Prescrizione, si gioca con le vittime

Non il riscaldamento globale, il debito pubblico, l’Ilva e l’Alitalia, il declino industriale mobilitano politica e talk show, ma la prescrizione, anzi una legge appena approvata dalla maggioranza dei parlamentari che si vorrebbe buttare via prima che venga applicata. È una commedia di infima qualità.

Molti degli attuali oppositori hanno cambiato parere rispetto a un anno fa: superficiali allora, inconsapevoli adesso, opportunisti quando?

Tirano in ballo a sproposito la Costituzione, usano iperboli, inveiscono perfino. Qualcuno perde il filo: non il traguardo della prescrizione rallenterebbe i processi, ma la sua sospensione.

Lo Stato esercita la giustizia penale per punire i colpevoli dei reati e per impedire che i crimini siano portati a conseguenze ulteriori. La lentezza dei processi, l’estinzione troppo frequente dei reati escludono il raggiungimento di questo scopo fondamentale. Eppure non si sono mai visti politici agitarsi per questo come si scaldano per la prescrizione. Non capiscono, non vogliono che la giustizia funzioni, recitano? Prendono un pretesto per combattere altre personali battaglie.

Vediamo: la riforma del processo deve toccare le notifiche, le impugnazioni, i riti alternativi. Per esempio: se si appella troppo, mancando il rischio della riforma in pejus, le Corti d’Appello sono intasate e impegnano giudici e cancellieri che altrimenti andrebbero nelle Procure e nei Tribunali, dove avviene la maggior parte delle prescrizioni prima della sentenza di primo grado, dalla quale soltanto ora ci sarà la sospensione. Analogamente, la Cassazione soverchiata di ricorsi, anche sui patteggiamenti che accolgono la proposta difensiva, assorbe personale e risorse che dovrebbero stare altrove.

La prescrizione dei reati è una norma di civiltà giuridica evoluta e raffinata, ma una volta snaturata e accorciata per vantaggio personale, applicata a un sistema trascurato e deliberatamente obbligato all’impotenza, si trasforma in uno strumento di ingiustizia e vanificazione del diritto penale. Essa può sopravvivere soltanto quando il processo abbia mezzi e tempi accettabili; e deve essere commisurata alla capacità del sistema processuale. Altrimenti diviene, essa sì e non la sua sospensione, causa di storture vergognose e della sconfitta dello Stato e della comunità civile. Basta pensare ai reati colposi, anche gravissimi, riguardanti la salute, la sicurezza sul lavoro, gli inquinamenti.

Gli esempi di tempi di prescrizione molto lunghi, per ipotesi rarissime di reato, come quelli enunciati e pure un po’ gonfiati da Mara Carfagna, trascurano, forse involontariamente, queste drammatiche realtà. Per tacere dei collegi di difensori agguerriti e spregiudicati di certi nababbi che campano su cavilli, sleali ricusazioni, trucchetti vari per arrivare all’impunità. Li ho visti, li ho sperimentati quando ero magistrato, non devo dimenticarli nell’interesse dei cittadini che li subiscono e ne sono umiliati. Non è, o almeno non deve essere, una guerra tra fazioni; né tra magistrati e avvocati. Semmai, una contrapposizione inevitabile tra chi vuole una giustizia onesta e chi cerca altro.

 

Mail box

 

Coronavirus, gli insegnanti costretti al fai-da-te

Sono un’insegnante della Scuola Secondaria di Primo Grado e sto assistendo a qualcosa di impensabile. Dopo che le Regioni hanno potuto scegliere se cancellare o meno l’obbligo di presentare un certificato medico per il rientro in classe successivamente a una lunga assenza, il ministero, tramite una circolare, dirama istruzioni su come provvedere a una profilassi fai da te da parte degli insegnanti per il controllo della diffusione del famigerato coronavirus. Nel mio Istituto, la segreteria rende operativa tale indicazione ministeriale tramite una circolare che chiede ai docenti di informarsi a proposito dei viaggi all’estero e della eventuale permanenza in Cina dei nostri ragazzi. Insomma, la volontà di buttare addosso agli insegnanti una responsabilità sociale così grande è evidente. Mi chiedo come dovrò impostare la mia indagine tra gli alunni. Potrei interrogare solo gli studenti asiatici, per poi finire additata come razzista. Oppure, per non sbagliare, potrei rivolgere alle mie classi una generica domanda sui loro spostamenti con la famiglia, alla faccia della privacy. Tanto sono solo minorenni. Bene, fatte tali considerazioni, posso svolgere serenamente il mio lavoro.

Lettera firmata

 

Stampare più denaro aiuterà davvero la Cina?

Caro direttore, la Cina, per le note vicissitudini economiche e sociali causate dal coronavirus che si stanno espandendo mondialmente, sta parlando di attivare attraverso la sua Banca centrale una grande fase di aiuto finanziario, cioè un vero e proprio Quantitative Easing, emissione di grandi quantità di denaro, per risollevare l’economia. Non dissimilmente da quanto fatto da Federal Reserve e Bce con la crisi delle banche e della finanza nel 2009. Ma ciò pone una grave domanda di carattere etico: se quando ci si trova in difficoltà, come ora la Cina, la soluzione è il Quantitative Easing, cioè creare denaro senza valore dal nulla, da consegnare però ai soliti noti, non si capisce perché non lo si può fare quando si tratta di ricostruire il Ponte Morandi, L’Aquila e Amatrice, risanare l’Ilva, completare il Mose, o molto più banalmente aiutare i 5 milioni di poveri assoluti che in Italia non hanno neppure di che sopravvivere, o riformare le pensioni massacrate dall’ultima riforma. Il confronto fra le due scelte è stridente. Cosa è che permette al Quantitative Easing di scattare fra il plauso generale e cosa invece lo fa bloccare con il classico “non ci sono i soldi” o il becero “ce lo chiede l’Europa”?

