Tame Impala: verso il pop, restando indie

Raramente si respira l’aria di hype intorno a Kevin Parker alias Tame Impala, nato a Perth in Australia, arrivato al quarto album, in uscita il 14 febbraio dal titolo The Slow Rush. A cinque anni di distanza da Currents, Parker ha collaborato con Mark Ronson, Lady Gaga, Trevis Scott – artisti e produttori distanti dagli esordi indie-rock dei Tame Impala – eppure ispiratori di un’indiscussa accelerazione pop in sincrono con un altro ex grande folletto indie, Beck, anch’egli folgorato da Pharrell. Del resto, ha soavemente dichiarato a Billboard: “Scrivere una canzone pop accattivante è lo yin e yang del rock psichedelico”. Un concept dedicato allo scorrere del tempo, con un sound molto differente dal suo marchio di fabbrica. One More Year inizia come un brano dei Boards Of Canada per poi diventare un electro-pop con arrangiamento innovativo e spiazzante. Con Instant Destiny e Posthumous Forgiveness si torna sulle orme psichedeliche, citando Beach Boys, At The Drive In, Phoenix e Beck, con uno sguardo profondo sul tropicalismo.

Le tastiere sono taglienti e spesso ruvide e possono anche irritare. Borderline, a sorpresa, inizia con un beat identico a Georgy Porgy dei Toto, macchiato da una voce in falsetto; potrebbe diventare una hit malinconica sulla falsariga degli Empire of The Sun. Breathe Deeper riporta ancora alle alchimie dei Blur (a proposito, Damon Albarn ha appena promesso una imminente collaborazione tra Parker e i suoi Gorillaz). Tomorrow’s Dust apre a una melodia latina intrigante; il mood è da brano chill out, decisamente inatteso. Lost In Yesterday è un omaggio ai primi artisti dell’ondata new wave inglese (Tears For Fears, Softcell e soprattutto EndGames). Is It True regala una raffica di percussioni e un riff Motown: Kevin sembra un epigono di Pharrell Williams, ed è la traccia migliore. It Might Be Time cita abbondantemente i Supertramp di The Logical Song e i Daft Punk di Digital Love (che a loro volta campionano George Duke I Love You More) e pure la collaborazione dei Chemical Brothers con Noel Gallagher Setting Sun. Evoluzione e work in progress, si capirà meglio al prossimo giro.

Eterni Green Day, tra il “No future” e il “Chi eravamo”

E siamo a tredici album, chi l’avrebbe mai detto? Una scheggia post-punk formatasi nel 1986 a Berkeley con Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool è ancora sulle scene con un nuovo disco energico e scanzonato, senza risentire dello scorrere del tempo. C’è gioco e divertimento in Fathers Of All (questo il titolo ufficiale dopo la censura del seguito), registrato nell’estate dello scorso anno e prodotto da Butch Walker e Chris Dugan. Si può anche leggere come un grande omaggio stilistico a una delle epoche più intriganti del rock, il glam di Marc Bolan, Sweet e il primo Bowie di Ziggy. È punk nell’estetica e nella durata, appena ventinove minuti eppure mai così attuale in tempi di playlist di Spotify e di brani editati per i passaggi radiofonici. Si evince la stessa beatitudine degli ultimi lavori dei Rolling Stones nel ripescare le loro origini blues, riuscendo a graffiare ancora. C’è soprattutto la volontà di andare in tour e suonare dal vivo, dimostrata con un calendario già pubblicato di quarantadue date in giro per il globo, compresa una tappa già confermata a Milano all’Ippodromo di San Siro il 10 giugno. La title-track decolla subito con due minuti di sana adrenalina, con aggiunta di vocoder e falsetto e ci riporta in piena epoca post-punk e post-grunge (si ode l’eco degli ultimi lavori di Dave Grohl). Fire, Ready, Aim è semplice e diretta come una qualunque delle – apparentemente – semplici canzoni dei Ramones. Oh Yeah prende in prestito un sample dall’attacco di Do You Wanna Touch Me di Gary Glitter, tornato in auge dopo la colonna sonora del film Joker: la band, conoscendo le vicende giudiziarie di Glitter, ha deciso di donare i guadagni del brano a una Associazione a favore dei bambini abusati. I Was A Teenage Teenager apre con un basso pulsante e sfocia in un instant-rock glaciale e armonico. Stab In Your Heart rende omaggio a Let’s Dance di Chris Montez, siamo in piena epoca rockabilly e ciuffo di Elvis. Se invece volete sapere da dove arrivano i Placebo ascoltate l’intro di Sugar Youth, potrebbe partire l’accusa di plagio di una intera carriera. Junkies On A High tratta lo scottante tema della droga nel rock’n’roll, senza retorica ma con una carica di immagini sino al monito “il prossimo potrei essere io”, quasi a esorcizzare le paure di ogni rockstar passata presente e futura. Graffitia è la traccia più creativa ed elaborata, un viaggio a gonfie vele negli stilemi post-punk, per un attimo sembra di riascoltare i White Stripes, spiriti liberi un po’ figli loro. Non è American Idiot, non esistono brani anti-Trump, i baldi cinquantenni scelgono di non calibrare il tiro, al massimo No future.

