Graviano può essere chiamato al processo sulla Trattativa

Dopo essersi proclamato “socio’’ in affari di Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano potrebbe essere chiamato a deporre nel processo d’appello per la Trattativa Stato-mafia: i pm Giuseppe Fici e Sergio Barbiera hanno acquisito (finora informalmente) le trascrizioni della sua deposizione a Reggio Calabria, dove il boss è stato interrogato come imputato. E ora, oltre al presunto rapporto con Berlusconi, nell’appello di Palermo si indaga sulle possibili coperture istituzionali di cui l’ex capomafia di Brancaccio avrebbe goduto nei lunghi anni della detenzione, dall’Ucciardone a Pianosa: in oltre 17 mila pagine di indagini integrative, depositate nei giorni scorsi, i pm hanno interrogato una trentina di agenti di custodia, per ricostruire il mistero della nascita dei due figli di Giuseppe e Filippo Graviano, mentre entrambi i boss erano detenuti all’Ucciardone di Palermo, come si legge in un’informativa sui tempi del concepimento. E se tutti gli agenti hanno negato la possibilità che le mogli dei due padrini siano entrate in cella, il sospetto è che Graviano godesse di un trattamento di favore che potrebbe avere mantenuto anche dopo il suo trasferimento a Pianosa, come egli stesso ha rivelato (vantandosi persino di benefici effetti procurati ai compagni di detenzione) al compagno di socialità Umberto Adinolfi nei colloqui intercettati dalla Dia.

I pm stanno valutando anche come ascoltarlo: il boss è tuttora indagato per violenza e minaccia a corpo politico dello Stato e nei suoi confronti pende da due anni all’ufficio del gip una richiesta di archiviazione (datata 18 gennaio 2018) per prescrizione. Nei mesi scorsi, la Corte di assise d’appello ha respinto l’acquisizione della richiesta, in attesa del provvedimento di un “giudice terzo’’, ma oggi – alla luce delle nuove rivelazioni di Graviano – il presidente Angelo Pellino potrebbe rivalutare quella decisione, citando in aula l’ex capomafia di Brancaccio che, se fosse archiviato dal gip, comparirebbe come teste puro, con l’obbligo di dire la verità.

Nella robusta attività integrativa, i pm hanno aperto un focus sull’ambiente carcerario, riproponendo processualmente tre vicende tuttora misteriose avvenute a Rebibbia nell’estate del ’93, subito dopo le stragi: il suicidio di Nino Gioè (uno degli esecutori dell’attentato di Capaci) datato 29 luglio 1993; la permanenza di Totò Riina, nonostante un ordine di trasferimento all’Asinara, nel carcere romano fino alla fine di quell’anno, e l’uso in cella, da parte del capo dei capi, di un telefono cellulare che qualcuno, come segnalato da una nota del Sisde, gli avrebbe consegnato mentre era recluso al 41 bis.

Dai documenti emerge che il 7 luglio l’Ucciardone segnala al Dap che gli impegni processuali di Riina a Palermo si concludono il 20 luglio, ed è il vicecapo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio a chiedere inizialmente di trasferire il superboss da Rebibbia a una struttura alternativa. Il Dap individua il carcere di Sollicciano, e il 26 e 27 luglio ordina un’ispezione in quella struttura. Il 27 luglio è la data in cui Di Maggio incontra l’ufficiale del Ros Mario Mori, per discutere del “problema detenuti mafiosi”, come risulta dall’agenda di Mori. E due giorni dopo muore a Rebibbia Nino Gioè, trovato impiccato alle sbarre della sua cella. Lo stesso giorno il funzionario del Dap Andrea Calabria annota la riunione in cui si è concordato il trasferimento “temporaneo” di Riina a Sollicciano, tenuto conto che l’Asinara aveva bisogno di lavori per circa 45 giorni. Successivamente, quando già a Firenze gli agenti nel piazzale del carcere aspettano l’arrivo dell’elicottero con il capo dei capi, tutto si blocca: il 3 agosto il trasferimento viene prima sospeso e poi revocato da Di Maggio, appena rientrato dalle ferie, sulla base di un appunto del tenente colonnello Enrico Ragosa del Gom che ritiene inopportuno il trasferimento sotto il profilo della sicurezza. “Vi è stata – commenta il pm Fici nella penultima udienza – una non comprensibile determinazione del Dap a mantenere Riina a Roma’’.

Il superboss non si muoverà da Rebibbia neanche dopo la sollecitazione del capo della polizia Vincenzo Parisi che il 1° settembre scrive al Dap e a via Arenula, e nemmeno dopo la richiesta di chiarimenti che il ministro degli Interni Nicola Mancino rivolge al guardasigilli Giovanni Conso che a sua volta sollecita il Dap, nella persona di Andrea Calabria. La risposta arriva con una nota del capo del Dap, Adalberto Capriotti che, sostiene Fici, “fa slalom tra inadempienze, omissioni e propositi di soluzioni in cui si tace della vicenda di Sollicciano e si danno assicurazioni che si sarebbero dati da fare per individuare l’Asinara come il carcere giusto per Riina’’.

Alla fine il trasferimento del boss corleonese arriva il 21 dicembre ’93. Proprio in quell’autunno, mentre il Dap temporeggia, Di Maggio incontra gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giampaolo Ganzer e il colonnello del Sisde Umberto Bonaventura al ristorante “Il Fontanone” di Trastevere per una serie di cene settimanali raccontate dall’ex autista del vicecapo del Dap, Nicola Cristella. Intanto, ai primi di agosto, secondo un appunto del Sisde dell’ottobre ’93, Riina è stato visto telefonare utilizzando un cellulare messo a disposizione da 4 agenti, poi trasferiti, che avrebbero ricevuto 40 milioni di lire a testa. Trasmessa al procuratore di Roma Vittorio Mele, quella nota viene successivamente archiviata. Per approfondire questi temi, oltre alle richieste avanzate dai pm, i giudici dell’appello della trattativa avrebbero voluto ascoltare in aula gli ex direttori dell’Ucciardone e di Sollicciano, Armida Miserere e Paolo Quattrone. Ma entrambi sono morti suicidi: la prima il 19 aprile 2003, il secondo il 22 luglio 2010.

