata una frase per strumentalizzare e attaccarci, facendoci passare come degli sprovveduti talmente presuntuosi da ritenersi in grado, appunto, di risolvere la Questione meridionale.

Non siamo contro la politica, la riteniamo necessaria, per questo ringraziamo i ministri che ci hanno ascoltato. Con Provenzano abbiamo passato due ore e abbiamo cercato umilmente di rappresentare le istanze raccolte nei territori nei quali abbiamo lavorato. Vi assicuro che anche tra di noi, un conto è il modello emiliano, un altro conto parlare del Sud. Il Sud per noi è il dolore di dinamiche che tagliano metà del Paese fuori da tutto. Penso alle infrastrutture ma anche alla condizione femminile. Siamo troppo lontani dall’Europa, questo rappresenta un problema per cui vogliamo lottare.

Siamo rimasti molto delusi da come questa nostra iniziativa è stata trattata da parte della politica e dei mezzi di informazione. Vorrei dire un’altra cosa, noi non siamo abituati a ritrovarci davanti a plotoni di giornalisti, ci tremavano le gambe. Credo che sia normale. I cronisti fanno giustamente il loro lavoro, perché noi siamo sempre dalla parte di chi lavora, ma si sono lanciati tutti su Mattia e quella battuta è finita nel tritacarne mediatico che spesso è senza appello.

Noi abbiamo partecipato a questi incontri dall’alto profilo politico, anche a quello con il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia, con grande umiltà. Ma deve essere chiaro che non possiamo certo essere noi a portare soluzioni, quello che chiediamo alla politica è di ascoltarci e siamo grati a chi decide di farlo.

Ad esempio, in quelle due ore, abbiamo parlato dell’Ilva di Taranto, abbiamo chiesto di organizzare un summit con intelligenze di tutto il mondo in quei luoghi. Indicare un percorso, questo sì, è nelle possibilità e nel dna delle Sardine.

Al Sud siamo troppo spesso o discarica o in presenza di realtà fortemente impattanti. Abbiamo affrontato tematiche su cui ci stiamo impegnando: lavoro (perché il tema occupazionale al Sud è un’emergenza senza fine), ambiente e salute, infrastrutture, sanità pubblica, istruzione, welfare e contrasto alle mafie, sviluppo.

Il fatto poi che le Sardine possano pagare pegno a un po’ di ingenuità è normale, ma meglio così o utilizzare il politichese che inganna le persone? È positivo avere la genuinità di non star sempre a pensare a cosa possa ritorcersi contro.

 

 

Contro – Tomaso Montanari
“Proposta lunare: già avviene e non è una libera scelta”

“Sono decenni che gli studenti del Sud fanno l’Erasmus al Nord: ma si chiama emigrazione interna, e non è una libera scelta”: è in sostanza questa la risposta che dal Mezzogiorno è subito arrivata, sulla rete, alla prima proposta concreta avanzata dalle Sardine al governo. Ed è una risposta giusta, inevitabile. Chiunque conosca la sperequazione di finanziamento che colpisce gli atenei meridionali non può che trovare lunare quella proposta: perché essa, implicando una parità che non esiste, parte da una completa ignoranza dello stato delle cose. E anche perché, diciamolo con le parole di Christopher Lasch, scaturisce da una “visione turistica della democrazia”: da una visione, cioè, che non contempla conflitti, ignora fratture secolari (la questione meridionale, per esempio) e pensa in termini di ottimismo, buoni sentimenti e comunicazione positiva.

Ancora peggiori gli esempi con cui le Sardine hanno spiegato la proposta: “Perché un napoletano non può farsi sei mesi al Politecnico di Torino e un torinese sei mesi a Napoli o a Palermo per studiare archeologia, arte, cultura o diritto?”. Peggiori perché implicano l’accettazione e la perpetuazione dei peggiori stereotipi, ormai in parte falsi e comunque da ribaltare ove siano veri: e cioè una dicotomia tra il Nord votato all’innovazione tecnologica e un Sud destinato a occuparsi della sua bellezza o a formare avvocati e pubblici funzionari. Ma la domanda che mi faccio è più radicale: perché un gruppo di giovani evidentemente svegli (alcuni dei quali – come la, peraltro meridionale, Jasmine Cristallo – vanno dicendo cose spesso assai giuste) quando ha l’opportunità di chiedere al governo cosa cambiare di questo Paese orrendo (e orrendo soprattutto verso le loro generazioni), tira fuori una simile sciocchezza, o meglio una simile pochezza? La risposta sta forse nella affascinante risposta che le Sardine toscane (elettoralmente schierate con il peggio dello stato delle cose…) hanno dato a un giornalista di Repubblica che ha chiesto loro come si ponessero sul tema cruciale delle Grandi Opere: “Non ci spaccheremo sui temi, non siamo nati per questo, saremo rispettosi. La posizione del movimento è non avere una posizione sui punti divisivi”.

Ora, se non vuoi prendere posizione sui ‘temi’ (ecco già il politichese…), cioè sulle cose concrete – cose urgenti come la giustizia sociale, l’eguaglianza, il diritto allo studio, la difesa dell’ambiente, la sostenibilità … – è difficile cambiare alcunché: ed è anche difficile fare una qualunque proposta al governo che non sia un pensierino edificante che, siccome non vuol dire nulla, non dà noia a nessuno. Non è un caso se le Sardine piacciono così tanto al sistema, all’establishment: perché ce l’hanno (a ragione) con chi da destra vorrebbe prendere il potere in questo sistema, ma non dicono nulla sulle ragioni per cui la destra ha tutto questo consenso.

