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Caso Zaky: l’Europa non ripeta il silenzio riservato a Regeni

Il brutale arresto con torture inflitto allo studente Patrick Zaky ha riaperto la ferita dell’assassinio del nostro Giulio Regeni. L’Egitto si conferma una dittatura, che sequestra, uccide e tortura chi osa metterne in discussione la mancanza di rispetto dei diritti umani. L’Italia, per il caso Regeni, ha posto in campo iniziative contraddittorie e insufficienti. Ma, soprattutto, non ha ricevuto l’appoggio dei Paesi europei nella sua richiesta di giustizia. La vicenda di Patrick Zaky non può vedere l’Europa ricadere nello stesso colpevole silenzio. Chiedo al presidente Sassoli di proporre al Parlamento europeo l’adozione di un’iniziativa formale.

Massimo Marnetto

 

Diritto di replica

Gentile Direttore, desidero contribuire alla completezza d’informazione e rispondere alle domande che mi vengono rivolte nell’articolo “Meriti e bisogni di un Foglio e del suo editore’’ di Giovanni Valentini pubblicato sabato. Vorrei chiarire che l’Editore de Il Foglio quotidiano è la cooperativa, presieduta da Giuliano Ferrara, come viene indicato nel colophon del giornale. Ed è la cooperativa l’esclusiva destinataria dei contributi dello Stato, sui quali, per gli incassi nel 2009 e nel 2010, è atteso l’esito dell’istruttoria del Dipartimento per l’editoria, dopo l’accertamento e le controdeduzioni della stessa Cooperativa. Al mio Gruppo fa capo “Foglio Edizioni srl”, acquisita solo quattro anni fa, che ha firmato con la Cooperativa un contratto di affitto della testata e che prevede la completa autonomia, sia nella gestione che nella linea politica. Confermo, qualora la Cooperativa del Foglio avesse problemi, l’intenzione di assumere con “Foglio Edizioni srl” direttamente i giornalisti, e in tal caso diventare editore del Foglio quotidiano. E ciò per garantire, anche senza contributi, la pubblicazione di un giornale autorevole, grazie al fondatore Giuliano Ferrara, al direttore Claudio Cerasa, e a una redazione di giovani e preparati giornalisti. È una decisione coerente con la solidarietà per la cultura e l’informazione di qualità, che mi ha spinto a raccogliere l’offerta di acquisire la proprietà della testata del Foglio da parte degli originari azionisti, decisi a dismetterla in toto. Altrettanto ho fatto per il settimanale di una parte del mondo cattolico, Tempi. Dopo aver acquisito la testata, l’ho affittata a una cooperativa che l’ha trasformata in mensile e la diffonde in abbonamento. La stessa motivazione mi ha portato, quale possessore di una quota azionaria di minoranza, a rispondere alla proposta di acquisizione del controllo de La Gazzetta del Mezzogiorno da parte dei Custodi-Amministratori giudiziari delle azioni confiscate all’editore Mario Ciancio Sanfilippo. E mi preme sottolineare che ho accettato non per un interesse egemone, ma con la condizione di essere affiancato da altri imprenditori, necessari per sostenere un realistico rilancio del più importante quotidiano di Puglia e Basilicata.

Valter Mainetti

 

L’imprenditore-editore Valter Mainetti non ha alcun bisogno, in questo caso, di “contribuire alla completezza d’informazione”: nella mia rubrica, si distingueva chiaramente fra la proprietà della testata e le responsabilità della cooperativa che edita Il Foglio. Se il titolo “La voce del padrone”, pubblicato a suo tempo su quel giornale “non corrisponde totalmente alla realtà”, è al direttore Claudio Cerasa che va indirizzata la precisazione, non al Fatto Quotidiano.

g.v.

 

Faccio riferimento all’articolo “La Rai non prende i soldi che le spettano” di Gianluca Roselli pubblicato sul Fatto Quotidiano di ieri, per precisare che dopo la sentenza della Corte di Cassazione avversa al mio cliente Prof. Mauro Masi, si è fatto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo attesa la palese ingiustizia della decisione nella quale, da un verso, la Suprema Corte riconosce apertamente il difetto di giurisdizione del Giudice Contabile e per altro verso non ne cassa le decisioni in base a considerazioni esclusivamente formalistiche. In parallelo, e a seguito altresì del diniego della compagnia assicurativa AIG a corrispondere il quantum dovuto in forza della relativa garanzia, si è provveduto a proporre atto di citazione nei confronti dell’assicurazione responsabile civile del sinistro, pendente innanzi il Tribunale Civile di Roma; sono state proposte altresì istanze contro la condotta dell’assicurazione medesima all’Ivass e all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Nelle more del suddetto giudizio (e dopo che il Prof. Masi ha personalmente pagato ogni spesa legale) è in corso la procedura di pagamento con la Rar secondo le modalità previste dalla legge.

Avv. Simona Serafini

 

Prendo atto e ringrazio della precisazione che, se aggiunge particolari in più alla vicenda, non smentisce il contenuto dell’articolo.

G.R.