Brani veloci, talvolta ripetitivi, quasi suonati come dei demo, senza post produzioni miliardarie ed effetti studiati: c’è solo una grande voglia di attaccare il jack alle chitarre e catapultare la gente fuori dalla noia e dall’anestesia dei nostri tempi.

Hollywood chiama Oriente

Che sia virus, Corona, o parassita, Parasite, il mondo intero guarda a Estremo Oriente: poteva Hollywood esimersi? Ovvio che no, ed ecco ai 92esimi Oscar il trionfo di Parasite, diretto dal sudcoreano Bong Joon Ho: quattro statuette, pesantissime, film, regista, sceneggiatura originale e film internazionale (ex straniero). Agli altri le briciole, al thriller anticapitalista del cinquantenne Bong un grato compito: illuminare la via, anzi, le vie della Seta, prendere per mano il cinema tutto e guidarlo verso i mercati che conteranno sempre di più, dalla predominante Cina alla – quando sarà – Corea unita fino al Giappone.

Se di virus si muore, di parassita si campa: la simbiosi formato famiglia e lotta di classe ha fatto proseliti ovunque, dalla Corea alla Francia, da Los Angeles a Londra applausi e oceano di mani. Non era il titolo da battere, al più un outsider di lusso, ma dal Dolby Theatre è uscito con le mani sporche di sangue, mietendo tante vittime quante statuette.

I colpi più letali li ha assestati a Netflix, che al signor Martin Scorsese aveva garantito 159 milioni di dollari per The Irishman senza infine cavare un ragno dal buco: dieci nomination, nessuna realizzata per “Quei bravi nonni”, sicché il colosso di Los Gatos deve farsi bastare Laura Dern migliore attrice non protagonista per Marriage Story e il miglior documentario, American Factory, prodotto dagli Obama. A fronte di una campagna Oscar da 100 milioni per promuovere i titoli della piattaforma è un disastro: ironia della sorte, il precedente di Bong, Okja (2017), era targato Netflix.

Acerrimi nemici dello streaming, Steven Spielberg e accoliti godranno come ricci per Schadenfreude, ma di produzione propria non possono gioire: 1917, il campione DreamWorks dato per favorito, pesca solo nelle categorie tecniche (fotografia, effetti e sonoro), e a bruciare è il mancato bis alla regia per Sam Mendes, vent’anni dopo American Beauty.

Un altro peso massimo Bong l’ha steso al tavolo di scrittura: s’è fatto preferire per lo script non desunto a Quentin Tarantino, che pure i suoi due Academy Awards (Pulp Fiction, Django Unchained) li deve alla penna. C’era una volta a… Hollywood non va oltre il miglior attore non protagonista Brad Pitt e la scenografia: pochino.

Una succosa querelle che Parasite alimenta, e ricalibra, riguarda i festival: non solo è il primo film in lingua non inglese a vincere quale Best Picture (Aurora di Murnau e il più recente The Artist sono muti, L’ultimo imperatore era parlato anche in English), ma la terza Palma d’oro di Cannes ad aggiudicarsi la statuetta più ambita, dopo Giorni perduti (1946) e Marty vita di un timido (1955).

Al di là della sporadica ricorrenza, il festival francese può grandemente esultare: se The Artist di Michel Hazanavicius, che pure non aveva vinto la Palma, conquistò l’Academy (film e regia nel 2012) tributando dichiarato e paraculo omaggio a Hollywood, Parasite – di nuovo nelle nostre sale – è un Ufo parlato in coreano, e il suo trionfale atterraggio restituisce a Cannes la preminenza festivaliera erosa negli ultimi anni da Venezia.

Sotto l’illuminata direzione di Alberto Barbera, la Mostra è divenuta la rampa di lancio privilegiata per l’award season stelle & strisce: Birdman (2015), Il caso Spotlight (2016), La forma dell’acqua (2018) si sono laureati Miglior Film agli Academy Awards, altri – Roma (2019), La La Land (2017) – ci sono andati vicini, ma sempre di americani e messicani si tratta. Stessa spiaggia, stesso mare, quest’anno il Leone d’Oro Joker è valso l’Oscar – il primo – al protagonista Joaquin Phoenix e alla compositrice – seconda nella storia – Hildur Guðnadóttir, ma l’exploit quello vero l’ha fatto al box office, con oltre un miliardo di dollari.

Dal Lido un eterodosso comic-book movie americano campione di incassi, dalla Croisette un thriller d’autore coreano di vasto successo (165 milioni): a Hollywood ha imperato il secondo, e per Cannes è una svolta geopolitica prima che rivincita cinefila, giacché mandare sulla cima del mondo un dark horse asiatico non ha prezzo – e avrà innumerevoli tentativi di imitazione.

