Al bazar di Fiumicino: così la compagnia fu spolpata dagli arabi

Accolti come i salvatori della patria aerea, gli arabi di Etihad planarono a Fiumicino da Abu Dhabi con intenzioni assai diverse e a Fiumicino trovarono terreno fertile per realizzarle. Quali fossero queste intenzioni lo spiegano nel dettaglio e con precisione i magistrati della Procura della Repubblica di Civitavecchia. Secondo la ricostruzione dei magistrati, all’Alitalia già allo stremo gli arabi non portarono sangue fresco per permettere alla compagnia di tornare a volare con profitto. Il sangue ad Alitalia gli arabi lo succhiarono. E invece di ricevere una reazione di rigetto, a Fiumicino trovarono gente disposta a offrire generosamente il collo, gli amministratori e i dirigenti assisi nei piani alti. Ovviamente anche la politica ci mise del suo e tutto ciò che è successo poi, compreso il fallimento della compagnia del 2 maggio 2017, forse sarebbe stato evitato se il governo allora guidato da Matteo Renzi non avesse fatto capire a tutti quanti che avevano carta bianca.

Tra italiani e arabi o rappresentanti degli arabi sono 21 le persone a cui è stata notificata ieri mattina un’informazione di garanzia. L’indagine chiusa dai magistrati riguarda solo il periodo “arabo” di Alitalia, quando Etihad con il 49 per cento della compagnia e gli hurrà generali diventò subito padrona, assumendo un ruolo improprio. Ruolo anomalo messo in evidenza con una serie di dettagliati esempi dai magistrati, ma che allora non fu mai notificato dagli interessati all’ente di controllo Enac, in violazione delle norme internazionali sul trasporto aereo.

Attualmente sono in corso altri tre filoni di indagine: il primo interessa la cassa integrazione che sarebbe stata indebitamente imposta in questi ultimi anni ai dipendenti dell’area volo e a quelli di terra nonostante non ce ne fosse effettiva necessità, come segnalato con numerosi esposti dal segretario Cub Antonio Amoroso. Il secondo filone riguarda il periodo del commissariamento della compagnia da maggio 2017 a oggi. Il terzo filone di indagine è concentrato sull’aereo voluto fortemente dall’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e affittato allo Stato italiano da Etihad tramite Alitalia a un prezzo 26 volte superiore a quello di mercato. Questi filoni di indagine, compreso quello chiuso ieri, hanno preso spunto in particolare dalle analisi del manager aeronautico Gaetano Intrieri, poi diventato consulente dell’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli.

Dai preziosissimi slot (diritti di decollo e atterraggio) di Heathrow a Londra alla strampalata cessione di Alitalia Loyalty, dall’adozione forzata del sistema di prenotazione Sabre fino all’affidamento dei voli regionali alla compagnia Darwin di Etihad, i magistrati hanno messo in fila gli episodi salienti di quella stagione. La storia delle 5 coppie di slot a Londra è paradossale. Ceduti da Alitalia a Etihad a un prezzo di molto inferiore a quello vero di mercato, 60 milioni di euro in totale mentre nello stesso periodo Air France aveva venduto una sola coppia di slot a Oman Air per 61 milioni di euro. Con Alitalia Loyalty (il programma di fidelizzazione) è successo qualcosa di simile: anche qui, come si evince dalle carte, il valore di mercato era superiore a quello di bilancio (peraltro poi falsamente abbassato per far risultare una falsa plusvalenza) e – scrivono i pm – nel 2014 la controllata “aveva confermato la sua capacità di generare reddito” con un utile netto di quasi 8 milioni (+40%) e facendo segnare un incremento dei soci arrivati a 4,6 milioni in tutto.

Anche con Sabre agli arabi è stato consentito di fare la parte del leone. Alitalia aveva un suo sistema di prenotazione che si chiamava Amadeus, che forse avrebbe avuto bisogno di aggiornamenti, ma che invece fu messo sbrigativamente da parte a favore del Sabre di Etihad nonostante, secondo i magistrati, quest’ultimo fosse “meno funzionale e più costoso rispetto alle previsioni” e per implementarlo Alitalia abbia dovuto sostenere altri “ingenti costi”.

Pure sui voli regionali si è ripetuta la stessa scena con Alitalia succube e Etihad che spadroneggia: Alitalia dovette allontanare la compagnia Mistral che apparteneva al suo azionista Poste dovendo pure far fronte a una richiesta di risarcimento di oltre 11 milioni per far posto a Darwin-Etihad Regional che offriva un servizio più costoso di 3,5 milioni rispetto al precedente ed era per di più aggravato da un oneroso contratto di manutenzione e di servizi di posizionamento degli aerei.

Questo senza contare che il settore dei voli regionali si stava già progressivamente ridimensionando perché ritenuto non più profittevole, al punto che, ad esempio, era già prevista la cancellazione da inizio 2015 delle rotte Napoli-Fiumicino e Pisa-Fiumicino. Altrettanto irragionevole fu il contratto per i voli da Venezia e Genova verso Ginevra: Alitalia ha dovuto garantire comunque a Etihad il pagamento dell’80 per cento dei posti pur sapendo che quei voli erano sempre semi-vuoti. Simile, ma garantendo al contrario assurdi vantaggi alla compagnia emiratina nella vendita dei biglietti, è il caso dei voli da Roma, Milano e Venezia per Abu Dhabi. Accordi capestro che hanno causato “perdite pari a circa 44 milioni di euro”.