Enrico Costantini

 

Cervelli in fuga: un’etichetta inesatta della migrazione

Gentile redazione, volevo complimentarmi con Gianluca Roselli per l’articolo sull’emigrazione italiana. Come fondatore di Nomit, associazione di emigrati italiani a Melbourne che si occupa di assistenza ai nuovi arrivati, tutela dei diritti dei lavoratori migranti e studio del fenomeno migratorio italiano in Australia, è da tempo che cerchiamo di spiegare come l’etichetta dei cervelli in fuga applicata alla migrazione sia dannosa, oltre che inesatta. Così come fuorviante è una descrizione dell’esperienza migratoria come sempre di successo. Nell’articolo si descrive bene che la migrazione per la maggior parte dei giovani italiani si contraddistingue per la sua prolungata situazione di precarietà e, in molti casi, più aumenta la tendenza a chiudere le frontiere, più diventa facile che ci si ritrovi a dover gettare la spugna e tornare indietro. C’è, poi, il problema dei diritti sociali e politici che la migrazione giocoforza va a intaccare nella vita dei migranti, specialmente se ci si sposta al di fuori dell’area Schengen.

Luca M. Esposito

 

Oscar 2020: non si spiega il flop di “The Irishman”

A novembre del 2019 è uscito nei cinema The Irishman, il capolavoro-testamento di Martin Scorsese, film straordinario e inarrivabile, con un cast sontuoso. In condizioni normali una pellicola del genere avrebbe dovuto sbancare gli Oscar con 10 statuette vinte. Invece, come tutti sappiamo, nella recente cerimonia di Los Angeles, l’Academy ha di fatto snobbato The Irishman non conferendogli alcuna statuetta. Una decisione del genere lascia sgomenti e impietriti. Mi chiedo quali siano le “reali” motivazioni che hanno indotto l’Academy a prendere tale decisione.

Marco Scarponi

 

La confusione dei 5 Stelle non azzera il buon lavoro fatto

Sono d’accordo con quanto scritto dal Sig. Petraglia sul Fatto Quotidiano. I Cinquestelle, pur nella loro confusione e nel travaglio che stanno passando, hanno fatto delle buone leggi. Leggi che nessuno in passato aveva mai fatto (Reddito di cittadinanza, abolizione dei vitalizi, legge anticorruzione, ultima la prescrizione pur con l’ostracismo di Renzi). Ora, bisogna proseguire da soli e, forse, è il caso di allearsi e fermare la casta per sempre.

Giovanna Mancina

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di ieri “L’ambigua scalata di Nicchi il duce” ho scritto per errore che il nome di battesimo di Pisacreta è Nicola. Il vicepresidente dell’Aia si chiama invece Narciso. Me ne scuso con gli interessati e con i lettori.

P.Z.

Tg2, Graviano&B. Il servizio trasmesso alle 18:15. Ma non in prima serata

Con riferimento all’articolo apparso nell’edizione di domenica 9 febbraio a pagina 2 a firma di Giampiero Calapà, la direzione del Tg2 precisa che la vicenda Graviano a Reggio Calabria è stata ampiamente raccontata in un servizio dell’edizione delle 18:15 del Tg2 (contenente anche stralci dei sonori dello stesso Graviano resi in aula in videoconferenza), a firma di Marco Bezmalinovich.

Quindi non è corretto affermare che sia stata ignorata la notizia perché la stessa ha trovato spazio nella prima delle edizioni serali del Tg2.
Mariarita Grieco, Caporedattore Segretario di Redazione, Tg2

 

“La vicenda Graviano a Reggio Calabria” sarebbe l’udienza in cui, venerdì scorso, ha parlato il pezzo da novanta di Cosa Nostra arrestato a Milano il 27 gennaio 1994 al processo ’ndrangheta stragista. E le parole del “padrino” sono state pietre, perché hanno tirato in ballo Silvio Berlusconi, che solo pochi mesi dopo l’arresto del latitante sarebbe diventato premier. Come abbiamo scritto su queste colonne nell’edizione di domenica è giusto porsi interrogativi sul perché Giuseppe Graviano decida di parlare proprio adesso, 26 anni dopo, ma “è altrettanto legittimo raccontare com’è stata data una notizia di questa portata dalle principali edizioni dei tg di venerdì e dai quotidiani in edicola” sabato. Perché Berlusconi è stato al vertice del potere per un abbondante ventennio e tuttora il suo partito, Forza Italia, è capace di esprimere la seconda carica dello Stato: la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. E perché Marcello Dell’Utri, per decenni braccio destro di Berlusconi, è stato già condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E perché le motivazioni della Corte d’assise di Palermo della sentenza sul processo Trattativa andrebbero rilette con attenzione, come segnalano l’ex procuratore capo e l’ex procuratore aggiunto Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte nel libro “Lo Stato illegale”. Rispetto alla richiesta di precisazione del Tg2 – lettera in cui si scrive della “vicenda Graviano a Reggio Calabria” senza mai nominare Silvio Berlusconi: singolari riflessi incondizionati – il fatto di aver mandato un servizio nell’edizione pomeridiana delle 18:15 e non averlo rimandato in prima serata, dentro l’edizione principale (quella che abbiamo analizzato), è casomai un’aggravante per il servizio pubblico. Siamo stati troppo buoni omettendo il particolare.

