Che sia virus, Corona, o parassita, Parasite, il mondo intero guarda a Estremo Oriente: poteva Hollywood esimersi? Ovvio che no, ed ecco ai 92esimi Oscar il trionfo di Parasite, diretto dal sudcoreano Bong Joon Ho: quattro statuette, pesantissime, film, regista, sceneggiatura originale e film internazionale (ex straniero). Agli altri le briciole, al thriller anticapitalista del cinquantenne Bong un grato compito: illuminare la via, anzi, le vie della Seta, prendere per mano il cinema tutto e guidarlo verso i mercati che conteranno sempre di più, dalla predominante Cina alla – quando sarà – Corea unita fino al Giappone.
Se di virus si muore, di parassita si campa: la simbiosi formato famiglia e lotta di classe ha fatto proseliti ovunque, dalla Corea alla Francia, da Los Angeles a Londra applausi e oceano di mani. Non era il titolo da battere, al più un outsider di lusso, ma dal Dolby Theatre è uscito con le mani sporche di sangue, mietendo tante vittime quante statuette.
I colpi più letali li ha assestati a Netflix, che al signor Martin Scorsese aveva garantito 159 milioni di dollari per The Irishman senza infine cavare un ragno dal buco: dieci nomination, nessuna realizzata per “Quei bravi nonni”, sicché il colosso di Los Gatos deve farsi bastare Laura Dern migliore attrice non protagonista per Marriage Story e il miglior documentario, American Factory, prodotto dagli Obama. A fronte di una campagna Oscar da 100 milioni per promuovere i titoli della piattaforma è un disastro: ironia della sorte, il precedente di Bong, Okja (2017), era targato Netflix.
Acerrimi nemici dello streaming, Steven Spielberg e accoliti godranno come ricci per Schadenfreude, ma di produzione propria non possono gioire: 1917, il campione DreamWorks dato per favorito, pesca solo nelle categorie tecniche (fotografia, effetti e sonoro), e a bruciare è il mancato bis alla regia per Sam Mendes, vent’anni dopo American Beauty.
Un altro peso massimo Bong l’ha steso al tavolo di scrittura: s’è fatto preferire per lo script non desunto a Quentin Tarantino, che pure i suoi due Academy Awards (Pulp Fiction, Django Unchained) li deve alla penna. C’era una volta a… Hollywood non va oltre il miglior attore non protagonista Brad Pitt e la scenografia: pochino.
Una succosa querelle che Parasite alimenta, e ricalibra, riguarda i festival: non solo è il primo film in lingua non inglese a vincere quale Best Picture (Aurora di Murnau e il più recente The Artist sono muti, L’ultimo imperatore era parlato anche in English), ma la terza Palma d’oro di Cannes ad aggiudicarsi la statuetta più ambita, dopo Giorni perduti (1946) e Marty vita di un timido (1955).
Al di là della sporadica ricorrenza, il festival francese può grandemente esultare: se The Artist di Michel Hazanavicius, che pure non aveva vinto la Palma, conquistò l’Academy (film e regia nel 2012) tributando dichiarato e paraculo omaggio a Hollywood, Parasite – di nuovo nelle nostre sale – è un Ufo parlato in coreano, e il suo trionfale atterraggio restituisce a Cannes la preminenza festivaliera erosa negli ultimi anni da Venezia.
Sotto l’illuminata direzione di Alberto Barbera, la Mostra è divenuta la rampa di lancio privilegiata per l’award season stelle & strisce: Birdman (2015), Il caso Spotlight (2016), La forma dell’acqua (2018) si sono laureati Miglior Film agli Academy Awards, altri – Roma (2019), La La Land (2017) – ci sono andati vicini, ma sempre di americani e messicani si tratta. Stessa spiaggia, stesso mare, quest’anno il Leone d’Oro Joker è valso l’Oscar – il primo – al protagonista Joaquin Phoenix e alla compositrice – seconda nella storia – Hildur Guðnadóttir, ma l’exploit quello vero l’ha fatto al box office, con oltre un miliardo di dollari.
Dal Lido un eterodosso comic-book movie americano campione di incassi, dalla Croisette un thriller d’autore coreano di vasto successo (165 milioni): a Hollywood ha imperato il secondo, e per Cannes è una svolta geopolitica prima che rivincita cinefila, giacché mandare sulla cima del mondo un dark horse asiatico non ha prezzo – e avrà innumerevoli tentativi di imitazione.
Per il resto, la solita politica di circostanza: Phoenix per gli animali, Pitt contro Trump, Jane Fonda col cappotto rosso di quando si fa arrestare per l’ambiente. Eppur si muove: a stecchetto la vecchia Hollywood (Spielberg, Tarantino, Mendes), a digiuno la nuova in streaming (Netflix trasforma solo due delle 24 nomination, Amazon ne aveva appena una), anche l’Oscar sorge a Oriente.