Napoli-Bari, sei miliardi per risparmiare mezz’ora

Le Ferrovie (RFI) hanno già avviato i lavori per la linea Alta Velocità/Alta Capacità Napoli-Bari, con un investimento previsto di oltre 6 miliardi. Una cifra imponente, più del costo per l’Italia del cosiddetto “Tav” Torino-Lione.

L’obiettivo è di ridurre il tempo di percorrenza tra le due città a poco più di 2 ore: un bel progresso rispetto alle 3 ore e 20 che si impiegano oggi col collegamento più veloce e alle 4 ore medie di viaggio. Se si guarda però l’orario dei treni si vede che oggi, per andare da Napoli a Bari occorre cambiare treno a Caserta; da Caserta a Bari il treno più veloce fa poi due fermate.

Se le Ferrovie introducessero un treno “freccia bianca” diretto Napoli-Bari senza cambi né fermate intermedie, il tempo potrebbe scendere già da subito, con la linea esistente, a circa 2 ore e 40 minuti. Sorgono allora due domande: perché questo servizio diretto non è stato ancora introdotto? E poi, vale la pena spendere 6 miliardi per accorciare di circa mezzora il tragitto?

Le maggiori critiche a questo progetto (come a quelli per l’AV da Salerno sino all’interno della Sicilia per i quali sono previsti addirittura 40 miliardi!) sono che non v’è sufficiente domanda di traffico per giustificare l’investimento.

Ci si dovrebbe allora aspettare che un operatore ferroviario attento alla spesa, prima di dar corso all’investimento nella nuova linea, istituisca un servizio diretto anche proprio per testare quanto sia o possa crescere il traffico passeggeri tra le due città.

Prima di investire miliardi, in questa come in molte altre linee, non sarebbe opportuno sfruttare al meglio le potenzialità delle linee esistenti?

La ministra De Micheli ha promesso che un servizio diretto verrà avviato tra un paio di mesi, anche se solo con una coppia di treni al giorno, il che suggerisce che le Ferrovie non si attendono l’assalto di folle desiderose di andar su e giù tra le due città.

Ma perché non è stato fatto prima? A pensar male, non sarà che né i politici che hanno promesso di costruire questa linea, né il “partito del cemento” interessato ai lavori non abbiano piacere che un treno diretto possa confermare la scarsità del traffico? D’altronde, perché altrimenti si continua a dire che questa linea AV/AC è “strategica” ma si evita di sottoporla a rigorose analisi costi-benefici?

La linea attuale è utilizzata anche per le fermate intermedie (Caserta, Benevento, Foggia, Barletta) che dovranno continuare a essere servite con treni tradizionali, visto che avrebbe poco senso un treno AV con fermate a brevi intervalli. Esistono peraltro servizi di autobus molto competitivi sia come prezzi che per la capacità di servire il territorio, che non gravano sulle finanze pubbliche.

Le persone che vorranno andare in treno direttamente da Napoli a Bari, senza fermate, saranno davvero tante in modo da riempire le molte decine di treni al giorno che potrebbero giustificare una linea di AV? Considerando l’esiguità del traffico attuale appare molto elevato il rischio che una cifra imponente venga investita per una linea che resterà scarsamente utilizzata.

L’investimento è tutto finanziato dallo Stato, cioè dalle imposte (o dal debito pubblico). Pertanto, anche se si rivelasse a reddito nullo, la perdita finanziaria implicita non verrà rilevata in alcun documento, come avverrebbe invece se fosse un’opera finanziata con logica di mercato, come ad esempio per le autostrade che devono remunerare i fondi investiti. È assai probabile che in questo caso le tariffe riscosse da RFI sui treni in transito saranno a mala pena sufficienti a pagare i costi di manutenzione della linea. Non vi sarà nessun ritorno finanziario per lo Stato: i 6,2 miliardi girati come contributo a RFI sono a fondo perduto.

In Italia c’è, da sempre, un fortissimo pregiudizio a favore del “ferro” rispetto alla “gomma”, che viene giustificato richiamando presunti benefici ambientali, per altro invocati acriticamente e che i promotori evitano di stimare e comparare con investimenti alternativi. Sembrerebbe davvero assai difficile giustificare i 6 miliardi per l’AV Napoli-Bari con presunti benefici ambientali, oltre al taglio di mezz’ora nel tempo di percorrenza. Ma forse il vero motivo della passione di tanti per il “ferro” sta proprio nel fatto che i lavori, appaltati sempre allo stesso giro di grandi imprese, vengono interamente pagati a piè di lista da “Pantalone”, senza alcun riscontro nemmeno ex post sull’utilità relativa di queste opere rispetto ad altre. È facile perciò fare promesse elettorali senza il rischio di essere poi contestati.

Un Paese con un debito pubblico così elevato e con un gran bisogno di ritrovare un percorso di crescita dovrebbe puntare su investimenti con redditività alta e veloce. Dove mai potremo andare se continuiamo a impiegare somme imponenti col solo beneficio di far risparmiare mezzora di tempo a qualche migliaio di persone?

Nel governo si auspica l’elaborazione di un progetto per l’Italia del futuro. Un primo passo sarebbe trovare il coraggio di ripensare ai tanti costosissimi progetti del “ferro”, sottoponendoli a rigorose analisi di opportunità, e spostare le priorità da settori tradizionali verso settori con tecnologie innovative e che promettono più rapide crescite di reddito e occupazione.

La norma annacquata dopo il niet dei renziani

La necessità di intervenire sul tema era nata qualche settimana fa quando due deputati del Pd, Nicola Pellicani e Maria Teresa Di Giorgi, avevano presentato un emendamento al decreto Milleproroghe che cercava di mettere paletti molto stringenti agli affitti brevi per contrastare lo svuotamento dei centri delle città e gli affitti selvaggi tramite Airbnb. La levata di scudi di Italia Viva è stata rapida: polemiche, ritiro dell’emendamento e poi la promessa di cercare quanto prima un compromesso che garantisse tutti gli interessi in gioco. Era anche stato identificato il veicolo: un testo scritto dal ministero dei Beni culturali da inserire nel collegato Turismo alla legge di Bilancio che sarebbe dovuto esser pronto circa dieci giorni fa, ma che ancora non s’è visto (complice anche l’emergenza Coronavirus). Una bozza in verità c’è, ma è al vaglio degli uffici legislativi e del ministero dell’Economia.