Per il resto, la solita politica di circostanza: Phoenix per gli animali, Pitt contro Trump, Jane Fonda col cappotto rosso di quando si fa arrestare per l’ambiente. Eppur si muove: a stecchetto la vecchia Hollywood (Spielberg, Tarantino, Mendes), a digiuno la nuova in streaming (Netflix trasforma solo due delle 24 nomination, Amazon ne aveva appena una), anche l’Oscar sorge a Oriente.

 

Biden contro Buttigieg: “Quando era sindaco licenziava i funzionari neri”

Joe Biden cerca di frenare la corsa verso la nomination democratica di Pete Buttigieg rinfacciandogli il suo passato da sindaco di una cittadina dell’Indiana che licenziava poliziotti e vigili del fuoco neri: con un post che fa milioni di contatti, l’ex vicepresidente di Barack Obama, che non è certo un drago dei social, denuncia il cattivo rapporto di Mayor Pete con le minoranze, quali che esse siano. E un democratico non arriva alla Casa Bianca se neri e ispanici non lo appoggiano e non lo vanno a votare in massa.

In New Hampshire, dove oggi ci sono le primarie, la campagna democratica s’è spaccata in due: Buttigieg, ‘’il nipote d’America’, e Bernie Sanders, il ‘nonno del Vermont’, puntano a consolidare la leadership appena conquistata nello Iowa, mentre i loro rivali, Biden, la Warren e la Klobuchar, cercano d fare ‘passare la nottata’, sperando che le prossime tappe, South Carolina, Nevada, Super-Martedì, segnino un’inversione di tendenza a loro vantaggio. È diverso il discorso per Mike Bloomberg, che resta ancora alla finestra: lui esordirà il 3 marzo. Feroce, per i suoi standard, Biden contro Buttigieg, che gli contende lo spazio al centro, mentre Sanders e la Warren si azzuffano a sinistra. “Crede di essere Barack Obama, ma non lo è”, dice l’ex vice-presidente dell’ex sindaco di South Bend. Che è bravo a giocare di rimessa: “Ha ragione, non sono Obama. Ma neppure lui lo è. Nessuno di noi che corriamo per la presidenza lo è… E questo non è il 2008, è il 2020. Siamo in un nuovo momento che richiede una differente leadership”.

Biden va all’attacco di Buttigieg con uno spot che contrappone la sua esperienza a quella dell’ex sindaco di una cittadina di 100 mila abitanti, alle prese coi problemi d’una comunità ridotta, e gli tira un colpo basso sulle sue difficoltà con l’elettorato afro-americano. Il video mostra l’ex vice-presidente contribuire all’approvazione dell’Obamacare, mentre Buttigieg installa luci decorative sotto i ponti della sua città; lavorare all’accordo sul nucleare con l’Iran mentre Pete negozia su norme per scansionare i chip di cani e gatti; aiutare a salvare l’industria dell’auto, mentre l’ex sindaco abbellisce i marciapiedi della città con mattoncini decorativi. Biden si dà da fare – senza successo – per bandire le armi d’assalto, mentre Buttigieg caccia il capo nero della polizia cittadina. Nella notte in cui la politica fa capolino agli Oscar, grazie a Brad Pitt, che critica il Senato per avere assolto dall’impeachment Donald Trump senza ascoltare nuovi testi, si scopre alfine come sono stati distribuiti nello Iowa i delegati alla convention, quelli che contano per ottenere la nomination: Buttigieg batte di poco Sanders 14 a 12, anche se il senatore del Vermont ha ottenuto più voti dell’ex sindaco di South Bend. La Warren prende otto delegati, Biden sei e la Klobuchar uno.

“Per i giovani nati dopo l’Ira, il Sinn Féin è la sola alternativa”

Fintan O’Toole, dublinese, uno dei più autorevoli commentatori irlandesi di politica e società, scrive regolarmente sull’Irish Times. Lo raggiungiamo al telefono per una analisi del voto di sabato.

O’Toole, che significato ha questo voto, con l’affermazione a sorpresa di Sinn Féin e la crisi di Fine Gael e Fianna Fail?

È un risultato sismico, un terremoto, che segna la fine di un duopolio di centrodestra durato quasi 100 anni. Nessuno lo aveva visto arrivare, nemmeno il Sinn Féin che infatti, scottato dalla sconfitta recente alle Amministrative e alle Europee, non ha presentato abbastanza candidati per governare da solo. Errore grave, ma comprensibile.

Come si spiega questo inatteso successo di un partito in passato braccio politico dei paramilitari dell’Ira?

Per i giovani irlandesi che lo hanno votato in massa il rapporto con l’Ira non ha un grosso peso. Molti durante i Troubles non erano ancora nati. E c’è un forte elemento di discontinuità: queste sono le prime elezioni politiche senza Gerry Adams, il leader storico di Sinn Féin. Lui continua a negare di aver fatto parte dell’Ira ma non gli crede nessuno. Al contrario la leader attuale, Mary Lou McDonald, è una dublinese senza rapporti con l’Ira, una donna brillante e molto presente sul territorio. E il partito con lei si è ridefinito come alternativa di sinistra a un duopolio di destra ormai sclerotizzato.