 

I nostri errori

Ieri, nell’articolo “Dopo 5 mesi mancano due terzi delle deleghe ai sottosegretari” abbiamo erroneamente scritto che il ministro per gli Affari europei, Vincenzo Amendola, non ha ancora assegnato le deleghe alla sottosegretaria Laura Agea. Cosa che invece è avvenuta il 21 ottobre 2019. Ce ne scusiamo con i lettori e gli interessati.

Vds e Ma Pa

Var o non Var. Gli arbitri italiani sono il fanalino di coda tra i colleghi europei

 

Gentile Ziliani, leggo sul Mattino che i tifosi del Napoli avrebbero addirittura deciso di citare in Tribunale l’arbitro Giua, reo di aver ammonito Milik, vittima invece di un fallo in area durante la gara contro il Lecce, e di aver ignorato il Var. Allo stesso Giua è stata inflitta una giornata di sospensione. Analoghe polemiche si erano generate dopo la partita tra Parma e Lazio: in questo caso l’arbitro Di Bello aveva lasciato scontente entrambe le tifoserie, ignorando il Var. Una tecnologia introdotta per facilitare il lavoro dei fischietti, che però i fischietti non utilizzano. Cosa l’hanno introdotta a fare, allora?

Patrizio Quattrucci

 

Caro Patrizio, tanto per cominciare la notizia è che gli arbitri italiani, dopo essere finiti assieme ai loro infedeli dirigenti nell’infamante scandalo di Calciopoli (il presidente Aia Lanese squalificato per 2 anni e 6 mesi, i designatori Bergamo e Pairetto radiati, l’internazionale De Santis squalificato per 4 anni e poi dismesso), sono ufficialmente diventati, sotto la gestione Nicchi-Rizzoli, i peggiori arbitri d’Europa. A dirlo non sono io, anche se lo scrivo da tempo e sono stato portato in tribunale non so quante volte (prossimamente: Rizzoli-bis e Pairetto jr.), ma a certificarlo è la stessa Uefa che all’ultimo raduno di Maiorca ha ammesso tra i “top referees” un solo italiano, Orsato, a fronte di 3 inglesi, 3 spagnoli e 2 francesi, olandesi, inglesi (e guarda un po’!, c’è anche Oliver, quello del bidone della spazzatura al posto del cuore), sloveni, rumeni. E siccome al ridicolo non c’è mai fine, l’ultima dal fronte è questa: il torinese Rosetti, che ha sostituito lo sgradito (ad Agnelli) Collina alla guida degli arbitri Uefa, dopo aver tentato di inserire Rocchi nella categoria Elite, è stato costretto a battere in ritirata. Motivo: nel match di Champions Chelsea-Ajax 4-4, Rocchi – con Valeri al Var – commise una serie di cantonate tali ai danni dell’Ajax (che in vantaggio 4-1 si trovò con 2 giocatori espulsi e un rigore contro al termine di un’azione che avrebbe dovuto essere interrotta) da renderlo del tutto insalvabile. La Uefa ha ammesso gli errori e ora l’Ajax sta per chiedere ai nostri eroi un risarcimento di 12 milioni, cioè il danno da mancata qualificazione. Nicchi, che in campo si atteggiava a duce (abbiamo ricordato lunedì cosa fece al povero Andersson del Bologna) e venne fermato da Casarin, ha fatto scuola: Rocchi fa il duce con l’Ajax, Giua col Napoli, Di Bello col Parma e i risultati alla fine sono questi. Dica dunque ai tifosi del Napoli di andare tranquilli: perché o li ferma un tribunale oppure non li ferma più nessuno.

Paolo Ziliani

“È la più grande rapina della storia dal Dopoguerra”

Richard J. Aldrich è uno degli esperti che, in un clima di clandestinità, hanno lavorato sull’operazione Rubicon per circa due anni. Insegna Sicurezza internazionale all’Università di Warwick, in Inghilterra. Risponde immediatamente alla nostra richiesta di intervista. E non è diplomatico.

“Vuole sapere cosa ne penso? Penso che questa sia la più grande rapina della storia del mondo”. Miliardi e miliardi di dollari di materiale venduto a più di 100 Paesi, per più di 50 anni, per rubare tutti i loro segreti. Ocean’s Eleven su scala mondiale.

Di cosa stiamo parlando esattamente?

Di due dei maggiori servizi segreti del mondo, la Cia e la Bnd tedesca, che sotto la copertura di Crypto Ag, per più di 50 anni, vendono macchinari per la crittografia a più di 100 Paesi. E non è solo il costo dei macchinari: quei Paesi implementano infrastrutture, personale, tecnologia per inviare e ricevere in sicurezza comunicazioni militari, governative, diplomatiche. Tutto per niente: Cia e Bnd ascoltano tutte quelle comunicazioni… Spiano anche i loro migliori alleati, fra cui Spagna, Italia, Arabia Saudita. Un furto mai visto prima.

