Mondo di Mezzo e Celeste: ecco chi ora ne beneficia

Ci sono alcuni dei politici condannati in Cassazione nell’ambito dell’inchiesta “Mondo di Mezzo” e poi Piero Amara – avvocato al centro di diverse vicende giudiziarie – finito in carcere a 24 ore dalla decisione della Consulta sulla “Spazzacorrotti”. Tutti lasceranno il carcere dove erano finiti dopo l’approvazione di questa stessa legge nel gennaio del 2019. E poi c’è anche il caso dell’ex governatore della Regione Lombardia Roberto Formigoni che, ai domiciliari, potrà tirare un sospiro di sollievo perché il ricorso della Procura generale di Milano contro questa misura detentiva potrebbe decadere.

La decisione della Consulta di ieri ha conseguenze immediate su coloro che, condannati in via definitiva per reati contro la Pubblica amministrazione e con un residuo di pena da scontare inferiore a quattro anni, sono finiti in cella perché quella stessa legge è stata applicata in modo retroattivo. Ieri, infatti, la Corte costituzionale ha bocciato l’interpretazione della “Spazzacorrotti” che esclude le pene alternative per questo tipo di reati commessi prima che fosse varata. Ora chi tornerà libero, quando ci sarà un provvedimento della Procura generale, potrà presentare richiesta di misure alternative.

Lasceranno dunque il carcere, tra gli altri, anche l’ex presidente del Municipio di Ostia, Andrea Tassone, l’ex presidente Pd dell’assemblea capitolina Mirko Coratti e l’ex consigliere comunale del Pdl Giordano Tredicine. Erano finiti in cella dopo la sentenza della Cassazione di ottobre scorso che non ha riconosciuto l’accusa di mafia nei confronti, tra gli altri, dell’ex Nar, Massimo Carminati, e di Salvatore Buzzi, affermando l’esistenza di due associazioni a delinquere semplici. I politici non erano accusati di mafia, ma di corruzione. Tredicine, per esempio, era stato condannato in Appello a due anni e sei mesi, aveva un pena residua da scontare a un anno e nove mesi. Il suo legale, Gianluca Tognozzi, anche segretario della Camera penale di Roma, commenta: “Chiunque poteva accorgersi che la ‘Spazzacorrotti’ era una norma incostituzionale, ma solo noi penalisti lo abbiamo sostenuto e ribadito in più sedi. Quando si scrivono norme in questo modo è chiaro che ci sono decisioni come quelle della Consulta. Spero serva da monito per la riforma sulla prescrizione. Domani (oggi per chi legge, ndr) ci saranno gli ordini di esecuzione e Tredicine uscirà dal carcere e come lui tutti coloro che devono scontare per quei reati pene residue inferiori a quattro anni”.

C’è poi il caso dell’avvocato Piero Amara: è finito in carcere il giorno prima della decisione della Consulta, arrestato per un cumulo di pena di 3 anni e 8 mesi di carcere. L’arresto è scattato dopo la sentenza della Cassazione del 4 febbraio che ha dichiarato inammissibile il ricorso di Amara, il quale aveva patteggiato una condanna davanti al Gup di Messina a un anno e due mesi per l’inchiesta sul cosiddetto “Sistema Siracusa”. “Abbiamo già presentato istanza di revoca dell’ordine di carcerazione – spiega il suo legale, l’avvocato Salvino Mondello – e appena tornerà libero faremo un’istanza formale in cui chiederemo l’affidamento in prova ai servizi sociali. La retroattività della norma, così come interpretato prima della decisione di ieri della Consulta, viola qualsiasi principio di diritto”.

Diverso il caso dell’ex governatore Roberto Formigoni. Finito in carcere nel febbraio 2019 dopo la condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per corruzione per il caso Maugeri-San Raffaele, a luglio dello stesso anno gli vengono concessi i domiciliari. Ed è qui che resterà. Ma almeno non vivrà più con la spada di Damocle del ricorso presentato dalla Procura generale contro la decisione dei giudici di luglio.

“Con la decisione della Consulta la questione si risolverà alla radice: il ricorso della Procura generale contro la detenzione domiciliare al posto di quella in carcere dovrebbe decadere. Insomma Formigoni sconterà la pena ai domiciliari e quando la pena da scontare scenderà sotto i quattro anni, nel prossimo autunno, potrà avanzare richiesta di affidamento al servizio sociale”. Anche l’ex governatore ieri ha commentato la decisione della Consulta. “Apprendo con soddisfazione – ha detto – che la Corte ha ritenuto incostituzionale tale retroattività in forza della quale ho subito alcuni mesi di ingiustificata detenzione. C’è da augurarsi che tale pronunciamento freni una linea di politica penale giustizialista presente nei governi di questa legislatura”.

Lo schiaffo della Consulta: niente carcere “retroattivo”

La Corte costituzionale ha deciso di dare una svolta alla giurisprudenza degli ultimi decenni e ha stabilito che è illegittimo applicare retroattivamente misure che peggiorano la pena e incidono in maniera profonda sulla libertà di un condannato definitivo.

Ieri, infatti, prendendo in esame i molteplici ricorsi contro l’applicazione retroattiva della Spazzacorrotti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, la Corte ha stabilito che non si può applicare retroattivamente il previsto divieto di misure alternative al carcere per i condannati per reati corruttivi. Secondo la Corte si viola l’articolo 25 della Costituzione: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Una decisione usata a piacimento da Matteo Renzi e dal centrodestra per attaccare il “populismo giudiziario” del M5S.