Ps. I dati delle due edizioni parlano da soli. Per il Tg delle 18:15: share 4.16 ascolto 609.737 contatti 1.013.593. Per quello delle 20:30: share 5.40 ascolto 1.386.886 contatti 2.730.861
Giampiero Calapà

Ferrara s’inchina a Sgarbi: suo il 20% dei biglietti del Castello

Se la carica di assessore regionale è scomparsa insieme a Lucia Borgonzoni dopo il voto delle ultime elezioni, a Vittorio Sgarbi rimane sempre l’amata Ferrara. La sua città, oggi più che mai dopo l’approvazione di una convenzione ad hoc. La delibera di Giunta, diventata esecutiva ieri senza discussione o voto del consiglio comunale, riguarda l’esposizione delle opere della Fondazione Cavallini-Sgarbi nel Castello Estense, vero gioiello cittadino, attraverso la realizzazione di diversi percorsi di mostra. Un progetto annunciato dallo stesso Sgarbi a settembre 2019: “C’erano almeno dieci offerte per portarla altrove ma il vento è cambiato grazie al bravo sindaco Alan Fabbri e a Marco Gulinelli, primo scrittore prestato alla vita amministrativa”. Il nuovo assessore alla Cultura è molto legato al parlamentare, al punto che alle scorse amministrative – vinte per la prima volta dalla Lega – si è candidato con lo slogan “Vota Sgarbi, scrivi Gulinelli”. È un geometra ma recentemente ha scoperto la sua vena letteraria: due i libri scritti, entrambi pubblicati dalla casa editrice La nave di Teseo fondata da Elisabetta Sgarbi.

In questi mesi, la giunta leghista e la famiglia Sgarbi hanno modificato il progetto originario, almeno quello annunciato dallo stesso Vittorio: “Non esiste profitto, nella convenzione con il Comune verrà stabilita una somma, penso a 2 euro a ingresso, ma il ricavato sarà destinato ai restauri e all’eventuale acquisizione di opere che arricchiranno la Collezione”. Oggi, carte alla mano, la questione sembra un po’ diversa. I compensi per questo prestito ammonteranno ad “almeno il 20% dei biglietti di entrata al Castello sia interi che ridotti”: non il ricavato delle mostre relative alla collezione privata ma di tutto il complesso pubblico. Nel 2019 i visitatori del Castello Estense sono stati quasi 200 mila, mentre l’ultima mostra della Fondazione “La Collezione Cavallini Sgarbi. Da Niccolò dell’Arca a Gaetano Previati. Tesori d’arte per Ferrara” in otto mesi staccò poco meno di 41 mila biglietti. Un confronto impari che con la nuova convenzione viene invece azzerato. Ci sono anche altri oneri a carico del Comune: trasporti, assicurazioni, tasse, bolli, allestimenti – che possono essere curati solo da Vittorio Sgarbi o da consulenti di sua fiducia – persino gli eventuali restauri futuri. Anche il costo del catalogo è a cura del Comune, “pur rimandando nello specifico a un altro accordo”, ma alla Fondazione Cavallini Sgarbi di sicuro andrà “una percentuale pari all’80% delle vendite”. Quindi, oltre al 20% dei biglietti d’ingresso la famiglia Sgarbi conquista anche l’80% degli incassi di tutti i cataloghi. Altra clausola particolare è quella relativa alla fine della convenzione: “Al termine del prestito le Opere dovranno essere riconsegnate a cura del Comune in un luogo indicato dalla stessa Fondazione”. Un pensiero che spaventa i fondatori della neonata associazione PiazzaVerdi, nata per “contrastare un possibile monopolio culturale che cresce nel silenzio generale della città. Se la Fondazione riuscisse a prestare ad altri queste opere il Comune dovrà farsi carico della relativa spedizione, e se le prestasse in Giappone? Nulla lo vieta in questo documento”.

Per Alberto Ronchi, ex assessore regionale alla Cultura “c’è una visione personalizzata della città, Sgarbi è l’assessore ombra di Ferrara e il vero assessore è l’ombra di Sgarbi, chiediamo ufficialmente al sindaco di ritirare questa convenzione, in caso contrario stiamo valutando il ricorso alla Corte dei Conti”. Il parlamentare è stato nominato a fine novembre presidente di un’altra Fondazione, Ferrara Arte, nata con lo scopo di organizzare mostre negli spazi di Palazzo dei Diamanti: il direttore non è stato ancora nominato. La prima dichiarazione da presidente della Fondazione Ferrara Arte è stata quella di attaccare la mostra in essere sul pittore Giuseppe De Nittis contestandone i costi. Un incarico che non dovrebbe avere, rimarca Ronchi: “Il sindaco deve tornare a essere il presidente di Ferrara Arte, c’è un conflitto di interessi gigantesco, bisogna sapere cosa sta succedendo invece di fare passerelle insieme ignari di quello che accade in questa città”.

Una stoccatina al rieletto governatore Stefano Bonaccini, passato all’inaugurazione di una mostra al Castello.