Della presunta connivenza fra Crypto Ag e la Cia si era parlato già in passato, brevemente. Poi non più…

Sapevano qualcosa perché informazioni parziali su William Friedman, l’agente della Cia che è stato il principale architetto di Rubicon, erano emerse negli anni Settanta e Ottanta, ma poi su questa storia era di nuovo calato il silenzio. Ma qui non parliamo di connivenza, parliamo di proprietà, di controllo totale. Sappiamo che circa il 50% dell’intelligence elettronica che l’Occidente ha raccolto sul resto del mondo, per decenni, sono state ottenute tramite questa singola operazione.

L’Italia è citata fra i maggiori clienti, e c’è una lunga bibliografia sulle “interferenze” della Cia nelle pagine più oscure della nostra storia recente, dal Dopoguerra a oggi… penso anche al caso Moro…

Nelle carte che ho esaminato ricordo solo un paio di riferimenti al vostro Paese, non episodi specifici che hanno cambiato la storia come per l’Iran o il Sudamerica. Sappiamo però con certezza che le comunicazioni dall’Italia, così come quelle di molti Paesi coinvolti in operazioni terroristiche in, o in relazione all’Italia, sono state lette per molto tempo tramite Rubicon. Ma la mole di materiale è enorme, moltiplicata per decenni e per 120 Paesi, c’è ancora molto da scavare.

Quali saranno le conseguenze di queste rivelazioni?

Be’, questa storia pone molte domande su chi sapeva, sul cosa e sul quando. Sulle decisioni prese o non prese, sulle vite salvate o sacrificate. Le ripercussioni sono inimmaginabili per i rapporti geopolitici mondiali.

Penso ai rapporti fra Usa e Arabia Saudita, alle conseguenze in Medio Oriente e perfino sulle prossime elezioni americane…

Certo, ma non solo. Cambia anche il quadro convenzionale dei rapporti di forza. Piccoli Paesi come la Svezia o la Svizzera, in questa operazione, sono grandi potenze. La Gran Bretagna è ai margini, nella squadra di riserva. Tutto questo cambierà profondamente la nostra percezione delle relazioni internazionali. Deve considerare un altro aspetto: abbiamo scoperto che a essere manipolate non erano solo le macchine di Crypto Ag. La Cia e i tedeschi sono stati coinvolti in una cospirazione mondiale per manipolare tutto il sistema di intelligence elettronica. In pratica, se un Paese si fosse accorto che le macchine di Crypto Ag erano permeabili e si fosse rivolto altrove sarebbe finito comunque nella rete.

Con l’eccezione di Russia e Cina, che non sono fra i clienti di Crypto Ag…

Certo, ma si suppone che Russia e Cina abbiano fatto lo stesso con i loro alleati minori. I macchinari che la Russia forniva a Cuba o all’Angola erano manipolati… l’intera industria era truccata. E in questa chiave, si può parlare di una guerra del Nord contro il Sud del mondo. Una verità che dà ragione a tutti quei Paesi, in Sudamerica, Europa e Africa, che hanno denunciato per anni l’esistenza di un Ordine Mondiale dell’Informazione contro di loro.

I dati di 6 milioni di elettori in pasto ai pirati del Web

Chiunque viva in Israele sa che durante le campagne elettorali, come questa per le elezioni del 2 marzo, attraverso il cellulare è bombardato di sms, questionari, gradimenti personali, che servono a “mirare” ancora di più il messaggio degli schieramenti in lizza. Tutti i partiti politici in Israele sono dotati di liste elettorali prima del voto ma sono tenuti a proteggere i dati, non possono copiare il registro o fornire informazioni a estranei. Devono poi cancellare i dati degli elettori dopo il voto, in modo da rendere impossibile il loro riutilizzo. Ma non è proprio così che poi vanno le cose.

Una denuncia contro il Likud, il partito del premier Benjamin Netanyahu, presentata al presidente del Comitato Elettorale Centrale – guidato dal giudice della Corte Suprema Neal Hendel – ha messo a nudo una delle più grandi di fughe di informazioni personali nella storia di Israele. Il partito al governo è accusato di aver sfacciatamente violato le leggi sulla privacy attraverso “Elector”, una app messa a punto proprio in vista del voto. Una falla nel sistema di sicurezza dell’app ha permesso di poter accedere pubblicamente a nomi, documenti di identità, telefoni cellulari e gli indirizzi dell’intero registro elettorale con oltre sei milioni di israeliani schedati. Chiunque ha potuto accedere e copiare l’intero registro, insieme a ulteriori informazioni raccolte dal Likud su centinaia di migliaia di elettori, come il rapporto di ciascun israeliano con il partito al potere, con oltre 600.000 nomi già elencati come “non di supporto”.

Nella denuncia alla Comitato elettorale, presentata dagli avvocati Shahar Ben-Meir e Yitzhak Aviram, e accompagnata da ricerche sull’app da parte di esperti del settore, si afferma che i responsabili del Likud, consegnando i database elettorali a Elector – che li ha copiati e ospitati sui propri server – hanno commesso una grave violazione della legge sulla privacy e la sicurezza personale di milioni di cittadini. Un reato per il quale si può essere condannati fino a 5 anni di carcere. Secondo Ran Bar-Zik, il programmatore di “Verizon Media” che ha denunciato la fuga dei dati, adesso “ogni agenzia di intelligence, governo straniero o persino società commerciale può ottenere queste informazioni su ogni individuo in Israele”. E conclude: “Non ho mai visto una fuga di dati sensibili così assurdamente incompetente e dannosa come questa”.