Montezemolo&C., i salvatori che hanno affossato Alitalia

Un parterre de roi. O, se non di re, quantomeno di altissimi cortigiani. È quello evocato dalla lista degli indagati nell’inchiesta per il crac della fu Alitalia Sai, chiusa formalmente giovedì scorso dalla Procura di Civitavecchia in attesa delle scontate richieste di rinvio a giudizio. Si tratta di 21 persone fisiche più la stessa società, tutti a vario titolo indagati per bancarotta fraudolenta aggravata, false comunicazioni sociali e ostacolo alla vigilanza: ora sarà il Gup a decidere se serve un processo.

Il contesto è la precedente operazione di “salvataggio” della compagnia di bandiera, quella voluta da Matteo Renzi per prendere il posto della Alitalia Cai dei “capitani coraggiosi” di Silvio Berlusconi e che dal 1° gennaio 2015 vide l’ingresso in società di Etihad (Emirati Arabi) e Poste italiane: la cosa naufragò all’inizio del 2017 e vedremo come.

Il parterre, dicevamo. Si va dai manager inviati dagli emiri (a partire dal numero uno della compagnia ed ex vicepresidente di Alitalia James Hogan) ai meglio membri di consigli d’amministrazione d’Italia: l’ex presidente Luca Cordero di Montezemolo, certo, ma anche l’imprenditore Roberto Colaninno, padre del deputato Pd; la vicepresidente di Confindustria (e già in Mps) Antonella Mansi; l’attuale ad di Unicredit Jean Pierre Mustier; Giovanni Bisignani, fratello del più noto Luigi e già “salvatore” di Alitalia nel 1989 su mandato di Romano Prodi (all’epoca all’Iri). Nella lista c’è pure il bizzarro corto circuito di trovare uno dei commercialisti più poltronati d’Italia, Enrico Laghi, ubiquo ai casi come il commissario Ingravallo di Gadda (Ilva, Alitalia e mille altri) e appena indicato come liquidatore di Air Italy. Non citiamo per mere ragioni di spazio manager grandi o grandicelli, revisori e sindaci autonomi o di primarie società de settore anche loro parte di questa così insigne compagnia.

E cosa gli contestano, ciascuno per la sua parte, i magistrati? Cose per cui il fior fiore degli avvocati, se ci sarà un processo, si scannerà in interpretazioni più o meno ardite dei principi contabili: in sostanza, se è lecito riassumere in modo grossier, l’accusa è di aver falsificato i conti di Alitalia per mascherare lo stato di sostanziale insolvenza della società, ingannando dunque anche i mercati, e di averle inflitto perdite ingiustificate per favorire Etihad, padrona di fatto se non di diritto di Alitalia.

Nelle carte c’è ad esempio la “falsa plusvalenza” da 39 milioni di euro, scrivono i pm, realizzata nel 2016 abbassando ad arte a 21 milioni il valore degli slot (diritti di atterraggio e ripartenza) da Londra Heathrow su cui in realtà – come risulta agli atti – c’era già un accordo di vendita a Ethiad per 60 milioni. La cosa deliziosa è che il nuovo valore (21 milioni) è stato contabilizzato tre giorni prima dell’arrivo della perizia che doveva stabilirlo (arrivo, peraltro, preceduto dalla censura di un paragrafo spiacevole chiesta dagli stessi committenti).

Spiccioli, comunque, rispetto alla seconda “falsa plusvalenza” che servì ad abbassare le perdite del 2015 da 335 a 199 milioni. Ci si riferisce alla vendita a Ethiad della Alitalia Loyalty Spa, cioè il programma Millemiglia, una gioiellino da 5 milioni di clienti: ecco questa società era sempre stata a bilancio per 150 milioni, ma subì un’improvvisa quanto drammatica svalutazione a 13,3 milioni proprio mentre veniva venduta a Etihad per… 150 milioni. La perizia che certificava come “non irragionevole” la nuova valutazione – e anche qui sono i dettagli che deliziano l’intenditore – è firmata da Enrico Laghi, all’epoca nel cda di Alitalia Cai (cioè la versione “Berlusconi” di Alitalia) e amministratore delegato di Midco, la società che controllava il 51% di Alitalia Sai (la versione “Renzi”, quella oggetto dell’indagine).

Finito? Macché. C’è pure un’altra “falsa plusvalenza” per 44 milioni nell’esercizio 2016 realizzata anche grazie, scrivono sempre i pm, a una “falsa fattura”; ci sono i dubbi sulla “continuità aziendale” con la precedente Alitalia – titolare dei permessi di volo – nascosti ai controllori mentre gli scollamenti dai piani industriali e finanziari si facevano sempre più irrecuperabili; ci sono i “favori” a Etihad, che comandava di fatto sull’azienda, che hanno inflitto perdite ad Alitalia Sai per decine di milioni di euro (vedi il pezzo accanto); c’è ancora Laghi che nel 2017 accetta l’incarico di commissario straordinario di Alitalia Sai e dichiara di non aver mai lavorato per l’azienda dimenticandosi la sua consulenza.

