I 5S spaccati sulla Liguria. Orlando insiste sul “civico”

C’è chi scrive di rabbia su Facebook contro il reggente Crimi, poi si alza e se ne va. Qualcun altro lancia occhiate poco convinte. E c’è anche chi a riunione finita rivendica “l’autonomia” dai dem. Così alla fine il Movimento sulla Liguria fa quello che fa spesso di questi tempi, rinvia: perché è spaccato. Però il filo del possibile accordo tra Cinque Stelle e Pd per le Regionali non si strappa. La partita che sa già di congresso per il Movimento (e pure per i dem, in fondo) resta aperta dopo due ore e qualcosa di riunione a Roma tra i grillini, con il capo politico reggente Vito Crimi e il facilitatore Danilo Toninelli chiusi in una sala della Camera con parlamentari e consiglieri regionali liguri. La tela terrà almeno fino all’evidente snodo: l’assemblea convocata per domenica a Genova, “aperta a tutti, portavoce e attivisti, dove ci confronteremo tutti insieme su come continuare questo percorso e con quali proposte per i liguri, senza fughe in avanti o individualismi” scrivono parlamentari e consiglieri locali in una nota che invoca unità.

Meglio di niente per il vicesegretario del Pd, il ligure Andrea Orlando, che pure chiedeva una risposta definitiva per ieri. Ma a questo punto meglio giocarsela ancora, con un appello che sa di ultimo avviso: “Noi insistiamo, non facciamo un regalo a Toti, e ai 5Stelle diciamo, patto civico: scegliamo insieme un candidato e della Liguria migliore”. Ergo, si può ancora fare, l’intesa su un candidato civico comune, e il primo nome resta quello del giornalista del Fatto Ferruccio Sansa.

Anche se il M5S è diviso in fazioni, e pure se Orlando vorrebbe tenere assieme i due tavoli su Liguria e Campania. E invece ieri il Movimento non ha neppure parlato delle Regionali campane, perché il previsto incontro tra Crimi e gli eletti locali è saltato, ufficialmente per gli impegni del reggente. Nel menu del veterano solo la Liguria. E i numeri di partenza raccontano già le difficoltà, con sei parlamentari su otto favorevoli all’accordo con i dem e i quattro consiglieri regionali divisi a metà. E qualcuno che si è già stufato, come il senatore genovese Mattia Crucioli, che dopo pochi minuti lascia polemicamente la sala. Quasi in contemporanea cala su Facebook un post torrenziale: “Il reggente del M5S Vito Crimi ha deciso di rinviare ulteriormente qualsiasi votazione su Rousseau (sulla possibile alleanza con il Pd, ndr), una melina che fa male alla Liguria”.

E dire, continua Crucioli, che i favorevoli all’accordo avevano presentato “una proposta scritta al capo politico, in cui si era chiesto di dare immediatamente voce agli iscritti relativamente a un progetto civico”. Ma niente. La riunione però prosegue, senza tramutarsi in rissa. Casomai si respira diffidenza, a un tavolo dove tutti conoscono le carte altrui. Alice Salvatore, già riconfermata candidata presidente dal web il 23 gennaio, non forza. Crimi e Toninelli invece provano a stemperare. “Siamo qui per avere una fotografia della situazione” sostiene il reggente. E assieme a Toninelli rimarca di essere subentrato su un treno in corsa, “certi passaggi sono già stati fatti con il precedente capo politico”, cioè Di Maio. Crimi e soprattutto l’ex ministro, in ottimi rapporti con la Salvatore, non vogliono l’accordo con i dem. Quindi per ora niente voto su Rousseau. Però sì all’assemblea con gli attivisti, come accaduto in Emilia Romagna e in Campania, perché “dobbiamo consultare i nostri” esorta Crimi. E in sala dicono tutti di sì al punto di caduta. Anche se in serata Salvatore, forte dell’appoggio di Davide Casaleggio e amica di famiglia di Beppe Grillo, ricorda: “È chiara la mia posizione di autonomia e libertà, valori del M5S che ci differenziano da forze politiche che non condividono nulla con noi in Liguria”. Però “sono lieta di invitare tutti all’assemblea di domenica”. Del resto la consigliera è convinta che la base sia in maggioranza contraria al Pd. Sensazione diffusa, pare. Invece i consiglieri comunali e municipali sembrano “tirare” per l’accordo con i dem. Favorito anche dal fatto che “in Liguria sia noi che il Pd siamo all’opposizione” come rimarcano diversi parlamentari.