Ma questo è solo metà del problema. Stando alla denuncia alla Commissione elettorale c’è stata una seconda perdita di dati, volutamente intenzionale. Il Likud ha trascorso settimane a pubblicizzare i codici di accesso all’app attraverso i social media del partito e le reti di attivisti, nel tentativo di mobilitare le sue basi per raccogliere informazioni sensibili sugli elettori. Secondo la pagina di Google Play Store, Elector è stato aggiornato e corretto lo stesso giorno in cui la petizione è stata presentata nell’ufficio del giudice Neal Handel al Comitato elettorale. L’esposizione di tutte le informazioni personali di sei milioni di israeliani – attraverso l’app mobile usata dagli attivisti del Likud – è continuata senza sosta durante tutto lo scorso fine settimana, con eventi della campagna elettorale e pagine Facebook che invitavano gli utenti a scaricare e utilizzare l’app per trovare informazioni su potenziali elettori nella loro zona, nei circoli sociali, sul posto di lavoro. Fino a che ieri pomeriggio il ministro della Giustizia Amir Ohana (Likud) ha ordinato il blocco, in attesa di una decisione della Commissione elettorale. Gli esperti interpellati da giornali e tv hanno spiegato che non c’è modo di sapere chi ha ottenuto e scaricato le informazioni prima che “Elector” modificasse l’app. È stato un Eldorado per qualunque tipo di hacker.

Crypto Ag, così la Cia “ascoltava” amici e nemici

Questa storia inizia con un rimorso, una spia senza pace e una confessione sul letto di morte. Germania, circa tre anni fa. L’uomo è stato molto vicino ai servizi d’intelligence tedeschi. Ma sta morendo ed è consumato dal segreto che ha mantenuto per decenni: dal 1970 al 1993, la Cia e la Bnd, il servizio segreto “esterno” della Repubblica Federale Tedesca, sono stati i proprietari occulti di Crypto AG, società svizzera leader mondiale di crittografia, cioè di quella branca dell’intelligence che rende le proprie comunicazioni incomprensibili per chi non abbia la chiave per decifrarli. Sul letto di morte quell’uomo, che di questa macchinazione è stato complice, rivela tutto a un giornalista di fiducia, a cui fornisce documenti originali, contesto e riscontri. Che Crypto Ag collaborasse con la Cia era una ipotesi che circolava da anni: erano certi i rapporti fra il suo fondatore, Boris Hagelin, e l’agente statunitense William Friedman, che lo aveva convinto a collaborare fin dagli anni Cinquanta.

Ma l’uomo racconta ben altro. Ha documenti classificati, fra cui il contratto, datato 4 giugno 1970, con cui Crypto AG, alla morte di Hegelin, viene acquisita dai due servizi di intelligence, con quote equivalenti del 50%, in una holding creata da uno studio legale lussemburghese per rendere impossibile l’identificazione dei reali proprietari. Cosa significa? Che per decenni i macchinari che Crypto AG ha venduto a 120 Paesi sono stati manipolati in modo da consentire ai veri proprietari, Cia e Bnd, di ascoltare ogni comunicazione sensibile di nemici e alleati, compresa l’Italia e il Vaticano. L’operazione congiunta viene battezzata prima “Thesaurus”, poi “Rubicon”. Negli incontri fra i due servizi, Crypto Ag diventa Minerva, la Cia cambia in Eos, e la Bnd, Gamma.

Le verifiche su quel racconto durano due anni. Vengono coinvolti l’emittente pubblica svizzera, quella tedesca, il Research Institute for Peace Policy, il corrispondente per la Sicurezza nazionale del Washington Post, Greg Miller. Che ieri ha ricostruito tutto in una inchiesta, che riscrive quello che sappiamo della geopolitica degli ultimi 50 anni. Con ripercussioni probabili, infinite domande sul passato e sul presente di alleanze, scelte strategiche, ruolo degli Stati Uniti sulla politica interna di quei Paesi. Perché della tecnologia di Crypto AG, in quegli anni, avevano bisogno in tanti. Gli stessi agenti della Cia ai vertici dell’operazione, in un rapporto classificato ottenuto dal consorzio investigativo, definiscono “Rubicon” “Il colpo d’intelligence del secolo. I governi pagavano un sacco di soldi agli Stati Uniti e alla Germania Ovest per il privilegio di avere le proprie comunicazioni più riservate lette da almeno 2, se non 5 o 6, potenze straniere”. I documenti dimostrano, per esempio, che Cia e Bnd conoscevano in anticipo i piani del golpe del generale Alfonso Pinochet contro il presidente cileno Salvador Allende, e che erano al corrente in tempo reale delle brutali violenze della giunta militare argentina contro gli oppositori politici.