E infine, visto che la natura antropologica dei cosiddetti poteri forti è quasi sempre quella dello straccione, ci sono i 600mila euro spesi in cene dai vertici della società. Notevoli i 133.571 euro per il catering delle sparute riunioni del cda, affidato a “Relais Le Jardin”, la società di Stefano Ottaviani, noto come genero di Gianni Letta e spesso vivandiere dell’asfittico salottino del potere romano (la cosa deve fruttargli bene se il suo nome compare nei Panama Papers). E poi, siccome tutto il mondo è Paese, ci sono i 460mila euro per 4 eventi aziendali che Etihad ha prima pagato e poi fatturato ad Alitalia (e va da sé che non ci sono più gli emiri di una volta).

Ora, come detto, parlerà il Gup: non rileva ai fini odierni, ma bisogna ricordare che il processo per bancarotta sulla gestione di Alitalia fino al 2007 s’è concluso nel novembre 2018 con la condanna degli imputati, tra cui l’ex amministratore delegato Giancarlo Cimoli. Questo, ovviamente, per dovere di cronaca.

“Fare subito gli Stati generali 5S. E con le Sardine si può parlare”

Palazzo Madama, folla delle grandi occasioni. Nel giorno in cui i senatori devono decidere se autorizzare o meno i giudici a procedere contro Matteo Salvini per sequestro di persona, il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra siede su un divanetto a pochi passi dall’Aula. E commenta: “Questa è la pagina di un libro che era prevedibile leggere. La scorsa volta il M5S negò l’autorizzazione? Io la pensavo diversamente, ma prevalse un’altra linea”.

Cosa rappresenta la storia giudiziaria di Salvini oggi?

L’ex ministro ha ritenuto di sostituire l’azione politica con la propaganda, e ha utilizzato delle emergenze enfatizzandole. Il tema dei migranti va gestito con politiche di ampio respiro, che agiscano sulle cause e non sugli effetti. E il rispetto dei diritti umani va sempre garantito.

Salvini governava assieme a voi del Movimento. E ripete che anche sul caso della nave Gregoretti ha agito concordemente con il premier Conte e gli altri ministri.

Giuridicamente parlando ci saranno elementi che mostrano una differenza, ma non debbo essere io a giudicare su questo. Io sto su un piano politico, e ricordo che noi 5Stelle siamo nati per accettare le regole e patirne le conseguenze, se necessario. Detto questo, credo che la questione dei migranti vada “mondializzata”, e del resto è questa la rotta che portano avanti il ministero dell’Interno e quello degli Esteri. Responsabilmente, il ministro Di Maio ha portato l’Istituto per il commercio con l’estero sotto la gestione della Farnesina. Scelta giusta, perché è un settore fondamentale per agire sulle cause degli spostamenti dei migranti.

Questo governo lavora meglio del precedente sull’immigrazione?

Certamente: le posizioni del ministro dell’Interno Lamorgese mi sembrano nuove rispetto al recente passato. Fatto salvo il dovere di regolamentare i flussi.

Come sta il M5S senza Di Maio come capo?

Ci stiamo confrontando. I nostri elettori vogliono rassicurazioni, e noi dobbiamo riconsiderare alcune scelte. Ieri ragionavo sulla proposta apparentemente provocatoria di Beppe Grillo di miscelare democrazia rappresentativa con quella diretta.

Uno sberleffo…

Da sempre chiediamo ai cittadini di essere giudici popolari nelle corti d’assise, e nessuno mette in discussione tale pratica.

Grillo sembra lontanissimo dal M5S.

Come tutti coloro che hanno spirito profetico, Beppe ha una visione.

Di Maio ha fatto bene a dimettersi?

Nel dna del M5S c’è la capacità di esprimere un’intelligenza collettiva, con la partecipazione di tutti. È naturale che si provino esperienze, incorrendo poi in qualche inciampo. Ora io auspico che la fase di riorganizzazione venga avviata già prima del referendum sul taglio dei parlamentari, e che porti a un ricompattamento sulla gestione collettiva.

Sta dicendo che gli Stati generali vanno fatti prima del 29 marzo?

Sì.

E come? Molti protestano perché non si sa ancora nulla sulle regole.

Di certo le regole d’ingaggio saranno fondamentali, e vanno decise da tutti gli attori in campo.

Lei farebbe accordi con il Pd nelle regioni?

Noi siamo nati per realizzare politiche per il rispetto della dignità delle persone e la tutela dell’ambiente, e per combattere derive neo-mercatistiche. Su questi principi si può dialogare con tanti, purché ci sia un ferreo rispetto delle regole.

Lei sarà in campo negli Stati generali? E chi sosterrà?

Guardi, il punto è che dobbiamo promuovere il senso di responsabilità dei cittadini. Poi il Movimento deve aprirsi all’esterno, dialogando con altri mondi. Per esempio con fenomeni come quello delle Sardine, anche se hanno effettuato delle scelte infelici.

Però vi criticano per l’evento di sabato sui vitalizi.

Bisogna far comprendere a chi detiene privilegi che non possono essere più sopportati da chi deve già sopportare dei sacrifici.

Va bene: ma le Sardine?

Il mio motto è: rispetta e fatti rispettare. Le voglio conoscere, capire che istanze portano avanti. Se dovessero ancora avere rapporti con i Benetton e il mondo dei concessionari autostradali, ripetere l’errore sarebbe un’inequivocabile scelta di campo. Se invece dovessero dimostrare un’attenzione verso il Paese, con una particolare attenzione per giovani e Sud, perché non dialogare?