Così la discarica dei Casalesi resta a Cerroni

L’Agenzia nazionale dei beni confiscati alla criminalità organizzata ha dato il via libera a un contratto di affitto quinquennale di un terreno sequestrato a favore di una società che fa capo a un gruppo che comprende aziende colpite da interdittive antimafia e i cui ex dirigenti sono a processo per inquinamento delle falde acquifere. Accade a Borgo Montello, frazione di Latina, nel Lazio, dove sorge una delle discariche più estese d’Italia, gestita dalla “Ecoambiente srl”. Quest’ultima, tramite un sistema di scatole cinesi, appartiene a tre società riconducibili alla famiglia di Manlio Cerroni, 94enne “re della monnezza” a Roma, rinviato a giudizio a settembre per il malfunzionamento degli impianti di Malagrotta.

Il rinnovo del contratto, stipulato in origine nel 1998, porta la data del 9 novembre 2018 ed è emerso con evidenza nell’ultima conferenza dei servizi in Regione Lazio, dovedal 2015 si discute dell’aumento delle volumetrie della discarica, chiusa nel 2016. L’invaso appartiene alla “Capitolina srl”, società in liquidazione le cui proprietà sono andate in gestione all’Agenzia, in virtù di una confisca “non definitiva” che pende Cassazione. Fra queste figura la particella 299, foglio 21 del catasto del Comune di Latina, area nella quale la “Ecoambiente” vorrebbe riaprire i conferimenti.

“L’Agenzia è stata autorizzata dal Tribunale di Roma – fa sapere l’ente – quello del 2018 era un rinnovo, andava fatto per garantire la gestione post mortem della discarica che competeva a Ecoambiente, che la gestiva quando era operativa. In quella fase era difficile trovare un’altra società disposta a subentrare, non essendoci ritorno imprenditoriale”.

In realtà Cerroni un ritorno sembra intravederlo: il contratto tra “Capitolina” ed “Ecoambiente” prevede che se arriverà l’ok all’ampliamento dell’invaso “per cui non è ancora iniziata la fase di post gestione e collocato sulla particella 299”, la società pagherà “euro 1,50 oltre Iva per ogni tonnellata di rifiuti depositata”. In questo contesto non pare un caso che nel 2019 il gruppo abbia investito 2,5 milioni per prenderne il controllo.

“Ecoambiente”, infatti, è riconducibile al “Supremo” attraverso una galassia di società – “Systema Ambiente Spa”, “Società Ecologica Meridionale Impianti Smaltimento Arl”, “Finecologic Srl”, “Pisana Immobiliare Srl”, “Ponteg Srl” – che culmina nella “P. Giovi Srl”, di proprietà di Monica (25%) e Donatella Cerroni (25%), figlie del 94enne avvocato, e di Piero Giovi (25%), già amministratore del consorzio “Colari”. Di quest’ultimo fa parte la “E. Giovi Srl”, colpita da interdittiva antimafia e della quale “Ecoambiente” almeno fino al 2015 era “costola” a Latina. Non solo. Dal 2014, gli ex manager Vincenzo Rondoni, Bruno Landi e Nicola Colucci sono a processo con l’accusa di “omesso controllo circa la sicurezza degli invasi S1, S2, S3 e S0” di Borgo Montello, “mancata esecuzione di opere di impermeabilizzazione di detti impianti”, con la produzione di “reiterati fenomeni di fuoriuscita del percolato” e la conseguenza di inquinare le acque di falda “rendendole pericolose per la salute pubblica”.

L’indagine è finita nella relazione del dicembre 2017 della Commissione parlamentare Ecomafie, che racconta anche come negli anni ‘80 alcuni terreni adibiti a discarica fossero di proprietà di Michele Coppola, indicato dall’ex tesoriere dei Casalesi, Carmine Schiavone, come contiguo al clan. Il quale – ha raccontato a più riprese il pentito –, negli anni 80 e 90 in quei terreni avrebbe sotterrato illegalmente tonnellate di rifiuti pericolosi.

Il fratello del sindaco ucciso: “Ora il Csm indaghi sul pm”

Uno dei misteri che avvolge da quasi dieci anni l’omicidio del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, riguarda la mancata “messa in sicurezza” del luogo del delitto. Fu irrimediabilmente inquinato dalla presenza di troppe persone – curiosi, vicini di casa, semplici passanti – che non avevano titolo a stare lì, fino a costringere gli inquirenti a svolgere negli anni centinaia di test del Dna per sfoltire il campo dei sospetti.

Il giallo si allarga ai primi due giorni delle indagini. I giorni in cui il fascicolo fu di competenza della Procura di Vallo della Lucania, pm Alfredo Greco, prima che passasse alla Dda di Salerno.

Ed è su quei misteri, e in particolare sui rapporti tra il pm Greco e il colonnello Fabio Cagnazzo, l’ufficiale dei carabinieri di Castello di Cisterna che svolse i primi accertamenti sui sistemi di videosorveglianza della piazzetta di Acciaroli, e poi scrisse la prima informativa dopo aver ascoltato le voci del posto, che si concentra l’ultima iniziativa di Dario Vassallo, fratello del sindaco ucciso e presidente della Fondazione che ne tramanda il ricordo.

Nei giorni scorsi, Dario Vassallo ha inviato una durissima lettera-esposto al vicepresidente del Csm David Ermini, e per conoscenza al presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra e al capo dello Stato Sergio Mattarella, con cui chiede di riavviare indagini sull’operato del pm Greco. Non è la prima volta e forse non sarà l’ultima, ma rispetto alla precedente, la mossa del fratello del sindaco pescatore si fonda su alcune novità. E in particolare sui filmati inediti girati poche ore dopo l’omicidio, nei pressi dell’auto dove fu ritrovata la salma di Vassallo crivellata da nove colpi di pistola. Video realizzati da un operatore che si acquattò dietro le siepi di una villetta, producendo un documento eccezionale (una parte è stata utilizzata in tv da Le Iene).