Però è tutto complicato, e lo conferma il silenzio del genovese Grillo. “Alcuni di noi hanno provato a chiedergli un parere, ma Beppe svicola”, raccontano. Il garante sa quanto è delicata la questione. Come Orlando che, sussurrano fonti a 5Stelle, spinge per l’accordo anche per tutelarsi. “Se salta, Zingaretti insisterà per candidare lui per il centrosinistra”. Voci infondate, magari. Comunque schegge, prima della domenica della verità a 5Stelle. O del milionesimo rinvio.

Renzi insiste: “Sfiducia a Bonafede”. Pd e M5S: “Così cade il governo”

“Se Matteo Renzi presenta la mozione di sfiducia ad Alfonso Bonafede, un momento dopo cade il governo”. È questa la reazione di Nicola Zingaretti alla notizia che Renzi intende presentare una mozione di sfiducia a Alfonso Bonafede. L’ex premier lo andava dicendo da giorni. Ma ieri, di fronte a Pd e M5S che continuano a non prendere in considerazione le sue richieste sulla prescrizione, ancora una volta alza il tiro: “Hanno detto che Italia Viva avrebbe mollato e che mi sarei venduto per due poltrone. Fake news! Non si molla! Se c’è decreto o emendamento su prescrizione noi votiamo contro. A testa alta”, twitta.

Mentre fonti di Iv fanno sapere: “Se ci sarà la richiesta di un voto di fiducia sul governo, Iv rilancerà sulla mozione di sfiducia al Senato dove Renzi è convinto di portare tutti i voti di Iv, le opposizioni (difficile ipotizzare il soccorso azzurro proprio sulla giustizia) e qualcuno anche del Pd”. Toni sempre più alti: “Il ministro Bonafede sarebbe costretto a dimettersi”. Il riferimento è all’idea dell’esecutivo di inserire nel Milleproroghe l’emendamento che recepisce il lodo Conte bis e su quello mettere la fiducia.

In realtà, al governo stanno cercando di sminare il campo per quanto possibile. Non si esclude un piano B, non meno complicato ma più “dialogante” nei confronti di Iv: un emendamento alla proposta di legge Costa destinata ad andare in Aula il 24 febbraio. “Senza l’emendamento al milleproroghe, la sfiducia non la presento”, dice a sera agli amici Matteo Renzi. La guerra quotidiana sembra andare verso l’ennesima tregua. Ma nessuno può saperlo davvero.

L’ex premier continua a mantenere l’assetto di guerra. E ieri sera riunisce i suoi a Palazzo Giustiniani anche nel tentativo di ribadire chi comanda. Perché poi che lo seguano tutti i suoi 17 senatori in un’eventuale mossa di sfiducia è tutto da vedere.

Intanto, Dem e M5S sono compatti nell’attacco. Su tutti, per il Pd, Dario Franceschini: “Se un partito di maggioranza minaccia di sfiduciare un ministro, sta minacciando di sfiduciare l’intero governo”. E anche gli ex renziani di Base Riformista prendono posizione. Dice Andrea Romano: “Non è il momento delle dichiarazioni ad effetto, né delle provocazioni. Se davvero si vuole arrivare a una buona soluzione sul nodo prescrizione, serve un disarmo reciproco tra coloro che in queste ore hanno lanciato ultimatum e penultimatum”. Nel frattempo, sono i Cinque Stelle a far notare l’ennesima falla nella strategia renziana: se il governo cade, la norma Bonafede che abroga la prescrizione rimarrà com’è. “Renzi e Italia Viva continuano con le loro forzature assurde, dimenticando che lo stop alla prescrizione è già legge e che questo governo con il ministro Bonafede sta lavorando per accorciare i tempi biblici dei nostri processi”, dichiara Danilo Toninelli.