La norma ha un unico punto dirimente: fissa a livello nazionale il confine tra gli affitti “per arrotondare” e quelli che invece costituiscono una vera e propria attività d’impresa, quindi da trattare e tassare come le altre del settore turistico. Il tetto massimo per gli affitti brevi è fissato in “tre unità immobiliari”, che potranno essere sia case intere sia singole stanze, e non fa distinzione tra proprietà e gestione, andando così a regolare anche le società che fanno da intermediari tra i proprietari e i clienti, pur ricorrendo alle piattaforme web (in pratica, quelle a cui si affida la casa perché si occupino dell’affitto). La legge che regola gli affitti brevi, seppur finora male applicata, prevede infatti agevolazioni fiscali con una cedolare secca al 21 per cento.

“La norma in arrivo va al nocciolo della questione – spiega la sottosegretaria Lorenza Bonaccorsi, che ha le deleghe al Turismo – Airbnb era nato per arrotondare, ma oggi è diventato il mezzo con cui qualcuno guadagna come se gestisse catene alberghiere mentre paga molte meno tasse”. E ci sono anche molti meno vincoli.

Si è così cercato di trovare una via di mezzo. “I comuni – spiega ancora Bonaccorsi – hanno comunque la loro autonomia, possono stabilire un tetto massimo di giorni all’anno in cui affittare camere o case”. Lo stesso vale per le regioni, che continuano ad avere una loro autonomia, dalle regole sui B&B all’assegnazione dei codici identificativi obbligatori per ogni struttura ricettiva, alberghiera ed extralberghiera, senza i quali non è possibile pubblicare annunci di affitto su nessuna piattaforma. L’idea delle settimane scorse era però trovare una legge che superasse le frammentazioni territoriali. “Dico ‘parliamone’ – conclude Bonaccorsi – Intanto questa norma è un primo importante presidio”.

Questa città (non) è un albergo: l’affare per pochi di Airbnb

Il fenomeno Airbnb, nato per favorire lo scambio dal basso, è diventato altro: ha riscritto la mappa del turismo italiano con i centri storici delle principali città diventati giganteschi dormitori, mentre si inaspriscono le polemiche su come regolare un’ascesa che sembra inarrestabile. A discapito del concetto di sharing economy, l’economia della condivisione, il grosso dei guadagni di Airbnb – 2 miliardi di euro lo scorso anno, il doppio di quello raggiunto dalle 10 maggiori catene alberghiere italiane – non viene condiviso e fa ricchi solo 200mila host, di cui oltre la metà rappresentati da grandi agenzie e proprietà immobiliari, che in Italia gestiscono gli oltre 400 mila appartamenti in offerta. A Venezia, ad esempio, il 26% dei 5 mila host amministra più dei due terzi degli 8.500 annunci. A Firenze più del 60% dei quasi 12 mila annunci, di cui 8 mila solo nel centro storico, sono pubblicati da multi-host. Su Milano, si parla di 17 mila host attivi con 17.500 annunci. L’Italia è il terzo mercato per Airbnb dopo Stati Uniti e Francia.

Numeri che per Federalberghi dimostrano che “sostanzialmente Airbnb svolge un ruolo di agente immobiliare o turistico, senza però dover rispettare le norme per questa attività”. Per legge non dovrebbe essere così: la più grande piattaforma mondiale degli affitti online è un “servizio della società dell’informazione”, non un’agenzia immobiliare, ha sancito lo scorso dicembre la Corte di Giustizia dell’Ue in una sentenza legata a un ricorso presentato in Francia. E così in Italia la multinazionale assolve solo il compito di sostituto di imposta, versando al Fisco la cedolare secca (21%) dovuta dal proprietario dell’immobile. Lo Stato, però, oltre a non conoscere i nomi di chi affitta appartamenti presenti sul sito di AirBnb, non è in grado di controllare se sono state pagate le imposte.

Anche se nei profili degli host presenti su Airnbn ci sono foto di persone, dietro ci sono per lo più società specializzate che contattano i proprietari degli immobili offrendo la loro gestione in cambio di commissioni con percentuali che – spiegano i ricercatori dell’Università Sapienza e del Ladest-Laboratorio dati economici storici territoriali di Siena, Filippo Celata e Antonello Romano – arriva fino al 30% del prezzo pagato. “Si tratta soprattutto di seconde case che – sottolinea invece il country manager di Airbnb Italia, Giacomo Trovato – se non ci fosse stato il boom degli affitti brevi sarebbero rimaste sfitte”. Ma tutto questo ha un altro costo.

Il numero crescente di affitti brevi turistici sta determinando una contrazione dell’offerta di prime case, l’aumento dei canoni di locazione e crescenti difficoltà per famiglie e studenti di trovare una casa in affitto sia nei centri storici, ormai in mano agli host, che nelle periferie dove i prezzi ovviamente sono aumentati. Un fenomeno che Celata e Romano chiamano airification, la progressiva hotelizzazione dei centri storici, dove la residenza è sempre più in calo. “Tra il 2012 e il 2018, emerge dall’ultimo report presentato dai due ricercatori, la popolazione da Piazza Duomo agli Uffizi, da San Lorenzo all’Oltrarno – circa 2,3 km quadrati di Firenze – è passata dal 18,2% al 17,3% con quasi il 77% delle case dentro le mura medievali in affitto sulla piattaforma. A Roma, invece, dove quest’ultima percentuale sfonda il 60%, tra centro storico e Trastevere (5,78 km quadrati), dal 2014 al 2018, la quota di romani residente si è ridotta del 30-40%”.