Salvini ringrazia, ma insiste: vuole farsi processare

Forza Italia e Fratelli d’Italia ne fanno una questione di coerenza. Ma presentando un ordine del giorno per dire no al processo a Matteo Salvini per la gestione dei migranti a bordo della Nave Gregoretti, i partiti di centrodestra avevano pure sperato di vedere se le crepe nella maggioranza – alle prese con il controcanto dei renziani sulla prescrizione e non solo – potessero deflagrare stamattina al Senato al momento del voto. Renzi però stavolta ha rinunciato al ruolo di attaccabrighe: “Salvini ha chiesto di essere processato, lo accontenteremo – ha annunciato l’ex premier –. Secondo me ha sbagliato politicamente, anche se fatico a vedere un reato, ma lo decideranno i magistrati”.

Così resta il sospetto che Salvini abbia chiesto ai suoi alleati di salvargli la faccia: lui infatti non può opporsi oggi al processo che ha sempre detto di volere, almeno finché c’era una campagna elettorale in cui lucrare voti tuonando contro chi lo vorrebbe eliminare per via giudiziaria.

E così a Forza Italia e FdI sarebbe toccato di contrapporsi alla richiesta dei magistrati di Catania, lasciando traccia per chi giudicherà Salvini per il reato di sequestro aggravato di persona, che non tutto il Senato concordava con la Giunta che tre settimane fa ha dato semaforo verde all’autorizzazione a procedere. Proprio grazie ai voti della Lega che in quel momento aveva bisogno di dire, prima delle elezioni in Emilia Romagna, che il capo rischiava di andare in galera pur di salvare i confini della Patria.

Ma sembra un secolo fa. E la Lega oggi in aula non dovrebbe partecipare al voto. Anche se sulla tattica parlamentare che sarà adottata è ancora tempo dei giochi di prestigio e di veline. Matteo Salvini nel corso di una riunione del suo gruppo ieri al Senato avrebbe chiesto ai suoi “di non impedire il processo perchè vuole un chiarimento in tribunale sulla legittimità del proprio operato”. E quelli invece lo avrebbero addirittura scongiurato di ripensarci. La verità è che pure sommando Forza Italia, Fratelli di Italia e Lega non si arriverebbe mai a quota 161 voti indispensabili ad assicurare l’impunità dal capo del Carroccio.

E così gli alleati gli ribadiranno fedeltà tentando di salvarlo dai magistrati, ma con lui che rema contro. Questo dopo la discussione generale in cui il capo leghista intereverrà per prendersi la scena e il suo avvocato Giulia Bongiorno (che pure gli ha consigliato di non insistere con la linea che ha imposto in Giunta) ad arringare in aula per smontare le accuse che gli sono rivolte nella richiesta di autorizzazione.

Prima ancora un’altra leghista, Erika Stefani, dirà che Salvini non merita di andare a un processo e che la Lega ha tanto apprezzato la relazione dell’azzurro Maurizio Gasparri che voleva salvarlo dalle grinfie dei giudici, pur avendola dovuta bocciare. In questo teatro dell’assurdo, i contenuti dell’ordine del giorno di Fratelli d’Italia e Forza Italia, passano in secondo piano. La scialuppa che Salvini fa finta di disdegnare ricalca la relazione elaborata da Maurizio Gasparri in Giunta in cui erano state evidenziate le analogie del caso della Nave Gregoretti con quello della Nave Diciotti su cui il capo del Carroccio l’aveva scampata anche grazie ai voti dei 5 Stelle allora suoi alleati.

L’astenuto Caliendo e il giudice forzista: vitalizi “in famiglia”

La decisione è nelle mani di Luigi Vitali, già sottosegretario alla Giustizia con Silvio Berlusconi: sarà proprio lui a decidere sulla richiesta del suo collega di partito Giacomo Caliendo che ora vorrebbe astenersi rispetto ai ricorsi contro il taglio dei vitalizi a Palazzo Madama. Un ulteriore colpo di scena dopo l’anticipazione del Fatto della sentenza che si preparava ad azzerare il ricalcolo degli assegni e predisposta ben prima della camera di consiglio del 20 febbraio prossimo. Con la coda inevitabile di proteste che culmineranno sabato con la manifestazione di piazza convocata per il 15 febbraio dal Movimento 5 Stelle a Roma.

A quanto è stato possibile ricostruire, Caliendo ha formalizzato in una missiva la sua volontà di astenersi, dopo averla annunciata già in aula la scorsa settimana, nella giornata di ieri. Indirizzandola a Vitali, presidente del Consiglio di garanzia, il collegio dove possono essere appellate le decisioni della Commissione contenziosa, è pure teoricamente “il capo dell’ufficio superiore” a cui fa riferimento il codice di procedura civile all’articolo 51 per disciplinare i casi di astensione del giudice. Per quanto un giudice interno al Senato come è Caliendo. Che ha annunciato di volersi chiamare fuori data la pressione mediatica e col fine di tutelare “la serenità delle istituzioni” messa in discussione dopo giorni di polemiche che hanno chiamato in causa anche la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.