Non si fa che parlare di prescrizione. Lei che ne pensa?

Casi come quello di Giuseppe Gulotta (in carcere per 22 anni perché condannato ingiustamente per l’omicidio di due carabinieri, ndr) ci mostrano che il sistema riesce a rendersi conto dei propri errori. Ma ora, come si è intervenuti giustamente sulla prescrizione, è necessario introdurre riforme come la reformatio in peius, in modo che chi fa appello sappia che potrebbe anche peggiorare la sua situazione. E bisogna incrementare ulteriormente le risorse alla giustizia, anche per non dare alibi a nessuno.

Giorgia fa cucù (per giunta da lassù)

Il cucù di Giorgia a Matteo dovrebbe essere un cucù finalmente amichevole, anzi solidale. Lei giunge al Senato e si sistema nella tribuna ospiti mentre lui sta procedendo sulla via del martirio. Non scappa più dai giudici ma va loro incontro, si piega al processo, e dunque accetta il verdetto, e sfida il carcere in nome del popolo italiano che gli ha chiesto esattamente quel che lui ha fatto. Sfidare le leggi, anzi violarle. Il fatto è che per la prima volta la Meloni, scalpitante pin up del centrodestra, alleata ma non troppo, si trova in alto e lui in basso. Nel senso tecnico dell’inquadratura, per via dell’architettura del Palazzo. Gli ospiti sono sistemati sopra le teste dei padroni di casa. E per la prima volta è lei a selfizzarsi, spiegando che lo fa per manifestare la solidarietà a lui, mentre lui, che con i telefonini è un maestro, ed è campione della comunicazione digitale, legge sui fogli di carta pur di non dimenticare nulla, ma dunque già arretra la sua arringa difensiva in un clima da Novecento. La presenza di Meloni quindi invece di aiutare, disturba un pochetto. Il protagonista è lui, non lei. La presenza incide poi sul pathos (“Forza papà, mi hanno scritto i mei figli”, sta dicendo lui quasi commosso mentre lei manovra il cellulare), e un po’ disorienta e distrae purtroppo. Tutti guardano lei. Tutti tranne chi dovrebbe, cioè lui, impegnato a fare al meglio ciò che sa fare meglio: il comizio. Giorgia che dichiara solidarietà a Matteo proprio quando sembra averne le tasche piene e lo accusa di essere aggressivo, è insieme una bugia e una verità. Fratelli d’Italia avanza nei sondaggi proprio quando la Lega sembra declinare, confermando che nel centrodestra i voti si spostano come se avessero le gambe di un Mennea: da qui vanno lì, e poi da lì vanno qui. Perciò il cucù dev’essere affettuoso a parole, e infatti Giorgia è zuccherosa (“Ha fatto ciò per cui gli italiani lo hanno votato”) ma anche fastidioso, vicino ma lontano, amichevole ma anche ostile. La questione è che Giorgia fa cucù e per giunta da lassù.

Sicurezza, i renziani come la Lega: “Mettiamo vigilantes privati per la notte”

Gli amorosi sensi tra Italia Viva e il centrodestra non si esauriscono sul tema della prescrizione. Per averne conferma basta guardare in Toscana, dove i renziani sembrano appiattiti sulle posizioni leghiste su uno dei temi più cari a Matteo Salvini, ovvero la sicurezza.

Ieri infatti il gruppo di Iv in Regione ha presentato un ordine del giorno per integrare il servizio di polizia locale attraverso l’utilizzo di vigilantes privati, coprendo soprattutto luoghi e fasce orarie a rischio. Un modello vicino alla destra non solo culturalmente – le ronde sono state per anni cavallo di battaglia di Umberto Bossi e soci – ma anche nell’amministrazione, perché la proposta dei renziani ricalca quel che a Cascina (in provincia di Pisa) la giunta leghista ha reso legge da tempo.

E non a caso Susanna Ceccardi, ex sindaca del Comune e oggi eurodeputata con Salvini, sguazza sulla gaffe dei rivali: “Italia Viva presenta un odg per istituire il servizio di vigilanza privato durante l’orario notturno. Praticamente quello che abbiamo fatto a Cascina un anno fa con le sentinelle di notte”.

A costringere Italia Viva alla marcia indietro ci ha pensato il resto della maggioranza, che ha evitato per un pelo la figuraccia uscendo dall’aula, facendo sospendere la seduta e invitando i consiglieri a ritirare la proposta.

Il danno, però, resta. Tanto che Massimo Baldi, il consigliere che ha presentato il testo, non cambia idea sulla bontà del provvedimento: “Non sono consigliere comunale di Cascina, delle somiglianze tra la nostra proposta e quanto avvenuto a Cascina non mi interessa niente. Non si può sempre avere la puzza sotto il naso quando si tratta del privato, per lasciare i servizi in condizioni peggiori di quelle che potrebbero essere”. E così anche Sergio Scaramelli, il capogruppo dei renziani in Consiglio: “La sicurezza non è né di destra né di sinistra, bisogna farsene una ragione”.