“Airbnb non è solo un mediatore”, prova a spiegare Sarah Gainsforth nel libro Airbnb città merce, dove analizza le ricadute economico-sociali di un fenomeno non regolamento né negli altri Paesi né in Italia, dove solo un migliaio di Comuni ha raggiunto accordi bilaterali con Airbnb applicando la tassa di soggiorno direttamente dalla piattaforma. Nei restanti 7mila Comuni, l’imposta va ancora riscossa e versata dall’host. Così lo Stato incassa poco. Senza parlare delle tasse sugli utili pagate da Airbnb: solo il pressing attuato negli ultimi anni ha dato qualche frutto. Dopo un’interlocuzione con il Fisco, nel bilancio 2018 Airbnb ha registrato perdite per 6,3 milioni di euro dovute a tasse pagate per 6,5 milioni, contro i 400 mila euro sborsati dal 2012 al 2017. Il fenomeno non è nuovo e coinvolge altri giganti dell’online da Twitter a Google, da Tripadvisor ad Amazon. In Europa, invece, le altre grandi città (Madrid, Barcellona, Parigi, Berlino e Amsterdam) in attesa che Bruxelles scriva una legge per regolamentare il fenomeno, sono corse ai ripari inasprendo le leggi nazionali sulla durata massima dell’affitto e mettendo un tetto al rialzo dei prezzi dei canoni.

 

VENEZIA Tra blitz e abitanti che arrotondano

Oltre 8 mila annunci, ma nessuno controlla

Il blitz anonimo è di fine dicembre. In una notte sulle porte di case e palazzi sono apparsi migliaia di bollini, con il simbolo Airbnb trasformato in un cappio, al centro di un Qr Code. Un modo per marchiare le speculazioni che riempiono Venezia di turisti, ma la svuotano di residenti. “Noi la battaglia l’abbiamo fatta nel 2008, ma evidentemente era un tentativo di arginare una marea che ha invaso tutte le città d’arte”. Matteo Secchi è presidente di Venessia, un’associazione che da 20 anni combatte per impedire che Venezia diventi un luna-park in mano agli affaristi. “A quell’epoca era pronta una legge regionale con tre articoli micidiali. In particolare quello che consentiva agli alberghi di aprire dependances senza vincoli di distanza dalla sede principale o di numero, a parte quello di essere nello stesso Sestiere”. Cos’avete fatto? “Siamo andati in consiglio regionale a spiegare che la città non si poteva svendere. Ci hanno risposto che a chiederlo era stato il consiglio comunale, con sindaco Massimo Cacciari e vice Michele Vianello”. La città, a vocazione mercantile, è sempre stata tiepida su queste battaglie. “Nel 2010 ottenemmo dalla Regione che ogni B&b dovesse attaccare una targhetta identificativa – continua Secchi –. Ma sono palliativi. Ormai la situazione è fuori controllo. Bisognava intervenire prima, adesso gli annunci delle offerte sono già oltre 8 mila”. Chi controlla le attività? “In buona parte società a scopo di lucro. Ma ci sono anche veneziani, che mettono a disposizione una stanza per compensare il caro-affitti”.
Giuseppe Pietrobelli

 

BOLOGNA Le proteste di Forza Italia e Iv

Fermate le licenze per i prossimi tre anni

Sul tema Airbnb, Italia Viva e Forza Italia trovano nuove corrispondenze anche nella città italiana che per prima si è posta il tema di una regolamentazione degli affitti brevi. “Siamo contro il comitato bolscevico anti Airbnb”, tuona la presidente della sezione bolognese di Confedilizia Elisabetta Brunelli, pronta a dare battaglia. “Italia Viva ha fatto saltare la lobby anti-proprietaria, salvando gli host e la libera circolazione degli immobili da dedicare al turismo. Chiederemo al governatore Stefano Bonaccini di eliminare la vecchia legge sul turismo e di continuare nel processo di liberalizzazione che potrà permettere al settore turistico di essere competitivo così come a Firenze”. Insomma, è guerra aperta contro il comitato cittadino bolognese “Pensare urbano” che la scorsa settimana ha inviato un appello al governo per chiedere che venga fatta al più presto una norma dedicata alla regolamentazione degli affitti brevi. All’iniziativa hanno aderito quasi 80 tra associazioni, esperti del settore e anche politici, tra cui l’assessore comunale al Turismo Matteo Lepore che ha congelato per i prossimi tre anni le nuove licenze nel centro storico di Bologna. Il fenomeno Airbnb a Bologna è piuttosto recente ma già ben radicato: come emerge da Inside Airbnb, ci sono oltre 3.500 annunci, al prezzo medio di 76 euro a notte e con un fatturato stimato di 537 euro al mese. I 65,9% degli annunci – praticamente due su tre – riguarda case o appartamenti interi, mentre solo il 32,2% camere private e appena il 2% camere condivise.
Sarah Buono

 

FIRENZE Firmato l’appello anti-app

Centro saturo, ci sono vie senza i residenti

Nelle vie del centro di Firenze la gorgia toscana è quasi sparita. I residenti non ci sono più: adesso conta solo la rendita immobiliare. Una volta i fiorentini lasciavano i quartieri più centrali per gli studenti. Ora per i turisti. Il tutto grazie ad Airbnb: a Firenze gli annunci sulla piattaforma sono 11.262 ma gli “host attivi” (ovvero coloro che affittano camere o interi appartamenti) sono la metà, 6062, di cui solo l’11% mette a disposizione più di quattro camere. Il 72,8% di tutti gli annunci si concentra nel Quartiere 1, quello del centro storico che racchiude la porzione che va dal Piazzale Michelangelo ai viali. Per questo Firenze e Bologna hanno firmato l’appello di molte città europee per “limitare gli affitti di Aribnb” con norme chiare su tassazione, registrazione e fornitura dei dati. Lo spopolamento dei residenti autoctoni vien da sé: secondo l’anagrafe, nel centro storico dove ogni anno arrivano 18 milioni di turisti vivono solo 18.612 fiorentini. “Ormai siamo saturi – racconta Maurizio Sguanci, proprietario della storica gioielleria di famiglia e Presidente del Quartiere 1 – nel centro storico ci sono strade dove, nella numerazione dall’ 1 al 12, c’è solo un residente stabile e questo incide molto sulle botteghe fiorentine. Il centro ormai ha raggiunto cifre così esagerate da richiedere un intervento per dirottare B&B e Airbnb verso la periferia, magari lungo la linea della tramvia che permette comunque di raggiungere il centro in pochi minuti”.
Giacomo Salvini