“Caliendo è una persona sensibile e dal punto di vista umano la sua posizione è comprensibile. Ma la sua astensione è totalmente ingiustificata”, spiega al Fatto Maurizio Paniz l’avvocato che ha presentato per conto degli ex parlamentari colpiti nel portafogli dal taglio ai vitalizi imposto un anno fa, circa mille ricorsi tra Camera e Senato. “Se la sua astensione verrà respinta dovrà decidere, salvo non voglia dimettersi: in quel caso gli subentrerà un supplente” spiega ancora Paniz. E nel caso in cui invece la sua richiesta venisse accolta? “Sempre a mutuare le norme dal codice, a quel punto sarà il presidente del collegio di appello a doversi far carico della sentenza”. Cioè, a quel che pare di comprendere, Vitali stesso.

Insomma un gran pasticcio che manda in tilt l’autodichia (il sistema di la giustizia interna) di Palazzo Madama mentre la pressione della protesta incombe: prima l’appuntamento era in Piazza San Silvestro, location defilata e più raccolta. Ora però, come ha annunciato la vicepresidente del Senato dei 5 Stelle, Paola Taverna, c’è una novità: “In questi giorni le adesioni per la manifestazione di sabato 15 febbraio sono aumentate a tal punto che abbiamo dovuto scegliere una piazza più grande”. Il nuovo appuntamento è dunque sempre per sabato alle 14, ma in Piazza Santi Apostoli. Che non solo nell’immaginario collettivo rimane la piazza dell’Ulivo e poi del Pd. Ma al di là della capienza assai maggiore è pure terribilmente più vicina, rispetto a San Silvestro, a Palazzo Madama.

E così ieri c’era pure chi suggeriva un altro finale di partita rispetto alla decisione attesa sui vitalizi al Senato. Ossia che dopo la decisione sull’astensione di Caliendo attesa per inizio della prossima settimana si possa determinare un effetto domino tale che metta in condizioni la presidente Casellati di dover sostituire l’intera Commissione contenziosa. Qualcosa in questo senso si è già mosso nelle ultime ore se è vero che i due membri laici supplenti (chiamare a integrare il collegio in caso di assenza dei titolari), si sarebbero fatti già da parte per non finire nel tritacarne.

Toscana, stop M5S: “No all’accordo col Pd”

La trattativa andava avanti da mesi, già dalla formazione del governo giallorosa. I “delegati” per trovare un accordo sull’alleanza anche in Toscana avevano un nome e cognome: l’uomo di Nicola Zingaretti a Firenze, Valerio Fabiani, e il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle vicino a Roberto Fico, Gabriele Bianchi. I due da tempo lavoravano insieme su legalità e antimafia, ma negli ultimi mesi si erano sentiti spesso per mettere in piedi un’alleanza in vista delle regionali di maggio, l’ultima volta solo una decina di giorni fa quando era bastata una telefonata per “scongelare” i grillini dall’immobilismo e cercare un’intesa sul nome di Eugenio Giani.

E invece no, perché quando è emerso che Pd e M5S stavano trattando per un accordo regionale, è arrivato il diktat da Roma: “Nessun accordo, andiamo solo con liste civiche” è stato il niet fatto pervenire alla candidata M5S in Toscana, Irene Galletti, direttamente dal capo politico reggente Vito Crimi. Non è bastata quindi la vittoria alle regionarie di un’aperturista come Galletti (857 preferenze) contro il dimaiano Giacomo Giannarelli (Bianchi era arrivato solo terzo) a riavvicinare Pd e M5S in Toscana. Secondo quanto risulta al Fatto sarebbe intervenuto anche un ministro, forse il “fiorentino” Alfonso Bonafede, per bloccare la trattativa in corso.

La strategia del M5S in vista delle Regionali di maggio per il momento è chiara: cercare di risolvere il prima possibile le spinose questioni di Liguria e Campania, dove i giallorosa stanno provando faticosamente a trovare una quadra, e poi della Toscana se ne riparlerà. Ma Bianchi, che nel frattempo si era candidato per una riconferma da consigliere regionale del Movimento, non è disposto ad aspettare, con il rischio che alla fine la trattativa venga bocciata comunque da Roma. E così ieri ha deciso per lo strappo: dopo giorni di riflessione ha lasciato il gruppo del M5S in consiglio regionale passando al misto, di fatto entrando nella maggioranza di centrosinistra.

“Avevamo iniziato un dialogo che era già a buon punto – racconta amareggiato Bianchi al Fatto – poi tutto si è fermato anche se non mi hanno ancora spiegato il perché: è un errore grosso non allearsi con il Pd perché così si rischia di far vincere la Lega”. Lasciando il Movimento, Bianchi ha anche annunciato che alle prossime regionali sosterrà il candidato del centrosinistra (compresa Italia Viva), Eugenio Giani: “Porrò a Giani e alla coalizione di sinistra gli obiettivi da raggiungere e da inserire nel programma come la legalità e la lotta alla corruzione”. La candidata pisana Galletti nel frattempo continua a glissare sull’argomento parlando di un generico “dialogo”, ma nel frattempo passi avanti non sono stati fatti anche se la base, che nella (ex) Toscana rossa viene soprattutto dal centrosinistra, chiede almeno di andare “a vedere le carte”. A spingere per un’alleanza con il Pd sono soprattutto i Meet Up della costa, da Pisa a Livorno fino a Grosseto. Sul fronte dem, invece c’è rammarico per lo stop dei vertici del M5S perché, fanno sapere, “un dialogo era partito e con la vittoria di Galletti e il passo indietro di Luigi Di Maio, eravamo arrivati a una svolta. Ora tutto si è fermato ma continueremo a provarci nei prossimi giorni”.

Mentre il candidato Giani si trova a dover dirimere la querelle con i renziani che non vogliono una lista civica del Presidente per non oscurarli, il vicesegretario toscano Fabiani commenta lo stato della trattativa: “È un confronto che ho voluto perché da sempre sostengo la necessità di un dialogo e della costruzione di punti di incontro con i 5 Stelle – dice – ma mi preoccupa che Bianchi abbia dovuto strappare con il Movimento per compiere questo passo: è un segnale di irrigidimento del loro dibattito interno intorno alla costruzione di un fronte unico con il Pd”.