Il risultato è che si naviga a vista mentre lo scontro sulla prescrizione è visto con una certa preoccupazione anche al Quirinale. Nel tentativo di arrivare a una mediazione tecnica e politica, il Cdm non si riunirà prima di giovedì.

Tutti prescritti a Taranto per il default del Comune

Centinaia di milioni di euro di debiti, il crac finanziario di un grande Comune del Sud, decine di inchieste giudiziarie, ma nessuna sentenza definitiva stabilirà l’innocenza o la colpevolezza di coloro che furono accusati dalla Procura di Taranto per il dissesto del lontano 2006. Procedimenti chiusi, in gran parte, con la prescrizione.

Tra il 2006 e il 2008, ben prima Taranto fosse nota all’Italia per le emissioni velenose dell’Ilva, gli abitanti del capoluogo ionico vissero in una città surreale: per mesi, interi quartieri erano al buio, negli uffici pubblici mancava la carta, nei cimiteri le salme restavano per giorni in attesa di essere seppellite. Nelle casse del Comune, in quegli anni, non c’era nemmeno un centesimo perché i debiti maturati negli anni precedenti avevano raggiunto “valori stellari” secondo quanto accertò una commissione qualche anno dopo. Quando nell’ottobre 2006, il commissario prefettizio Tommaso Blonda, dichiarò ufficialmente il Comune in dissesto, quei debiti sembrarono troppi per essere veri. Ancora oggi la cifra non è chiara: oltre 400 milioni di euro secondo alcuni, quasi 1 miliardo secondo altri.

La Procura di Taranto aveva già aperto numerosi fascicoli di indagine. I nomi di alcune di quelle inchieste sembravano spiegare le cause di quel crac. Come “Bilanci falsi”, l’indagine che doveva provare come tra il 2003 e il 2006 i conti dell’ente erano stati truccati per non mostrare la grave situazione in cui versavano le finanze comunali. Il processo di primo grado si chiuse nel 2008 con diverse condanne tra le quali quella a tre anni di reclusione per l’ex sindaca berlusconiana Rossana Di Bello. Due anni più tardi, la Corte d’appello ribaltò il giudizio e assolse tutti gli imputati perché “il fatto non costituisce reato”. La Cassazione, qualche anno dopo, annullò le assoluzioni e dispose un nuovo processo d’appello che si concluse nel 2014: “Non doversi procedere per intervenuta prescrizione”. I tarantini, quindi, non sapranno la verità e per gli imputati non ci sarà occasione per dimostrare la loro innocenza. Il ricorso in Cassazione per i risarcimenti, inoltre, fu rinviato a nuova Corte d’appello civile perché non era provato il danno causato all’ente pubblico.

Un esito simile toccò a “Matite d’oro”, l’indagine coordinata dal pm Remo Epifani che raccontò gli acquisti “incredibili” dell’ente negli anni dell’amministrazione di centrodestra: dagli atti di indagini emersero le 18 mila rubriche da tavolo per le quali furono spesi 220 mila euro, le 10 mila forbici costate 18 mila euro. E poi i 784 mila euro spesi dal Comune tra il 2003 e il 2005 per acquistare 520 mila penne, i 22 mila euro per le 64 mila matite, i 141 mila euro per ben 60 mila evidenziatori. La érocura la definì l’ennesima “massiva e indisturbata appropriazione di fondi pubblici” che contribuì a “prosciugare le casse del Comune di Taranto”. Dopo le condanne inflitte in primo grado a dirigenti e imprenditori, arrivarono alcune assoluzioni e le dichiarazioni di prescrizione. Il ricorso del Comune alla Suprema Corte fu dichiarato inammissibile.

