Dopo essersi proclamato “socio’’ in affari di Silvio Berlusconi, il boss Giuseppe Graviano potrebbe essere chiamato a deporre nel processo d’appello per la Trattativa Stato-mafia: i pm Giuseppe Fici e Sergio Barbiera hanno acquisito (finora informalmente) le trascrizioni della sua deposizione a Reggio Calabria, dove il boss è stato interrogato come imputato. E ora, oltre al presunto rapporto con Berlusconi, nell’appello di Palermo si indaga sulle possibili coperture istituzionali di cui l’ex capomafia di Brancaccio avrebbe goduto nei lunghi anni della detenzione, dall’Ucciardone a Pianosa: in oltre 17 mila pagine di indagini integrative, depositate nei giorni scorsi, i pm hanno interrogato una trentina di agenti di custodia, per ricostruire il mistero della nascita dei due figli di Giuseppe e Filippo Graviano, mentre entrambi i boss erano detenuti all’Ucciardone di Palermo, come si legge in un’informativa sui tempi del concepimento. E se tutti gli agenti hanno negato la possibilità che le mogli dei due padrini siano entrate in cella, il sospetto è che Graviano godesse di un trattamento di favore che potrebbe avere mantenuto anche dopo il suo trasferimento a Pianosa, come egli stesso ha rivelato (vantandosi persino di benefici effetti procurati ai compagni di detenzione) al compagno di socialità Umberto Adinolfi nei colloqui intercettati dalla Dia.
I pm stanno valutando anche come ascoltarlo: il boss è tuttora indagato per violenza e minaccia a corpo politico dello Stato e nei suoi confronti pende da due anni all’ufficio del gip una richiesta di archiviazione (datata 18 gennaio 2018) per prescrizione. Nei mesi scorsi, la Corte di assise d’appello ha respinto l’acquisizione della richiesta, in attesa del provvedimento di un “giudice terzo’’, ma oggi – alla luce delle nuove rivelazioni di Graviano – il presidente Angelo Pellino potrebbe rivalutare quella decisione, citando in aula l’ex capomafia di Brancaccio che, se fosse archiviato dal gip, comparirebbe come teste puro, con l’obbligo di dire la verità.
Nella robusta attività integrativa, i pm hanno aperto un focus sull’ambiente carcerario, riproponendo processualmente tre vicende tuttora misteriose avvenute a Rebibbia nell’estate del ’93, subito dopo le stragi: il suicidio di Nino Gioè (uno degli esecutori dell’attentato di Capaci) datato 29 luglio 1993; la permanenza di Totò Riina, nonostante un ordine di trasferimento all’Asinara, nel carcere romano fino alla fine di quell’anno, e l’uso in cella, da parte del capo dei capi, di un telefono cellulare che qualcuno, come segnalato da una nota del Sisde, gli avrebbe consegnato mentre era recluso al 41 bis.
Dai documenti emerge che il 7 luglio l’Ucciardone segnala al Dap che gli impegni processuali di Riina a Palermo si concludono il 20 luglio, ed è il vicecapo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio a chiedere inizialmente di trasferire il superboss da Rebibbia a una struttura alternativa. Il Dap individua il carcere di Sollicciano, e il 26 e 27 luglio ordina un’ispezione in quella struttura. Il 27 luglio è la data in cui Di Maggio incontra l’ufficiale del Ros Mario Mori, per discutere del “problema detenuti mafiosi”, come risulta dall’agenda di Mori. E due giorni dopo muore a Rebibbia Nino Gioè, trovato impiccato alle sbarre della sua cella. Lo stesso giorno il funzionario del Dap Andrea Calabria annota la riunione in cui si è concordato il trasferimento “temporaneo” di Riina a Sollicciano, tenuto conto che l’Asinara aveva bisogno di lavori per circa 45 giorni. Successivamente, quando già a Firenze gli agenti nel piazzale del carcere aspettano l’arrivo dell’elicottero con il capo dei capi, tutto si blocca: il 3 agosto il trasferimento viene prima sospeso e poi revocato da Di Maggio, appena rientrato dalle ferie, sulla base di un appunto del tenente colonnello Enrico Ragosa del Gom che ritiene inopportuno il trasferimento sotto il profilo della sicurezza. “Vi è stata – commenta il pm Fici nella penultima udienza – una non comprensibile determinazione del Dap a mantenere Riina a Roma’’.
Il superboss non si muoverà da Rebibbia neanche dopo la sollecitazione del capo della polizia Vincenzo Parisi che il 1° settembre scrive al Dap e a via Arenula, e nemmeno dopo la richiesta di chiarimenti che il ministro degli Interni Nicola Mancino rivolge al guardasigilli Giovanni Conso che a sua volta sollecita il Dap, nella persona di Andrea Calabria. La risposta arriva con una nota del capo del Dap, Adalberto Capriotti che, sostiene Fici, “fa slalom tra inadempienze, omissioni e propositi di soluzioni in cui si tace della vicenda di Sollicciano e si danno assicurazioni che si sarebbero dati da fare per individuare l’Asinara come il carcere giusto per Riina’’.
Alla fine il trasferimento del boss corleonese arriva il 21 dicembre ’93. Proprio in quell’autunno, mentre il Dap temporeggia, Di Maggio incontra gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giampaolo Ganzer e il colonnello del Sisde Umberto Bonaventura al ristorante “Il Fontanone” di Trastevere per una serie di cene settimanali raccontate dall’ex autista del vicecapo del Dap, Nicola Cristella. Intanto, ai primi di agosto, secondo un appunto del Sisde dell’ottobre ’93, Riina è stato visto telefonare utilizzando un cellulare messo a disposizione da 4 agenti, poi trasferiti, che avrebbero ricevuto 40 milioni di lire a testa. Trasmessa al procuratore di Roma Vittorio Mele, quella nota viene successivamente archiviata. Per approfondire questi temi, oltre alle richieste avanzate dai pm, i giudici dell’appello della trattativa avrebbero voluto ascoltare in aula gli ex direttori dell’Ucciardone e di Sollicciano, Armida Miserere e Paolo Quattrone. Ma entrambi sono morti suicidi: la prima il 19 aprile 2003, il secondo il 22 luglio 2010.