“Processate i Renzi: 3 coop in bancarotta fraudolenta”

Il prossimo 9 giugno Tiziano Renzi e Laura Bovoli si troveranno ad affrontare una nuova udienza preliminare. Il pm fiorentino Luca Turco ha infatti depositato, nei confronti dei genitori dell’ex premier e di altre 16 persone, la richiesta di rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta con al centro tre cooperative: la Delivery Service Italia, la Europe Service e la Marmodiv. L’udienza preliminare è stata fissata e tra quattro mesi sarà il gip Silvia Romeo a decidere se mandare tutti a processo oppure archiviare. L’indagine di cui si parla è quella che a febbraio del 2019 portò i genitori del leader di Italia Viva ai domiciliari, misura revocata dopo 18 giorni.

Partiamo dunque dalla Delivery Service Italia, cooperativa dichiarata fallita a giugno 2015 e di cui Tiziano Renzi e Laura Bovoli, accusati di bancarotta fraudolenta, per il pm Turco, sono stati amministratori di fatto fino a giugno 2010. In questo caso secondo le accuse i due, con altri – tra cui Roberto Bargilli, l’autista del camper di Matteo Renzi per le primarie del 2012 e in passato nel Cda della cooperativa – avrebbero cagionato “il fallimento della società per effetto di operazione dolosa consistita nell’aver omesso sistematicamente di versare gli oneri previdenziali e le imposte, o comunque, aggravando il dissesto”. Per quanto riguarda la Europe Service, fallita ad aprile 2018, invece i Renzi – “amministratori di fatto fino a dicembre 2012” – sono accusati con altri di aver sottratto “con lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, i libri e le altre scritture contabili”.

C’è poi il caso della Marmodiv, cooperativa fallita più di recente, ossia ad aprile dello scorso anno. La bancarotta fraudolenta in questo caso viene contestata oltre che a Tiziano Renzi e Laura Bovoli, anche a Giuseppe Mincuzzi “presidente del cda fino al marzo 2018” e a Daniele Goglio “amministratore di fatto fino a marzo 2018” della Marmodiv. Per il pm, i quattro “concorrevano a cagionare il dissesto della società esponendo, al fine di conseguire un ingiusto profitto, nel bilancio di esercizio al 31 dicembre 2017 (…) nell’attivo patrimoniale, crediti per ‘fatture da emettere’ e non rispondenti al vero per un importo superiore a 370 mila euro, così iscrivendo a conto economico maggiori ricavi ed evitando di evidenziare una perdita d’esercizio”. Così, continua il capo di imputazione, “Renzi, Bovoli e Mincuzzi erano in grado di ‘cedere’ a Goglio la cooperativa ormai fortemente indebitata”.

Per la Marmodiv i Renzi, con altre sei persone, sono accusati anche di aver emesso alcune fatture “per operazioni… in parte inesistenti” “al fine di consentire alla Eventi 6 l’evasione delle imposte sui redditi”. La Eventi 6 (di cui erano socie la mamma e le sorelle di Renzi, estranee all’indagine fiorentina), si occupava della distribuzione di volantini e giornali. A giugno quindi si saprà se ci sarà un rinvio a giudizio o l’archiviazione.

Intanto per il solo Tiziano Renzi si attende la decisione di un altro gip, Gaspare Sturzo del Tribunale di Roma, nell’ambito di un’inchiesta diversa. Si tratta dell’indagine Consip: all’inizio Renzi Sr. era accusato di traffico di influenze insieme a Carlo Russo. Poi però i pm hanno chiesto per il padre dell’ex premier l’archiviazione e accusato Russo di millantato credito: sono convinti che Russo faceva accordi con l’imprenditore Romeo, offrendo in cambio influenze sui vertici Consip, millantando all’insaputa di Tiziano Renzi.

“La Moby Prince non ha colpevoli. Senza reato di strage è tutto finito”

“Quella mattina, davanti a 140 lenzuoli bianchi sulla banchina del porto di Livorno, mi sono fatto una promessa: non mi sarei dato pace finché non avrei trovato giustizia. Ventinove anni dopo siamo ancora qui”. Loris Rispoli, 63 anni e un passato da impiegato alle poste, quel 10 aprile 1991 perse la sorella Liana, che di lavoro faceva la hostess per la compagnia Navarma, ma in un misto di commozione e vernacolo livornese, ostenta un certo “imbarazzo” a parlare di lei e preferisce raccontare la storia di tutte le 140 vittime del disastro Moby Prince. Rispoli è il presidente dell’associazione “Io sono 141” che da 29 anni sta cercando la verità sul più grave disastro navale della storia italiana: “Oggi un colpevole ancora non c’è e per la giustizia italiana il disastro non è mai accaduto. Anche per colpa della prescrizione”.