 

NAPOLI Fitti raddoppiati, quartieri stravolti

“Così non saremo più patrimonio Unesco”

Uno dei motivi della turistificazione selvaggia del centro storico di Napoli deriva da un clamoroso ritardo normativo: la legge regionale della Campania sui bed and breakfast è la più vecchia d’Italia, risale al 2001. Concepita, scritta e approvata quando le piattaforme web per le prenotazioni alberghiere semplicemente non esistevano. Ora il singolo operatore ha gioco facile nell’aggirare regole antiche e inadeguate. In Campania si stabilì che un B&B può avere massimo quattro camere e un affittacamere sei. Ma è sufficiente navigare un po’ per trovare decine di B&B da sei camere e oltre: per godere di una tassazione agevolata di cui non avrebbero diritto. Sono persino registrate allo Sportello delle attività produttive del Comune di Napoli. Nessuno controlla perché le liste sono ferme al 2015. E così si è compiuto l’assalto. Il 70% delle circa 7500 offerte di fitti brevi e temporanei per turisti si è concentrato nel centro storico: palazzi d’epoca, urbanistica di pregio incastonata tra chiese e musei, trasformata in strutture recettive. Un volume di affari da capogiro, che sta espellendo altrove i residenti: sotto la spinta dei facili guadagni in caso di riconversione, negli ultimi 15 anni il canone medio di chi vive in fitto è raddoppiato. Di qui l’allarme di Antonio Pariante del comitato civico Porto Salvo: “Se continua così, il centro storico di Napoli perderà il riconoscimento di patrimonio dell’Unesco ottenuto 25 anni fa. Si fondava anche su una caratteristica che lo rendeva unico al mondo: la presenza capillare dei residenti”.
Vincenzo Iurillo

 

Il mercato non risponde al telefono

Un giudice federale ieri ha dato il via libera alla più importante fusione di cui si discute negli Stati Uniti da due anni, quella tra T-Mobile e Sprint, che farà nascere il terzo gigante della telefonia mobile dopo Verizon e AT&T con 100 milioni di clienti. L’operazione è stata benedetta dall’Amministrazione Trump, ma portata in tribunale da una inedita coalizione di 13 procuratori statali più quello di Washington D.C. con una comprensibile motivazione: i servizi di telefonia mobile negli Stati Uniti sono già ora di qualità infima, i prezzi stellari, la portabilità del numero e delle condizioni contrattuali da un’azienda all’altra un incubo. Ridurre la concorrenza nel settore farà soltanto peggiorare le cose per gli utenti finali. A guadagnarci saranno in pochi: gli azionisti di T-Mobile e Sprint, che già pregustano i profitti che potranno spremere ai clienti grazie alla minore competizione, e le banche che stanno lavorando alla fusione in cambio di 155 milioni di dollari di commissioni.

L’economista Thomas Philippon usa proprio il settore della telefonia mobile come esempio della tendenza degli Stati Uniti verso un capitalismo di monopoli e oligopoli: i piani tariffari base per gli smartphone costano due volte e mezzo più che in Francia, tra i 45 e i 65 dollari al mese. Secondo i calcoli di Philippon e del suo co-autore Germán Gutiérrez, la progressiva concentrazione nelle mani di poche aziende di vaste parti dell’economia Usa ha sottratto ai lavoratori americani 1.250 miliardi di dollari di potere d’acquisto tra 2012 e 2018. Fanno circa 5.000 dollari in meno per ogni famiglia ogni anno. Sono tanti soldi.

Possibile che questo tema sia fuori dall’agenda della politica, negli Usa come in Europa e in Italia? Dovrebbe essere un argomento della sinistra: redistribuire risorse verso il basso grazie alla concorrenza e al mercato è molto più equo ed efficace che continuare a pretendere di farlo con spesa pubblica e tagli di tasse, soprattutto se finanziati in deficit.

Ecco “I nuovi mostri”: lo Stato imprenditore in Bonifiche Ferraresi

Nei sottoscala del potere accadono cose spaventose che la politica finge di non vedere. Il caso della Bonifiche Ferraresi è tipico: una girandola di milioni di euro pubblici, un titolo che strappa in Borsa come in una bisca, fondi previdenziali che ci scommettono i soldi delle pensioni degli agricoltori e degli ingegneri, la Cassa Depositi e Prestiti che si gioca 80 milioni dei risparmiatori postali illustrando l’operazione con la supercazzola della “logica di filiera” che non vuol dire niente però suona bene. E nessuno che fiata, fatta la doverosa eccezione per il deputato ex M5S Saverio De Bonis che ha rivolto un’interrogazione al ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova. Il punto è cruciale: di nuove Iri è lastricata la via dell’inferno italiano. E mentre si discutono vizi e virtù dell’intervento statale c’è chi, in nome delle “filiere”, si sistema gli affari.