Negli anni Ottanta, i maggiori acquirenti dei macchinari manipolati erano Iran e Arabia Saudita: l’arci-nemico degli Stati Uniti insieme al suo arci-alleato. Per decenni, i servizi tedeschi e americani hanno decifrato le comunicazioni dei due Paesi durante tutte le maggior crisi internazionali, fra cui la presa degli ostaggi all’ambasciata Usa di Teheran nel 1979. E poi, tra gli altri clienti, Italia, Indonesia, Iraq, Libia, Giordania e Corea del Sud; 20 Stati africani, fra cui Algeria, Egitto, Sudafrica; 11 asiatici, compresi Giappone, Vietnam, India e Pakistan. Perfino le Nazioni Unite. Spiate dagli Stati Uniti, membro permanente del Consiglio di Sicurezza.

Chi altro sapeva? Quasi certamente tutti i presidenti Usa e i cancellieri tedeschi dagli anni Settanta in poi. Ma i documenti dimostrano come almeno altri quattro Paesi, Israele, Svezia, Svizzera e Regno Unito, “fossero al corrente dell’operazione o abbiano ricevuto informazioni” ottenute grazie a “Rubicon”.

Nel 1993 i tedeschi si tirano indietro. Con la caduta del Muro di Berlino l’operazione è diventata troppo delicata e complicata da gestire, e da tenere nascosta. Richiede risorse che la Germania unita non intende più mettere a disposizione; le tensioni sono continue, con i servizi tedeschi che non condividono la spregiudicatezza con cui gli americani spiano anche i propri alleati. C’è il rischio di bruciarsi. Vendono la loro quota agli americani che continuano da soli fino al 2018, quando si liberano della società, la cui tecnologia è ormai superata.

Ma, commenta il Washington Post, “Rubicon” “è ancora rilevante per lo spionaggio dei nostri giorni. La sua durata e portata aiutano a capire come gli Stati Uniti abbiano sviluppato il loro insaziabile appetito per la sorveglianza globale, come rivelato nel 2013 da Edward Snowden”.

Cumulo di pena, arrestato l’avvocato Piero Amara

L’avvocato siciliano Piero Amara, ex legale esterno di Eni, è tornato in carcere lunedì scorso.

Finito al centro di numerose inchieste giudiziarie, Amara è considerato uno dei registi e artefici del giro di mazzette per corrompere magistrati, giudici e periti, e indirizzare inchieste e sentenze nei tribunali ordinari, amministrativi fino al Consiglio di Stato.

Arrestato la prima volta nel febbraio 2018, durante l’operazione congiunta tra le procure di Roma e Messina, aveva collaborato con la magistratura e poi patteggiato per corruzione in atti giudiziari prima una pena di 3 anni nella capitale, e poi 1 anno e 2 mesi in Sicilia. In attesa di scontare i restanti 3 anni e 8 mesi, Amara era in libertà per via del ricorso presentato in Cassazione dai suoi legali che chiedevano di non applicare la “Spazzacorrotti”, la nuova legge che inasprisce le pene per i corruttori nella pubblica amministrazione, riducendo le misure alternative, consentite solo a chi collabora efficacemente.

Ricorso che il 4 febbraio la Corte suprema ha respinto, facendo diventare esecutiva la pena, perché l’ordine di carcerazione è stato emesso dopo l’entrata in vigore della legge.

I suoi legali fanno sapere che sarà “presentato a breve un ricorso” per “contestare l’ordine di esecuzione”.

Amara resta al centro dell’inchiesta della Procura di Milano che indaga sui vertici dell’azienda – l’attuale amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni – per la presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari per il giacimento Opl 245. Secondo l’accusa, Amara avrebbe fatto aprire un fascicolo, originato da esposti anonimi, prima alla procura di Trani e poi a Siracusa, per indebolire l’inchiesta meneghina. L’avvocato è anche indagato a Roma e Siracusa per reati fiscali.

Triste ferrara, da Bassani a Sgarbi

La notizia, riportata ieri soltanto dal Fatto

, del 20 per cento di royalties richiesto dagli Sgarbi Brothers sui biglietti di ingresso per esporre, a spese del Comune di Ferrara (loro che sono poi di Ro Ferrarese), la collezione di famiglia in Castello, suscita insieme uno scoppio di risate e tanta tristezza in me che ho frequentato il Liceo Classico a Ferrara e ben altri intellettuali ferraresi, allora e in anni più recenti. Povera Ferrara. Già si ritrova un sindaco leghista che usa il vocabolario come una clava, ora ha una sorta di super-sindaco che detta, fa, organizza per la family, anzi per la dinasty. Ma non è già supervisore del sindaco a Urbino, sindaco in proprio a Sutri, deputato a Montecitorio, presente in tutte le reti tv, compresa Rai3? Certo.