Il filmato riprende il colonnello Cagnazzo in felpa rossa e cappuccio nero dentro l’area delimitata dalle strisce biancorosse mentre riceve un “buffetto” dal pm Greco. Per Dario Vassallo, quelle immagini sono la prova che Greco non avrebbe detto la verità in una lettera pubblicata il 28 febbraio 2018 su La Città di Salerno: “Vi trovai, a pochi metri dal centro, una folla con il cadavere e l’automobile già preservati e cinturati; ciò non di meno provvidi ancora ad allontanare tutti… Ricordo che il colonnello Cagnazzo quella notte era sul posto e anche lui fu allontanato dalla scena del crimine”. Secondo il fratello del sindaco, uno tra Cagnazzo e Greco ha mentito se il primo ha detto a Giulio Golia de Le Iene di essere stato incaricato dal pm a sentire persone e prelevare i dvd della videosorveglianza, mentre Greco lo smentisce. Sono incongruenze già all’attenzione della Dda di Salerno, che ha sentito i giornalisti delle Iene.

La lettera a Ermini di Dario Vassallo parte dall’insoddisfazione per la “deludente missiva in burocratese” ricevuta nel gennaio 2019 dal Csm in risposta a un primo esposto del 2016 sulla Procura di Vallo della Lucania, nella quale si fa riferimento a una vicenda che lui ritiene “estranea”, il sequestro del cellulare di una giornalista che si occupò dell’omicidio Vassallo pubblicando il verbale di un pentito e che poi si rifiutò, come è legittimo, di rivelare la fonte. Si tratta di una delibera del plenum del Csm che, dopo aver accorpato l’esposto agli accertamenti sulla perquisizione della giornalista, ha stabilito la correttezza dell’operato dei magistrati.

Sentito dal Fatto, Greco, pm in pensione, replica: “Mi dispiace di essere chiamato in causa su vicende che turbano la memoria di Angelo. Dico solo che dare un incarico di quel genere ai carabinieri non aveva alcuna ragione: i risultati non sarebbero stati acquisibili”.

La Rai non prende i soldi che gli spettano

Nell’ultimo Cda il vertice Rai ha presentato una previsione di bilancio per il 2020 con un rosso di 65 milioni di euro. Nonostante ciò, la tv di Stato non riesce a farsi restituire neppure i denari che le spettano di diritto. Come, ad esempio, 100 mila euro dall’ex direttore generale Mauro Masi condannato dalla Corte dei Conti prima, e dalla Cassazione poi, a risarcire la Rai per danno erariale.

Ex dirigente di Bankitalia e di Palazzo Chigi, Masi è arrivato alla guida della tv pubblica nell’aprile del 2009 su espressa indicazione di Silvio Berlusconi. Amante del bel vivere e delle belle donne (è nota alle cronache la sua relazione con la presentatrice Ingrid Muccitelli), baffo sornione e buone frequentazioni nella Roma che conta, di lui è passata alla storia della tv la telefonata preventiva, il 27 gennaio 2011, alla trasmissione Annozero di Michele Santoro. Masi chiamò per “prendere le distanze da parte dell’azienda” sui possibili contenuti della trasmissione, beccandosi un “vaffa” in diretta da Santoro.

In questo caso la vicenda riguarda alcune spese che il dg fece sostenere a Viale Mazzini nel 2009 per l’incentivo all’uscita all’ex direttrice della Tgr, Angela Buttiglione (sorella di Rocco) e dell’ex direttore di Radio Rai, Marcello Del Bosco. Alla prima, in occasione del prepensionamento, oltre all’incentivo di 515 mila euro vennero liquidati anche 420 mila euro per astenersi da attività concorrenti alla Rai. A Del Bosco, invece, fu dato uno scivolo di 435 mila euro, più altri 260 mila sempre per un patto di non concorrenza. Patto che è costato alla Rai la bellezza di 680 mila euro, che una sentenza della Corte dei Conti ha giudicato come danno erariale in quanto somma non dovuta.

Sentenza confermata dalla Corte di Cassazione a metà ottobre del 2018, dove però si è deciso per uno sconto: invece di dover restituire l’intera cifra, l’ex dg è stato condannato a un risarcimento di 100 mila euro. Che però, nonostante sia passato quasi un anno e mezzo, Viale Mazzini non ha ancora riscosso.

La vicenda è stata sollevata da Riccardo Laganà, il consigliere eletto dai dipendenti. “Mi preme innanzitutto far valere il principio di responsabilità. In un’azienda in rosso dove spesso si ha la sensazione che, tra mega contratti e appalti esterni, si gettino i soldi dalla finestra, vorrei almeno che chi in passato ha sbagliato, sperperando denaro pubblico come dicono le sentenze, si prenda le proprie responsabilità e restituisca ciò che deve”, osserva Laganà. Ufficialmente finora non c’è stata risposta, ma alcune voci dicono che qualcosa si muove e che la Rai si sarebbe decisa a riscuotere il suo credito dall’ex dg.