Breve riassunto. Nel 2014 la Banca d’Italia mette in vendita Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, 6500 ettari di terra ereditati dal passato. Organizza una cordata l’intraprendente Federico Vecchioni, ex presidente della Confagricoltura oggi vicino alla Coldiretti del segretario generale Vincenzo Gesmundo, vero stratega dell’operazione. La Fondazione Cariplo di Giuseppe Guzzetti compra il 20 per cento di Bf, poi la Cdp di Claudio Costamagna (legatissimo a Guzzetti) prende il 19 per cento attraverso la solita Cdp Equity – che compra tutto, basta che costi molto e l’azionista di controllo ne abbia bisogno, e si possa dire che è strategico sostenere questa o quella filiera. Ogni azienda sta in una filiera, così Cdp può comprare qualsiasi cosa e dire che lo fa per sostenere una filiera decisiva per il futuro del Paese. Poco importa che il fatturato di Bonifiche Ferraresi non arrivi a 100 milioni mentre la filiera agricola italiana vale 6 miliardi di giro d’affari: lo statalismo all’amatriciana ha una fiducia incrollabile nell’omeopatia.

Dunque la cordata organizzata da Vecchioni acquista il controllo di Bf per un valore di circa 180 milioni, e poi dà il via a una raffica di aumenti di capitale per totali 260 milioni. Tra gli azionisti di questo inedito salotto agricolo ci sono, oltre a Fondazione Cariplo e Cdp Equity, anche il gruppo Cremonini della carne, Carlo De Benedetti, l’industriale farmaceutico Dompè, il gruppo Gavio (autostrade) e, incredibilmente, anche tre casse previdenziali, l’Enpaia degli agricoltori, l’Enpam dei medici e l’Inarcassa (ingegneri e architetti), più altre fondazioni bancarie (Compagnia di San Paolo, Crt di Torino, quella di Cuneo, di Lucca e di Bologna). Con la logica del salotto, Gesmundo e Vecchioni riescono addirittura a coinvolgere l’Eni di Claudio Descalzi in un progetto comune di aiuto all’agricoltura del Ghana: aiutiamo le filiere a casa loro.

Qui comincia attorno alla Bf un girotondo di difficile comprensione. A maggio 2019 De Benedetti vende il 5,13 per cento delle azioni a Vecchioni, e i 24 milioni necessari li presta Intesa Sanpaolo. Poi Vecchioni prende da Gavio un altro 6 per cento e annuncia che al 20 aprile 2020 la sua quota sarà salita sopra il 14 per cento. Ma nel frattempo gira a Cremonini l’opzione sulle azioni di De Benedetti. Il 13 novembre 2019 viene deliberato un nuovo aumento di capitale da 45 milioni riservato a “investitori istituzionali” (fondazioni e enti previdenziali), al prezzo di 2,55 euro per azione quando l’azione quota 3 euro. Una beffa per i piccoli azionisti. Eppure dall’indomani il titolo, anziché allinearsi ai 2,55 euro, vola: in due settimane supera quota 3,60. Grandi traffici, insomma. Ieri sera Bf valeva in Borsa 552 milioni, con meno di 100 milioni di fatturato e un utile di 100 mila euro. Evidentemente il mercato crede che con l’agricoltura si possano fare i soldi.

Poi un altro aumento di capitale per 10 milioni viene riservato all’amministratore delegato Vecchioni che paga conferendo a Bf la sua società agricola Cicalino Green, situata a Massa Marittima (Gr). In pratica l’amministratore delegato vende alla società che dirige la sua azienda personale: 300 ettari prevalentemente di olivi e un’attività di agriturismo totalmente inedita per Bf ma che rafforzerà la mitica filiera. Adesso Bonifiche Ferraresi possiede il 100 per cento di Cicalino Green e l’ha affidata a un amministratore unico, Elisabetta Pasinato, moglie di Vecchioni.

Per i soldi dei risparmiatori postali e per le pensioni di agricoltori e architetti il futuro potrebbe essere radioso, come promette Vecchioni, o preoccupante, come cominciano a temere i nuovi vertici Cdp e come fa sospettare la prossima operazione in cantiere. Una joint venture paritetica con alcuni grandi Consorzi agrari (per rafforzare la filiera, naturalmente), in cui i Consorzi mettono immobili e Bf soldi, un centinaio di milioni.

Non è chiaro se gli immobili si porteranno dietro i debiti dei Consorzi che garantiscono. Certo è che su quel mondo, che ancora non ha cicatrizzato le ferite del crac Federconsorzi (1991), incombono nuvoloni da quando, tre anni fa, la Cassazione ha stroncato la speranza di incassare dallo Stato gli oltre 500 milioni pretesi dai Consorzi agrari per la storica controversia sugli ammassi, risalente agli anni dal 1945 al 1962. Il settore agricolo aspetta il soccorso pubblico. Che nella Prima Repubblica si risolse in tragedia, e adesso si ripropone con il volto di Cdp, Fondazioni bancarie ed enti previdenziali, mentre la politica si gira dall’altra parte.

 

Air Italy e le altre. L’aereo italiano ha smesso di volare

Prima Alitalia, ora Air Italy chiusa senza tanti complimenti mentre Blue Panorama barcolla. Tranne la piccola Neos, le compagnie aeree italiane sono in picchiata. È un fatto grave e sconcertante considerando che avviene nel momento in cui in tutto il resto del mondo il trasporto aereo tira come non mai (al netto degli effetti del Coronavirus). Anche in Italia, per la verità, il numero totale dei passeggeri aumenta (più 9 milioni nel 2019 rispetto all’anno prima), il guaio è che se ne avvantaggiano altri, da RyanAir a EasyJet.

È una storia che va avanti da anni, solo in parte causata da errori marchiani dei manager (Alitalia è l’esempio di scuola), ma frutto soprattutto delle scelte dissennate di tutti i governi. La crisi precipita proprio nel momento in cui si scopre che sono inservibili alcuni strumenti usati in passato per arginare gli effetti negativi sui lavoratori delle ristrutturazioni aziendali o delle chiusure, a cominciare dal Fondo di solidarietà del trasporto aereo. Tremano gli 11 mila dipendenti Alitalia, i quasi 1.500 di Air Italy e i circa 500 di Blue Panorama. Alimentato soprattutto con un extra pagato dai passeggeri sul biglietto (da ultimo 1 euro e mezzo), il Fondo aveva garantito fino a oggi ai dipendenti delle aziende in difficoltà una copertura fino all’80 per cento della retribuzione media dei 12 mesi precedenti alla crisi. Il Fondo però è a secco, come spiega al Fatto il segretario Uil Trasporti, Ivan Viglietti, e il governo non ha permesso che potesse essere rifinanziato.