Povera Ferrara. Ai tempi in cui era malinconicamente depressa sul piano economico, dagli anni 30 ai 50, aveva allevato intellettuali di genio come Giorgio Bassani, l’autore delle Storie ferraresi

, l’italianista Lanfranco Caretti (Ariosto e Tasso), il grande regista Michelangelo Antonioni cresciuto come aiuto di Luchino Visconti in Ossessione

girato a Pontelagoscuro, dove andava a vedere come si fa il cinema un futuro importante regista quale Florestano Vancini, decine di documentari e poi La lunga notte del ’43

e altro. Mentre Carlo Rambaldi allora inventava cartelloni colorati per pubblicizzare i film (2 al Cinema Boldini per 200 lire) e poi sarebbe diventato il padre di ET

e di tant’altro, 2 volte premio Oscar. Ma c’erano anche letterati come Franco Giovannelli, il linguista Mario Roffi (traduttore di De Musset e di Shelley per Einaudi), quindi senatore, era appena andato a Milano Luciano Chailly, musicista e direttore artistico, il babbo di Riccardo. E la dinastia, quella vera, dei Tumiati, da Gualtiero attore e regista di teatro a Corrado saggista, a Gaetano inviato speciale dei più attrezzati? O dei Quilici? Sull’integrità della Ferrara storica vigilavano uomini di cultura quali i Minerbi, dalla magnifica casa affrescata di Via Gioco del Pallone, o i Ravenna.

Negli anni 80 col sindaco Roberto Soffritti comincia un altro decennio nel quale fra Ferrara Arte, diretta con competenza e passione, da Andrea Buzzoni, e Ferrara Musica per la quale Mauro Meli porta stabilmente qui Claudio Abbado, Ferrara viene lanciata, come merita e coi mezzi giusti, nel mondo, con eventi indimenticabili (penso alla Trilogia mozartiana che richiama qui gli “abbadiani itineranti” di tutta Europa). È il decennio, e oltre, dei grandi restauri: quello della straordinarie Mura estensi, 9 Km di cintura verde, di Palazzo Schifanoia e di quello di Ludovico il Moro, della creazione del Museo Boldini a Palazzo Massari, del ritorno della collezione Sacrati Strozzi. Possibile che quella stessa città abbia votato in massa la Lega di Salvini e un sindaco come Alan Fabbri il cui vice, fra l’altro, si definisce “il pitbull della Lega”? E che, da una corona di intellettuali come quella appena descritta, si sia trasformata (con tanto di royalties, beninteso) in Signoria degli Sgarbi di Ro Ferrarese? Questo dovrebbe spiegarlo il Pd, o magari Dario Franceschini. Che tristezza però.

Truppa Rai a Sanremo, non erano 600 ma 800

Ogni anno è una storia che si ripete. Il trasferimento della mega truppa Rai a Sanremo. Compresi dirigenti con collaboratori e familiari al seguito. Quest’anno la cifra raggiunta è di 634 persone, per quanto riguarda gli interni Rai, più circa 200 collaboratori, che lavorano alla kermesse pur non essendo assunti dalla tv di Stato. Oltre 800 persone, dunque. In gran parte si tratta di soggetti che ne hanno titolo e sono lì per lavorare, ma ci sono anche quelli che vanno lì per esserci e godersi lo show dal vivo invece che dal divano di casa. La vicenda non è solo chiacchiericcio: c’è stata un’interrogazione parlamentare del deputato del Pd Michele Bordo e una richiesta di chiarimenti all’ad Fabrizio Salini da parte dei consiglieri Rita Borioni e Riccardo Laganà. Per questo, “in conseguenza di queste segnalazioni”, ora sta indagando il Collegio Sindacale della Rai, che dovrà riferire anche al Tesoro, ovvero a Roberto Gualtieri. C’è stato uno spreco di risorse, tra posti gratis assegnati in teatro (i biglietti vanno da 150 a 650 euro), hotel e trasferimenti pagati, tanto da poter configurare un danno erariale?

Certo è che le presenze, che di solito sono alte, quest’anno lo sono state un po’ di più. Con le prime file assegnate a dirigenti e personaggi Rai che, a occhio nudo, hanno provocato una sorta di “effetto nomenklatura”. Tipo politburo del comitato centrale. Salini e Stefano Coletta, per esempio, non si sono persi una serata, sempre in prima fila. E poi Antonio Marano, Alberto Matassino, Marcello Ciannamea, Monica Maggioni e molti altri dirigenti. Su di loro nulla da dire, ma viene fatto notare che negli anni passati la “governance” Rai partiva dalla quarta fila, lasciando i primi posti a vip e artisti. “Quest’anno si è scaduto nell’effetto burino, tutti lì a farsi vedere”, fa notare qualcuno. Di alcuni nomi, poi, non si è compresa la presenza. Lo staff del presidente Marcello Foa, per esempio, era composto da ben 4 persone: il presidente e sua moglie erano accompagnati da Marco Ventura, Pierpaolo Cotone, Margherita Ghinassi e Fenesia Calluso. Altre presenze che hanno creato curiosità sono quelle del direttore di Rai Parlamento Antonio Preziosi, la direttrice dell’audit Elisabetta Gandini, il corrispondente da Bruxelles Alberto Romagnoli. C’erano pure alcuni addetti al servizio immobiliare di Viale Mazzini. Del Cda si sono visti Igor De Biasio (Lega) e Beatrice Coletti (M5S) che, fa sapere, è arrivata giovedì sera invitata dal cerimoniale con marito al seguito che “si è pagato le spese di viaggio, vitto e alloggio”.

