Sono a rischio 600 studenti in Italia. Allarme Oms sui contagi nel mondo

Sono circa 600. Sono tornati negli ultimi 14 giorni dalle aree della Cina colpite dall’epidemia di Coronavirus o lo stanno facendo in queste ore. E quindi, secondo il monitoraggio del ministero dell’Istruzione, sono interessati dalle due circolari con cui il dicastero della Salute ha dettato le regole per gestire il loro rientro in Italia.

L’aggiornamento dell’8 febbraio “è chiaro – spiega il presidente dell’Associazione Nazionale Presidi Antonello Giannelli – e invita le famiglie a contattare il preside se sono tornate dalle regioni della Cina colpite dal contagio da meno di 14 giorni. Il dirigente scolastico poi avvisa la Asl”. Per costoro il documento prevede un monitoraggio con “permanenza volontaria a casa” per la “puntuale verifica della febbre e dei sintomi tipici del nuovo coronavirus 2019-nCoV”. “In Italia ci sono tre ricoverati – prosegue Giannelli –, se le cose cambiassero e ci trovassimo di fronte a una pandemia, le misure potrebbero essere modificate anche in modo drastico. Al momento la circolare è proporzionata”.

Il Miur prepara una circolare con cui risolvere il problema delle assenze. “L’intento – spiegano dagli uffici di viale Trastevere – è fare in modo che chi resta a casa nell’ambito delle misure di contrasto al virus sia giustificato”. Al momento l’orientamento è quello di considerare “lecite” le assenze degli alunni tornati dalla Cina e quelle dei loro compagni di classe.

Sull’asse Roma-Pechino, intanto, si consuma un nuovo scambio sul blocco dei voli diretti deciso dalle autorità italiane, contro il quale la Cina protesta da giorni. “Speriamo che l’Italia possa valutare la situazione in un modo obiettivo, razionale e basato sulla scienza, rispetti le raccomandazioni autorevoli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e si astenga dal prendere misure eccessive”, è l’auspicio espresso ieri dal portavoce del ministero degli Esteri cinese Geng Shuang. “Noi abbiamo preso la decisione sulla scorta di quelle che erano indicazioni del ministero della Salute, che non ha agito in maniera politica – il commento del ministro degli Esteri Luigi Di Maio –, gli esperti e gli scienziati hanno detto quali erano i rischi”.

I contagi aumentano in Europa e nel resto del mondo. Secondo l’Oms sono 40.235 i casi confermati in Cina e 909 i decessi. Al di fuori sono saliti a quota 319 in 24 Paesi, con una vittima nelle Filippine. “La rilevazione di un piccolo numero di casi potrebbe indicare una più estesa trasmissione in altri Paesi – ha detto ieri il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus –. In breve, potremmo soltanto aver visto la punta dell’iceberg”. Secondo cui sono 40.235 i casi confermati in Cina e 909 i decessi. “La diffusione dalla Cina sembra rallentare ora, ma potrebbe accelerare”, ha proseguito Ghebreyesus annunciando la prossima riunione di 400 esperti mondiali nella sede dell’Oms e la partenza di una missione internazionale alla volta di Pechino.

Egitto, Libia e Cina: la doppia diplomazia Chigi-Farnesina

Il governo italiano ha una doppia politica estera che vuol dire non avere una politica estera. Almeno non credibile. C’è la politica estera del ministero di Luigi Di Maio e di una guarnigione di ambasciatori che a volte ha sopperito a ministri inoperosi o insipienti. C’è la politica estera di Palazzo Chigi con un gruppo di tecnici che assiste il premier Giuseppe Conte e si galvanizza al contatto diretto col potere, di scegliere, decidere, indirizzare. E infine c’è l’Italia, che poi è il principio, considerata inaffidabile, non polifonica, ma cacofonica. Più di un episodio conferma la percezione di nazioni amiche e giustifica le tensioni tra Farnesina e Palazzo Chigi.

Quest’anno s’è aperto con la Libia. All’improvviso la guerra di fronte ai mari d’Italia ha scosso il governo in letargo. In dicembre Di Maio davanti ai giornalisti col russo Sergej Lavrov era stato vago, in gennaio s’è fiondato dai Paesi che fomentano (o armano) il conflitto tra il governo riconosciuto di Tripoli e il generale Khalifa Haftar di Bengasi o che confinano con il territorio libico: in ordine, Egitto, Turchia, Algeria e Tunisia. E poi il ministro ha tentato di determinare la posizione europea con le missioni a Bruxelles, gli incontri con i colleghi inglesi, tedeschi e francesi e lo spagnolo Josep Borrell, il responsabile della politica estera dell’Unione ospitato a una cena romana molto raccontata dall’ufficio stampa. Il nuovo Di Maio è il prodotto di un’intensa attività di scolarizzazione diplomatica di Ettore Sequi, il capo di gabinetto; di Sebastiano Cardi, il direttore generale per gli affari politici; di Elisabetta Belloni, il segretario generale. Appena Di Maio ha concluso il giro, però, è partito il premier Conte per rimarcare l’autorità chigiana: Egitto, Turchia, Algeria, non Tunisia perché non c’era il governo.