Ma in quegli anni anche i dipendenti comunali costavano caro: l’inchiesta “stipendi d’oro” raccontò come attraverso i cosiddetti “progetti obiettivo” alcuni dipendenti riuscirono a guadagnare cifre da capogiro. Per l’accusa svolgevano lavoro ordinario, ma incassavano in alcuni casi anche 9 mila. Dopo le 34 condanne inflitte in primo grado, la Corte d’appello stabilì che non si trattava di peculato (che si prescrive a distanza di 12 anni dalla commissione dei reati), ma di truffa: scattò la tagliola della prescrizione per tutti anche se furono confermati i risarcimenti per oltre 5 milioni di euro. La sentenza, però, fu nuovamente ribaltata in Cassazione dove i giudici ribadirono l’accusa originaria di peculato e disposero un nuovo processo d’appello. Nell’ultimo giudizio di secondo grado, che risale al novembre scorso, le condanne sono state 28: le motivazioni non sono ancora state depositate e certamente gli imputati ricorreranno nuovamente in Cassazione.

Anche a causa di quegli stipendi e di quelle matite d’oro, nel 2004 il Comune fu costretto a chiedere un maxi prestito: ottenne a tempo di record ben 250 milioni di euro dall’allora Banca Opi, poi divenuta banca Biis e infine assorbita dal Gruppo Intesa-San Paolo. Sulla carta, con 150 milioni si dovevano estinguere i debiti con Cdp e con gli altri 100 finanziare progetti di investimento: il Comune, però, non ne aveva e corse ai ripari approvandone in una sola seduta comunale ben 146. Le indagini tuttavia dimostrarono che quel denaro fu usato per evitare il dissesto. O meglio per rimandarlo. Il processo? In primo grado furono condannati in tre, ma in secondo grado fu dichiarata la prescrizione.

Il centrodestra alza gli stipendi alla giunta, poi deve fare dietrofront: “Ci riproveremo”

Tre giorni di trincea, poi la resa. Dopo aver preteso per la giunta mille euro di stipendio in più al mese, la maggioranza leghista in Piemonte ha fatto marcia indietro, ritirando la proposta del capogruppo del Carroccio Alberto Preioni.

Un dietrofront non certo dovuto a un ripensamento nel merito, ma studiato per placare lo scandalo provocato dalla nuova legge: “Alla luce delle polemiche strumentali generate in questi giorni – scrive il gruppo della Lega in un comunicato – che hanno provocato il fraintendimento della ratio alla base di questa proposta, abbiamo ritenuto opportuno ritirare l’articolo in questione, pur rivendicandone l’assoluta legittimità”.

La maggioranza resta dunque convinta della bontà del provvedimento, un regalo agli assessori e al presidente Alberto Cirio, vincitore delle elezioni lo scorso anno.

L’idea era quella di restituire alla giunta più di 1.000 euro al mese che erano stati decurtati nel 2012 dal fondo mensile di rimborso spese per chiunque usufruisse dell’auto blu. Con la nuova legge, Cirio e compagni si sarebbero tenuti l’autista e in più avrebbero recuperato i soldi persi, arrivando così a 3.500 euro di rimborsi ogni mese.

Secondo la Lega, non sarebbe stato giusto scomputare l’uso dell’auto blu dal fondo e così l’aumento sarebbe stato “una legge sacrosanta” per rimediare a un principio “sbagliato”. Le notizia ha però agitato fin da subito le opposizioni e i media, che hanno dato risalto alla proposta mentre i leghisti lamentavano i chilometri d’autostrada – e le conseguenti spese – necessari a muoversi per incontri, eventi e emergenze.

Il troppo clamore ha suggerito il passo indietro: “Rimanderemo il tema a una riorganizzazione più ampia dei criteri di definizione dell’indennità di coloro che rappresentano i cittadini nel Consiglio e nella Giunta, dal momento che quelli attuali non rispettano il principio di giustizia del peso e delle effettive responsabilità dei ruoli e delle rispettive funzioni”.