La Spazzacorrotti, entrata in vigore il 31 gennaio 2019, stabilisce che per i reati più gravi contro la Pubblica amministrazione siano precluse le pene alternative al carcere, come per i condannati per mafia, terrorismo e altri gravi reati. Non essendoci una norma transitoria sulla irretroattività, diversi giudici, anche su sollecitazione dei difensori di imputati condannati per reati antecedenti alla Spazzacorrotti, si sono rivolti alla Corte costituzionale, che ha dato loro ragione.

La Corte, però, riconosce, ed è questo un punto essenziale, che finora “secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente” e anche nel caso della Spazzacorrotti. Dunque, è questa interpretazione retroattiva da parte dei giudici che è incostituzionale: “L’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene”. A scanso di equivoci, la sentenza chiarisce pure che la irretroattività si riferisce esclusivamente “alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna”.

Essendo stata bocciata solo l’interpretazione retroattiva della norma, resta in piedi il divieto di pene alternative al carcere anche per i corrotti, purché i reati siano stati commessi dopo l’entrata in vigore della legge. Il 26 febbraio, invece, la Consulta è chiamata nuovamente a pronunciarsi su altre questioni che entrano più nel merito della Spazzacorrotti.

La sentenza di ieri viene usata come un’arma impropria da Italia Viva e centrodestra per la battaglia contro il blocco della prescrizione. Basta citare il tweet di Matteo Renzi: “La legge Bonafede viene giudicata incostituzionale dalla Suprema Corte. Il giustizialismo può essere approvato in Parlamento ma poi viene bocciato in Corte costituzionale. Non è che l’inizio. Chi ha orecchi per intendere intenda #Prescrizione”.

Bonafede respinge quelle che definisce “polemiche politiche” da cui dovrebbe essere lasciata fuori la Consulta e precisa: “Non c’era una norma della legge Spazzacorrotti che diceva che si doveva applicare retroattivamente, quella era una interpretazione dei giudici su cui adesso la Corte interviene”.

Entusiasta per la sentenza di ieri Roberto Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione: “Apprendo con soddisfazione che la Corte ha ritenuto incostituzionale tale retroattività in forza della quale, purtroppo, ho subito alcuni mesi di ingiustificata detenzione”. Condannato il 21 febbraio 2019 è rimasto in carcere 5 mesi, fino al luglio 2019 quando, per un’altra interpretazione della Spazzacorrotti, il Tribunale di Sorveglianza di Milano gli ha concesso i domiciliari. Contro quella decisione ha presentato ricorso l’avvocato generale Nunzia Gatto e la Cassazione, evidentemente in attesa della Corte costituzionale, ha fissato la camera di consiglio per il prossimo 20 marzo.

E ora, tutti fuori

In sintonia con questo clima di restaurazione da Congresso di Vienna all’amatriciana, la Consulta ha deciso di salvare dalla galera i corrotti eccellenti, tipo Formigoni, che una norma sacrosanta della Spazzacorrotti aveva escluso dalle pene alternative al carcere. I soliti falsari si sono affrettati a dire che dunque la legge di Bonafede è incostituzionale: nulla di più falso. La Corte ha dichiarato illegittima la sua applicazione da parte di molti giudici ai condannati per reati commessi prima della sua entrata in vigore: quella che qualcuno chiama “interpretazione retroattiva”, come se le regole dell’esecuzione della pena fossero norme penali sostanziali, dunque applicabili solo per i reati commessi dopo la loro approvazione (in base al principio della “norma più favorevole al reo”). Balla sesquipedale: nessuno può essere condannato per un reato e a una pena non previsti quando commise il reato; ma poi il luogo e le modalità dell’espiazione della pena dipendono dalle norme in vigore al momento della condanna (in base al principio “tempus regit actum”). Così ha sempre stabilito la giurisprudenza della Consulta e della Cassazione, ogni qual volta il Parlamento inseriva nuovi reati “ostativi” ai benefici penitenziari: prima quelli di mafia e terrorismo, poi via via le violenze sessuali, i sequestri di persona a scopo di estorsione, il contrabbando, il traffico d’esseri umani, la riduzione in schiavitù, la prostituzione minorile, la pedopornografia e la violenza sessuale.

Trattandosi di reati tipici dei delinquenti di strada e non dei colletti bianchi (a parte B., che spesso sconfina), nessuno eccepiva nulla. E, se qualcuno eccepiva sulla “retroattività” e la mancanza di norme transitorie per i reati “vecchi”, veniva bacchettato. Ora dalla Consulta, per i mafiosi sul 41-bis (nel 1993, 1997, 1998 e 2017). Ora dalla Cassazione, per gli altri condannati: per esempio, con la sentenza n. 24561/2006, le Sezioni Unite confermarono il divieto di misure alternative agli stupratori: “Le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio ‘tempus regit actum’”. O con la 24767/2006 che consacrava il divieto di benefici ai condannati recidivi. O con la n. 11580/2013 che confermava il divieto di permessi premio ai sequestratori. I ricorrenti venivano amorevolmente invitati a farsi la galera senza rompere i coglioni.