La fine di Air Italy (la ex Meridiana con sede a Olbia, fondata 57 anni fa dall’Aga Khan) è tragica e senza precedenti. Non era mai successo che una compagnia aerea fosse messa in liquidazione dalla sera alla mattina, in pratica chiusa, con la conseguente messa a terra della flotta a partire da martedì 25 febbraio. Si sapeva che l’azienda sarda era a un passo dal tracollo e che era fallito il piano di rilancio con la promessa di una flotta di 50 aerei presentato a febbraio di 2 anni fa dal nuovo azionista Qatar Airways. Il quale era entrato con il 49 per cento (il resto è dell’Aga Khan) accettando le ripetute sollecitazioni di Matteo Renzi, allora capo del governo. Troppi e vistosi gli errori commessi, a cominciare dalla individuazione del capo azienda, il bulgaro Rossen Dimitrov, un signore che non aveva maturato esperienze simili in passato, ma che era stato caparbiamente imposto dal plenipotenziario qatarino per le faccende aeree, Akbar Al Baker.

Ad aggravare il tutto c’era stato il fermo obbligatorio dei 3 Boeing 737 Max della flotta Air Italy, sostituiti dal bulgaro Dimitrov con aerei ed equipaggi di semisconosciute compagnie bulgare. Un paese di recente messo sotto osservazione dall’agenzia europea di controllo Easa per la metodologia di assegnazione del certificato di operatore aereo. I bilanci di Air Italy hanno continuato a essere molto negativi (altri 230 milioni di euro di passivo nel 2019) e dopo aver sborsato in un decennio la bellezza di un miliardo di euro per ripianare le perdite, l’Aga Kahn ha deciso di staccare l’ossigeno.

La compagnia è stata formalmente chiusa ieri mattina e affidata a due liquidatori, Franco Lagro e Enrico Laghi (ex commissario Alitalia). La chiusura è stata decisa dall’assemblea straordinaria dei soci che hanno totalmente ignorato l’invito a ripensarci della ministra dei Trasporti Paola De Micheli, che ha convocato per oggi i due liquidatori. Qatar Airways ha fatto sapere che avrebbe voluto proseguire nell’avventura.

Blue Panorama (15 aerei impegnati soprattutto nei voli charter e nei collegamenti con l’Albania) si avvia a seguire la sorte di Air Italy. Una delegazione di dipendenti si è incontrata di recente con i vertici Enac (l’ente nazionale di controllo) a cui hanno esposto una situazione economica a un passo dal collasso. È da una decina d’anni che Blue Panorama vola in una continua turbolenza tra procedure concorsuali, concordati preventivi e amministrazioni straordinarie. Di recente a guidarla c’erano due manager che poi sono stati scelti dal governo per l’Alitalia, Giuseppe Leogrande, nominato commissario, e Giancarlo Zeni, direttore generale. L’ultimo proprietario conosciuto di Blue Panorama è Uvet Viaggi, un gruppo che opera nel settore turistico. La sede aziendale è stata trasferita da Roma a Milano dopo che era stato considerato perfino uno spostamento a Malta. Al Fatto risulta che sulla compagnia sono da tempo in corso indagini per bancarotta fraudolenta da parte della Procura della Repubblica di Roma.

Come fu che Beppe Grillo uccise l’epistemologia

Ieri è morta l’epistemologia. Lo diciamo dopo aver letto un post sul sito di Beppe Grillo in cui il comico, già fondatore e oggi garante del M5S, ragiona per così dire sulla crisi della democrazia rappresentativa. Dice: “È in apnea”. Dice: “Le democrazie rappresentative in tutto il mondo scricchiolano”. E fin qui: come non essere d’accordo? Dice: “Dovunque c’è innovazione, ma non nelle democrazie”. E qui, sì, per carità, però già iniziamo a preoccuparci. E infatti poi arriva “un’iniziativa fantastica” del 2011 chiamata “G1000” che indica la via alle democrazie in apnea. Funziona così: prendi mille tizi selezionati casualmente ma in modo da rispecchiare la composizione della popolazione (tipo la giuria demoscopica di Sanremo), fai 100 tavoli da 10 persone e a quel punto vengono “spiegate in modo esauriente e, nel modo più obiettivo possibile, le grandi questioni del nostro tempo e le varie opzioni politiche”; poi nei tavoli “si discutono le varie opzioni, sotto la guida di esperti” e alla fine si vota. Non si sa bene, scavalcato il cadavere dell’epistemologia e spento l’incendio alla nostra copia del Discorso sul metodo, come prendere questa cosa degli “esperti” che spiegano e dirigono “nel modo più obiettivo possibile”: nemmeno un romanissimo machedavero? rende l’idea dello sgomento che ci dà il pensiero dei tecnici che conoscono il bene tecnico, che a sua volta è uno solo e, una volta spiegato obiettivamente, ha l’unico bisogno per farsi realtà di essere scrutinato dai mille tizi presi a caso. Che poi resta una domanda: ma chi li sceglie gli esperti?