Un giro di retorica per dire che non è finita qui e che in qualche modo i leghisti ci proveranno di nuovo. Il problema, dicono dal Carroccio, è che con il taglio del 2012 gli assessori finiscono per prendere meno dei consiglieri, pur con molti più viaggi obbligati.

Beninteso, si parla di indennità niente male: il presidente Cirio il mese scorso si è portato a casa 9.033 euro lordi, mentre il suo vice e gli assessori si sono fermati a 8.583, ovvero alla stessa cifra – euro più o euro meno – percepita dai consiglieri senza incarichi. Chi presiede una commissione o il proprio gruppo in Consiglio ha poi un supplemento per la carica e si avvicina ai 9.500 euro netti, pari a circa 7.000 netti al mese.

“Il tema della disparità dei compensi c’è – ammette la capogruppo del Movimento 5 Stelle Francesca Frediani – ma credo che lo si debba affrontare nel modo opposto. Se non è giusto che i consiglieri guadagnino più degli assessori, riduciamo le loro indennità invece che alzare quelle della giunta. D’altra parte noi del Movimento già ci decurtiamo lo stipendio e posso assicurare che si vive ugualmente senza problemi”.

Anche perché risolverla alla maniera leghista, come aveva detto nei giorni scorsi a Repubblica il capogruppo dem Domenico Ravetti, sarebbe andato “nella direzione opposta al lavoro degli anni scorsi”, quando il Consiglio regionale del Piemonte durante la presidenza di Sergio Chiamparino era diventato “il meno pagato d’Italia”. Da un record all’altro, adesso alla giunta Cirio fa gola il maxi-aumento.

La cassa del tesoro: un video dei russi con Belsito e il Trota

“Buongiorno, domani alle 13:15 dovete essere fuori dalla stazione di Cesano Maderno. Dovete far vedere che leggete un quotidiano. Arriveranno un italiano e un ceceno. E loro vi mostreranno un pezzo di documentazione. Siete interessati? Il costo è di 2 milioni”.

Inizia così la caccia al presunto “tesoro” dell’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito in Africa. All’incontro, i cronisti scoprono che a 2.000 chilometri di distanza, a Mosca, qualcuno tenta di vendere documenti scottanti sulla vicenda.

“Vi dico un numero, 49. Venite a Mosca, loro hanno tutto, foto, video. Ho dei file, non sono tanti, però già dimostrano molto. Ci troviamo in un albergo, magari non al Metropol”.

Non acquistiamo nulla, ma riusciamo a duplicare alcuni file. Il primo è un certificato di esportazione dalla Costa d’Avorio di 700 statue di legno rilasciato il 13 febbraio 2019: 50 elefanti, 50 scimmie, 300 maschere, 200 statue e 100 ippopotami. Il proprietario indicato è Francesco Belsito, l’ex tesoriere condannato per i fondi della Lega e costato al partito la confisca di 49 milioni di euro.

Tra la documentazione dei russi spunta anche la foto di una cassa piena di soldi e diamanti, del valore di diversi milioni di euro. Belsito, sostengono i mediatori dei russi, ha cercato di trasportarla dalla Costa d’Avorio all’Europa passando per Istanbul. Ma la cassa a giugno, poco prima della partenza, viene bloccata dai militari all’aeroporto di Abidjan, i russi vengono fermati e devono pagare fior di soldi per uscire dal Paese.

Il “tesoro” di Belsito, vero o presunto, sparisce nel nulla, loro perdono soldi e tempo: ecco perché vogliono rifarsi, vendendo la storia e i documenti. Belsito sostiene invece che soldi e oggetti d’arte non ci sono mai stati, che era una truffa che gli è costata 200 mila euro. Punta il dito contro un avvocato ivoriano che prometteva di dargli in gestione parte di un patrimonio da 200 milioni di dollari. “Sono stato io ad avere l’idea di un import-export di maschere dal Paese, in attesa di concretizzare gli altri affari”. Ma quella cassa, dice, non è mai esistita.