La sera del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince, salpato in direzione Olbia entra in collisione con la petroliera Agip Abruzzo: subito dopo l’impatto si sviluppa un incendio alimentato dalla fuoriuscita di petrolio. Le fiamme si propagano velocemente e tra scarse segnalazioni con il porto di Livorno e soccorsi che arrivano solo un’ora e mezza dopo, il bilancio delle vittime è da bollettino di guerra: 140 morti e un unico superstite. Partono le indagini, ma due mesi dopo l’accaduto la Navarma dell’armatore Vincenzo Onorato, la Snam che arma la petroliera, l’Agip e gli assicuratori firmano un accordo segreto che metterà una pietra sul disastro e sull’inchiesta: Snam avrebbe pagato i danni ambientali, Navarma avrebbe risarcito i familiari delle vittime e in cambio questi ultimi non avrebbero fatto alcuna azione legale. Il processo di primo grado per omissione di soccorso e omicidio colposo contro ufficiali di Marina e comandante della Capitaneria di porto si apre solo nel 1995 mentre la prima sentenza è del 1997: tutti assolti perché il fatto “non sussiste”. Due anni dopo, però, la Corte di appello di Firenze ribalta la sentenza di primo grado riconoscendo la responsabilità dell’ufficiale della Agip Valentino Rolla, ma ormai tutti i reati sono prescritti. Nessun colpevole. L’inchiesta riaperta nel 2006 per il coinvolgimento di navi americane che trasportavano armi viene archiviata nel 2010, ma la commissione parlamentare d’inchiesta conclusasi nel 2018 ha fatto luce su nuovi elementi: non c’era la nebbia, qualche vita si sarebbe potuta salvare, da parte della Capitaneria di porto ci fu “impreparazione e inadeguatezza” e il traghetto fu trovato dai soccorsi solo “casualmente”. La Procura di Livorno a dicembre 2018 ha aperto un nuovo fascicolo.

Signor Rispoli, non sarà già tutto prescritto?

Sì, a meno che non venga ipotizzato il reato di strage. In quel caso, finalmente potremmo arrivare a vedere una luce: quella della Giustizia.

C’è qualche possibilità?

Forse sì, nel processo di primo grado si diceva che i passeggeri della nave erano morti subito e quindi non poteva essere una strage perché nessuno avrebbe potuto salvare quelle vite umane. Il reato era quello di omicidio colposo e omissione di soccorso. Otto anni dopo, tutto è andato prescritto e noi oggi siamo qui a cercare ancora la verità.

Cosa si ricorda di quel giorno?

Stavo facendo servizio notturno alla stazione per scaricare le lettere e mi sono reso conto di un colore rossastro che veniva dal mare e di un insolito puzzo di bruciato. Ho chiesto informazioni, ma nessuno sapeva nulla, fino alle tre di notte quando la prima edizione de il Tirreno ha dato la notizia: con mia moglie siamo corsi subito al porto.

Cosa si vedeva?

Niente, ma quell’esperienza fu drammatica: sulla banchina c’erano decine di ambulanze e molti dicevano che erano tutti morti. Poi arrivò l’annuncio della prefettura, non potrò mai dimenticarlo.

Cos’è successo poi?

La mia vita, da quel giorno, è cambiata completamente. Già a partire dal riconoscimento di mia sorella, che ho fatto da solo perché non volevo che i miei la vedessero in quelle condizioni. Ma davanti a quei lenzuoli bianchi mi sono promesso che avrei cercato giustizia per tutto il resto della mia vita.

Ma a oggi non è ancora arrivata.

No, anche se è stato fondamentale l’incontro con i familiari delle vittime di Viareggio. Quando al processo hanno condannato a sette anni Mauro Moretti, per loro erano pochi ma per noi erano tantissimi. Nel nostro caso non è mai stato condannato nessuno, né il marinaio di terzo grado né il comandante, né l’armatore: io voglio che se un cittadino prende un traghetto, l’armatore sia responsabile della sua vita e di chi ci sta a bordo.

Cosa vi spinge ad andare avanti ancora oggi?

La voglia di arrivare alla verità. È una promessa intima che ho fatto a mia sorella.

Se fosse stata in vigore la norma sulla prescrizione, forse non sarebbe finita così.

Esatto, ed è per questo che noi come associazione siamo favorevoli a questa legge: non si possono prescrivere disastri di questo tipo. Il ministro Bonafede, negli anni passati, è venuto più volte a Livorno ed è stato uno dei pochi politici ad assicurarci che avrebbe fatto una legge per evitare prescrizioni per tragedie come la nostra. Non è possibile che la strage non sia esistita, non è possibile che non ci siano responsabili.

Si spera che non sia la Lega a liberarci dal bullo pokerista

In un eccesso di avventurismo e irresponsabilità, questo diario arriva a desiderare che il premier Conte, e Nicola Zingaretti con il Pd compatto (lo so, esagero), e le cinque correnti dei 5Stelle, e il ministro Roberto Speranza insieme alla sinistra sanitaria debellino una volta per tutte il coronavirus del ricatto politico e vadano a vedere il bluff di Matteo Renzi: ciccio, presenti la mozione di sfiducia al ministro Alfonso Bonafede per fare cadere il governo sul blocco della prescrizione?, accomodati. C’è del metodo in questa follia e cerco di spiegarlo.

1. Come abbiamo già scritto domenica scorsa, il bullo fiorentino è un maldestro pokerista sull’orlo di una crisi di nervi. Si gioca le ultime fiches pregando il dio dell’azzardo che nessuno venga a vedergli il punto che non ha. Se il bluff gli riesce avrà in suo potere il resto della maggioranza che da quel momento in poi taglieggerà a ogni occasione pavoneggiandosi come un redivivo (via Hammamet) Ghino di Tacco. Viceversa, se gli sarà chiesto di mostrare le carte avrà di fronte due possibilità. Si arrende, perde la faccia soprattutto davanti ai suoi ma almeno evita il buco nero delle elezioni anticipate e del disastro annunciato di Italia Viva. Oppure, rovescia il tavolo, insiste per l’immediata cacciata del ministro della Giustizia e mette in moto, al buio, la crisi di governo e una serie di conseguenze imprevedibili per la sua stessa sopravvivenza politica.