Eppure il parallelo con la giunta leghista lo vedono tutti. A partire da Irene Galletti, candidata presidente dei 5 Stelle alle prossime Regionali e attuale consigliere: “È una abdicazione delle funzioni pubbliche per affidarsi a società private. Quello che è successo a Cascina è una operazione vergognosa. Italia Viva ormai, anche in Toscana, è in rotta con il centrosinistra ed è sempre più vicina alle posizioni di Matteo Salvini e di Fratelli d’Italia”.

E la cosa non ha fatto piacere neanche a Eugenio Giani, candidato governatore del centrosinistra sostenuto proprio da Italia Viva. Ieri presiedeva la seduta del Consiglio regionale e ha dovuto far da moderatore ai tumulti della sua coalizione, accogliendo la richiesta di sospendere l’aula per diversi minuti.

D’altra parte il Pd, piuttosto spiazzato dalla sparata degli alleati, non poteva permettersi di andare alla conta palesando la comunione di intenti tra Italia Viva e il centrodestra, ovvio motivo di imbarazzo in piena campagna elettorale. Per questo a fine giornata la dem Monia Monni ha provato a ridimensionare la questione: “C’è stato un problema di comunicazione tra di noi. Probabilmente Italia Viva ha sottovalutato la forza di quel provvedimento”.

Quel che non si può sottovalutare è però il caso interno alla coalizione, già minato dai continui litigi tra i renziani e il gruppo vicino a Giani sulla definizione delle liste: “Ci sono delle scosse di assestamento – ha ammesso la Monni – come è normale quando un partito subisce una scissione. Dobbiamo imparare a confrontarci di più e con maggiore rispetto perché alla fine la sintesi si trova”. Sempre che si possa ogni volta uscire dall’Aula e sfiorare la crisi.

Il Capitano cita pure Montanelli e sbaglia: si dimentica la barba

Sedici sedie rosse al centro dell’aula, tutte vuote. L’immagine è davvero inusuale: al Senato non c’è il governo. Nemmeno un ministro, uno straccio di sottosegretario, niente. Verso le 10 e 40 fa capolino Roberto Gualtieri, titolare dell’Economia. Resta pochi minuti in solitudine, si gira intorno con sguardo interrogativo, poi gli viene il sospetto che i colleghi non si presenteranno (si vede che non l’hanno avvertito). Dovevano mandare un messaggio: alla farsa del martirio giudiziario di Salvini, il governo Conte non partecipa.

Il resto della mattinata è fatto di ombre crepuscolari ed eroi comici. Tra le prime, si segnala il mesto ritorno di Lucia Borgonzoni. Aveva promesso che sarebbe rimasta in Emilia-Romagna anche se sconfitta, invece rieccola a Roma. Completo nero funereo, sguardo di piombo, profilo basso: anche al Senato, come in campagna elettorale, è una comparsa nello show di Salvini.

Tra gli eroi comici invece c’è l’imbarazzo della scelta. Spicca il fratello d’Italia Francesco Zaffini: “Lascio questa materia agli avvocati visto che in quest’Aula ce ne sono tanti. Gli avvocati sono la seconda categoria più rappresentata, mentre la prima è quella dei fenomeni”. Quando si dice il rispetto reciproco…

Il bestiario è vasto. Il pidino Gianclaudio Bressa offre un paragone un filo esagerato: “Per la Lega, se per raggiungere un obiettivo politico un ministro ordinasse un omicidio, non sarebbe perseguibile penalmente. Era esattamente ciò che sosteneva Mussolini davanti all’omicidio Matteotti”. Anche la forzista Fiammetta Modena va a caccia di fantasmi e confronti arditi: “È come se il tribunale dei Ministri avesse chiamato D’Alema quando è stata bombardata la Serbia. È come se avessero chiamato il ministro Terzi di Sant’Agata o il presidente Monti quando hanno lasciato i marò in India. Vi ricordate i marò in India?”. Come dimenticarseli, stanno bene su tutto.

Il berlusconiano Luigi Vitali è un vulcano: nel senso che dalla sua bocca, col furore retorico, parte qualche lapillo di saliva. Capita. La povera Urania Papatheu, alla sua sinistra, si fa scudo con una mano. Durante la prigionia sulla Gregoretti, ricorda Vitali, “i migranti sono stati rifocillati, costantemente assistiti e controllati”. Che gentili: mica li hanno fatti morire di fame.

Tocca assistere pure a questo: standing ovation della Lega per Pier Ferdinando Casini. Il vecchio saggio sostiene che Salvini non vada processato. Salvini ringrazia, ma a processo vuole andarci lo stesso, quindi ordina ai suoi di provvedere. Quelli obbediscono, e applaudono di nuovo. Ricapitolando: applaudono Casini contro il processo, ma pure Salvini che pretende di essere processato. Quindi lasciano l’aula.

Prima però c’è l’avvocato Giulia Bongiorno. Più che un intervento, un amorevole gioco delle parti col Matteo: parlano tra di loro, il Senato è un terzo incomodo. Lei lo rimprovera, ma è bonaria: “Non farti provocare! Nessuno può scavalcare i giudici. E in questo momento il giudice siamo noi senatori”. Lui sorride, incoraggia: “Giulia, ti lascio 5 minuti del mio discorso, ti puoi allungare” (e la presidente Casellati, muta). Bongiorno chiude l’arringa con una proposta visionaria: “Se volete processare Salvini, dovete creare una nuova fattispecie incriminatrice, quella di ‘rallentamento allo sbarco’”.