Poi i 5Stelle hanno osato l’inosabile: infilare anche la corruzione, la concussione e il peculato fra i reati gravi da espiare in carcere senza eccezioni. E, alla sola idea di veder finire dentro anche politici e imprenditori, il sistema è impazzito. Il primo eccellente ad assaggiare il carcere vero grazie alle nuove norme è stato Roberto Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per oltre 6 milioni di mazzette in cambio del dirottamento indebito di 200 milioni di fondi regionali a cliniche private. Dopo 70 giorni era già fuori, perché ci si è messa pure una parte della magistratura: da allora una decina di tribunali hanno eccepito sulla “retroattività” dinanzi alla Consulta. Cosa mai accaduta per mafiosi, terroristi, sequestratori, stupratori, contrabbandieri, pedopornografi e schiavisti. L’Avvocatura dello Stato, anziché difendere la legge dello Stato, ha festosamente partecipato al massacro della Spazzacorrotti sostenendone la non “retroattività”. E la Consulta le è andata dietro, ribaltando decenni di giurisprudenza costante (a parte un caso isolato), sua e della Cassazione. Il ragionamento è strepitoso: quando il corrotto e/o il corruttore o il concussore rubavano, sapevano di commettere un reato, ma davano per scontato che le pene detentive previste per i loro delitti fossero finte (bastava tenersi sotto i 4 anni di pena o sopra i 70 anni di età, e sarebbero finiti ipso facto ai domiciliari o ai servizi sociali). E quando furono condannati, sapevano che la parola “reclusione” in calce alla sentenza era uno scherzo. Poi la Bonafede ha stabilito che era tutto vero: e quelli, a saperlo prima, non avrebbero rubato.

Dunque per loro la reclusione resta finta: diventa vera solo per chi delinque dopo l’approvazione della Spazzacorrotti. Quindi Formigoni, in barba al ricorso del Pg contro la sua scarcerazione, sconterà i restanti 5 anni e passa comodamente a casa sua. E così tutti i suoi simili, compresi i pregiudicati del processo Mondo di Mezzo, che usciranno tutti alla spicciolata se hanno più di 70 anni di età o meno di 4 anni di pena residua. Purtroppo la Consulta s’è scordata di abrogare l’articolo 3 della Costituzione, in base al quale “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”: dunque lo stesso principio deve valere per mafiosi, terroristi, sequestratori, stupratori, contrabbandieri, pedopornografi e schiavisti. Si provveda dunque a scarcerare al più presto anche loro e soprattutto a risarcire tutti quelli che per 30 anni si sono visti applicare “retroattivamente” trattamenti penitenziari più duri di quelli previsti quando avevano commesso i reati. A cominciare dal 41-bis, varato il 6 agosto 1992, all’indomani di via D’Amelio: subito dopo, 532 mafiosi furono prelevati dai penitenziari ordinari e tradotti su aerei militari nei supercarceri di Pianosa e Asinara. Cosa che non sospettavano fino a pochi giorni prima. Dopo la sentenza di ieri, vanno subito risarciti e possibilmente scarcerati con tante scuse. Sennò saremmo di fronte alla solita, vecchia, vomitevole giustizia di classe immortalata da Trilussa: “La serva è ladra, la padrona è cleptomane”.

“Droga e cinema, la stessa diffusione e guadagni simili”

Dal Messico dei cartelli alla Calabria degli ’ndranghetisti, passando per gli americani che mettono in acqua la portacontainer: la droga non si consuma, ma viaggia. Dal libro di Roberto Saviano, ZeroZeroZero è una serie originale Sky prodotta da Cattleya: al via il 14 febbraio, tutti i venerdì due episodi dalle 21:15 su Sky Atlantic e NOW TV. Al timone c’è Stefano Sollima, figlio d’arte (il Sergio di Corri uomo corri e Sandokan), showrunner seriale (Romanzo criminale, Gomorra), emigrato a Hollywood con Soldado.

Sollima, droga e cinema che condividono?

L’enorme diffusione. E i possibili guadagni.

L’evasione no?

Una volta risolto il problema dell’alimentazione e dell’accoppiamento, gli esseri umani hanno cercato in giro qualcosa con cui stordirsi: ovunque, è parte di noi.

La droga è parte di noi?

In alcune epoche l’alcool era proibito e la cocaina no: la gente assumeva oppio facendo finta fosse sciroppo per la tosse, però non poteva bere. Oggi l’alcool è socialmente accettato, si cambia e si cambierà ancora, di fatto da quando gli uomini sono su questo pianeta hanno cercato di sconvolgersi in ogni modo.

Esiste qualcosa che unisce più della droga?

L’amore.

In ZeroZeroZero si parlano sei lingue (inglese, spagnolo, francese, italiano, wolof, arabo), ma l’Esperanto è la coca.

È la lingua universale, un fenomeno globale: muove miliardi di euro che vengono reinvestiti nel tessuto socio-economico, si trasformano in denaro pulito che genera forza lavoro. Non è mai stato rappresentato così.

Purezza ed effetto stupefacente, per lei?

La purezza dell’idea di base e l’onestà con la quale la persegui, qui la pretesa di voler girare nei posti dove quello che stai raccontando realmente accade. Poi, il cinema deve provocare stupore, sorprendere.

È lo showrunner della serie, ossia?