La bussola di Conte è Piero Benassi, consigliere diplomatico, ex ambasciatore a Berlino, l’uomo che ha propiziato il legame con Angela Merkel e le istituzioni europee. Ai tempi del governo gialloverde l’asse tra la Farnesina e Palazzo Chigi ha funzionato perché, dal punto di vista politico, Moavero era più debole di Di Maio e Conte 1 era meno autonomo di Conte 2, ma Benassi non si è adattato ai correnti rapporti di forza. Allora capitano situazioni spiacevoli. Come la visita a Chigi di Fayez Al Serraj, posticipata di un paio di giorni dal presidente di Tripoli per lamentare il disagio per la precedenza offerta ad Haftar, che rimane il generale che ha aggredito il governo della comunità internazionale. Come la composizione della delegazione italiana ai bilaterali durante la conferenza di Berlino per la Libia: dentro, il ministro di Maio, il premier Conte con Benassi, il consigliere militare Massagli, il portavoce Rocco Casalino; fuori, gli ambasciatori Cardi e Sequi, cioè la Farnesina. L’ammiraglio Carlo Massagli è fra i protagonisti della vicenda della vendita all’Egitto di una coppia di fregate, di fatto già consegnate alla Marina italiana. Il 24 gennaio, alla vigilia dell’anniversario della scomparsa di Giulio Regeni, il ricercatore universitario ammazzato in Egitto 4 anni fa, a Chigi era in agenda una riunione plenaria sulla commessa con Il Cairo. La Farnesina aveva suggerito di evitare la sgradevole sovrapposizione, s’è saputo di un rinvio, in realtà la riunione, non più plenaria, s’è tenuta in forma ristretta con tutti gli attori necessari presenti. E poi c’è il Coronavirus.

Con una premessa: dopo le sbandate russofile di Matteo Salvini, Chigi è tornato allineato agli Stati Uniti, mentre la Farnesina conserva la tradizionale (e furbesca) equivicinanza italiana.

La sera del vertice sull’epidemia il premier Conte e il ministro Speranza (Salute) hanno deciso di bloccare i voli con la Cina, per precauzione sanitaria, certo, ma senza alcuna precauzione diplomatica. Questa frenesia ha provocato una grossa protesta di Pechino che ha spinto il Quirinale, caso unico, a ricucire il rapporto con i cinesi attraverso una serie di iniziative pubbliche del presidente Sergio Mattarella: la lettera a Xi Jinping; la visita a una classe con studenti cinesi, il concerto per l’ambasciatore a Roma. Questa è una bozza di quel che appare. Il resto è pure peggio.

“Il caso 0”: anche l’Espresso ci casca

Dopo le elezioni in Emilia Romagna sono accadute cose interessanti: Matteo Salvini ha capito che Bibbiano funziona su twitter ma meno alle urne e dunque ha ripreso a fotografare pizze capricciose, la Borgonzoni ha buttato la t-shirt “Parlateci di Bibbiano” nel bidone degli abiti usati e sembrava che Bibbiano, improvvisamente, sia tornata ad essere famosa per il monumento al parmigiano posto all’ingresso del paese. E invece, a sorpresa, questa settimana L’Espresso dedica una prima pagina a Bibbiano con il titolo ad effetto “Bibbiano, la storia sconosciuta”, promettendo di rivelare “molti lati oscuri”. Evviva, uno pensa.

L’Espresso ha approfondito le vicende raccontate nelle conclusioni delle indagini, quelle in cui si parla di “una sorta di esorcismo” fatto a una bambina, di disegni manipolati, di bambini rincorsi da una psicologa travestita da lupo e così via. L’Espresso ha approfondito i legami tra Bibbiano e Sagliano, Rignano Flaminio, Veleno, ha unito i puntini. No. L’Espresso racconta la storia (terribile), iniziata nel 2012, di una ragazzina di Bibbiano obbligata dalla madre a prostituirsi e, pensate un po’, sono stati gli assistenti sociali della Val d’Enza, proprio quelli travolti dallo scandalo “Angeli e Demoni”, a segnalare il caso alle autorità! A salvarla dall’abisso in cui la madre l’aveva gettata.

La tesi dell’Espresso è così forte da apparire quasi sovversiva: a Bibbiano gli assistenti sociali denunciavano anche casi di abusi realmente avvenuti. In effetti nessuno ci aveva pensato. La prossima copertina potrebbe essere, che so: “Formigoni, la storia sconosciuta: il caso della vacanza che si è pagato da solo”. Perché siamo certi che il conto di un weekend a Gabicce Formigoni l’abbia saldato col suo stipendio. Io indagherei.

Se L’Espresso ci racconta un’altra Bibbiano, alcuni colleghi degli psicologi imputati nell’inchiesta “Angeli e demoni”, confermano invece la Bibbiano delle presunte manipolazioni sui bambini, delle posizioni ideologiche, delle tesi dell’abuso da sostenere ad ogni costo. Nelle nuove chat svelate negli atti dell’inchiesta viene fuori che alcuni operatori ritenevano l’imputato Monopoli “un patologico invasato”, che l’altra imputata Anghinolfi i suoi disegni “se li può pure ingoiare”, che “il problema è che le domande ce le facciamo solo noi”.