Ponte Morandi, giusto non tollerare le superficialità

Antefatto: i quattro fondatori delle Sardine all’inizio di febbraio sono andati in visita a Fabrica, il laboratorio culturale della Famiglia Benetton di cui era direttore creativo il fotografo Oliviero Toscani. Uno scatto che immortalava le Sardine insieme con Toscani e a Luciano Benetton in poche ore ha scatenato una serie di reazioni a catena impressionanti. Intanto la prima scissione del Movimento, con l’addio del gruppo romano guidato da Stephen Ogongo: “Ciò che rende tutto sospetto è la tempistica di questo incontro, che avviene proprio nel momento in cui si è riaperta la trattativa per la concessione di Autostrade per l’Italia. Se non ci fosse niente da nascondere, perché non hanno reso pubblica la loro visita a Fabrica prima? Perché non hanno pubblicato loro stessi la foto dopo l’evento?”. Mattia Santori ha subito liquidato le polemiche dicendo di aver commesso la solita “ingenuità” (sembra sempre che abbiano 12 anni). In un’intervista all’Huffington Post ha poi così risposto alla domanda “Avete sottoposto una vostra agenda a Conte. Se vi chiede un parere su Autostrade, siete per la revoca o no?”: “Conte viene dal mondo del diritto e sa meglio di noi che per recedere un contratto in essere ci deve essere una giusta causa che deve essere comprovata dalla magistratura. Il tema che interessa davvero i cittadini è capire quando si tornerà ad avere una visione strategica delle infrastrutture viarie che sono uno di quei nodi irrisolti che separano il Sud dal resto del Paese”. Ora Santori non viene dal mondo del diritto e quindi ignora che il nostro codice civile prevede, eccome, cause di nullità e rescissione del contratto, e quindi farebbe meglio a non parlare di quel che non sa. Senza dire che ai cittadini interessa (e molto) capire come è possibile che un ponte cada, uccidendo 43 persone.

A parte i mal di pancia interni al movimento, i guai più grossi li ha avuti Oliviero Toscani. Invitato da Un giorno da pecora a raccontare dell’incontro con le Sardine, ha detto: “Chi se ne frega se casca un ponte, smettiamola”. Affermazione che gli è costata il posto di direttore creativo di Fabrica. Lui si è difeso così in un’intervista al Corriere: “Mi sono espresso male. Che un ponte caschi è una cosa tremenda: chi lo nega?. Quello che volevo dire è che nessuno può avere interesse a farlo cascare. Vede, io ho frequentato la famiglia Benetton in questo periodo terribile, tra la tragedia del ponte e la morte di Carlo e Gilberto, e ho capito che ai Benetton veniva data la colpa del crollo del Ponte, ma gli si attribuiva anche un’intenzione, addirittura un interesse. Che non può esserci. È gente buona”. Ma niente, non c’è nulla da fare, la bufera non si placa e arriva anche in Emilia, dove il fotografo è coinvolto nelle celebrazioni di Parma Capitale della cultura 2020, da cui Pd e Lega vorrebbero che fosse estromesso. “Io non sono quella frase. Come tutti ho una storia ed è quella che mi ha portato a essere coinvolto nelle iniziative di Parma Capitale della cultura 2020. Una vita non può esaurirsi in una manciata di parole che ho pronunciato in maniera maldestra e inaccorta, ma senza alcun intento offensivo. Dopo aver chiesto scusa a Genova, chiedo quindi scusa anche a Parma”. Verissimo: le biografie non si riducono a una frase. Ma è bene che di fronte a una tragedia che si poteva evitare, sia chiaro che nessuno può minimizzare, essere superficiale o dire sciocchezze in libertà. La materia è incandescente, non sono tollerate sbavature. L’ha detto bene il capo dello Stato, Sergio Mattarella, un anno dopo l’incidente: “Nulla può estinguere il dolore di chi ha perso un familiare o un amico a causa dell’incuria, dell’omesso controllo, della consapevole superficialità, della brama di profitto”.

Sempre meno lavoratori e sempre più profitto. È il progresso, bellezza!

Nella triste prevedibilità delle cose c’è anche questa: per i prossimi mesi sentirete in sottofondo, laggiù, nascosta nel rumore di fondo, la noiosa tiritera della vertenza Unicredit. Cronache sindacali, penultime notizie nei telegiornali, trafiletti stanchi nelle pagine dell’economia, incontri interlocutori al ministero, eccetera eccetera. Numeri da qui al 2023: 6.000 lavoratori da licenziare (o prepensionare, o agevolare all’uscita, o tutti i pietosi eufemismi che si usano in questi casi) e profitti che salgono (5 miliardi l’obiettivo) per la gioia degli azionisti.

Quindi lo dico qui, prima che la questione diventi logoro tran-tran quotidiano e noiosa ripetizione: 6.000 persone che perdono il lavoro non sono solo una voce di bilancio, ma famiglie che vanno in crisi, ragazzi che vedono l’orizzonte incresparsi, programmi futuri che vanno a rotoli, ansia, insomma migliaia di vite che cambiano in peggio, ceto medio che scivola verso la povertà e la paura del futuro. Detta semplice e brutale, è uno scambio di ricchezza tra lavoratori e azionisti, milioni e milioni di euro che si spostano dal lavoro al profitto, dai salari di molti alla rendita di pochi.

Il piano Team 23 viene annunciato quando appena si è messo via lo champagne per la “felice” conclusione del piano Transform 19, che ha fatto la stessa cosa nel triennio precedente: via qualche migliaio di lavoratori e su i profitti. Non si tratta quindi dell’azienda in crisi, dell’imprenditore che piange e che non ce la fa, che è costretto a licenziare con la morte nel cuore, che “salva” i dipendenti rimasti (narrazione tradizionale di stile marchionniano, da tutti accettata mentre gli Agnelli stappano). Bensì di una semplice partita di giro: soldi contanti che passano dalle tasche dei lavoratori a quelle dei proprietari, azionisti, supermanager, fondi sovrani che già guadagnano molto e vogliono guadagnare di più. Segue lo spiegone tecnico-pratico: i clienti non vanno più allo sportello, pagano col telefono e le app, che è un po’ come dire: mi spiace gente, ma siccome abbiamo inventato il telaio a vapore, nelle filande c’è un sacco di gente che non ci serve più, cioè non è la prima volta che il profitto si fa scudo della tecnologia per far pagare il conto ai lavoratori.