Dire che l’università è stata uccisa dall’autonomia fatta in questo modo, dalla riforma Berlinguer, e poi dalla Moratti e dalla Gelmini con le loro privatizzazioni e aziendalizzazioni; e ancora dire che se i meridionali devono andare a studiare fuori è a causa di scelte fatte a tavolino da chi ormai il Sud lo dava per morto: ecco, dire queste e le altre cose vere che si devono dire, è terribilmente divisivo, perché mostrerebbe a tutti le responsabilità del mondo che oggi plaude alle Sardine, cioè quello del vecchio centrosinistra di governo con il suo apparato mediatico.

Care Sardine, non abbiate paura di dire le cose come stanno: come ha detto un grande rivoluzionario, “la verità vi farà liberi”.

Da Az a Meridiana, la passione (ricambiata) di Renzi per gli sceicchi. Gli unici a fare affari

L’inchiesta per bancarotta fraudolenta sull’Alitalia descrive il declino di una oligarchia cleptomane che sta distruggendo il capitalismo italiano. Ferma restando la sacra presunzione d’innocenza, contano i fatti e la foto di gruppo: ci sono proprio tutti tra i “volenterosi carnefici” dell’Alitalia. Con una menzione speciale per il più furbo di tutti (o il più sprovveduto), Matteo Renzi.

Partiamo dai fatti. Da almeno vent’anni anche i muri sanno che l’Alitalia non può stare in piedi in un mercato globale concentrato in pochi giganti in competizione feroce. Ma i soliti noti si sono affannati intorno al cadavere con terapie miracolose e improbabili guaritori. I politici (tutti, nessuno escluso) hanno fatto annunci mirabolanti e gli amici degli amici hanno succhiato miliardi pubblici in nome dei posti di lavoro (che si perdono lo stesso) e della “compagnia di bandiera che porterà in Italia anziché in Francia i turisti cinesi”.

Mentre facevano la festa alle casse dello Stato si sono pure fatti i selfie. Ecco Silvio Berlusconi che vince le elezioni del 2008 e dice che non si può dare l’Alitalia all’Air France, la salverà lui con i capitani coraggiosi: i Benetton, i Riva, i Marcegaglia. Il piano Fenice lo progetta Corrado Passera di Intesa Sanpaolo e lo affida a Roberto Colaninno, lo scalatore di Telecom Italia. Il capo dell’opposizione Walter Veltroni, inflessibile, nomina ministro ombra Matteo Colaninno, figlio, e si dà da fare per convincere la Cgil a dire sì. Il capo della Cgil Guglielmo Epifani dice sì, poi otterrà un seggio parlamentare nel Pd accanto a Colaninno figlio. Una mano lava l’altra e tutt’e due si fanno il selfie. Resta una domanda: quante centinaia di milioni hanno perso Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps e le altre banche per correre dietro a piani di salvataggio (nella migliore delle ipotesi) demenziali?

I capitani coraggiosi riescono a far fallire la nuova Alitalia in soli cinque anni. Il 20 febbraio 2014, nel bel mezzo delle consultazioni per la formazione del nuovo governo, il premier incaricato Matteo Renzi corre nell’appartamento di Luca Cordero di Montezemolo per rassicurare lo sceicco Khaloon al Mubarak, capo del Fondo Mubadala, espressione del governo degli Emirati Arabi Uniti: il suo governo avrebbe confermato il via libera, già concesso dal governo Letta, alla cessione di Alitalia alla Etihad (#enricostaisereno). Selfie di Montezemolo: “È andata benissimo” e si mette alla cloche con gli amici di Etihad. Sbriciolato il record di Colaninno: la nuova Alitalia fallisce in soli due anni, anche se i magistrati sospettano che fosse già fallita di fatto dopo pochi mesi di spolpamento. Ma siccome i pm tendono al giustizialismo, ci teniamo buoni i due anni che per far fallire una compagnia aerea nuova di zecca restano un signor tempo cronometrico. Commento di Matteo Renzi: “Ci ha detto sfiga”. L’ha detto davvero, il 5 novembre 2019, e ha aggiunto fiero: “Ma in quella fase abbiamo salvato Meridiana con Qatar Airways”. Gli ha detto sfiga davvero perché l’altro ieri Meridiana, alias Air Italy, è fallita.

Ma Renzi non è sfigato e neppure porta sfiga come tutto lascerebbe sospettare. É che gli piace la generosità degli sceicchi. Quelli di Etihad gli hanno fornito il mitico aereo presidenziale mai usato, facendoselo pagare a peso d’oro dall’Alitalia (sfiga?) mentre la facevano fallire (sfiga?). E alla generosa famiglia Al-Thani del Qatar ha messo a disposizione la Sardegna intera con tanto di renzianissimo obbedientissimo governatore Francesco Pigliaru pronto per ogni evenienza su Costa Smeralda, ospedale Mater Olbia e Meridiana. Più veloce della luce, d’accordo con il ministro allora renzianissimo Graziano Delrio, ha colpito Ryanair per spingerla via dalla Sardegna dove disturbava il monopolio Alitalia. Che è fallita lo stesso, non per sfiga, l’avete capito.