Insomma, pure i colleghi degli imputati “parlavano di Bibbiano”. Ed erano preoccupati. Sempre meno del Pd che continua colpevolmente a tacere e di certa stampa che anziché focalizzarsi sull’inchiesta in corso, ci racconta, sorpresa delle sorprese, che certi psicologi e assistenti sociali di Bibbiano salutavano sempre.

Bibbiano, i colleghi dicevano: “Sono patologici e invasati”

“La Anghinolfi è fuori come un balcone” e “Monopoli è un patologico invasato”. I due dominus dei sistemi sociali della Val d’Enza, al centro dell’inchiesta “Angeli e Demoni” sui presunti abusi nella gestione degli affidi, non erano considerati attendibili o affidabili nemmeno dai loro stessi colleghi. È una delle particolarità che emerge dalle chat, agli atti, tra gli assistenti sociali di Reggio Emilia. “Stamattina ha fatto una scenata delle sue, nel caso ci siano le cimici valuteranno di riaprire i manicomi” si scrivevano alcune operatrici, non tutte indagate. “Federica non mi porterà a fondo insieme a lei, io quei cazzo di disegni glieli faccio ingoiare” risponde Cinzia Magnarelli, ex assistente sociale (indagata) a Bibbiano che ha ammesso di aver falsificato le relazioni per le pressioni dei superiori. E poi ancora: “Monopoli è solo un patologico invasato, sono basita di come gente come lui continui a rappresentare una professione che non sa nemmeno cosa sia e di come possa stare dove sta indisturbato e prendendo anche valutazioni molto alte”. Un’altra rincara: “Fa tutto fuorché l’assistente sociale, quello che mi fa più incazzare è che uno come lui non si sia mai preso una denuncia e invece gente che lavora bene paga per colpe che non ha”.

La conclusione degli assistenti sociali perbene è triste: “Il problema è che le domande ce le facciamo solo noi”. A distanza di mesi, il capo della procura di Reggio, Marco Mescolini e la pm Valentina Salvi hanno ribaltato questo assunto: 26 gli avvisi di fine indagine recapitati nelle scorse settimane con diverse accuse relative a una mala gestio nel settore degli affidi dei minori. La miriade di messaggi via chat estrapolati dai telefonini sequestrati ha inoltre rafforzato il quadro investigativo e ha dato vita ad altri filoni di indagine, da sviluppare. Dalle conversazioni tra gli indagati e non, sono emersi infatti nuovi dettagli e ulteriori casi, il che ha portato ad ampliare lo sguardo rispetto agli otto minorenni al centro dell’ordinanza di custodia cautelare emessa lo scorso giugno.

Al centro dei messaggi tra Anghinolfi e altri indagati, come la psicologa Imelda Bonaretti, ci sono spesso i giudici: “Sai quel giudice è molto tonto, non intende, forse una spiegazione tecnica sarebbe auspicabile, tipo le relazioni dei consulenti tecnici nei processi”. Le due, a ottobre 2015, parlano di una revoca di un provvedimento di allontanamento del minore che si vorrebbe scongiurare e Anghinolfi chiede di esplicitare meglio, in una relazione da inviare all’autorità giudiziaria minorile, in che modo il malessere di un minore derivasse dalla famiglia di origine. “Io lascio intendere”. Una risposta che non soddisfa la ex responsabile dei servizi sociali che insiste, raggiungendo il suo scopo: “Magari provo a rendere più esplicita quella frase”.

Giudici tonti o da raggirare nel migliore dei casi come emerge da un’altra conversazione tra le due donne, relativa a un altro togato. “Ohi Fede… però chi glielo dice che il bambino lo mandiamo all’ex brigatista? Io non mi attento”. Nessun dubbio per la Anghinolfi: “Mica lo sa. E la pena l’ha scontata”. Sul terrorista rosso non ci sarebbero riscontri precisi ma non è escluso che la vicenda possa essere chiarita con approfondimenti. La zarina degli affidi aveva una buona parola per tutti, anche per il sindaco dem di Bibbiano – sede de il centro La Cura in cui si svolgevano le terapie – Andrea Carletti definito “uno che ha bisogno di far carriera perché non ha un lavoro”.

Il primo cittadino è accusato di abuso di ufficio e falso. Secondo la Procura contribuì a rendere possibile lo stabile insediamento dei terapeuti privati all’interno di una struttura pubblica pur consapevole dell’assenza di una procedura ad evidenza pubblica e dell’illiceità del sistema. Con una dirigente del Comune, sempre Anghinolfi parlava anche di come poter privilegiare l’assunzione di assistenti sociali vittime di abusi sessuali nel loro passato. Una proposta giudicata “molto hard” dalla dipendente comunale: “Tu vuoi infilare la parte psicologica e personale dentro la professione, secondo me dovremmo metterla giù diversa”.