Non si tratta naturalmente “solo” di una banca (il tratto è comune a tutto il sistema bancario italiano: meno posti di lavoro e più utili, e più bonus ai manager), ma di capire come sarà il disegno del futuro. Le imprese attive e sane che licenziano non sono una novità, ma anzi una tendenza in atto da anni. In più, si tratta di un evidente, quasi plastico, allargamento di quella famosa forbice delle diseguaglianze che tutti dicono di voler combattere e fronteggiare: chiamatelo come volete, il piano, ma alla fine chi ha di più avrà ancora di più e chi ha meno avrà ancora di meno.

Ora, prima che tutto divenga trattativa difensiva, tira e molla e stanca cronaca sindacale, resta il disegno generale: una progressiva proletarizzazione del ceto medio, un mercato che detta le regole della selezione e della qualità della vita della gente: certi saperi non servono più, c’è l’algoritmo, c’è la app, però serve gente che consegna i pacchi, possibilmente pagata a cottimo e con turni e carichi di lavoro, quelli sì, da filanda ottocentesca.

In questo caso la narrazione corrente è: il mondo cambia, che ci possiamo fare. Ma in questa enfasi sul cambiamento non si inserisce però il profitto, che non deve cambiare mai, che è l’unica variabile indipendente riconosciuta, benedetta e intoccabile. Accettando questo impianto culturale, peraltro dominante da decenni, tra un po’ avremo veramente bisogno di un Dickens a raccontare come una volta qui era tutta piccola borghesia, sicurezza e futuro tranquillo, e adesso… Dickens ai tempi dell’iPhone.

Iv non è riformismo, è il genio guastatori

Se non ricordo male fu Cofferati a definire “malata” la parola riformismo. Nella storia del movimento operaio usava distinguere tra un’anima massimalista e rivoluzionaria e un’anima riformista e gradualista più incline alla mediazione e alla cultura di governo. Con il tempo, dietro la cortina fumogena della propaganda e della ideologia (in senso marxiano, intesa come maschera di meno nobili interessi), riformismo ha finito spesso per designare lo slittamento verso il moderatismo e persino la liaison con la destra di attori politici originariamente posizionati a sinistra. Da Craxi a Renzi passando per Veltroni (…al modo soft e caruccio di Veltroni).

Ora, Italia Viva motiva i suoi quotidiani distinguo dentro l’attuale maggioranza di governo con la parola magica “riformismo” e, nel caso recente della disputa sulla prescrizione, con quella di garantismo, a suo dire corollario del suddetto riformismo. Parole passepartout delle quali diffidare, in quanto occultano anziché chiarire. C’è forse qualcuno che osa professarsi non riformista o non garantista? Mere etichette utili al fine di sottrarsi al merito delle questioni. Quando Renzi, d’improvviso, con una piroetta, aprì al governo giallo-rosso sapeva perfettamente che la riduzione della prescrizione era misura bandiera del Movimento 5 Stelle e non sollevò la questione in sede di negoziato programmatico. Sulla prescrizione troppe cose non tornano. Sia quando si sostiene che la generalità degli operatori del diritto sarebbe contraria al provvedimento. Non è così. Sia esorcizzando la circostanza, attestata dalle statistiche e dall’evidenza, che la tagliola della prescrizione manda in fumo centinaia di migliaia di processi. Sia negando il chiaro proposito dilatorio inscritto nella strategia delle difese più agguerrite di imputati che se le possono permettere (denunciate in pronunzie di Consulta e Cassazione). Sia misconoscendo che, a un esame del diritto comparato, la più parte degli ordinamenti contempla regimi della prescrizione vicini a quello entrato in vigore all’inizio di quest’anno. Sia rifiutandosi di apprezzare il sostanzioso temperamento della norma operato dal lodo Conte (come spiegato da Valerio Onida). Sia ignorando il contestuale avvio di riforme atte a contrarre la durata dei processi. Basta e avanza per rimarcare quanto siano pretestuosi gli alti lai per l’asserita violazione dei sacri principi dello Stato di diritto. A questa palese mistificazione, si aggiungono vistose contraddizioni e ipocrisie. Come non ricordare il Renzi che, prima di scalzare Letta da Palazzo Chigi, invocava le dimissioni del ministro Cancellieri che non era stata raggiunta neppure da un avviso di garanzia? O che spinse sbrigativamente alle dimissioni suoi ministri – la Guidi e Lupi – quando alla guida del governo ci stava lui e non voleva fastidi o ammaccature della sua immagine? Infine, a confermare la strumentalità renziana, va rilevato il rilievo politico sproporzionato assegnato al problema. Come abbiamo rammentato, fu lui a propiziare il varo del Conte 2 con il solo ma decisivo argomento della minaccia che correvano la democrazia italiana e la sua collocazione internazionale. Mica niente. E ora un artificioso dissenso su tempi e modi della disciplina della prescrizione – per altro una storica battaglia dell’opposizione democratica al tempo di Berlusconi – meriterebbe di fare saltare tutto? È questa la priorità del paese in sofferenza economica e sociale?

A fronte della manifesta strumentalità attestata dai sistematici ricatti di Italia Viva, si illudono quanti confidano che essa possa smettere. Un chiarimento risolutivo non è più rinviabile. Dentro o fuori. Pena un governo che passi di verifica in verifica che ne minerebbe irrimediabilmente l’azione e la credibilità. E un Pd – il vero bersaglio di Renzi che vi ha lasciato dentro un cospicuo presidio di uomini a lui legati – paralizzato da divergenze strategiche interne. Francamente troppo per un manipolo di parlamentari protagonisti di transumanze cui, impropriamente, si attribuisce il nome di partito, ma che, in realtà, ancora non ha dimostrato di disporre né di elettori, né di eletti. Tranne quelli sottratti ad altri. Compresi ministri e sottosegretari in quota Pd passati senza vergogna a Italia viva ventiquattro ore dopo. Riformisti? No, genio guastatori.