Infine eccolo, “il Capitano”. Mette in mezzo i figli, come al solito: il discorso è tutto sulle povere creature, preoccupate per il papà. Chiude con una citazione di Montanelli: “Ragazzi, combattete per quello in cui credete, magari perderete tante battaglie ma vincerete quella che si ingaggia ogni mattina davanti allo specchio”. Montanelli aggiungeva pure: “Per questo c’è tanta gente con la barba lunga”. Salvini, barbutissimo, se ne dimentica. O allo specchio non si guarda?

Il “martire” Salvini ottiene il processo tanto agognato

Quando prende la parola intorno all’ora di pranzo sembrano tornati i tempi in cui Silvio Berlusconi tuonava contro i suoi avversari, accusati di volerlo eliminare per via giudiziaria. Con i suoi a fargli da scudo umano contro le “indebite” interferenze della magistratura.

Matteo Salvini pare proprio intenzionato a ripercorre le orme dell’ex Cav, sperando che la sorte gli sorrida ancora. Perché ora che l’aula del Senato ha deciso di autorizzare la Procura di Catania a procedere contro di lui per la gestione dei migranti a bordo della Nave Gregoretti, il leghista non si farà sfuggire l’occasione per usare l’argomento come carburante per la sua perenne campagna elettorale.

Alla fine della giornata Palazzo Madama boccia l’ordine del giorno presentato da Forza Italia e Fratelli d’Italia per “scudare” l’alleato: hanno detto no al processo in 76, mentre la maggioranza ha dato via libera alla richiesta di autorizzazione del tribunale dei ministri di Catania, fermandosi però a quota 152 voti.

La Lega, da parte sua, sfumata ogni speranza di mettere insieme 161 senatori disponibili a garantire l’impunità a Salvini, alla fine ha deciso di disertare lo scrutinio. Per non essere costretta a ribadire (o ribaltare) la posizione assunta tre settimane fa, quando aveva chiesto e ottenuto che la Giunta per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama dicesse sì al processo a suo carico, in modo da drammatizzare gli ultimi giorni di campagna elettorale in Emilia-Romagna.

“Il processo non è una passeggiata, l’ho fatto per gli italiani” ha detto Salvini in aula, citando i suoi figli almeno sette volte. Una circostanza che non ha commosso tutti. Ad esempio Vito Crimi dei 5 Stelle: “Non si è fatto nemmeno scrupolo di utilizzare la famiglia come un feticcio, così come fa con il rosario. I figli lasciamoli in pace”. Anche perché il “Capitano” in aula non ha rinunciato alle provocazioni contro gli avversari, tanto che gli animi si sono scaldati a più riprese e si è sfiorata quasi la rissa, alla faccia dei buoni sentimenti. Salvini ha pure anticipato alcuni degli argomenti che potrebbe usare in tribunale, dove dovrebbe rispondere (ma ora il fascicolo torna ai pm) del reato di sequestro aggravato di persona. “Un sequestratore ben bizzarro, perché questi immigrati siamo andati a prenderli – e l’ho disposto io – in acque maltesi e non italiane”. Una frase che Pietro Grasso di LeU ha liquidato ironicamente al momento delle dichiarazioni di voto: “Un’altra novità di oggi è stata la fantomatica autorizzazione al salvataggio da parte del ministro Salvini in zone maltesi”.

Ma nelle cinque ore di dibattito non sono mancati altri spunti. La consigliori legale di Salvini, l’avvocato Giulia Bongiorno, parlando del caso Gregoretti ha teorizzato che si sarebbe trattato non di un sequestro, ma di “un rallentamento dello sbarco dei migranti, in attesa di alcune risposte sulla redistribuzione, che stava gestendo la Presidenza del Consiglio, operato nell’interesse pubblico”. Al che Anna Rossomando del Pd stupita di tanta creatività giuridica, ha ironizzato: “Ma si tratta di un nuovo istituto di diritto?”.

Malgrado i generosi sforzi di Fratelli d’Italia e Forza Italia – che all’unisono hanno denunciato la gogna contro il Capo della Lega colpevole solo di aver difeso i confini patrii e l’interesse nazionale – alla fine l’intervento più apprezzato da Salvini è stato quello di Pier Ferdinando Casini, senatore indipendente ma eletto nelle file del Pd. Che l’ha messa così: “Non mi pare vi sia dubbio che le azioni del ministro Salvini siano coerenti ed esecutive del programma del Governo di cui faceva parte. Se c’era una valutazione diversa, il ministro doveva essere sfiduciato dal Parlamento o smentito con atti formali dal Presidente del Consiglio o dal Consiglio dei ministri”. Ma il bello doveva ancora venire perché poi Casini ha messo sul tavolo il carico da undici, facendo fioccare gli applausi del centrodestra e non solo: “Sono contrarissimo al merito della politica che Salvini ha portato avanti ma credo che siano gli italiani a doversi esprimere. Non possiamo delegare questa azione alla magistratura, in una sorta di supplenza impropria: ricordate, colleghi, che quello che oggi capita a Salvini in teoria può capitare a tutti coloro che hanno responsabilità di governo”. A quel punto il forzista Renato Schifani ha preso la palla al balzo per ricordare Berlusconi, fatto decadere dal Senato che si era rifiutato di regalargli il vantaggio del voto segreto. A quel punto dai banchi leghisti è partito un applauso più tiepido. E invece sotto i banchi gli scongiuri si sono sprecati.