In possesso dei russi c’è però anche un video in cui lui stesso parla in modo concitato dell’uscita di una cassa da Abidjan. In sottofondo si sente la voce di Renzo Bossi. È stato lui a occuparsi di trovare l’impresa di trasporto. “Ho chiesto vari preventivi – conferma l’ex Trota – Ma quella cassa non l’ho mai vista. Ora ho paura”, dirà alla vista del baule colmo di denaro. Secondo gli ex compagni di partito e di processo Belsito e Bossi, l’aereo cargo non è mai arrivato ad Abidjan per prelevare le casse. Ma i due si sono trovati con i russi a Istanbul a luglio, un mese dopo il presunto fermo della merce, per dare chiarimenti sull’affare sfumato. “Ero lì per un altro affare”, dicono in coro i due italiani. “Macché, erano lì per il casino successo ad Abidjan”, replicano i russi da Mosca.

Restano molte cose poco chiare, in una vicenda di per sé surreale. A partire dalle statue di legno, di cui Belsito sostiene di non sapere niente, di non averle viste e di averle acquistate a scatola chiusa. Senza sapere, aggiunge, come le avrebbe impiegate una volta portate in Europa per essere vendute. Singolare, anche la scelta del cargo aereo come mezzo di trasporto, al costo di ben 120mila euro. Un costo decisamente alto rispetto al valore della merce. “Un’enormità”, dicono dall’associazione spedizionieri di Genova, cui abbiamo chiesto preventivi via mare. Il costo del trasporto in container su nave sarebbe stato infatti inferiore ai 20mila euro. A giustificare la scelta, in casi simili, è una sola ragione: “L’urgenza del trasporto”.

Gregoretti, adesso Salvini vuole scappare dal processo

Smentisce di temere la competizione di Giorgia Meloni e infatti la stritola in un abbraccio che le toglie il fiato di fronte alla foiba di Basovizza. E così, quando è l’ora di pranzo, siglata la pax con l’alleata che gli toglie il sonno, ma non l’appetito, ben può concedersi un corpo a corpo con una focaccia che trabocca mortadella. Sarà per questo che, poco dopo, Baby, il gufo reale che in 23 anni ne ha viste tante, sbarra gli occhi e resta immobile al suo cospetto, come se fosse già impagliato: ieri nel suo tour tra Trieste, Vicenza e Padova, Matteo Salvini ha confermato i sospetti dell’avvocato dell’ex Cavaliere, Niccolò Ghedini. Convinto ormai da tempo che il capo della Lega al mattino imposti la sua giornata politica secondo i like. E che a forza di stargli appresso, persino l’avvocato Giulia Bongiorno – che al leghista fa da consigliori per le questioni di giustizia – non sia più lei.

Così a poche ore dal voto del Senato che dovrà decidere se mandare Salvini a processo con l’accusa di sequestro aggravato di persona per la gestione dei migranti a bordo della nave Gregoretti, la confusione regna sovrana. I senatori del Carroccio da giorni brancolano nel buio in attesa di indicazioni precise dal capo. Ma ci hanno il fatto il callo: tre settimane fa del resto, all’improvviso li aveva costretti a rimangiarsi quello che avevano detto fino a poco prima quando si erano sbracciati per denunciare l’impropria iniziativa dei magistrati di Catania. Salvo poi fare una retromarcia clamorosa e chiedere, anzi pretendere, che la Giunta dicesse sì al processo in modo che Salvini potesse dirsi vittima dell’iniziativa giudiziaria avallata dai suoi avversari politici e così battere alle urne Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna. Che invece ce l’ha fatta comunque.

Ma ora che l’eccitazione per l’agognata vittoria emiliana è sfumata, gli atteggiamenti sono meno disinibiti in casa Lega: per Salvini il processo per la Gregoretti (e a stretto giro pure per la Open Arms) si avvicina. E così anche i fedelissimi del “Capitano” si vanno convincendo che maramaldeggiare su una questione di questo tipo su cui rischia una condanna seria, non sia stato da parte sua un atto di ardimento, ma un suicidio. E che ormai la frittata è fatta con buona pace dell’avvocato Bongiorno che prepara il terreno di un’ulteriore retromarcia leghista, finito il gioco d’azzardo.