L’indagine si allarga a Bologna. “Tolta la corrente allo scambio”

Inviato a Lodi

“La notte di giovedì siamo intervenuti sul deviatoio cinque, abbiamo tolto la corrente per lavorare, dopodiché abbiamo provato a rialimentarlo ma non è stato possibile, per questo è stato deciso di lasciarlo disalimentato”. Questo uno dei passaggi dei verbali dei cinque operai Rfi indagati per il deragliamento del Frecciarossa Av 9595. Sono parole che, secondo la Procura, allargano il campo dell’inchiesta. Non c’è più solo la palazzina dei manutentori di Livraga e i cinque operai che la notte di giovedì hanno lavorato sullo scambio al chilometro 166 della tratta alta velocità Milano-Salerno, ora nel mirino dei magistratidi Lodi entra a tutti gli effetti anche la sala operativa di Bologna, quella cioè che doveva monitorare e coordinare il Frecciarossa partito alle 5,10 da Milano e deragliato alle 5,34 all’altezza di Ospedaletto Lodigiano provocando la morte dei due macchinisti.

L’obiettivo è capire cosa abbia visto la centrale dopo l’intervento dei manutentori. Se cioè togliere l’elettricità abbia sottratto la traccia dalla rete informatica dell’alta velocità. A causare lo svio è stato lo scambio rimasto inspiegabilmente aperto. Per questo da venerdì sono indagati i cinque operai che hanno lavorato sul quel deviatoio.

Da ieri nel registro degli indagati è iscritta anche la società Rfi per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti. L’indagine dunque si allarga. A dare benzina ci sono i verbali dei cinque indagati. Gli operai sono stati sentiti fino alle tre di domenica. Tutti hanno detto di aver lavorato su quello scambio. Due, a loro dire, più di altri. A verbale inoltre sarebbe stata messa l’ipotesi che il pezzo nuovo sostituito fosse difettoso. Ma è solo una posizione difensiva per nulla suffragata dalle analisi investigative che ancora dovranno essere fatte e il cui inizio è previsto per domani. C’è ancora molto da capire. A partire da quel fonogramma inviato da Livagra alle 4,45 di giovedì e cioé 25 minuti prima che il treno partisse. In quel documento mandato alla centrale operativa di Bologna si spiega che il deviatoio è stato “disalimentato” e posto “in posizione normale “e cioè secondo il “giusto tracciato”. Fino ad ora si pensava che la disalimentazione significasse sottrarre lo scambio dal controllo completo della centrale di Bologna. Ora questa ipotesi pare meno solida ed è per questo che nelle prossime ore saranno interrogati i membri della centrale operativa e anche il dirigente di movimento. Al momento su questo fronte non ci sono nuovi indagati. Ma è chiaro che se l’ipotesi di un mancato controllo da Bologna fosse confermata ci sarebbero nuovi avvisi di garanzia. Secondo le ultime analisi investigative lo scambio di Livraga pur “disalimentato” era presente nelle rete informatica che gestisce la tratta dell’alta velocità. Ora cosa può essere successo? La prima ipotesi riguarda una drammatica e improbabile svista di chi era a quell’ora di giovedì mattina nelle centrale. E cioè la rete ha segnalato l’allarme che non è stato visto. Anche qui però interviene un’ulteriore ipotesi: se lo scambio è aperto, ci viene spiegato, il treno dovrebbe fermarsi immediatamente. Cosa che non è successa.

E, quindi, ecco una seconda lettura: Bologna, poco prima delle 5,34 osservava sugli schermi un segnale falsato e cioé un via libera che tale non era a causa di un errore di sistema e dunque tecnologico e non umano. Ma che il ruolo della centrale operativa di Bologna sia ritenuto cruciale lo dimostrano i lavori effettuati ieri sullo scambio. Si è trattato di lavori sulle centraline e correlati al comparto elettrico. Lavori “propedeutici”, ci è stato spiegato, ai prossimi interrogatori. Domani, poi, inizieranno gli accertamenti irripetibili sullo scambio che non sarà prelevato ma analizzato sul posto. Anche qui, al netto del ruolo primario della centrale di Bologna, c’è da capire ancora molto. Sappiamo che gli operai giovedì, dopo aver già fatto altri tre interventi sulla tratta, si occupano del deviatoio cinque. Che ha un primario problema meccanico sul sistema di apertura e chiusura. Qui l’elemento sarà sostituito ed è l’elemento che gli operai interrogati dalla polizia giudiziaria e dal pm sostengono avesse un difetto. Particolare che sarà verificato solo a partire da domani. L’intervento non sarà risolutivo, lo scambio presenta anche un’anomalia elettrica. Giudicata irrisolvibile prima che parta il treno, si decide, come spiegato dai verbali, di rimettere lo scambio in posizione dritta perché il treno possa passare. Cosa che non avverrà. Lo scambio sarà ritrovato aperto forse anche per un calo di pressione nel sistema oleodinamico che ne regola la chiusura.

“La paura nei suoi occhi e i controlli anche nel cibo”

Negli occhi di Patrick George Zaki, studente e attivista egiziano di 27 anni, tutta la paura e la tensione di una vita cambiata nel giro di pochi minuti: “Non dimenticherò il suo sguardo preoccupato, lui di solito allegro, spensierato e sorridente. Ancora adesso io e la mia famiglia non abbiamo metabolizzato la cosa”. Marise Zaki, 23 anni, è la sorella minore di George e da sabato assieme a suo padre, George Michel, e sua madre Hela Sohby Abdel Malek, si sono trasferiti in pianta stabile a Mansoura, città d’origine della famiglia. L’incontro di domenica mattina con George Patrick alla stazione di polizia della città a nord del Cairo è stato doloroso e invece di portare sollievo ha aggiunto dolore: “Non li ho contati, ma credo che in tutto ci abbiano concesso di vedere mio fratello non più di due minuti – racconta Marise – non ci è stato consentito di avvicinarci a lui, neppure per un abbraccio, un bacio, una carezza, niente. Gli abbiamo portato qualcosa da mangiare, le guardie hanno voluto controllare anche quello, mettendo le mani nel cibo per accertarsi che non ci fosse dentro qualcosa di strano. Nei pochi istanti concessi per l’incontro abbiamo dovuto discutere del caso e gli avvocati lo hanno informato su cosa sta succedendo e sulla linea da seguire. Addosso non sembrava avere segni evidenti, ma posso parlare solo per il viso, il resto era coperto, spero non gli abbiano fatto altro male. Confidiamo nella giustizia”.