Prescrizione, l’avvocato: “È civiltà”. E Travaglio: “Un guaio catastrofico”

“La prescrizione? Non è una garanzia processuale, le garanzie sono sacrosante. La prescrizione è una catastrofe dello Stato perché nega l’essenza del processo”. Marco Travaglio ha affrontato di petto il confronto con Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, che gli era stato proposto da un’associazione di legali, “Italia Stato di diritto”. “Preparatevi, sentirete cose per voi orrende”, ha premesso Travaglio, davanti a una platea composta prevalentemente di avvocati, stipati, e in alcuni momenti vivaci fino alle urla, in una sala del Westin Palace di Milano. “Io dico sempre quello che penso, davanti a ogni platea, non cambio tono a seconda di chi ho davanti”.

“Come ha spiegato il Consiglio superiore della magistratura”, ha risposto Nardo, “la prescrizione è una questione di civiltà. Senza prescrizione ci sarebbe un processo infinito. Non è una garanzia, ma è un istituto di civiltà di un Paese”. Replica immediata di Travaglio: “Di inciviltà di un Paese! Perché si lascia senza verità un processo che è finalizzato a stabilire la verità. Anche quando si parla di ragionevole durata del processo, si presuppone che il processo ci sia, non che muoia”. Travaglio tenta di raccontare l’incredibile corsa a ostacoli del processo Imi-Sir a Cesare Previti e Silvio Berlusconi, le infinite manovre dilatorie messe in atto dagli avvocati per conquistare la prescrizione; e poi tradotte in leggi ad personam dagli stessi avvocati che erano anche parlamentari. Allora nessun legale, nessuna associazione prese la parola per criticare comportamenti scorretti. La platea rumoreggia: non vuole sentire.

Nardo riprende una battuta: “Senza il termine al processo imposto dalla prescrizione, ha ragione chi dice che si sostituirà la sentenza di estinzione del reato per prescrizione con quella per morte del reo”. Ma sono altre, non la prescrizione, le ricette che per Travaglio possono rendere meno lungo i procedimenti. Ci sono in Italia “troppi processi, troppi reati, troppi ricorsi in appello e in Cassazione”. “Non si possono cumulare tutte le garanzie del processo inquisitorio con quelle del processo accusatorio che abbiamo ora”. Il risultato “è il collasso della giustizia”. Dovrebbero crescere i riti alternativi. Dovrebbero essere disincentivati i ricorsi in appello, cancellando il divieto di reformatio in peius (cioè di avere una condanna più alta che in primo grado). E non ha senso il diritto di patteggiare in ogni grado di giudizio, perfino in Cassazione.

“Il problema del processo infinito è anche un problema della vittima, costretta ad aspettare anni per avere una sentenza”, incalza Nardo. Ma le vittime vogliono una sentenza, gli replica Travaglio, non che il processo muoia per prescrizione. “Mai visto un poveraccio prescritto”. E in carcere, in Italia, “i colletti bianchi non ci vanno. La composizione sociale delle carceri italiane oggi è la stessa del 1890”. E ancora: “Strana democrazia liberale, quella degli avvocati che non vogliono ascoltare chi non è d’accordo con loro, che vogliono togliere la parola a Piercamillo Davigo, tanto da chiedere al Csm di non mandarlo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario a Milano”. Un annuncio in sala allenta la tensione: “Il portafoglio dell’avvocato Vivarelli è all’ingresso”. Ma si torna subito al confronto. Nardo ricorda che per Davigo non tutti gli imputati assolti sono innocenti, alcuni l’hanno solo fatta franca. “È vero, non tutti gli imputati che sono stati assolti non hanno commesso il reato. Freda e Ventura sono stati assolti per la strage di piazza Fontana, ma la Cassazione ha poi detto che hanno compiuto quel reato”. Ma “rifiuto le definizioni di garantista e giustizialista: garantista è Sgarbi?”. “Di razionalità – conclude Travaglio – nel dibattito sulla prescrizione in corso in queste settimane ne vedo poca”.

Fallisce il blitz Renzi-destre: sbaragliato il lodo Annibali

Per la seconda volta in due giorni, Italia Viva vota insieme alle destre. I numeri per mandare in minoranza il governo, però, non ci sono di nuovo e anzi, questa volta il divario a favore di chi sostiene l’esecutivo è persino maggiore di due giorni fa: nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Bilancio della Camera il cosiddetto lodo Annibali ottiene 40 voti al fronte di 49 contrari. Non passa perciò l’emendamento renziano al Milleproroghe che riportava le regole sulla prescrizione alla riforma Orlando, annullando cioè gli effetti della riforma Bonafede. Sulla proposta di Italia Viva, firmata dalla deputata Lucia Annibali e dall’ex 5 Stelle Catello Vitiello, avevano espresso parere favorevole Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, che in effetti hanno votato per la sua approvazione in Commissione. Più che per la propria comunione di intenti con la destra, però, Italia Viva grida allo scandalo per la vicinanza tra Pd e 5 Stelle: “La scelta del Pd di votare contro la legge Orlando e mantenere la legge Bonafede-Salvini è la dimostrazione che il Pd è diventato un partito giustizialista. Votando contro il lodo Annibali il Pd diventa grillino e tradisce la stagione riformista e il garantismo”. Per il momento Matteo Renzi incassa, ma ammette che la partita non è chiusa: “Alla Camera hanno i numeri loro: 1 a 0 per i giustizialisti. Vediamo tra due mesi come finisce al Senato…”. In effetti a Montecitorio la conta è andata peggio rispetto al giorno precedente, quando la proposta del Radicale Riccardo Magi per sospendere la Bonafede fino al 2023 aveva ottenuto 42 voti contro i 44 della maggioranza: “L’opposizione perde pezzi – esulta il dem Nicola Oddati –, è finita la sceneggiata”. Ma il tema si riproporrà a Palazzo Madama, dove i numeri del governo sono molto più risicati. Qui oggi la Commissione Giustizia verificherà l’ammissibilità di un emendamento a firma della forzista Fiammetta Modena che chiede, ancora una volta, di eliminare le norme della Spazzacorrotti sulla prescrizione.