Normalmente è lo scrittore che fa da capoprogetto, coordina le attività degli sceneggiatori e tutela continuità e omogeneità nel lavoro dei filmmaker. Io sono uno showrunner atipico: regista, collaboro alla scrittura e mi circondo di cineasti che rendo autonomi, come già in Gomorra. Janus Metz e Pablo Trapero sono parte integrante del progetto fin dall’inizio.

Cosa direbbe suo padre?

Penso che sarebbe contento, anche orgoglioso, il mio cinema è molto vicino come anima a quello che si faceva in quegli anni.

In quegli anni, a dirla tutta, si chiamava cinema di serie B…

Non ho mai creduto alle definizioni, considerare Il Padrino un film di genere sarebbe una banalità: semplicemente, penso che un film sia bello o no.

E la serie B?

Esiste solo come lo prendi: un film d’autore, quando è fatto per pagare l’affitto, sempre di serie B è.

Eppure, in Italia si divide ancora tra cinema d’autore e cinema di genere.

Be’, sempre di meno. Quando ho cominciato vent’anni fa si realizzavano film d’autore o commedie di derivazione cabarettistica e televisiva, qualsiasi altra cosa era bandita per legge. Oggi è tutto più sfumato, ci sono autori che fanno un cinema di intrattenimento locale che diventa improvvisamente globale, traducono una specificità culturale in un racconto che interessa il mondo intero.

Facciamo i nomi?

Sorrentino, Guadagnino, Garrone, Matteo Rovere: oggi il panorama è più confortante, all’estero ci vedono.

Temi internazionali: Joaquin Phoenix ha stigmatizzato il razzismo sistemico di Hollywood, condivide?

Sicuramente ha ragione lui.

E l’action da Tom Clancy Without Remorse che sta montando a Roma?

Il regista è italiano, il protagonista Michael B. Jordan (Creed, ndr) e tre quarti del cast afroamericani, il musicista irlandese.

Donne?

Anche loro sono discriminate nell’industria: quante registe ci sono?

Le quote rosa servono?

Non puoi agire per legge, devi smuovere le coscienze. Probabilmente i miei figli sentiranno molto più normale interagire con persone con orientamento sessuale, colore della pelle diverso, rispetto a quel che è stato per la mia generazione.

Non è da tutti fare due film negli Usa.

Però bisogna resistere. Devi stare attento a non farti distrarre dal contesto: Hollywood è un attimo che ti perdi. Ti propongono dei film di franchising, poi ci pensi… ‘io c’entro qualcosa?’ No, e quindi non lo fai.

L’adattamento del videogame spara-tutto Call of Duty è ancora in piedi?

Abbiamo scritto la sceneggiatura con Scott Silver, quello di Joker, ma è rimasta lì: Activision non si sente ancora pronta ad allargare l’universo COD al cinema.

Non si fa?

E chi può dirlo? La sceneggiatura di Without Remorse è del 1996. Funziona così, un giorno ti chiamano: ‘Si fa’ e l’indomani sei sul set.

@fpontiggia1

Nello Santi, il direttore custode della tradizione e grande battutista

In questi giorni il mondo musicale ha subito una grave perdita. Il 6, a ottantotto anni, è scomparso Nello Santi. Era un direttore d’orchestra di straordinarie qualità: preparazione musicale, gesto, memoria, non gli mancava nulla. In ispecie, era un vero custode della Tradizione dell’Opera italiana. Uso Tradizione con la maiuscola, giacché sovente il vocabolo denota tutta una serie di cattive abitudini e di violazioni del testo che si tramandano diventando tradimenti. Nei suoi anni migliori, il rispetto del testo, in Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, a altri Maestri, era una delle sue preoccupazioni principali: doveva lottare contro l’opposizione o l’ignavia degli orchestrali e soprattutto dei cantanti. Alla Fenice, in anni lontani, aveva protestato persino Joan Sutherland … Inoltre, era un carattere amabilissimo e un grande battutista. Nato ad Adria, era rimasto uno spirito goldoniano. Ma s’era trasferito a Zurigo da una vita, aveva sposato una svizzera e da quel centro faceva i suoi giri internazionali.

Qualcuno, più o meno bene, lo ha commemorato, festival di San Remo permettendo. Vorrei qui raccontare un episodio che mi riguarda in relazione a lui. Infatti era uno dei pochissimi amici che io tra i direttori d’orchestra avessi. Nel 2002 aveva compiuto settant’anni, e al teatro di Zurigo si fece un concerto-festa in suo onore da lui diretto. Io mi ci recai per conto del Corriere della Sera, ove allora lavoravo, e gli feci anche un’intervista che suscitò molta sorpresa: spesso i direttori di grande talento sono considerati dei routiniers, e si tende a privilegiare i veri o falsi ”intellettuali”. Se ricordo che si faceva i difficili con un gigante come Oliviero de Fabritiis, che era capace di cogliere l’errore del cantante prima che si verificasse, correggendolo in anticipo, e che concertando a Napoli la Salome di Strauss protestò tre professori di celesta, cosa che non aveva fatto nemmeno Karajan….