Patrick George sabato scorso è finito davanti al Procuratore di Mansoura a cui, tra le altre cose, ha raccontato le torture, le minacce e le percosse subite il giorno precedente. L’esito della prima udienza è stato il rinvio del processo e la conferma della sua detenzione per 15 giorni. Su di lui gravano diverse accuse, tutte più o meno orientate a renderlo un potenziale terrorista.

Decisivi per il suo arresto alcuni post anti-regime pubblicati nei mesi scorsi sui social network, Facebook, Twitter e Instagram in particolare, mentre già si trovava a Bologna per seguire i corsi del programma Erasmus internazionale ‘Gemma’. Finiti gli esami del primo semestre, come confermato al Fatto dalla docente del corso, la professoressa Rita Monticelli, nella tarda serata di giovedì scorso il 27enne è salito su un aereo che lo ha riportato in patria per un breve periodo di riposo.

La visita alla sua famiglia e poi il rientro nel capoluogo emiliano dove ieri era prevista la ripresa dei corsi del semestre di studi successivo: “Il suo aereo è atterrato regolarmente al Terminal III dell’aeroporto internazionale del Cairo alle 4 di mattina – aggiunge Marise Zaki – io e miei genitori aspettavamo con gioia di riabbracciare Patrick George. Appena l’aereo ha toccato il suolo, lui ci ha contattato con la scheda telefonica italiana una prima volta per dirci che era andato tutto bene e di aspettarlo agli ‘Arrivi’. Poco dopo una seconda chiamata al telefono di mio padre. Il tono della voce era molto diverso rispetto alla precedente. Il tempo di dire ‘c’è qualcosa che non va’, poi credo che qualcuno gli abbia preso il telefono, rimasto spento da allora. Siamo rimasti lì per ore in attesa di capire cosa fosse accaduto, ma nessuno in aeroporto sapeva darci spiegazioni, ci dicevano soltanto di aspettare e vedere le evoluzioni. Le ore passavano e di Patrick non c’era traccia. Mentre noi eravamo in attesa lui è stato trasferito a Mansoura dalla National Security. Soltanto l’indomani mattina, sabato, ci hanno avvisato che Patrick si trovava a Mansoura e a quel punto siamo subito partiti. Lo accusano di aver svolto attività politica, ma lui non fa politica, è solo uno studente e un ragazzo. A costo di perdere il lavoro io e la mia famiglia non ci muoveremo da qui, in attesa della liberazione di Patrick. Lui deve essere liberato perché non ha fatto nulla di male e perché deve tornare in Italia per proseguire gli studi”.

La Farnesina segue con la massima attenzione il caso dello studente Erasmus di Bologna e lo fa anche attraverso la sua sezione diplomatica al Cairo. Il Fatto ha contattato l’ambasciata italiana a Garden City, lungo la sponda est del Nilo. L’ambasciatore Giampaolo Cantini in persona, oltre al suo staff, sta seguendo l’evolversi della situazione, visto il collegamento del caso con il nostro Paese. Sono stati attivati canali molto rilevanti, ma il dettaglio più importante è legato al monitoraggio in sede Ue attraverso un meccanismo che consentirebbe di seguire il processo di Patrick George Zaki e addirittura presenziare alle prossime udienze.

Il “vero” contagio: il virus è la paura

Ieri in aeroporto, mangiando una brioche di fretta in un bar affollato, mi è andata una briciola di traverso e ho iniziato a tossire. Pur non essendo cinese e pur non venendo dalla Cina, intorno a me si è improvvisamente creato il vuoto. Ho visto una certa diffidenza sul volto delle persone che, con maggiore o minore grazia, si sono allontanate al quarto colpo di tosse.

In aeroporto c’è tanta gente che viaggia, sistemi di condizionamento d’aria che notoriamente albergano e diffondono virus… Meglio non rischiare. E così, sola, sono rimasta a finire, tossendo, la mia brioche.

Tra il 2002 e oggi, il mondo ha conosciuto due epidemie importanti: SARS ed Ebola. Il primo caso di SARS fu dovuto probabilmente a un pipistrello nella provincia di Guandong, in Cina: uccise 349 persone su 5.327 casi dichiarati e si diffuse in 26 altri Paesi, per un totale di circa 8 mila contagi. Per Ebola, 28.600 casi dichiarati con 11.325 morti, a partire dal 2013, in Guinea (un bambino venne infettato da un pipistrello in una foresta), e poi Liberia e Sierra Leone e altri cinque Paesi tra cui l’Italia. SARS, quindi, ha fatto più paura, ma meno danni dell’Ebola. Non si è assistito, però, a un panico diffuso come per il Coronavirus. A ieri, i casi dichiarati sono 40.631 e 910 i morti, su 27 Paesi coinvolti oltre alla Cina.