Quindi il mandato è il cambiamento?

Sì, perché fin dalla crisi finanziaria c’è un malcontento diffuso contro i partiti al governo, che hanno risollevato l’economia ma non hanno messo mano ai problemi principali del paese, il sistema sanitario, ormai paralizzato, l’impossibilità di comprare casa o permettersi un affitto. Sono temi che fanno arrabbiare la gente, e si è votato su questo. Non che il Sinn Féin sia necessariamente visto come la soluzione, ma gli elettori hanno voluto dargli una chance.

Però Sinn Féin co-governa con il DUP in Irlanda del Nord da 20 anni e anche lí la sanità è al collasso…

Ottima osservazione. Ma, paradossalmente, gli elettori della Repubblica d’Irlanda non sanno granché di quello che succede a Belfast.

Qualcuno ha parlato di contagio populista.

Non direi. Sinn Féin è un partito popolare e, certo, nazionalista, ma non sovranista, non anti-immigrazione e, di recente, anche europeista.

Quanto ha contato la mobilitazione degli scorsi anni sui diritti sociali, le campagne per la legalizzazione di aborto e unioni gay?

Moltissimo. Il successo di quelle campagne ha dimostrato che un cambiamento radicale per via democratica è possibile, e questo ha galvanizzato migliaia di persone. C’è anche un fattore generazionale: questi giovani sono più propensi al rischio, perché non hanno rendite di posizione da difendere. Non hanno lavoro, non hanno casa. Non hanno niente da perdere.

E quanto ha contato allora l’adesione di Sinn Féin a quelle campagne?

Mary Lou McDonald e la sua vice Michelle O’Neill si sono schierate a favore della legalizzazione dell’aborto, una scelta molto controversa nella base cattolica, specie in Irlanda del Nord. Hanno fatto una scelta di principio, femminista, a cui sono rimaste sempre coerenti. Credo che questo abbia convinto molte donne a votare Sinn Fein.

Sinn Féin può andare al governo?

Non è facile ma è possibile, non tanto con un’alleanza con gli altri partiti di sinistra, per la quale non ci sono i numeri, quanto con una coalizione con uno dei partiti principali, che però continuano ad escludere l’ipotesi. Per evitarlo Fine Gael e Fianna Fail dovrebbero allearsi fra loro, ma sarebbe puro opportunismo, probabilmente di breve durata, visto le appartenenze tribali che li dividono.

In passato la McDonald ha parlato di referendum per l’unificazione delle due Irlande entro 5 anni, Questo risultato elettorale lo avvicina?

Non credo affatto. È un problema prevalentemente nord-irlandese. Non a caso il referendum non è stato un tema elettorale.

Le dimissioni di AKK. Crisi Cdu, anche Merkel non si sente tanto bene

“Non può essere che la Turingia – una delle più piccole rappresentanze della Cdu di tutta la Germania federale – scuota tutto il partito” ha detto ieri il capo dei pensionati del partito, Otto Wulff. Eppure, è proprio così che è andata. E ieri Annegret Kramp-Karrenbauer ne ha tratto le conseguenze, annunciando che non si presenterà come candidata alla cancelleria per la Cdu nel 2021, ovvero al termine del mandato di Angela Merkel, e che rinuncerà alla presidenza del partito non appena sarà individuato un nuovo candidato-cancelliere dei conservatori, in modo da riportare la carica di presidente del partito e di cancelliere nelle mani di una sola persona, ha aggiunto.

Akk, come si usa chiamarla, è la prima testa di peso a cadere dopo il terremoto politico della Turingia, un sisma che ha mostrato l’empasse davanti a cui si trova il partito conservatore della cancelliera Angela Merkel, diviso al suo interno tra neo-conservatori e centristi-moderati, e costretto all’angolo dal suo stesso dogma che gli vieta di allearsi con le ali estreme dell’arco costituzionale: l’ultradestra dell’Afd e la sinistra della Linke.

La sua decisione di gettare la spugna arriva a poco più di un anno dalla sua elezione a presidente della Cdu e candidata cancelliera come “delfina di Merkel” e dopo una lunga sequenza di malumori che da molti mesi serpeggiano all’interno dello stesso partito cristiano-democratico, critiche che si sintetizzano nella formula ripetuta un po’ ovunque, dai colleghi di partito quanto dai commentatori, di una “mancanza di guida”. Ma c’è più di questo nella vicenda accaduta in Turingia. Non è solo una leadership debole la causa dell’imbarazzo della Cdu, un partito che da sempre ostenta un orgoglio democratico e che invece non si è fatto scrupolo di allearsi al livello locale con l’ala più oltranzista dell’estrema destra tedesca: l’Afd di Bjoern Hoecke. Non è soltanto la violazione di un tabù, lo sdoganamento di un’alleanza che l’Afd desidera da sempre. L’elezione di un deputato liberale nel parlamentino del Land dell’Est con i voti della Cdu, dell’Afd e dei liberali ha aperto il vaso di Pandora da cui è emersa tutta la fragilità degli equilibri politici in Germania.