2. Mettiamo che il Ghino di Rignano vada fino in fondo, sfidando le ire di quanti (tanti) nel partitino virtuale sanno che difficilmente torneranno in Parlamento stante soprattutto l’esito scontato a favore del sì del referendum sul taglio dei deputati e senatori del prossimo 29 marzo. Mettiamo che Giuseppe Conte non riesca a raccattare un numero sufficiente di “responsabili” disponibili a puntellare la scricchiolante maggioranza al Senato. Mettiamo che non ci provi neppure e che dopo la bravata renziana si rechi al Quirinale con le dimissioni in tasca. Mettiamo che il presidente Mattarella non abbia, come dicono, nessuna intenzione di tentare la formazione di una nuova maggioranza (a questo punto ancora più precaria e raccogliticcia di quella uscente). Mettiamo che si vada, presto in primavera, al voto anticipato. Dove sarebbe la tragedia?

3. Da un anno ormai il martellante frastuono della Bestia salviniana ha generato, soprattutto a sinistra, la psicosi collettiva del si salvi chi può sulla base della vittoria annunciata e inevitabile dei sovranisti. Ma chi l’ha detto? Se osserviamo gli ultimi sondaggi (da Pagnoncelli al tg di La7) si noterà che il blocco del centrosinistra (Pd + M5S + LeU + Verdi + Bonino e Calenda) non è lontano dal centrodestra (Lega + Meloni + Berlusconi). Più o meno 49 a 51%. Vero è che nel centrosinistra regnano i protagonismi di troppe primedonne, e che cercare di mettere insieme, per esempio Luigi Di Maio e Carlo Calenda è come essere convinti che Morgan e Bugo abbiano solo fatto finta di litigare per meschine ragioni di visibilità (per quanto in fondo…). Però siamo davvero sicuri che sul versante opposto Silvio Berlusconi abbia questa gran voglia di reggere la coda a Matteo e Giorgia, a cui un tempo faceva fare anticamera? Sia come sia, dove sta scritto che con una campagna elettorale stile Emilia-Romagna, e dunque con un programma serio, leader credibili e annesse Sardine, il fronte del bene debba per forza soccombere?

4. Ipotesi peggiore. La destra-destra trionfa e Matteo Salvini sale a Palazzo Chigi dove ottiene i pieni poteri. Squadristi in azione, olio di ricino à gogo, ma almeno ci siamo liberati del bullo. Oppure se lo sorbetta lui.

Spazzacorrotti, l’Avvocatura dello Stato smentisce il governo sul carcere retroattivo

All’oscuro del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ieri in Corte costituzionale l’avvocato della Stato Massimo Giannuzzi ha sorpreso davvero tutti, dai giudici ai penalisti ai giornalisti: ha chiesto, come gli avvocati difensori, che la legge Spazzacorrotti venga dichiarata non retroattiva nella parte in cui nega misure alternative al carcere ai condannati per reati gravi contro la Pubblica amministrazione commessi prima dell’entrata in vigore della norma, il 31 gennaio 2019.

Avere un colpo di scena, è proprio il caso di dirlo, in un’udienza della Corte costituzionale è quasi impensabile, figurarsi poi da parte dell’Avvocatura dello Stato che nei fatti ha sempre difeso le leggi del governo e del Parlamento di turno. Poiché nel campo del diritto la forma è più che mai sostanza è bene, però, chiarire che l’Avvocatura dello Stato non pensa, come le parti avverse, che il punto contestato della Spazzacorrotti sia incostituzionale. Giannuzzi chiede alla Corte di dichiarare la irretroattività in altro modo, con il suo potere di indicare l’interpretazione di una norma: “La legge non è incostituzionale, ma è possibile intervenire con una interpretativa di rigetto, formulando l’affermazione che tutte le norme che peggiorano lo stato di libertà del detenuto vadano lette in termini di non retroattività”.

Ma per mafiosi e terroristi, il regime del carcere duro, il 41 bis, fu applicato retroattivamente. Come arriva, dunque, alla posizione di ieri l’avvocato dello Stato? Dopo aver sentito i difensori, dice in udienza.

Pare, per dirla in gergo, si sia convinto che per la legge del ministro Bonafede buttasse male e che piuttosto di farla andare incontro al marchio dell’incostituzionalità ha pensato di chiedere alla Corte, in concreto, la stessa cosa delle controparti, la irretroattività, ma con una forma-sostanza ben diversa, la cosiddetta sentenza interpretativa di rigetto, appunto: “In particolare, dopo aver ascoltato il professor Vittorio Manes e i suoi richiami alla comparazione con gli altri Paesi europei devo parzialmente correggere le nostre conclusioni”.

Il cambio di rotta o “parziale correzione”, come la chiama Giannuzzi, si riferisce alla memoria depositata presso la Consulta a ottobre. In quel caso, l’avvocato dello Stato aveva seguito la linea, secondo quanto ci risulta, contenuta in una nota del ministero della Giustizia: richiesta di inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata da molteplici giudici di merito, perché essi stessi avrebbero potuto interpretare la natura “sostanziale” della norma e come tale dichiararla irretroattiva, nel solco della Costituzione e della Corte europea per i diritti dell’Uomo. Ma il convincimento, come detto, che la Corte possa dichiarare incostituzionale la legge, anche alla luce della sua sentenza del 23 ottobre, che ha ridato ai tribunali di Sorveglianza il potere di poter concedere anche ai detenuti mafiosi e terroristi i permessi premio, prima preclusi, lo ha spinto ad avanzare la sua richiesta dell’interpretazione nel senso della irretroattività. Cioè la stessa richiesta, in via subordinata, del professor Manes: “È una questione cruciale per l’equilibrio dello Stato di diritto. Lo Stato non può cambiare le carte in tavola a sorpresa”.

In udienza c’era anche Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, protagonista della battaglia contro il blocco della prescrizione. Al termine attacca Bonafede e il M5S: “Non si è mai vista una legge appena promulgata travolta così da ordinanze di giudici di tutta Italia”. Diversi ricorsi contro la Spazzacorrotti saranno discussi oggi dai giudici in camera di consiglio. Al termine potrebbe esserci la decisione, ma la Corte potrebbe anche rinviare al 26 febbraio quando ci sarà un nuovo esame.