In un’altra chat diversi indagati discutono di come modificare il codice penale introducendo “indicatori aspecifici” di abuso da portare all’interesse dell’allora presidente della Camera Laura Boldrini. Ad esempio discutevano se “il crollo del rendimento scolastico” dovesse essere inteso quale sintomo di abuso sessuale: “Non vorrei che ci attaccassero dicendo che ‘chi non studia è abusato’, dobbiamo stare attenti alle strumentalizzazioni che sicuramente faranno i negazionisti”. Ci sono anche riferimenti a contatti, forse millantati, con la senatrice Pd Vanna Iori.

L’irruzione negli studi di “Chi l’ha visto?”. Il processo è da rifare

Il processo all’editore Francesco Polacchi, titolare della casa editrice Altaforte e di Pivert, che pubblicò il libro intervista a Matteo Salvini, al presidente di CasaPound Gianluca Iannone, al segretario nazionale Simone Di Stefano e al vicepresidente Andrea Antonini, deve ricominciare daccapo. A dodici anni dai fatti, la giudice Elvira Tamburelli ha accolto la richiesta della difesa degli 11 imputati, accusati di violenza o minaccia aggravata a pubblico ufficiale, che fecero irruzione nella sede Rai nella notte tra il 3 e 4 novembre 2008. Per la giudice “serviva il filtro dell’udienza preliminare”, mentre gli 11 erano stati citati direttamente a giudizio come se i reati fossero meno gravi. Il pm dovrà formulare una nuova richiesta di rinvio a giudizio. Il processo sarà celebrato davanti al tribunale collegiale se le imputazioni saranno confermate.

Quella notte, 25 persone coperte da passamontagna, sciarpe e caschi, salta i tornelli dell’ingresso Rai di via Teulada a Roma. L’incursione dura pochi minuti. Le telecamere di sorveglianza e i due vigilantes ricostruiscono tutto. Gli “invasori” cercavano il programma Chi l’ha Visto?. Dopo essere arrivati nell’atrio e aver sfogato la loro rabbia contro la targa Rai imbrattandola, fuggono. Gli incursori girano anche un video pubblicato su Youtube. La Rai sporge denuncia, il pm Pietro Saviotti chiede il rinvio a giudizio nel novembre 2010. Secondo l’accusa, Polacchi e gli altri undici di CasaPound “minacciavano i giornalisti, redattori e registi del programma televisivo Chi l’ha visto?, incaricati di pubblico servizio per impedire l’assolvimento delle attività di informazione (…) in relazione e a seguito della trasmissione del 3 novembre (…) in cui potevano essere riconosciuti alcuni dei partecipi”. Il programma di Federica Sciarelli aveva mandato immagini degli scontri del 29 ottobre 2008 in piazza Navona, in cui i gruppi studenteschi di destra e di sinistra si scontrarono. Il gup ordina la citazione diretta, nel frattempo il pm Saviotti scompare prematuramente e il fascicolo resta bloccato. Dopo nove anni, diversi solleciti dell’avvocato della Rai Marcello Melandri e un articolo del Fatto, si comincia alla fine del 2019. Il giudice va in pensione. E ieri il nuovo giudice decide di ricominciare daccapo. La prescrizione è stimata in 15 anni, più un quarto della pena per l’interruzione. Per il 2026 possono farcela.

“Scrissi alla Lorenzin per dirle che ero in cella per difendere B.”

Carcagnate. In dialetto siciliano calci violenti. Il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, pensava che Silvio Berlusconi meritasse questo trattamento. Al pm Giuseppe Lombardo, che lo sta interrogando da tre settimane ormai ogni venerdì (prossima puntata il 14 febbraio) il boss ha spiegato perché l’11 aprile diceva di Berlusconi: “Questa gente merita carcagnate”. Nell’ udienza del 7 febbraio scorso al processo ’Ndrangheta Stragista, Giuseppe Graviano ha svelato: “Stavo parlando sempre del signor Berlusconi, di lui stavo parlando, per come si è comportato”. Per Graviano, Berlusconi lo avrebbe tradito e non avrebbe fatto nulla per mutare il suo regime carcerario “perché non vogliono restituire il 20 per cento… i guadagni”. La tesi (non riscontrata e molto difficile da credere) di Graviano insomma è che il leader di Forza Italia non abbia mosso un dito per lui, recluso al 41 bis dal 1994, in quanto non vorrebbe riconoscere alla famiglia Graviano la parte che gli spetterebbe dell’investimento (sempre a dire del boss) effettuato dal nonno materno nel 1970 a Milano con Berlusconi.

A quel punto del suo racconto Graviano, per spiegare le ‘carcagnate’ promesse al leader di FI, tira fuori la storia di una lettera da lui spedita dal carcere di Milano Opera nell’agosto del 2013. Al Governo in quel momento c’è Enrico Letta, sostenuto anche dal Pdl che esprime il ministro della salute: Beatrice Lorenzin, per 13 anni fedele berlusconiana, da novembre del 2013 passata al Ncd di Angelino Alfano e ora nel Pd. La lettera di Graviano è diretta quindi all’allora ministro del Pdl. Conteneva – come ha raccontato Graviano – richieste sul vitto vegetariano e sulle uscite all’aria aperta. Secondo il detenuto la sua condizione di salute stava peggiorando. “Dopo un mese – prosegue Graviano – io ricevo la lettera (di risposta, ndr) e per conoscenza la risposta è inviata al Carcere di Opera e all’Asl di Milano dell’ospedale San Paolo competente sui detenuti del Carcere di Opera. Il ministero mi ha risposto che stava portando avanti tutto quello che avevo chiesto. Io avevo quella lettera ma è scomparsa quando mi hanno trasferito ad Ascoli nel 2014”.