“Certo che sarò in aula. Non vedo l’ora di andare a processo” insiste Salvini che pare rilanciare ma in realtà è consapevole almeno questa volta di dover fare di necessità virtù: non ha i numeri per essere scudato a Palazzo Madama e ora dunque è solo questione di decidere la tattica parlamentare per la riduzione del danno. I suoi senatori usciranno al momento del voto o confermeranno anche in aula il sì al processo che però pesa come una ammissione delle responsabilità in sede penale?

Pietro Grasso di LeU prova a chiederlo direttamente all’interessato: “Prima delle elezioni regionali ha sbandierato che voleva andare a processo sul caso Gregoretti. Scusi Salvini, conferma o scappa?”. Salvini però mantiene il riserbo. Persino con i suoi alleati che infatti sono disorientati pure loro. Fratelli d’Italia e Forza Italia sarebbero intenzionati a presentare un ordine del giorno per dire no al processo nel tentativo di mettere insieme 161 voti per garantirgli l’immunità. Ma decideranno all’ultimo istante dopo aver annusato l’aria. Perché mettono in conto di rimanere spiazzati un’altra volta, come è successo già in Giunta il 20 gennaio quando la Lega all’ultimo aveva deciso di smarcarsi votando contro i suoi stessi alleati di centrodestra, bocciando la relazione dell’azzurro Maurizio Gasparri che difendeva il loro capo dalle accuse.

Ma in aula ora, cosa succederà? Perché la scena si annuncia sui toni del surreale. Sarà infatti proprio la leghista Erika Stefani a dover riferire quello che è accaduto in Giunta per le autorizzazioni. Poi ci sarà la discussione a cui Salvini non pare intenzionato a rinunciare. Infine se davvero Forza Italia e Fratelli d’Italia chiederanno un voto per garantirgli l’impunità, i leghisti potrebbe lasciare in massa l’emiciclo per non doversi smentire e essere spernacchiati dalla maggioranza. L’alternativa sarebbe quella di votare sì al processo, ma con il rischio di mettere una ipoteca sull’esito del giudizio. La maggioranza sta alla finestra, ma in fondo più d’uno spera che alla fine non si voti affatto e si metta la sordina a Salvini prendendo atto di quanto già deciso su di lui in Giunta.

Il Beccaria della Laguna

Un giorno sì e uno no, il fortunatamente ex pm veneziano Carlo Nordio ci spiega sul Messaggero, edito dal prescritto Francesco Gaetano Caltagirone, che la prescrizione è un diritto inalienabile dell’imputato e bloccarla è uno obbrobrio giuridico. Accusa il Bonafede di “sgretolare definitivamente i principi minimi del diritto”, soprattutto del “diritto alla difesa”, e “quel minimo di residua civiltà giuridica con la pericolosa riforma che rende eterni i processi”. E incita Renzi a fare scudo alla prescrizione col suo corpo: “La resistenza ne accrescerebbe la dignità politica”. Il Beccaria della Laguna, che quando indossava la toga preferiva un altro Cesare (Previti, con cui fu fotografato a cena), ce l’ha pure con l’altra riforma Bonafede, quella del processo, che prevede un tempo massimo per ogni grado di giudizio e azioni disciplinari per i magistrati che sforano per colpa loro. “Proposta assurda”, tuona Nordio: “la lentezza dei processi dipende da ben altre cause e i nostri magistrati avranno tanti difetti ma non quello della poltroneria”. Vero, se si guardano i carichi medi di lavoro delle toghe italiane, le più laboriose d’Europa. Il che però non esclude sacche circoscritte di fannulloneria, che vanno sanzionate caso per caso. Sempreché, appunto, come prevede la riforma Bonafede, si dimostri che un’indagine o un processo sono durati troppo non per motivi fisiologici o esterni, ma per colpa del magistrato.