Le ultime elezioni nell’ex Land dell’Est hanno messo in evidenza come il dogma della Cdu al livello federale, ripetuto ieri ancora una volta da Annegret Kramp-Karrembauer che ha ricordato come “non ci può essere nessun avvicinamento o collaborazione né l’Afd né con la Linke”, è difficilmente praticabile sul lungo periodo. Soprattutto nelle realtà locali dei Lander dell’Est dove il peso dell’elettorato dell’Afd e della Linke è molto rilevante. “Credo che il ritiro di Annegret Kramp-Karrenbauer dimostri che la strategia del Cdu di mettere sempre insieme Afd e Linke sia finita”, ha detto la capogruppo della Turingia della Linke ieri e anche il ministro-presidente della Cdu del Land al confine con la Danimarca, lo Schleswig-Holstein, ha invitato i colleghi di partito a rompere l’equazione Afd-Linke. Perfino un sindaco della Cdu di Gotha, Hendrik Knop, in Turingia ha deciso di lasciare il suo partito e migrare nella Linke in polemica con l’elezione della settimana scorsa: “Penso che sia sbagliato equiparare la Linke con l’Afd. Ci sono anche degli estremi nel partito di sinistra, ma dopo tanti anni di incarichi di responsabilità in Turingia e altrove, non è più possibile equipararli”. Molti nella Cdu però non ne vogliono sentire parlare, come il segretario generale Paul Zemiak che ha ripetuto ancora ieri su Welt: “I bastioni contro la sinistra e la destra devono rimanere”. Il partito, in effetti, non è mai stato tanto diviso: da una parte i neo-conservatori che auspicano un ritorno alla Cdu delle origini, disponibili all’occorrenza a tollerare in dosi omeopatiche la convivenza con l’Afd. Dall’altro la Cdu di Merkel, un partito moderato e di centro più aperto ai cambiamenti della società, dai matrimoni omosessuali all’uscita dall’energia atomica e dal carbone, e non indisponibile a cooperazioni mirate al livello locale con un partito come la Linke. Ieri l’ex ministro e ora presidente del Parlamento Wolfgang Schauble ha commentato: “Se andiamo avanti così, il prossimo candidato-cancelliere non sarà di certo cancelliere”. Una preoccupazione condivisa anche dai socialdemocratici. Il nuovo co-leader dell’Spd, Norbert Walter-Borians, ha dichiarato “di avere visto che ci sono forze che spingono in direzioni diverse. E noi speriamo che la Cdu resti nel centro”.

E la cancelliera in tutto questo? Merkel si è detta “dispiaciuta” per la decisione “difficile” di “Annegret” di lasciare il partito. Ma per molti commentatori l’addio della ex delfina è stato solo l’ultimo atto di una perdita di fiducia tra le due che si è andata consumando nel tempo. Nel discorso da Pretoria, Merkel ha usato “la voce grossa”, quella che i tedeschi chiamano la “Machtwort”, letteralmente “la parola del potere”. Un’espediente politico a cui ricorre solo in casi estremi. Ma la voce grossa in questo caso ha significato mostrare al mondo che l’autorità di Akk era al capolinea. Un addio anticipato di Merkel non è comunque da mettere in conto. Ieri ha detto che con Annegret lavoreranno “intensamente alla nomina del nuovo candidato-cancelliere”.

Si scontrano sulla prescrizione, ma il guaio è il Pil

Quando la maggioranza si accorgerà che il problema del governo non è la prescrizione ma l’economia, forse sarà tardi. Ieri i dati sulla produzione industriale del quarto trimestre 2019 e sull’andamento del Pil diffusi dall’Ufficio parlamentare di bilancio hanno gettato una spruzzata di realismo e concretezza nel dibattito politico.

La produzione industriale è stata calcolata dall’Istat in ribasso dell’1,4% nel quarto trimestre del 2019 rispetto all’anno precedente, mentre il Pil per il 2020 viene stimato dall’Ufficio parlamentare di bilancio in uno striminzito +0,2%. Rispetto alle previsioni del governo manca lo 0,4%, circa 8 miliardi che, frenando il denominatore, si rifletteranno sui rapporti deficit/Pil e debito/Pil.

Il ministero dell’Economia e finanze ha cercato di sdrammatizzare i dati sulla produzione industriale spiegando in una nota che “ha influito la tecnica di destagionalizzazione che non tiene conto degli effettivi giorni di vacanza in presenza di ponti particolarmente lunghi”. Spiegazione che regge fino a un certo punto visto che poi si ammette “un indebolimento della domanda internazionale e quindi delle esportazioni”.

Situazione negativa anche per quanto riguarda il Pil visto che secondo l’Upb, “nel trimestre in corso il Pil non recupererebbe il netto calo del periodo precedente”.