Ero sceso nel delizioso Hotel Baur au Lac, che aveva ospitato anche Wagner. Al concerto cantava Carlo Bergonzi, settantottenne: era sempre un angelo! Ero in compagnia d’un amico napoletano, un otorinolaringojatra ch’è in realtà un clinico completo. Durante la seconda parte del concerto venni preso da una crescente angoscia, il cuore mi batteva all’impazzata. In breve, credetti di essere in preda a un infarto. Il mio amico mi accompagnò alla clinica universitaria. Alla reception mi chiesero la carta di credito, e se non l’avessi avuta potevo morire di fronte al bancone, non sarei stato soccorso. Avevo quella aziendale; la usai e poi il Corriere mi chiese il rimborso. Il medico di turno era una arcigna signorina la quale, per ragioni politiche, si rifiutava di parlare in tedesco o in francese, ma usava solo il dialetto locale, detto Schwyzertüütsch, o Svizzero tedesco. Quindi, se avessi davvero avuto un infarto, potevo morire anche alla seconda tappa. San Gennaro volle che ci fosse un’infermiera di Battipaglia. Il dialogo si svolse con lei che mi faceva da interprete. “Bella figliò, dice vicino a sta stronza ca me fa male ‘o core…”. “Nun ve capisco bbuono, parlate cchiù facele!”.

Mi misero l’ossigeno, mi diedero qualcosa, e dopo un paio d’ore me ne potetti andare. Avevo recitato una parte di Molière, Le malade imaginaire. Santi e Bergonzi mi aspettavano ancora, inquieti all’uscita del teatro. Poi il Maestro cucinò a casa per me e il professor Piantedosi. Se debbo essere sincero, mi auguro che la dottoressa agit-prop abbia preceduto nella tomba il grande direttore, sebbene fosse giovane.

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“Amelia, i suoi versi sonori tra gli oracoli e le spie Usa”

“Avent’anni, nel 1950, Amelia visse in una Roma che era un covo di spie della Cia. Gli americani controllavano gli artisti in odore di comunismo. Ma le denunce di Amelia non venivano prese in considerazione a causa della sua schizofrenia paranoide. Fu sempre vittima della Storia: dall’assassinio del padre Carlo, esule antifascista, alla fuga da ebrea in un sobborgo di New York a bordo di una nave mercantile”.

Renzo Paris, poeta e romanziere, è impegnato da tempo in un prezioso recupero della memoria del nostro Novecento letterario. Dopo i volumi dedicati a Moravia, Silone, Pasolini, torna in libreria con Miss Rosselli, edito da Neri Pozza. Protagonista della sua ultima fatica è Amelia Rosselli, reputata dalla critica una delle voci più alte della nostra poesia e i cui versi sono stati consacrati in un Meridiano. “Il prossimo 28 marzo avrebbe compiuto 90 anni”, ricorda commosso Paris, evocando quel fatale 11 febbraio 1996, quando l’amica poetessa si gettò dal ballatoio della sua mansarda in via del Corallo, una strada vicina a Piazza Navona. “Era depressa e tormentata da un sedicente Parkinson. Viveva in ristrettezze economiche, tirava avanti con il sussidio della Bacchelli. Forse nessuno avrebbe potuto salvarla. Si suicidò proprio l’11 febbraio, come trentatré anni prima la sua amata Sylvia Plath”.

Paris, lei racconta che Amelia Rosselli era ossessionata dai servizi segreti Usa.

Suo cugino, Aldo Rosselli, mi raccontò che passò tutto un pomeriggio sotto un platano del Lungotevere in attesa che Amelia scendesse dai rami. Si era rifugiata lì per scampare ai droni della Cia. Amelia riferiva sempre di un tizio biondo che la pedinava giorno e notte. Ricordo un viaggio in treno da Roma a Milano con la mia fidanzata di allora. Quando Amelia seppe che lei lavorava all’ambasciata americana ammutolì e una volta giunti a Milano si dileguò. Andò persino a Mosca a chiedere asilo politico quando l’Unione Sovietica era già in via di dissoluzione.

Nell’ambiente letterario la reputavano tutti una pazza…

Sì, da Moravia alla Morante, era un coro unanime. Nessuno in fondo si scandalizzava degli elettroshock a cui veniva sottoposta. Sulla spiaggia di Sabaudia riferii a Moravia un giudizio di Amelia. Lei sosteneva che Moravia durante il Ventennio fosse un fascista, che aveva rinunciato a combattere il regime. Come punto da una vespa Moravia scattò in piedi e puntandomi il dito sbottò: “Ma lo vuoi capire una buona volta che mia cugina è matta?”. Prima che la Morante mi togliesse il saluto – non amava gli amici intimi di Alberto e non gradì una mia stroncatura a La Storia – sentii pure Elsa dare della matta ad Amelia, la quale dal canto suo bollava Elsa con la taccia sprezzante di “signora borghese”.

Anche un amico fedele come Dario Bellezza scontò il temperamento inquieto di Amelia…

Lei, che lo scoprì e lo introdusse nel mondo letterario, lo accolse nel suo appartamento in affitto che stava vicino a piazza Trilussa. Amico di entrambi, mi ritrovai tra due fuochi di un rapporto burrascoso. Amelia lamentava che i marchettari che Dario introduceva in casa erano ladri e spie della Cia. Dario, che la venerava come una madre, restò deluso quando lei si risolse a cacciarlo di casa. Anni più tardi però ricucirono i rapporti. Con gli uomini ebbe sempre relazioni di breve durata. Penso ai grandi amori della sua vita. Il poeta Rocco Scotellaro, che le insegnò l’etnomusica. Il giornalista Mauro Misul, che interpretò il professore di filosofia in Amarcord di Fellini. Per non parlare dei suoi “amorastri”: da Renato Guttuso a Mario Tobino.