Ma la decisione della Corte sarà già arrivata il 20 marzo quando la Cassazione dovrà decidere sul ricorso dell’avvocato generale di Milano Nunzia Gatto contro i domiciliari concessi dal Tribunale di Sorveglianza a Roberto Formigoni, condannato per corruzione, finito in carcere per la Spazzacorrotti e dopo pochi mesi agli arresti a casa.

Prescrizione, Renzi vota con le destre di B. e Salvini

“Se la so’ cercata”. Così andava dicendo ieri mattina un Matteo Renzi più sopra le righe che mai alla buvette del Senato. La minaccia si concretizza già nel pomeriggio. Italia Viva vota nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Bilancio, insieme a Lega, FI e FdI un emendamento al Milleproroghe, a prima firma Magi, che prevede la sospensione fino al 31 dicembre 2023 della legge Bonafede sulla prescrizione. La proposta di modifica viene bocciata con i voti contrari di Pd e M5S (44) e i voti favorevoli (42) di Lega, FI, FdI e Iv. Numeri sul filo, come fanno notare i renziani. “Al Senato, immaginatevi”.

La giornata era andata avanti tra mediazioni piuttosto complicate e per certi versi contraddittorie. Al ministero della Giustizia stanno studiando tutti i modi possibili per recepire l’accordo (raggiunto da Pd, M5S e LeU) sul lodo Conte bis per modificare la norma Bonafede sulla prescrizione. A metà giornata diventa ufficiale che non finirà in un emendamento al Milleproroghe. I renziani esultano. Al Cdm di domani dovrebbe arrivare un disegno di legge. Giuseppe Conte, sempre più indispettito da Renzi, che considera un sabotatore della sua esperienza, continua però a mediare. Non tanto per la paura dei numeri al Senato (tra assenze, defezioni e “soccorso” dei Responsabili in realtà la maggioranza dovrebbe averli), ma per cercare di portare avanti l’esperienza riformatrice di quest’esecutivo. Da Palazzo Chigi ci tengono a far sapere che la decisione di non presentare l’emendamento al Milleproroghe è dovuta a motivi tecnici. Ma l’umore non è dei migliori. Perché, mentre l’ex premier minaccia mozioni di sfiducia, Conte (che ieri ha incontrato il presidente della Camera, Roberto Fico, per due ore) passa da un tavolo all’altro. Insomma, fare politica “vuol dire mediare, non imporre”, è la considerazione che va per la maggiore.

Fatto sta che il governo è andato incontro alle richieste di Iv di non fare un decreto. Una soluzione peraltro graditissima al Guardasigilli, visto che lascia la sua riforma in vigore per mesi. L’effetto paradosso viene fatto notare dal Pd compatto. “Una vittoria di Pirro”, la definisce il responsabile organizzazione dem, Stefano Vaccari. Su tutti, Alfredo Bazoli, capogruppo in Commissione Giustizia: “Italia viva canta vittoria perché la modifica della legge Bonafede su prescrizione non andrà nel Milleproroghe né in un decreto legge. Cioè esulta perché la Bonafede non verrà modificata, rimarrà così com’è per chissà quanto ancora. Non c’è che dire, dei geniacci della politica”.

Sempre nel pomeriggio, arriva la notizia che la Lega ha firmato il lodo Annibali (sul quale c’è il no del governo). I sospetti su un patto tra Renzi e Salvini per far cadere il governo vanno avanti da mesi. Anche se tra i vicinissimi dell’ex premier resta la perplessità: con quale vantaggio per un partito che al momento vale meno del 4% nei sondaggi? Ci sarebbe la variabile del governo Draghi, lanciata da Giancarlo Giorgetti. Ma appare molto complicata, vista anche la contrarietà di Sergio Mattarella a far nascere un altro esecutivo senza passare per le elezioni. “Caos organizzato”, si limita a commentare Giorgetti. Il punto è che agli stessi renziani non è chiaro dove voglia arrivare il loro capo. La paura che per l’ennesima volta la voglia di rivalsa e il tentativo di uscire dall’angolo gli prendano la mano, arrivando pure a far cadere l’esecutivo, è tanta. E i contatti dei renziani in queste ore sono a 360 gradi, dal centrodestra agli ex compagni di partito. Senza risultati chiari.

Non a caso, ci sono al lavoro i pontieri di Base Riformista nel Pd. Secondo le voci che si rincorrono, l’asse con Salvini sarebbe più che altro una minaccia. Ma quello che Renzi vorrebbe davvero è magari entrare al governo con un rimpasto oppure avere più cittadinanza in quello che c’è. “Se lo può scordare. Se si fa un rimpasto, lui di ministri ne prende 1, invece di 2”, spiegano al Nazareno. L’idiosincrasia per l’ex premier è ormai massima. “È impazzito, non fa altro che agitarsi per attirare l’attenzione. Noi sosteniamo il governo, aiutiamo i Cinque Stelle. Poi, certo, si vedrà”. I falchi ci sono anche in casa dem: stando ai sondaggi, il Pd è l’unico partito che avrebbe qualche vantaggio nel votare ora. E l’idea di togliere di mezzo il senatore di Scandicci fa aumentare la tentazione.

Intanto, il voto sull’emendamento Annibali, previsto in serata, slitta: Pd e M5S non sono sicuri di avere i numeri. Oggi si ricomincia. Finale incerto.