Il boss, a suo dire, ottiene dal Ministero impegni scritti ad assecondare i suoi desideri su vitto e passeggiate e la promessa: “al resto ci stiamo pensando”. Il ‘resto’ per Graviano riguardava la questione dell’abolizione dell’ergastolo a vita. Quando scrive alla ministra infatti Graviano pensa “con una fava vedo se posso acchiappare più piccioni”.

Così Graviano sintetizza la sua lettera: “Io spiego questa situazione, che io ero in carcere per proteggere il signore Silvio Berlusconi e gli racconto le cose ingiuste che mi stavano facendo”. A detta di Graviano Berlusconi “non mi voleva fare uscire dal carcere perché gli andavo a chiedere di rispettare i patti con mio nonno, io nella lettera lo ho scritto chiaro”. Il ministero della Salute, a detta del boss mai pentito, nella risposta “mi anticipa che già era stato introdotto il vitto vegetariano nella tabella del vitto dei detenuti” e che erano state date disposizioni “di farmi soggiornare più all’aria aperta e poi mi ha detto che per tutto il resto ci stiamo pensando”.

Graviano sostiene di avere lamentato nella sua: ‘Non state nemmeno andando a firmare per il referendum sull’abolizione dell’ergastolo, perché – prosegue il boss – c’era in quel periodo la raccolta firme dei Radicali”. A questo punto, prosegue Graviano, Silvio Berlusconi “si fa vedere e fa la passarella che firma il referendum per l’abolizione dell’ergastolo con Marco Pannella ma firma solo lui e non si impegna per le firme”. Al Fatto risulta che effettivamente la lettera esiste: è arrivata al ministero della Salute il 21 agosto ma è stata esaminata dalla Direzione Generale solo il 17 settembre. Silvio Berlusconi ha firmato per il referendum con Pannella il 31 agosto 2013.

Questa storia, era stata raccontata già dal boss al compagno di detenzione Umberto Adinolfi nel carcere di Ascoli nel 2016. Lo scopo allora era operativo: Graviano confidava a Adinolfi i presunti rapporti con Berlusconi e la lettera alla ministra per disegnare il contesto entro il quale gli chiedeva di svolgere una missione: contattare qualcuno del giro di Berlusconi per chiedergli di darsi ‘una smossa’. Nella trasmissione Sekret della piattaforma Iloft.it quelle intercettazioni erano state già trasmesse e la segretaria dei Radicali Italiani Rita Bernardini aveva commentato: “La cosa singolare è che Berlusconi fece quella firma in pompa magna, dopo di che l’apporto dato da Forza Italia alla campagna referendaria è stato pari a zero”. Infatti le firme raccolte non raggiunsero la soglia delle 500mila. Al suo amico Umberto Adinolfi, in cella, Graviano aggiungeva che nella lettera rivendicava la sua deposizione al processo Dell’Utri nel 2010 quando si avvalse della facoltà di non rispondere su Berlusconi e Dell’Utri.

L’ex ministro Lorenzin, al Fatto replica stupita: “Ma scherziamo? Io non sapevo nemmeno chi fosse Graviano. La lettera non l’ho mai vista perché tutti i ministri, non solo io, non leggono questo tipo di lettere: esiste l’ apposito ufficio cittadini che smista le missive alla direzione competente. Come ho ricostruito solo ora, il detenuto lamentava problemi di salute in relazione al vitto e all’ora d’aria. Graviano ha ricevuto una risposta che però era diretta al carcere di Opera ed è stata inoltrata a lui solo per conoscenza. La direzione prevenzione era incompetente e per questo inviò la lettera di Graviano al Carcere e alla Asl. Non so se nella lettera – come lui dice – citasse Berlusconi. Di certo io non l’ho letta e quindi non ne ho mai parlato con Berlusconi. In ogni caso le lettere si potrebbero recuperare facilmente con un accesso agli atti”. Anche Graviano ha chiesto di recuperare quelle lettere. A questo punto il pm Lombardo potrebbe acquisire il carteggio per saggiare la credibilità del boss.

Dopo 5 mesi, mancano due terzi delle “deleghe” ai sottosegretari

La precarietà, si sa, è anche uno stato d’animo e la precarietà è un po’ il mood di questo governo. Nato “d’emergenza” e non “balneare”, nonostante il parto agostano, tenta senza molto successo di darsi una prospettiva di legislatura vivendo di continue prove, cadenzate isterie e solite minacce che non si fanno mai realtà: si sta come d’autunno, insomma, anche se ormai è inverno pieno. Questa precarietà ontologica ha pure i suoi simboli plastici e uno di questi ha la forma delle deleghe che i ministri devono assegnare a vice e sottosegretari: di quali settori si occupano, quali poteri hanno. Ecco, a cinque mesi dall’insediamento dell’esecutivo, solo pochi ministri – e quasi nessuno tra quelli di peso – hanno distribuito le loro deleghe e la cosa ha finito per infastidire persino un animale a sangue freddo come Giuseppe Conte, che se n’è lamentato con gli interessati.