La ripresa, se ci sarà, verrà nei mesi a venire. Sui quali però incombono i possibili effetti dell’epidemia da Coronavirus che anche il ministero dell’Economia nella sua nota segnala. Chi sembra aver preso sul serio i dati di ieri è il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, che parla di “sforzo immediato” e che porterà a Giuseppe Conte tre proposte: un decreto Crescita bis, il “piano industriale per il Paese” e lo scomputo degli investimenti green dal calcolo del deficit

In una situazione di deterioramento degli indicatori vitali per la Commissione europea, che a marzo redigerà la relazione per i singoli Paesi da cui potrebbero scaturire nuove raccomandazioni, ieri si è tenuta la seconda riunione del tavolo sulle pensioni tra governo e sindacati.

Al centro della discussione le possibili soluzioni per superare la riforma Fornero, ma anche Quota 100 una volta che il provvedimento scadrà naturalmente nel dicembre 2021. Le soluzioni sul tavolo sono le più disparate e anche le meno concrete visto che non si sa ancora di quante risorse disporrà il governo per finanziare le uscite anticipate.

L’idea di applicare integralmente il sistema contributivo a chi sceglierà di andare in pensione prima dell’età prevista può costare ai lavoratori fino al 30%. Si parla di sistema “flessibile”, ma in termini ancora generici. Chi non ha ancora detto la sua, tranne battute sui giornali, è il Tesoro. Che ha un ministro impegnato in campagna elettorale e una compagine di governo distolta dalla prescrizione. Forse è il momento di cambiare priorità.

L’ideona Autostrade: lo Stato si ricompra le quote dai Benetton

Il sonno della ragione genera mostri, ma quello della politica non è da meno. Il dossier sulla revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi), aperto dopo il crollo del ponte Morandi, sta raggiungendo vette surreali. In un anno e mezzo i governi Conte 1 e Conte 2 non sono riusciti a trovare una soluzione. Terreno fertile per i mestieranti dell’affare perfetto, con i soldi dello Stato ad accontentare tutti gli attori in causa.

L’ultima ipotesi risale a poche settimane fa e proverrebbe – a quanto risulta al Fatto – proprio da Autostrade. Nei palazzi romani circola la voce che a metà gennaio scorso la concessionaria abbia avanzato al ministero delle Infrastrutture, guidato da Paola De Micheli (Pd), una proposta di accordo transattivo per chiudere la ferita aperta dal Morandi. La novità rispetto all’estenuante negoziato fatto di pizzini a mezzo stampa e furberie, è che stavolta sarebbe stato anche ventilato l’acquisto da parte dello Stato del 49% del capitale di Aspi.

Una percentuale scelta non a caso. Atlantia, la holding controllata dai Benetton, possiede l’88 per cento della società. Cedendo il 49 per cento finirebbe in minoranza, senza però che lo Stato possa – con quella quota – comandare davvero da solo, non avendo la maggioranza assoluta: dovrà trovare di volta in volta l’accordo o coi Benetton o con gli altri due azionisti, cioè Appia Investments del gruppo Allianz(6,94%) e il fondo statale cinese Silk Road Fund (5%).

La trovata ha una sua logica. La difficoltà di revocare la concessione ai Benetton evitando un super contenzioso e i timori per l’implosione di Atlantia stanno paralizzando il governo. A Palazzo Chigi e al Mit ripetono da settimane di essere in attesa di un parere dell’Avvocatura generale dello Stato. Parere, per la verità, che al Fatto risulta sostanzialmente chiuso e anticipato alla Presidenza del Consiglio. Lo stallo, però, resta.

Ecco che allora anche l’idea di risolvere tutto riducendo la presa della famiglia veneta sulla concessionaria ha trovato consenso. Solo che l’acquisto avverrebbe al valore di mercato. Se usassimo la valutazione complessiva con cui, nel 2017, Silk Road ha rilevato il 5% del capitale, il 49% di Aspi costerebbe allo Stato circa 5,5 miliardi. La cifra effettiva, però, potrebbe essere più bassa. È infatti ormai chiaro a tutti che la generosa concessione di Aspi andrà in qualche modo rivista, prevedendo un aumento sensibile di manutenzioni e investimenti non remunerati attraverso le tariffe, rendendola meno profittevole e quindi abbassando il valore complessivo della concessione.

La novità è rilevante perché finora i Benetton avevano chiuso all’ipotesi di ingresso dello Stato e il loro manager plenipotenziario, Gianni Mion, ha aperto solo a un coinvolgimento del fondo infrastrutturale F2i, che tra i quotisti vanta proprio la Cassa depositi e prestiti.

L’idea ha trovato terreno fertile al ministero delle Infrastrutture: De Micheli ne avrebbe messo al corrente anche il Tesoro e Palazzo Chigi, questi ultimi decisamente più scettici all’idea, anche perché a effettuare l’operazione, per conto dello Stato, dovrebbe essere proprio Cdp. Fonti vicine alla Cassa fanno sapere che non ci sono stati contatti sul tema, né ci sono, dossier allo studio del colosso pubblico.