La scatola nera

Piazza Fontana, delitto Calabresi, delitto Moro, strage di Bologna, Capaci e via D’Amelio, bombe di Roma, Firenze e Milano, trattativa Stato-mafia. A dispetto della visione unitaria di pochi magistrati, giornalisti e storici squalificati come complottisti e acchiappa-teoremi, la narrazione mainstream ha sempre respinto la teoria del “doppio Stato”, spacciando le varie tappe della strategia della tensione di destra e di sinistra come una serie di fatti isolati e slegati, senz’alcuna regìa superiore. Nel 2009 il presidente Giorgio Napolitano, lo stesso che da ministro dell’Interno si era vantato di non “aprire gli armadi” del Viminale, impose urbi et orbi la linea negazionista, intimando di smetterla con il “fantomatico doppio Stato”. Come se il capo di uno Stato democratico potesse mettere la camicia di forza alla ricerca storica e alle indagini giudiziarie e giornalistiche. Infatti poi tentò di deviare le indagini palermitane sulla Trattativa, colpevoli di smascherare il doppio Stato che combatteva la mafia e intanto trescava con essa. Ora l’inchiesta di Bologna sulla strage spalanca la scatola nera del doppio Stato e dipinge un quadro sconvolgente che, se reggerà al processo, riscriverà gli ultimi 50 anni di storia: le stesse strutture statali, le stesse organizzazioni eversive e gli stessi massoni pilotavano direttamente od orientavano a distanza (anche a loro insaputa) terroristi e mafiosi, usandoli come manovalanza a buon mercato per disegni concepiti altrove: per affogare nel sangue e nella restaurazione ogni vagito di cambiamento. Nel 1969 Piazza Fontana contro il primo centrosinistra e il ’68. Nel 1978-’80 via Fani e Bologna contro l’intesa Moro-Berlinguer. Nel 1992- ’93 le stragi e poi FI contro la rivoluzione legalitaria dei maxiprocessi alla mafia e a Tangentopoli. Gli indagati di Bologna sono impresari della violenza, della paura e del gattopardismo che collegano mezzo secolo di “destabilizzazioni stabilizzanti”, ordite non per rovesciare l’ordine costituito, ma per imbalsamarlo e vaccinarlo da ogni rischio di cambiamento.

Licio Gelli debutta nel 1944 come doppiogiochista fra repubblichini, Alleati e partigiani. Nel ’70 è acceleratore e poi frenatore del golpe Borghese. Capo della loggia P2 che raduna il Gotha di politica, 007, magistratura, Arma, Gdf e giornalismo. Estensore del Piano di Rinascita poi copiato da Craxi e B., depistatore del caso Moro e della strage di Bologna (di cui ora risulta il mandante). Nel ’93 è in contatto coi mafiosi e i “neri” che, sotto le bombe, preparano l’entrata in politica di “Leghe meridionali” poi rimpiazzate da Forza Italia del confratello B. e del mafioso Dell’Utri.

Sappiamo molto anche di Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale che nel ’69 fabbrica la velina sulla pista anarchica di Piazza Fontana. E, dopo il delitto Calabresi, va più volte a trovare il mandante Adriano Sofri per commissionargli un altro “mazzetto di omicidi” (l’ha raccontato Sofri, senza spiegare quali omicidi e da cosa nascesse tanta confidenza). Personaggio trasversale, tanto da comparire nelle liste P2 ed essere intimo amico del principe Caracciolo, editore con Scalfari e De Benedetti del gruppo Espresso (e Repubblica) che per anni gli affidò sotto pseudonimo la rubrica di gastronomia. Ora i Pg di Bologna lo additano fra i mandanti della strage alla stazione. Poi c’è Paolo Bellini, altro uomo-cerniera tra delitti, stragi e misteri: estremista nero di Avanguardia nazionale, esperto d’arte, confidente del Sismi, fuggitivo in Brasile sotto falso nome, arrestato nel 1999 quando confessa dieci omicidi per conto della ’ndrangheta più quello misterioso di Alceste Campanile (militante di Lotta continua). Un filmato amatoriale lo immortalerebbe sulla scena della strage di Bologna e ne farebbe il quarto esecutore materiale, insieme ai Nar Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini. A fine 1991, quando Riina riunisce la Cupola a Enna per pianificare la strategia politico-stragista, anche lui si trova miracolosamente a Enna. Il 6 marzo ’92 un altro neofascista, Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini su Bologna, scrive dal carcere a un giudice per preannunciargli “nel periodo marzo-luglio fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico”, fra cui “sequestro ed eventuale ‘omicidio’ di esponente politico Psi, Pci, Dc, sequestro ed eventuale ‘omicidio’ del futuro presidente della Repubblica”. Sette giorni dopo Cosa Nostra uccide Lima e prepara altri delitti eccellenti ai danni del premier Andreotti, candidato al Quirinale, e dei suoi ministri Mannino, Martelli e Andò. Il 23 maggio, la strage di Capaci. I carabinieri del Ros trattano con Ciancimino e intanto Bellini incontra uno dei killer di Capaci, Nino Gioè, per negoziare con i carabinieri del Nucleo artistico la riconsegna di opere d’arte rubate dalla malavita in cambio di alleggerimenti del 41-bis: trattativa interrotta per lo strano “suicidio” di Gioè in carcere dopo la visita di strani 007.
Manca il caso Moro: a Bologna è indagato pure Domenico Catracchia, amministratore di un noto condominio di via Gradoli a Roma, per falsa testimonianza sui suoi rapporti con Vincenzo Parisi, ex capo del Sisde e poi della Polizia, anche lui coinvolto nella Trattativa. In via Gradoli le Br avevano un covo strategico durante il sequestro Moro, emerso da una “seduta spiritica” svelata da Prodi a Cossiga e ignorata dalle forze dell’ordine, che andarono a cercarlo nell’omonimo comune della provincia. E in via Gradoli anche i terroristi neri dei Nar avevano due covi, affittati dalle stesse immobiliari legate al Sisde che ospitavano i rossi. Tutte coincidenze, si capisce. Pur di non parlare di doppio Stato. E dimenticare che un piduista è stato, negli ultimi 25 anni, il premier più longevo della storia repubblicana.