L’invito, per ora, è caduto pressoché nel vuoto: gli ultimi a mettersi in regola, per così dire, sono stati a gennaio Dario Franceschini per i Beni Culturali e Nunzia Catalfo al Lavoro, ma all’appello mancano ancora i mega-aggregati come l’Economia, lo Sviluppo economico, l’Interno e gli Esteri. Un plauso va dunque riconosciuto a Lorenzo Guerini – titolare del grosso portafoglio della Difesa, che ha chiuso la questione il 10 ottobre – e ad Alfonso Bonafede, che ha distribuito le deleghe del ministero della Giustizia a novembre. Quanto al ministero della Salute, altro mastodonte con cospicua capacità di spesa, la bozza del decreto con cui Roberto Speranza assegna le sue deleghe è pronta e aspetta solo il via libera formale.

Può sembrare una questione secondaria, ma non lo è: intanto il governo, per legge, è un organo collegiale e come tale deve funzionare per essere efficace; in secondo luogo i sottosegretari hanno compiti fondamentali come presenziare ai lavori parlamentari, sovrintendere a pezzi della enorme macchina organizzativa dei ministeri e, ovviamente, gestire i rapporti con portatori di interesse e parti sociali per i dossier di loro competenza. Roba complicata da portare avanti senza poteri formali: se i numeri aiutano a capire, circa due terzi dei 43 sottosegretari del Conte 2 non hanno ancora deleghe e molti, dietro garanzia dell’anonimato, se ne lamentano (“è tutto bloccato”).

Si pensi alla Farnesina: ad oggi per presenziare alle riunioni internazionali si procede con deleghe ad hoc e la cosa non contribuisce certo a dare peso ai sottosegretari inviati da Luigi Di Maio. Le due viceministre e i tre sottosegretari aspettano ancora di sapere di cosa si occuperanno: pare che uno dei problemi sia la delega al Commercio estero, che Di Maio ha riportato alla Farnesina dal Mise, reclamata dal renziano Scalfarotto e che il grillino vorrebbe per il fido Di Stefano. Più in piccolo, anche agli Affari Ue ancora non si sono divisi i compiti: e dire che sono in due.

Il potentissimo Sviluppo economico, titolare di dossier come l’ex Ilva, è guidato dal 5 Stelle Stefano Patuanelli: anche lì tutto fermo per una guerriglia interna persino ai singoli partiti. Di Telecomunicazioni, ad esempio, oggi si occupa la grillina Mirella Liuzzi, ma il Pd pretende la delega per Giampaolo Manzella visto che il M5S ha già il ministero dell’Innovazione. Sull’energia, invece, c’è una sorta di derby grillino tra Patuanelli, che vorrebbe tenere la delega per sé, e Stefano Buffagni.

Anche al super-ministero dell’Economia Roberto Gualtieri non ha assegnato deleghe: il ministro, solo per dare un’idea, ha promesso entro aprile una impegnativa riforma fiscale e sulla delega Fisco c’è una certa maretta (in pole position c’è il dem Antonio Misiani, ma la rivendicano anche i 5 Stelle). Resta da definire pure chi gestirà la partita Banche e mercati finanziari (vedi Popolare di Bari) reclamata dal grillino Alessio Villarosa.

Lo stallo coinvolge anche il Viminale, guidato dalla “tecnica” Luciana Lamorgese, di mestiere prefetto: i partiti non si sono messi d’accordo, fanno sapere, e quindi si prosegue con fraterno volontarismo. La pietra dello scandalo è la delega alla Pubblica sicurezza, che il M5S vorrebbe per Crimi e il Pd per sé: finché non si risolve questa partita, rimangono in ostaggio anche agli Esteri. Bonaccia pure al ministero – doppio fin dal nome – delle Infrastrutture e Trasporti: la dem Paola De Micheli non ha assegnato poteri ai suoi tre sottosegretari e nel frattempo gestisce da sola la partita delle concessioni autostradali.

Persino Conte, come detto, è sbottato. Forse il premier, non bastasse la sparizione elettorale dei 5 Stelle che modifica gli equilibri, intravvede un’altra complicazione: che la guerricciola delle deleghe finisca per intrecciarsi con quella assai più complicata delle nomine che inizia tra poco. Tra precarietà esistenziale e appetito di potere, com’è noto, non c’è contraddizione.