È vero che Rosselli aveva un carisma magico?

Aveva uno sguardo radente. I suoi occhi azzurri, cangianti, contemplavano sia il visibile che l’invisibile. Era una sciamana, consultava I Ching e faceva la medium nel “gioco del bicchierino”. Conosceva il rotolo cinese delle preghiere, a cui si ispirava per le sue poesie che tirava fuori dal buco nero del suo inconscio. Quando, di notte, si sedeva al tavolino, era circondata dai poeti di tutti i tempi. Sì, nel nostro Novecento pochissime figure hanno avuto il suo carisma. Ricordo le sue letture al famoso festival di Castelporziano del 1979. Con i suoi versi tacitò la folla dei minestrones (appellativo mutuato da una pentola gigante di minestrone portata sul palco dai giovani, prepotenti e volgari, che formarono il pubblico di quel reading collettivo). Diversi grandi nomi furono travolti dagli schiamazzi ma non Amelia, l’unico poeta non fischiato.

Se pure il make up di Trump diventa un’arma contro Rula

Dopo che Rula Jebreal è stata a Sanremo e ha raccontato lo stupro subito dalla madre e il suicidio avvenuto anni dopo, c’è stata una tregua apparente.

Qualche giorno in cui i sovranisti, forse, erano troppo presi dal domandarsi perché Rita Pavone non avesse proposto una cover efficace di 24.000 baci, tipo 24.000 bacioni, o perché Ghali sia di origini tunisine ma canti anziché spacciare e nessuno gli abbia mai citofonato per domandargli come mai. Poi, all’improvviso, i sovranisti si sono risvegliati dall’insolito torpore e sono tornati a sparare sul loro bersaglio preferito: Rula Jebreal.

Colei che al Festival ha creato più allarmismo del Coronavirus in Cina, colei la cui presenza ha creato uno stato di agitazione nel Paese che neppure all’avvicinarsi della nube di Chernobyl, colei che si pensava potesse compiere gesti inattesi, sovversivi sul palco, e poi è finita che aveva un più alto tasso di imprevedibilità uno che si chiamava Bugo. E siccome Rula, la scomoda Rula, il personaggio più mal digerito della manifestazione tra tentativi di esclusione e inviti a “parlare solo di donne”, alla fine è stata, forse, la presenza più apprezzata, è finita che bisognava ridimensionarla e delegittimarla, sporcare il telo bianco e imbrattare il suo momento di gloria con polemiche sceme o volgari, a seconda delle fonti.

L’ultima, da un paio di giorni, riguarda un suo tweet in cui commenta un’impietosa foto di Trump con i capelli mossi dal vento e un evidente stacco cromatico tra l’ovale del viso (color zucca) e il collo. Il commento di Rula, per la cronaca, è lapidario: “Il presidente degli Stati Uniti d’America”. Tutto qui. Della serie: non ce lo meritiamo. O almeno, se ce lo meritiamo, che impari a spalmare il fondotinta con la spugnetta in silicone di Melania.

I sovranisti del citofono accanto hanno iniziato a dedicare a Rula una serie di tweet e articoli il cui tema ricorrente è “Rula e il body-shaming contro Trump”. Il body-shaming. A parte che fa già ridere l’idea di Trump nel ruolo della vittima, che è tipo immaginare Romano Prodi nel ruolo del chitarrista accanto ad Achille Lauro, non si capisce bene dove sia la gravità della battuta.

“Intanto la foto è stata diffusa dal team di Trump stesso, ma cosa c’entra il fondotinta col corpo? È make up-shaming?”, commenta Rula quasi divertita dall’inutilità della polemica. Tra parentesi, se c’è qualcuno che ha spesso deriso le donne per il loro aspetto è proprio lo stesso Trump. “Ècosì brutta dentro e fuori. Capisco perchè suo marito l’ha lasciata per un uomo”, disse, tanto per citare un episodio tra i tanti, della giornalista Arianna Huffington.

Prima della foto di Trump, comunque, c’era stata quella di Rula con Weinstein di qualche anno fa e spammata ovunque dai suoi nemici durante Sanremo. Una foto scattata dai fotografi a una prima del film Miral, scritto da Rula e ispirato alla sua vita. “Weinstein ha distribuito il mio film, l’ho incontrato due volte, fine della storia. Ha distribuito i film a mezzo mondo, una foto con lui con significa certo che sapessi quello che poi è emerso. Queste persone cercano pretesti per sminuirmi, non tollerano che il mio monologo a Sanremo abbia toccato il cuore della gente, devono buttare fango, distrarre dalla potenza del dibattito sulle donne. Che pubblichino le foto delle donne uccise nelle ultime settimane dagli uomini, anziché quella del mio commento a Trump col fondotinta sbagliato, se vogliono essere utili a qualcosa!”, dice Rula con la tranquillità di chi è abituato a battaglie più importanti.

Poi c’è chi ha polemizzato sui dati citati nel monologo, quelli sulle molestie sul lavoro, nonostante siano dati forniti dall’Istat. Chi ha confrontato il monologo col suo vecchio libro La strada dei fiori di Miral, affermando che nel libro ci sono particolari diversi da quelli raccontati a Sanremo, solo che il suo libro è nella categoria “fiction”, non “autobiografia” e lei stessa afferma che era solo ispirato alla sua vita.