Ad andare ben oltre le divisioni politiche, però, sono alcuni insulti personali ricevuti dalla Annibali sui social. Per tutto il giorno infatti alcuni utenti hanno offeso la deputata inneggiando persino a Luca Varani, l’ex fidanzato che la sfregiò con l’acido.

Per la renziana sono arrivati messaggi di vicinanza da tutte le forza politiche: “Le offese rivolte alla deputata Lucia Annibali sono vergognose e ingiustificabili – ha scritto su Twitter il 5Stelle Vito Crimi –, non possiamo ammettere una tale disumanità”. Così anche i dem Emanuele Fiano ed Enrico Borghi: “La conosciamo come donna forte e preparata e siamo sicuri che non saranno certo questi attacchi vigliacchi a intimorirla. Resta lo sconcerto per parole tanto crudeli”.

Da Salvini a Renzi, il ministro bersaglio

Alcuni grillini lo avevano sussurrato a nomina ancora calda: “Da capo delegazione nel governo Alfonso sarà più forte nelle trattative, ma anche un bersaglio più evidente”. E Alfonso è ovviamente Bonafede, Guardasigilli a 5Stelle condannato suo malgrado a essere miccia, delle crisi di governo o presunte tali. Oppure reiterato colpevole, a sentire i renziani tutti ma anche certo Pd.

Di sicuro la scorsa estate Matteo Salvini affondò il governo gialloverde pochi giorni dopo un difficilissimo vertice sulla giustizia a Palazzo Chigi, e lo stesso Bonafede lo ha poi rivendicato, più volte: “La verità è che Salvini ha staccato la spina perché non voleva la mia riforma della giustizia”. E la portata più indigesta era sempre quella, la prescrizione, bandiera e croce del numero due di fatto del Movimento. Un pretoriano di Luigi Di Maio, che però negli scorsi mesi era rimasto perplesso da certe scelte dell’allora capo politico: e la rivalità tra il leader e il premier Conte c’entrava, visto che è Bonafede ad aver portato nel M5S l’avvocato. Ma ora sono tornati in asse, i due ministri. Proprio adesso che Di Maio non è più capo e che Movimento e governo navigano con bufera fissa. Tanto a starsene tra i cavalloni prima di tutti c’è sempre lui, il Bonafede che ieri ha dovuto fare i conti pure con la sentenza con cui la Consulta ha bocciato l’applicazione retroattiva della Spazzacorrotti, l’altro totem del ministro. E i renziani e le opposizioni a esultare, e il Movimento a fare muro. “Quelli di Italia Viva non passeranno” giura un big a tarda sera, perché la giustizia e Bonafede, rigorosamente in coppia, sono l’ultima trincea, uno specchio in cui riconoscersi per il Movimento che di questi tempi fatica a ricordarsi cos’è. Soprattutto, perché governa un Paese assieme al Pd e, fino a voto di fiducia contrario, assieme a Renzi. E non è mica una domanda retorica, forse è il nodo principale su cui i grillini se le diranno ad alta voce negli Stati generali, il primo congresso della loro storia che si terrà dopo Pasqua. Nell’attesa bisognerebbe restare a galla, cioè governare. E nel Palazzo dove si gioca la partita, a guidare i 5Stelle è Bonafede, capo delegazione al posto del Di Maio che si è fatto di lato, subentrato anche per la rinuncia del ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli che non voleva una conta sul suo nome. Bonafede, invece, il ruolo lo ha ottenuto per acclamazione interna, ma deve guardarsi le spalle più di prima. In serata, con le agenzie che raccontano la solita guerra, il ministro lo dice ai suoi: “Trovano qualsiasi pretesto per attaccarmi, questo è il sistema che reagisce a chi prova a cambiare le cose. Se vogliono provocare continuino pure, noi continuiamo a lavorare”.

E anche qui è un rivendicare la natura originaria del Movimento, quello che prometteva scandalo scardinando vecchi codici ed equilibri. Ma Bonafede deve essere uomo di lotta e di governo. Quindi il lodo Conte sulla prescrizione, nelle sue varie formule, va bene al Guardasigilli, che qualcosa è pronto a concedere. Ma qualcosa non basta al Renzi che deve ricordare a tutti che esiste, quindi urla e graffia. E dagli sempre contro Bonafede, il bersaglio grosso.