Insomma, una bella infornata di persone, su cui l’ad Salini dovrà riferire in Cda, presentando i relativi costi. Anche perché questa vicenda casca proprio a due mesi dall’uscita della notizia dell’inchiesta su una cinquantina di dipendenti Rai che proprio al Festival di Sanremo, tra il 2013 e il 2015, sono finiti nel mirino della magistratura per fatture false e scontrini gonfiati. Un pizzico di sobrietà in più, dunque, non avrebbe guastato.

Quest’anno, come sempre accade, a ottobre, l’ad ha inviato una circolare all’azienda dove si è chiesto alle reti quante e quali persone dovranno andare al Festival. Poi, di fronte all’elenco, si tirano le somme. “Prima, quando c’era il direttore del coordinamento editoriale, era più facile evitare le trasferte inutili. Ora ogni rete fa un po’ come gli pare”, fa sapere una fonte autorevole. “Le spese sono in linea con la mole di lavoro messo in campo e il personale in trasferta era coerente con il numero di produzioni realizzate”, dicono da Viale Mazzini, che ieri ha fatto l’elenco delle produzioni coinvolte. Per avere ulteriori dettagli, su ospiti e costi, bisognerà però aspettare il Cda del 21 febbraio.

D’Amato, Tedeschi, Gelli e Ortolani: i pm calano il poker finale

Il nome del prefetto-gourmet è scritto nell’avviso di conclusione indagini mandato ieri dalla Procura generale di Bologna ai nuovi indagati per la più grave strage italiana, quella del 2 agosto 1980. Federico Umberto D’Amato è la figura più inquietante della storia del nostro dopoguerra. Manovratore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, il potente servizio segreto civile in eterna competizione con quello militare (Sifar, Sid, Sismi). “Mandante-organizzatore” della strage, scrivono i magistrati bolognesi. Burattinaio prima e grande depistatore dopo, aiutato da Mario Tedeschi, direttore del Borghese, “nella gestione mediatica dell’evento strage, preparatoria e successiva allo stesso”. In compagnia della coppia ai vertici della loggia P2, Licio Gelli e Umberto Ortolani, indicati come “mandanti-finanziatori”. D’Amato-Tedeschi-Gelli-Ortolani: è il poker calato dai tre magistrati della Procura generale, Alberto Candi, Umberto Palma e Nicola Proto, che indagano sulla strage. I quattro manovratori sono tutti morti, ma la nuova indagine potrebbe ricostruire la verità almeno per la storia e per i famigliari degli 85 morti e dei 200 feriti. C’è una mole immensa di documenti raccolti dagli investigatori. Tra questi, il documento “Bologna-525779XS”, sequestrato a Gelli: racconta di milioni di dollari usciti dal conto svizzero numero 525779XS tra il luglio 1980 e il febbraio 1981, i mesi della strage e dei depistaggi. Altre note, scritte a mano da Gelli, riguardano contanti da portare in Italia: 4 milioni di dollari solo nel mese prima dell’attentato.

Nel biennio 1979-1980, quando la strage fu preparata, realizzata e “gestita mediaticamente” (ovvero depistata), Federico Umberto D’Amato non era più al vertice degli Affari riservati. Era stato rimosso nel 1974 da Paolo Emilio Taviani, due giorni dopo la strage di Brescia, e mandato a dirigere la Polizia di frontiera. Ma era rimasto l’uomo degli americani in Italia, membro del Club di Berna che riuniva le intelligence europee e Nato sotto l’ombrello Usa, lui che aveva cominciato la carriera lavorando con James Jesus Angleton all’Oss, il servizio americano che precede la Cia.

Ci sono anche i vivi, tra i nuovi indagati di Bologna. Paolo Bellini, fin da ragazzo militante fascista di Avanguardia nazionale, poi confidente dei carabinieri, infiltrato in Cosa nostra con l’ok del generale Mario Mori, coinvolto nella trattativa Stato-mafia. “Che cosa succederebbe se Cosa nostra mettesse una bomba alla Torre di Pisa?”: qualche investigatore ipotizza che sia stato lui a dare (o portare?) ai mafiosi l’idea di attentare al patrimonio artistico. E nel 1993, le stragi “in continente” colpiscono in effetti l’Accademia dei Georgofili a Firenze, il Padiglione d’arte contemporanea a Milano e due basiliche a Roma. Ora una cassetta “Super 8” scovata nell’Archivio di Stato dagli avvocati dei familiari delle vittime mostra un uomo che si aggira nei pressi del primo binario della stazione di Bologna pochi minuti dopo l’esplosione. Capelli ricci, grossi baffi, sopracciglia folte: davvero simile a Bellini nelle foto di quegli anni. Indagato (per depistaggio) anche l’ex generale dei servizi segreti Quintino Spella, che continua a negare ciò che gli ha raccontato nel luglio 1980 il giudice Giovanni Tamburino. È l’annuncio della strage, un mese prima. Da Tamburino, allora magistrato di sorveglianza a Padova, arriva un neofascista, Luigi Vettore Presilio, accompagnato dall’avvocato Franco Tosello. Ha una storia pesante da raccontare. Anzi due. Ha sentito in carcere che sono in preparazione due azioni: un agguato al giudice Giancarlo Stiz, il primo ad aver indagato sulla “pista nera” per la strage di piazza Fontana; e un “attentato di eccezionale gravità che avrebbe riempito le pagine dei giornali nella prima settimana d’agosto”. Sull’agguato a Stiz, Tamburino manda subito una nota scritta alla Procura di Padova. Dell’altro annuncio, più generico, parla con il comandante locale dei carabinieri, che gli organizza un incontro con Spella, allora dirigente del Centro Sisde (il servizio segreto civile, erede degli Affari riservati di D’Amato) di Padova. Tamburino lo incontra il 15, il 19 e il 22 luglio 1980. Poi ancora il 6 agosto, a strage compiuta, dopo aver scritto ai magistrati di Bologna che infatti interrogano subito Vettore Presilio, il quale conferma i suoi racconti, pur senza svelare le fonti. Qualche tempo dopo, il “nero” viene trovato in carcere massacrato di botte. In compenso l’agente segreto si dimentica gli incontri con il giudice. Li nega nell’interrogatorio del 25 gennaio 2019 e anche nel confronto con Tamburino del 14 maggio.