Dobbiamo avere paura? Il timore (precauzione o paura?) della diffusione del Coronavirus ha portato alla cancellazione di viaggi e voli, alla chiusura di fabbriche e di scuole. In Cina, città con decine di milioni di abitanti sono in quarantena. Da quando il virus ha iniziato a diffondersi oltre i confini cinesi si è parlato di possibile pandemia. Su Twitter, diversi giorni fa, un epidemiologo dell’Harvard T.H. Chan School of Public Health, testualmente ha scritto (e poi cancellato): “Santa madre di Dio! Il nuovo coronavirus: quanto è alto il suo valore di riproduzione? È a livello di una pandemia termonucleare!!!! Non sto esagerando!!!! È il virus più virulento che il mondo abbia mai visto!!!!”.

Nella realtà, a oggi, il Coronavirus avrebbe come valore R0 (“R naught” in inglese), ovvero il numero medio di persone che una singola persona infetta può contagiare, 2.5. Mentre i case fatality, i casi letali, sarebbero 2 ogni 100. Livelli di contagio e tassi di letalità pari quindi a quelli di una epidemia di influenza (non semplice influenza stagionale, ovviamente). Allora perché parliamo senza paura dell’influenza? Perché è familiare, la conosciamo e sappiamo che è controllabile e gestibile dall’Oms e dai sistemi sanitari nazionali. Se ci si pensa un attimo, il caso Coronavirus è in realtà molto interessante e paradigmatico del fatto che, paradossalmente, il vero virus è la paura, il panico. La paura un virus? Sì, la paura è oggettivamente contagiosa. La paura passa di persona in persona, si diffonde nei gruppi e nelle società, diventa la nostra paura.

Nel 2008, in una ricerca sui ferormoni è stato raccolto e nebulizzato il sudore delle ascelle di uomini e donne quando stavano per lanciarsi col paracadute (paura), e quando erano in una situazione normale da sforzo (in palestra). I due tipi di sudore, fatti annusare a un gruppo di volontari ignari, hanno attivato in questi aree cerebrali diverse: solo il sudore da paracadute ha attivato parti dell’amigdala e dell’ipotalamo, due aree del cervello tipicamente coinvolte nella paura. La frase banale “l’odore della paura” ha un fondo di verità: la paura dell’altro ha un odore, che trasmettendosi, rende la sua paura nostra.

Ma l’odore è solo uno dei possibili veicoli di contagio della paura. C’è anche il fatto che, a molti livelli, gli esseri umani sono esseri sociali e in quanto tali hanno una forma di elevata empatia (nel suo significato neutro). Si parla molto di neuroni specchio, e del loro ruolo nel permettere la relazione sociale. È un dato stabilito che quello che accade all’altro, di fronte a me, in realtà accade anche a me: se vedo una persona afferrare un oggetto si attivano nel mio cervello, benché io resti ferma e non ne sia assolutamente consapevole, le sue stesse aree motorie, come se io stessa afferrassi l’oggetto. In modo simile – e attraverso meccanismi cerebrali in parte sovrapponibili – nella relazione con un altro si vivono, sia pure a un livello più debole, le sue stesse emozioni. Per esempio, nel vedere una persona soffrire si attivano aree cerebrali che suscitano una sensazione di sofferenza. In modo simile, se vedo una persona che ha paura, anche io provo paura: e la sua paura diventa la mia.

Il contagio della paura si diffonde come un virus anche a livello sociale. Ne sono testimonianza i fenomeni detti di isteria di massa, che hanno molte manifestazioni interessanti. Tra queste ci sono forme quali le “malattie psicogene di massa” (mass psychogenic illness), un tipo di effetto nocebo. Scoppiano, come vere e proprie epidemie, in luoghi affollati quali fabbriche e scuole, causando sintomi fisici anche gravi. Decine e decine di persone improvvisamente si sentono male, manifestano gli stessi sintomi, e spesso vengono portate in ospedale per accertamenti, senza che venga riscontrato un elemento patogeno reale. La gente si ammala di empatia con gli altri, e della loro paura di ammalarsi. Questi fenomeni sono dovuti a forme di contagio psicologico, in cui difficoltà respiratorie, nausea, vomito, dolori, ipotensione, dipendono dalla capacità dell’individuo di “condividere” la paura e i sintomi osservati nel gruppo. Il fenomeno è talmente ampio ed evidente che, da una decina di anni a questa parte, sono stati sviluppati in epidemiologia modelli matematici che considerano il contagio da paura come fattore cruciale.

Nel caso del Coronavirus a questo si aggiunge l’eco mediatica e la trasmissione tramite social media, che, diffondendo notizie in modo “virale” e, come nel caso dell’epidemiologo di Harvard non ben documentate, hanno fatto del Coronavirus un elemento che può causare la distruzione dell’umanità. Come in 28 days later, Outbreak, Contagion. La paura del Coronavirus non nasce dai film, sono i film che nascono dalla paura nei confronti di un qualcosa di alieno, un virus sconosciuto e in quanto tale incontrollabile.

Mentre finisco in pace la mia brioche, mi dico che la paura per il Coronavirus svanirà col tempo, come è svanita quella per altre forme di potenziali epidemie, fortunatamente contenute (SARS, Ebola, influenza aviaria, influenza suina…). Ma il contagio della paura, quello, non passerà. Si sposterà semplicemente su altro. La paura è un’emozione di base ed è molto potente. È il campanello di allarme che suona in caso di pericolo, che spinge all’azione ai fini della sopravvivenza individuale e della specie. In quanto tale, è sempre stata e sempre sarà, è necessaria e connaturata con l’uomo e l’animale. E io sono contagiata dalla paura? Non so. Tempo di salire in aereo, e per precauzione metto la mascherina, e mi disinfetto le mani.