La foto di Renzi con quelle di Aldo Moro e Berlinguer

Pioviggina in via dei Cappellari. Davanti alla porta sbarrata c’è una fila piuttosto variegata. Anziane signore dell’intelligenzia romana del centro storico, qualche giovane, sottobosco politico. Durante l’attesa, è la fiera del selfie. Uno dei tanti emblemi del renzismo. A due passi da Campo de’ Fiori, a Roma, Italia Viva inaugura la sua prima sede. Una scelta simbolica: in via dei Cappellari si era trasferito già da qualche anno il circolo storico di via de’ Giubbonari. Quello che fu di Paolo Gentiloni, di Luigi Zanda, di Fabrizio Barca. Un’istituzione, un luogo di ritrovo, con il banchetto sempre allestito, davanti all’entrata, per la vendita delle storiche videocassette de l’Unità. Le cose sono cambiate. Prima, il circolo si è svuotato: molti se ne sono andati con l’avvento di Renzi, molti con la scissione di Bersani. Il passaggio in via dei Cappellari, una stanza larga poco più di un corridoio, era già stato un trauma.

Ieri, con Luciano Nobili a officiare, si è passati dalla nostalgia all’era delle sovrapposizioni non del tutto riuscite. Due scaffalature all’entrata con qualche libro ormai antico (la Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino sulla quale hanno studiato tanti nati negli anni ’70). Su una parete, ci sono gli slogan delle Leopolde, sotto la farfalla gialla portata da Liliana Segre al Parlamento europeo. “Devo andare in Cdm”, dice Teresa Bellanova (presente con Ettore Rosato, Roberto Giachetti e qualche parlamentare). “Resta qui”, le urla dalla platea un anziano militante. “È un segno d’affetto: sta meglio con noi”. E se qualcuno degli inauguranti ci tiene a marcare la provenienza dal Pci, c’è chi – come Enrico Cavallari, consigliere regionale, eletto con la Lega – mostra entusiasmo: “Costruiremo una casa comune”. Sulla parete, alla fine della stanza, ci sono le foto di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Di fronte a quella di Matteo Renzi. Ovviamente, più grande.

Mara Carfagna prova a scalzare Caldoro e lancia il pm anticamorra Catello Maresca

La scintilla dell’idea di Mara Carfagna di candidare a governatore della Campania un pm anticamorra in quota Forza Italia, il partito che non molti anni fa stava per mandare a Palazzo Santa Lucia “il referente politico del clan dei Casalesi” Nicola Cosentino, sarebbe scoccata il 31 gennaio nella sala Metafora del Tribunale di Napoli.

L’occasione è stata un convegno con gli avvocati sulla riforma della prescrizione. Seduti al tavolo dei relatori, divisi solo dal moderatore, c’erano la vice presidente della Camera e il magistrato della Procura di Napoli Catello Maresca. Lei di fatto promotrice dell’iniziativa insieme a un’associazione vicina al parlamentare azzurro Paolo Russo. Lui invitato in qualità di tecnico, docente di diritto antimafia dell’Università Vanvitelli. Nonché volto noto degli spettatori di Nove, come ‘voce narrante’ di una docufiction sul suo più celebre successo professionale, per il quale vive tuttora sotto scorta: la cattura del boss della camorra casalese Michele Zagaria, stanato dal bunker dopo 17 anni di latitanza.

Da quel 31 gennaio sono partiti i rumors sulla candidatura di Maresca. Messi in giro da lei, che da mesi cerca un nome per superare quello di Stefano Caldoro, ritenuto debole, fino a entrare in conflitto con Silvio Berlusconi per il quale invece la candidatura di Caldoro è la migliore, certa e già accettata dagli alleati.

Rumors non smentiti da lui, che pure è un attento lettore dei giornali. Secondo amici comuni dei due, Maresca sarebbe lusingato dal fatto che Carfagna abbia pensato a lui. Altro non trapela.

Quel che è certo è che Carfagna ha messo sul tavolo una carta che potrebbe far saltare il banco. La deputata ha indicato Maresca perché incarna un profilo e una storia a cui è difficile dire no: un magistrato antimafia impegnato nel sociale, fondatore di una associazione, “Arti e Mestieri”, che prova a sottrarre i delinquenti dalle strade e dai penitenziari insegnando loro un lavoro. Come nel caso di Raffaele, 24 anni, ex rapinatore dei Quartieri Spagnoli che poche settimane fa ha inaugurato una pizzeria.

Inoltre Maresca, in un momento in cui il governo Conte 2 balla sulla riforma Bonafede, sta esprimendo sul tema una posizione in controtendenza con quella predominante in magistratura, e simile a quella del mondo berlusconiano: “Il blocco della prescrizione è un obbrobrio giuridico”. Lo ha detto a novembre in commissione Giustizia, chiamato in audizione dal M5S. Lo ha ripetuto al convegno con Carfagna. Gli avvocati lo hanno applaudito come una rockstar. Non sappiamo se arriveranno applausi anche dalla Lega, che ricorda in Maresca il pm che il 26 settembre 2018 in un’intervista al Fatto fece a pezzi il decreto Salvini sulla sicurezza: “Sul versante della lotta alla mafia manca tutto, non c’è una strategia, non c’è un disegno organico”. Salvini scrisse una lettera per replicare: “È ingiusto sostenere questo”. Precisando i punti del decreto a suo parere più incisivi sul tema.