Indagato anche Piergiorgio Segatel, nel 1980 carabiniere a Genova. Mente, secondo gli investigatori, quando nega di essere andato un paio di volte da Mirella Robbio, moglie del neofascista di Ordine nuovo Mauro Meli, a chiederle di indagare tra i “vecchi amici del marito”, perché “la destra stava preparando qualcosa di veramente grosso”. E indagato infine Domenico Catracchia, amministratore di una società immobiliare usata da Vincenzo Parisi, capo della Polizia e poi vicedirettore del Sisde. Nega di aver affittato ai neofascisti dei Nar, nel settembre-novembre 1981, un appartamento in via Gradoli. Sì, proprio la via dove durante il sequestro di Aldo Moro, nel 1978, vivevano i brigatisti rossi Mario Moretti e Barbara Balzerani.

“La P2 organizzò la strage. Bellini portò la bomba”

La Procura generale di Bologna ha chiuso con la notifica di quattro avvisi di fine indagine, la nuova inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980. Tra i destinatari c’è Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, ritenuto un esecutore materiale: il 66enne reggiano era noto per aver conseguito il brevetto di pilota. Potrebbe essere stato lui a portare in volo la bomba che causò 85 morti e 200 feriti alla stazione bolognese.

L’ex “Primula nera” avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, tutti deceduti. Per l’avvocato generale Alberto Candi e i sostituti pg Umberto Palma e Nicola Proto che hanno coordinato le indagini di Guardia di Finanza, Digos e Ros, il venerabile della P2 e Ortolani sono stati i mandanti-finanziatori, mentre D’Amato è stato il mandante-organizzatore coadiuvato da Tedeschi nella gestione mediatica della strage, pre e post, e nell’attività di depistaggio delle indagini.

Gli altri indagati sono Quintino Spella e Piergiorgio Segatel, per depistaggio, mentre Domenico Catracchia risponde di false informazioni al pm al fine di sviare le indagini in corso. L’indagine nasce grazie al dossier presentato dall’Associazione dei familiari delle vittime.

Un vero “faldone” ritenuto però poco interessante dalla Procura ordinaria di Bologna che nel marzo del 2017 aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo di inchiesta sui mandanti rimasto contro ignoti.

A ottobre, il giorno dopo la decisione del gup di rinviare a giudizio l’ex Nar Gilberto Cavallini (condannato poi in primo grado a gennaio scorso) per aver offerto supporto nella strage, la Procura generale di Bologna avoco a sè quel fascicolo. “Ci è parso che ci sia ancora qualche spunto investigativo da approfondire, per il rispetto che si deve alle vittime e alla città di Bologna” spiegò Candi, ‘numero due’ della Procura generale di Bologna. Una motivazione che oggi suona ancora più forte. Gli investigatori hanno ricostruito un giro di denaro movimentato attraverso complesse operazioni bancarie: partito da conti riconducibili a Licio Gelli e Ortolani sarebbe stato poi destinato, indirettamente, al gruppo dei Nar di cui oltre a Cavallini facevano parte Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati in via definitiva come esecutori materiali.

Nel faldone dell’Associazione c’era anche il fascicolo del processo sul crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il “banchiere di Dio” trovato “suicidato”. C’è un atto chiamato “documento Bologna”, sequestrato nel 1982 a Gelli quando fu arrestato in Svizzera. In uno dei fogli c’è l’intestazione “Bologna – 525779 – X.S.”: un numero corrispondente a un conto corrente acceso dello stesso Gelli presso la Ubs di Ginevra in Svizzera. Nel 2013 il figlio di Calvi, Carlo, riassunse in un dossier i flussi di denaro di Licio Gelli, considerati per lui importanti per scoprire chi uccise il padre. Tra gli altri sono riportati diversi bonifici dell’estate 1980, quella della strage di Bologna, per 15 milioni di dollari. Il primo movimento di denaro che ha interessato la Procura generale però è un altro, quello del febbraio del 1979, molti mesi prima: una data che indicherebbe l’inizio dei preparativi per la strage di Bologna.