Una smentita che arriva dopo voci che si rincorrono da settimane di una discussione avviata dall’ad Fabrizio Palermo col presidente della Confindustria dei concessionari (Aiscat), Fabrizio Palenzona per conto della famiglia di Ponzano Veneto, di cui quest’ultimo è stato per anni manager di fiducia alla guida di Aeroporti di Roma (controllata da Atlantia) e oggi – secondo Il Sole 24 Ore – tra i nomi che circolano per la presidenza di Atlantia.

Le interlocuzioni in qualche modo sarebbero arrivate anche all’Avvocatura dello Stato che informalmente avrebbe sconsigliato di procedere. La possibilità, per la verità, avrebbe avuto comunque poca fortuna, visto che togliere ad Atlantia il controllo di Aspi a peso d’oro sarebbe stato politicamente insostenibile, specie per i 5 Stelle, che hanno fatto muro. E così il tutto ha lasciato traccia solo nei corridoi ministeriali e nei palazzi romani. Contattato dal Fatto circa l’esistenza di questa ipotesi, il ministero dei Trasporti fa sapere di “non rispondere”. “Stiamo osservando la situazione delle Autostrade con attenzione e massimo rispetto per quelle che sono le considerazioni che si svolgono a livello di governo. Tutto il resto è prematuro”, ha spiegato nei giorni scorsi il presidente di Cdp, Giovanni Gorno Tempini. E, mentre tutti aspettano, si fa sempre più concreto il sospetto che l’unica soluzione percorribile per il governo sia quella del rinvio a oltranza.

Amadeus: vincere (da mediano) per sfinimento

Il Festival di Sanremo targato Amadeus, al netto delle polemiche che lo hanno preceduto, è stato un enorme successo di share. Ma lo è stato anche di musica?

– Share trionfale, ma i numeri dicono anche altro: le persone davanti alla tivù “classica” stanno diminuendo, perché si spostano su Netflix e simili. Infatti il numero di spettatori è sceso, solo che – nella torta Auditel sempre più piccola e pure un po’ bolsa – Sanremo tiranneggia.

– Amadeus è un discreto mediano che ha sempre quell’espressione gioiosa di chi ti accoltellerebbe a morte. Dandoti però del lei.

– Amadeus ha poi sempre gli occhi sgranati, come quella volta che perse inutilmente la testa di fronte a Pedro Valti, il tizio che gli rispondeva sempre “per me è la cipolla”. A Sanremo ha presentato ogni ospite con un mix di enfasi a caso e sguardo allucinato tipo Ted Bundy. Bah.

– È stato un Sanremo “logorroico”. Ogni puntata era torrenziale, la gara dei big cominciava dopo un’ora e nel mezzo era tutto una somma a perdere tra sketch deboli, ospiti presunti “super”, reunion di salme ilari ed ex comici folgorati sulla via dell’ammmore. Ogni puntata era interminabile e il vincitore – bruciato dallo “spoiler” di SkyTg24 – è stato proclamato alle 2 e 30 di sabato notte: sadismo puro. Amadeus ha vinto per sfinimento.

– Fiorello, permalosissimo come quasi tutti coloro che fanno tivù (compreso chi scrive), se l’è presa a morte per il “Fiorello statte zitto” di Tiziano Ferro. Poi si sono chiariti. Ma il problema è un altro: Fiorello – andato comunque in crescendo – ha girato al 30%. I duetti con Amadeus facevano ridere solo loro, a volte sembrava la balia dell’amico e spesso ha preso autoreferenzialmente la scena (tipo l’inutile duetto coi Ricchi & Poveri). Fiorello è uno splendido battitore libero, e usarlo da spalla non ha molto senso.

– Tutto da buttare? No. Paolo Palumbo, il rapper malato di Sla, è stato straordinario: bravo Amadeus a dargli spazio. La vittoria del bravo Diodato ci sta, anche se il brano portato due anni fa era molto più bello. Buoni Tosca, Pinguini Tattici Nucleari, Anastasio e (per il testo) Rancore. Tra le nuove proposte c’era qualcosa di discreto, ma ovviamente la giuria demoscopica li ha uccisi tutti nella culla. Zucchero, senza neanche impegnarsi troppo, ha volato ottomila chilometri sopra tutti. Junior Cally non serve artisticamente a niente, ma nella mestizia pressoché generale è parso quasi bravo. E il monologo di Rula Jebreal era buono.

– Un Paese che si riduce a celebrare Achille Lauro è alla canna del gas. La sua “musica” è imbarazzante, la sua “voce” è tremenda e le sue provocazioni erano già vecchie ai tempi di Vercingetorige. Se lui è un “artista”, Renzi è sincero.

– Una delle poche cose che resterà sarà lo scazzo tra Morgan, di cui il 97% del mondo non ricorda (giustamente) mezza canzone, e Bugo, di cui il 99% del mondo ignorava e ignorerà (purtroppo) l’esistenza. A conferma che della musica non frega nulla a nessuno.