C’è una sliding door nella storia di Maresca potenziale governatore Fi-Lega-Fdi che se si fosse aperta avrebbe potuto portarlo altrove. Il Pd era pronto a chiedergli la candidatura alle suppletive di Napoli per un seggio del Senato come nome civico unitario, insieme al movimento di De Magistris, e con l’intenzione di proporlo anche ai 5 Stelle, se non si fosse trovata la quadra su Sandro Ruotolo. Il giornalista però ha accettato, c’è stato il via libera, e la telefonata a Maresca non è partita: peraltro i due sono amici e hanno in comune la circostanza di vivere sotto scorta per le minacce di Zagaria.

Forse a breve sarà Carfagna a telefonare al pm, chissà. Anche se le ultime scelte di carriera di Maresca fanno ritenere che le sue intenzioni siano quelle di continuare le sue inchieste e i suoi processi: ha presentato un ricorso contro la mancata nomina in Direzione Nazionale Antimafia e nel frattempo ha chiesto e ottenuto di andare a lavorare in procura generale.

Campania: il gruppo di Fico vuole i dem pure alle Comunali

Il sasso lanciato dal presidente della Commissione Cultura della Camera, Luigi Gallo, è di quelli che muoveranno molta acqua nello stagno e punta a rompere l’ultimo tabù: le alleanze del M5S coi partiti nelle elezioni comunali. Meglio se in salsa giallorosa. Senza vergognarsi di provare a dialogare col Pd, camuffandosi da lista civica. Iniziando dalle città campane, dove si vota anche per la Regione. “Abbiamo dato una grossa spallata alle mele marce della politica nazionale, che aspettiamo a darla a quelle nelle Regioni e nei Comuni? Possiamo condannarci all’isolamento? Dopo 10 anni di attività il M5S paga il prezzo del suo isolamento non governando alcuna Regione e governando appena lo 0,58% dei comuni di Italia, ovvero 46 comuni su 7904”. È il passaggio chiave di un articolato post sul blog personale di Gallo, ospitato su ilfattoquotidiano.it.

Riassumibile nell’intenzione di provare a costruire intese pre-elettorali non soltanto nelle Regioni – dopo la prima esperienza dell’Umbria e i faticosi, e per ora infruttuosi, tentativi in corso in Campania e in Liguria –, ma anche nelle città. Per ora l’appello di Gallo, uno dei frontman dell’ala sinistra grillina vicina a Roberto Fico, inizia dai comuni campani, “territori condizionati fortemente da camorra, criminalità e corruzione: la sfida di costruire liste libere da impresentabili, indagati e condannati dobbiamo lanciarla anche alle altre forze politiche”. Ovvero ai partiti.

E ai pentastellati campani è nota la lista dei luoghi dove questo avrebbe un significato politico e simbolico dirompente: Benevento, la città del dimissionario Clemente Mastella, considerato dai grillini alla stregua di un dinosauro; Ercolano, il cui sindaco uscente Ciro Buonajuto è legato a doppio filo al Giglio Magico di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi; Pomigliano d’Arco, la città di Luigi Di Maio; Sorrento, dove il sindaco non ricandidabile causa esaurimento mandati, Giuseppe Cuomo, ha da poco aderito alla Lega, e dove è nato uno dei primissimi nuclei delle Sardine.

Posti dove alcuni grillini starebbero già facendo i primi sondaggi sul punto. Per ora dei semplici pour parler. A cominciare da Ercolano, dove siede in consiglio comunale Gennaro Cozzolino, un esponente della prima ora del Movimento. Cozzolino commenta sui social le vicende dell’amministrazione Buonajuto come quelle “di un feudo che regge ancora”, e invocando “discontinuità in uomini, in politiche, in coalizione… ora però, serve anche che stacchiate la spina per salvaguardare un minimo di identità e dignità”. Parole che sembrano invitare il Pd antirenziano a un dialogo. A Sorrento il gruppo che ruota intorno al candidato sindaco del 2015 Rosario Lotito sta lavorando informalmente ad ipotesi di alleanze, e i siti locali già titolano sulle prove di intesa tra Pd e M5S.

Diversa la situazione a Benevento: in provincia prevale l’ala dimaiana, anche se le due consigliere comunali Marianna Farese e Anna Maria Mollica – dopo le dimissioni di Nicola Sguera in polemica con la nascita del governo tra M5S e Lega – qualche volta hanno trovato convergenze su alcuni temi, come quello dell’inquinamento dei pozzi denunciato dall’associazione Altrabenevento, con alcuni (non tutti) esponenti dem.

Ma il comune dove si accenderanno fari da milioni di watt è quello di Pomigliano d’Arco: la città di Di Maio, di un M5S spaccato da una durissima faida tra dimissioni in consiglio e mancati subentri, tra chi ha trovato un ruolo alla corte del ministro e chi ne è rimasto fuori. Dove amministra un sindaco, Raffaele Russo, loro nemico giurato. E dove le diverse anime del Movimento dovranno inventarsi qualcosa per provare a sconfiggere la sua coalizione: Russo è al secondo mandato.