Ci sono stati i titoli sprezzanti dei giornali, tra tutti “La Jebreal è più brava come valletta”, come se raccontare la storia di uno stupro e di un suicidio fosse roba da stacchetto di Striscia la notizia. C’è stata la nota giornalista che di mestiere ormai sussurra la strategia politica a Salvini che ha twittato “questo femminismo peloso di Rula Jebreal!”, perché in effetti parlare di violenza sulle donne è roba da femministe rompicoglioni, le altre amano essere riempite di mazzate e fate monologhi su questo, non su quelle che si lagnano.

Infine, sul fronte “sovranisti vs Jebreal” c’è un’unica buona notizia. Anche Diego Fusaro se l’è presa con Rula e il suo monologo. Ha detto: “Un tema portante è stata la dissacrazione e la profanazione del sacro: da un lato abbiamo assistito alla ripetizione sempiterna del verbo unico globalista nel sermone di Rula Jebreal. (…) Per il discorso genderisticamente corretto il maschio deve essere colpevole e discriminato perché la nostra deve essere l’epoca senza uomini e senza padri”.

Premettevo che l’intervento di Fusaro è una buona notizia perché anche il sovranista più misogino, quello che toglierebbe di nuovo il diritto di voto alle donne e le manderebbe tutte a fare le mondine nel Vercellese, dopo aver ascoltato il monologo stracciamaroni di Fusaro, ha rivalutato quello di Rula. Dunque, un bel colpo per le femministe.

Un bel colpo per la Jebreal che al momento esce indenne dallo spietato dossieraggio della destra, quella destra “alla Meloni” che trovava ingiusta, sul palco, la presenza di Rula “senza contraddittorio”. In effetti Amadeus, l’anno prossimo potrebbe invitare di nuovo Rula e sostituire Fiorello con un altro comico: Bill Cosby. Peccato non averci pensato prima.

“Controlli nei porti anche sulle navi dall’Ue”

L’Italia stringe i controlli anche sui porti. Alle navi che faranno richiesta di attraccare in uno scalo della penisola verrà richiesta la “ libera pratica sanitaria”. Prima di ottenere il via libera un’imbarcazione “comunica all’Ufficio di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera del ministero della Salute (Usmaf) la situazione sanitaria di bordo – ha spiegato il ministro Roberto Speranza in audizione al Comitato parlamentare di controllo sull’accordo di Schengen – e richiede una specifica autorizzazione allo sbarco di passeggeri, dell’equipaggio e a tutte le operazioni commerciali”.

“La misura, finora applicata sistematicamente solo alle navi extra Ue, dal 6 febbraio viene riservata anche ai natanti provenienti da un Paese dell’Unione – fa sapere la Protezione Civile – e alla procedura sono soggette le navi da crociera, i traghetti e i mercantili”. “Il procedimento, ha spiegato ancora Speranza, “può comportare anche l’ispezione e la visita medica a bordo in tutti i casi sospetti”.

La gestione commissariale dell’emergenza lavora a pieno ritmo. Con i termoscanner installati negli aeroporti di Roma, Malpensa e Cagliari e gli 800 tra medici e volontari della Protezione civile impegnati con i termometri a pistola negli altri scali, dal 5 al 10 febbraio sono stati effettuati controlli su 5 mila voli e 620 mila passeggeri. L’allerta resta massima e, sulla base dell’evoluzione della situazione, il comitato tecnico-scientifico del ministero della Salute potrà vagliare ulteriori misure di prevenzione: allo studio c’è l’ipotesi di estendere le verifiche alle stazioni dei treni. L’obiettivo resta quello di evitare di alimentare psicosi e timori ingiustificati. “Come ha evidenziato il direttore dell’Ecdc (European Centre for Disease Prevention and Control, ndr) all’Europarlamento il 4 febbraio, non ci sono allo stato elementi tali da giustificare una sospensione dell’accordo di Schengen” sulla libera circolazione, detto ancora il titolare degli uffici di Lungotevere Ripa.

A oggi restano tre i casi confermati in Italia, tutti in isolamento all’Istituto Spallanzani, a Roma: quello del ricercatore rientrato da Wuhan e la coppia di coniugi cinesi, le cui condizioni sono in miglioramento.

Il governo, intanto, promette aiuti alle imprese in difficoltà con l’export: “Mettiamo a disposizione 300 milioni”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Oms: “Coronavirus peggio del clima e del terrorismo”

“Un virus può creare più sconvolgimenti politici, economici e sociali di qualsiasi attacco terroristico”. Alza i toni e il livello di allarme il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel giorno in cui il numero delle vittime oltrepassa la soglia psicologica delle mille unità. “Il mondo si deve svegliare e considerare questo virus come il nemico numero uno”, ha affermato nel briefing quotidiano con la stampa a Ginevra davanti a 400 scienziati arrivati da tutto il mondo per fare il punto sulla malattia. Cui è stato dato il nome ufficiale di Covid-19, espressione sintesi di tre termini: “corona”, “virus” e “disease”, morbo.