– Se poi la “musica” era Morgan che violentava Endrigo, Achille Lauro che oltraggiava Mia Martini e Rita Pavone che cianciava con Amedeo Minghi, allora addio patria.

– Il provincialismo di questo Paese è ormai così accecante che è passata quasi sotto silenzio la decisione di segare Roger Waters. Forse è stata censura per il suo essere filo-palestinese (anche se il suo videomessaggio era tutto sulla violenza contro le donne) e forse è stata una “scelta di scaletta”, ma quando la Rai si arroga il diritto di cancellare un genio simile, hai la conferma di come l’unica soluzione sia un meteorite definitivo. Grazie Amadeus!

Mafia-politica e l’etica (persa) del giornalismo

Uno dei libri più interessanti di Eugenio Scalfari è intitolato Alla ricerca della morale perduta: spiego le ragioni che spinsero il nostro a pubblicarlo in La passione dell’etica (Mondadori) alle pp. 1755-1762, e a esse rinvio. Ne parlo perché quel titolo torna in mente sfogliando i giornali di sabato 8 febbraio, il giorno dopo le dichiarazioni di Graviano al processo di Reggio Calabria. Tutti i quotidiani (con qualche eccezione), da Repubblica al Messaggero al Corriere, hanno dato spazio in prima al bacio Ferro-Fiorello, oscurando l’amorevole intesa Graviano-B.: “Con Berlusconi cenavamo insieme – dice il boss –, tramite mio cugino avevamo un rapporto bellissimo”. Business. Affari. E quel terribile intreccio mafia-politica che ammorba il Paese; ma sui quotidiani nulla. O quasi. Ho provato a cercarla, la notizia, e la morale perduta del giornalismo. Con scarsi risultati.

È incredibile, ma più le testimonianze e le sentenze (vedi sentenza Dell’Utri) mostrano le collusioni del Caimano con la mafia, più ci si ostina a coprirlo, oscurando fatti orrendi; e presentandolo, addirittura, come interlocutore valido, insieme a Salvini, per scrivere la legge sulla giustizia. Scriverla col plurinquisito B.? Sì, questo afferma quasi ogni giorno Folli su Repubblica. Quali garanzie? Quali ricatti? Cosa vorrà (cosa già vuole: vedi attacco alla Bonafede) il Caimano? Questo non interessa al giornale di Scalfari, che pure lottò per una “giustizia giusta”. I tempi cambiano. E pure la morale. Alla ricerca della morale perduta è il libro più “politico” del Fondatore, ma il tema, oggi, riguarda anche il suo giornale. Di altre testate sarebbe meglio non dire. Il Giornale, sempre controcorrente (rispetto alla verità), nega che gli incontri tra il boss Graviano e B. siano avvenuti. E vabbè. Anzi no. Sallusti dice che “i mafiosi sono uomini di merda”. Chiedo: come mai allora sono così presenti – non solo come stallieri – nel curriculum di B.? È una brutta storia questa del patto mafia-politica. Ed è grave ostentare indifferenza, non parlarne, come ha fatto Libero. Per il giornale di Senaldi non è una notizia che un boss accusi l’ex presidente del Consiglio: le emergenze sono altre e così in prima campeggia la “Storia a lieto fine del lupo buonino” con tanto di foto. Si chiama disprezzo per i fatti (quelli veri e importanti) e per l’etica giornalistica, perduta da tempo. Infine, come uscirà B. da quest’ultima testimonianza sul lato oscuro della sua vita? Italo Calvino in Palomar scrive: “La vita di una persona consiste in un insieme di avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme”. Avvenimenti. Ma le parole di Graviano – al di là della verità processuale – non sono già un avvenimento? Di più: le sue parole non confermano, di fatto, quanto Di Matteo mostra nei libri e nelle aule di giustizia rischiando – non è secondario – la vita? Le frasi di Graviano non confermano l’intreccio mafia-politica su cui indaga, in altre inchieste, Gratteri? Troppi lo attaccano: i “grandi” giornali hanno snobbato la sua maxi-retata in Calabria (si comincia così a uccidere un uomo giusto: isolandolo). Insomma, mentre Di Matteo, Scarpinato, Gratteri, e Davigo (su altri versanti), cercano di tener alta la bandiera della giustizia, molte testate provino a cercare la morale perduta del giornalismo.

Dicono i giornali di famiglia: “Perché Graviano ha aspettato tanto a parlare?” Semplice: “Erano 15 anni che minacciava di cantare, ma poi non si decideva mai: B. poteva ancora rendersi utile, meglio tenerlo vivo e sotto ricatto. Ora non più”. Così scrive – davvero controcorrente – un noto rompipalle. Montanelli se la ride, e vorrebbe che al Giornale togliessero il sottotitolo (“Contro il Coro”); mi sembra di sentirlo: “Insomma, Sallusti, se difendi sempre la posizione del Capo, abbi il pudore, almeno, di ammetterlo: ‘canto nel coro su musica e testi dell’avvocato Ghedini’”. Che, in quanto avvocato, fa (almeno lui) il suo mestiere.