In Cina il totale dei contagiati ieri era salito a quota 43.144, quello delle vittime a 1.018. In crescita anche i decessi in una sola giornata, con il record di 108 morti. Numeri ufficiali diramati nelle ore in cui il tweet di un giornalista di Hong Kong fa discutere la comunità scientifica. Citando il 10 febbraio quello che definisce uno testo dell “Chinese National Health Commission” Alex Lam, cronista dell’Apple Daily, riporta una presunta indicazione delle autorità: “Nel momento in cui le ‘persone infette ma senza sintomi’ iniziano ad avere manifestazioni cliniche, correggere tempestivamente in ‘caso diagnosticato’”. “In altre parole, chi ha il test positivo, ma non ha sintomi, non rientra nel conto”, ha scritto il virologo Roberto Burioni sul suo sito Medical Facts, commentando il fatto che “il numero dei casi di coronavirus sembrava salire con meno intensità negli ultimi giorni” e puntando i dito contro Pechino: “Probabilmente la Cina bara sui dati”.

“Non è una notizia ufficiale veicolata dall’Oms – spiega al Fatto Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene e Medicina preventiva dell’università di Pisa – secondo il reporter ci sarebbe stato un cambiamento nella definizione di ‘caso’: mentre prima si segnalavano tutti quelli positivi al test, dal 7 febbraio i medici sarebbero stati invitati a verificare che i casi notificati presentino anche i sintomi. Ciò significa che alcuni di quelli segnalati come ‘coronavirus’ possono essere stati riconsiderati e che da ora in poi i casi senza o con pochi sintomi non specifici non potrebbero non essere segnalati all’Oms. In questi termini possiamo parlare di sottostima”.

Lunedì Ghebreyesus ha utilizzato l’espressione “punta dell’iceberg” per sottolineare l’aumento dei casi nei Paesi confinanti con la Cina: nelle ultime 24 ore ne sono stati segnalati altri due in Vietnam.

“È probabile che alcune catene di contagio non siano state identificate subito – prosegue Lopalco – Ipotizziamo che a dicembre qualche cittadino di Wuhan si sia recato a Taiwan e lì abbia infettato un suo abitante: questi casi sono passati inosservati. Ipotizziamo che ora, agli inizi di febbraio, dopo tre tempi di incubazione di 14 giorni, spuntino dei casi a Taiwan: difficilmente questi casi vengono messi in relazione a un evento collegabile a Wuhan, perché si riferiscono a trasmissioni secondarie che sono avvenute all’interno dell’isola”. “Quindi quella che vediamo oggi è solo la punta di un iceberg della diffusione di un virus che sta scorrendo sottotraccia – conclude Lopalco – È il motivo per cui l’Oms è più preoccupata”.

Adesso anche il Consiglio d’Europa stronca il Jobs act: “Violati i diritti”

Le tutele previste dal Jobs act per chi è licenziato ingiustamente sono deboli. Insufficienti a riparare il danno subito dal lavoratore e a scoraggiare gli imprenditori dal cacciare persone senza valida ragione. Un nuovo colpo alla riforma del lavoro varata dal governo Renzi nel 2015: questa volta viene dal Comitato europeo dei Diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, per il quale la legge italiana vìola la Carta sociale europea.

Quando cinque anni fa l’esecutivo a guida Pd ha cancellato l’articolo 18, sperando così di aumentare l’occupazione, ha sostituito il diritto alla reintegrazione con i risarcimenti in denaro. Se l’allontanamento del lavoratore è illegittimo, in pratica, l’obbligo di riassumere è rimasto solo quando c’è discriminazione o il motivo riportato dall’azienda è inesistente. Per gli altri casi, il datore è tenuto a pagare un indennizzo di massimo 36 mensilità di stipendio. Proprio questo dettaglio è alla base della decisione del Ceds: l’esistenza di un tetto – le 36 mensilità, appunto – lega le mani ai giudici anche quando i danni creati al lavoratore richiederebbero somme più alte. Ecco perché il Comitato ha dato ragione al ricorso della Cgil, curato dall’avvocato Carlo De Marchis. A difendere invece il Jobs act in questa causa c’era anche il governo francese.

Il problema, per il Ceds, non è aver cancellato l’articolo 18, ma non averlo rimpiazzato con norme altrettanto efficaci a disincentivare i licenziamenti ingiusti. Non è la prima pronuncia che sancisce la violazione di diritti da parte del Jobs act. La prima versione della legge prevedeva un risarcimento che andava da un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità, ed era agganciato solo all’anzianità del lavoratore. Poi è arrivato il decreto Dignità che ha aumentato a sei il minimo e a 36 il massimo, mantenendo il meccanismo ancorato all’anzianità. Nel 2018, la Corte costituzionale ha travolto entrambe le leggi: il sistema degli indennizzi fissi non è adeguato perché non considera il danno effettivo che ha subito il lavoratore. Ora i giudici hanno discrezionalità nel quantificare i risarcimenti, con il limite minimo e massimo.

Per il Comitato europeo dei Diritti sociali è ancora troppo scarso; la decisione di questo organo, però, non è vincolante. “È un’opinione tecnica autorevole”, ha detto la Corte costituzionale. Quindi da un lato potrebbe orientare future sentenze, dall’altro rafforzerà i partiti che, d’accordo con la Cgil, chiedono di rivedere il Jobs act e far tornare l’articolo 18. A breve, arriverà la sentenza della Corte di Giustizia europea su due ricorsi che chiedono di ripristinare l’obbligo di reintegrazione almeno per i licenziamenti collettivi illegittimi.