Si potrebbero citare molti esempi. Due anni fa la Corte d’appello di Torino prescrisse un condannato per stupro e pedofilia su una bambina perché il processo era durato vent’anni. Il presidente della Corte chiese scusa alla vittima e alla famiglia. Ma, a proposito di indagini su politici, c’è il caso ancor più increscioso di un pm veneziano che nel 1993-’94 si prese per competenza tutte le indagini in corso in mezza Italia sui soldi delle coop rosse all’ex Pci e al fu Psi, indagando la bellezza di 278 persone. E nel 1995, da vero Superprocuratore nazionale anti-tangenti rosse, inviò un avviso di garanzia al segretario del Pds Massimo D’Alema e al suo predecessore Achille Occhetto per ricettazione e finanziamento illecito al loro partito dalle coop rosse (fu indagato anche Craxi, ormai uccel di bosco ad Hammamet). Molto critico col pool Mani Pulite per il presunto teorema del “non poteva non sapere” (mai usato in una sola indagine milanese), il bizzarro pm scrisse nell’avviso di garanzia che i tre politici “non potevano non sapere”. Ma nessuno obiettò nulla. Poi, dopo quattro anni di indagini, nel ’98 chiese il rinvio a giudizio di 93 pesci piccoli delle coop per reati contabili e fiscali.

E chiese l’archiviazione di 180 indagati, fra cui molti politici, compresi D’Alema e Occhetto, giungendo alle stesse conclusioni a cui erano giunti diversi anni prima i suoi colleghi di Milano, Torino e Roma (quelli sempre accusati di usare il teorema del “non poteva non sapere”, mai usato da alcuni fuorché da lui): non c’erano prove che i vertici nazionali conoscessero i finanziamenti delle coop a esponenti locali dell’ex Pci. Il gup però, nel 2000, decise di non decidere, almeno su D’Alema e Occhetto (Craxi intanto era morto), perché il pm non era competente su quasi nulla, salvo i fatti avvenuti a Venezia. Dunque stralciò tre tronconi dell’inchiesta e li trasmise alle procure delle città dove avevano sede le coop coinvolte (Padova, Rovigo e Treviso) e trattenne solo i faldoni sui fatti di Venezia, con 9 imputati in tutto: i dirigenti locali del Pds e della Lega Coop, che lui stesso archiviò in blocco. Quasi sempre su richiesta dello stesso SuperPm. Quanto a D’Alema e Occhetto, stabilì che il Superprocuratore non era competente a indagare neppure su di loro e ordinò di restituire il loro fascicolo alla Procura di Roma. Ma incredibilmente il SuperPm non lo fece, credendo che l’avesse fatto il gup e si dimenticò il faldone nel cassetto per quattro anni.

Fino al 2004, quando Bruno Vespa, lavorando a un libro, chiese notizie dell’inchiesta ai pm romani. Quelli caddero dalle nuvole, non avendo ricevuto nulla. E chiesero lumi al SuperPm, nel frattempo promosso a consulente del ministro leghista Castelli per il nuovo Codice penale. Il quale si batté una mano sulla fronte inutilmente spaziosa, aprì il cassetto pieno di polvere e ragnatele, ne estrasse il faldone su D’Alema e Occhetto con le sue richieste di archiviazione e lo spedì nella Capitale: appena 11 anni dopo l’inizio dell’indagine. La Procura di Roma richiese al gip, stavolta quello giusto, l’archiviazione dei due ex segretari. Che comunque non avrebbero più potuto subire alcun processo: trattandosi di fatti avvenuti fino al 1991, la prescrizione per gli eventuali finanziamenti illeciti (5 anni) e le ricettazioni (7 anni e mezzo) era scattata fra il 1996 e il ’98. Dunque l’amnesia del SuperPm li aveva tenuti sulla graticola inutilmente. Infatti furono risarciti dallo Stato con 9 mila euro a testa per l’ingiusto ritardo. Cioè per il “processo eterno” inflitto dal SuperPm 16 anni prima che arrivassero Bonafede e la blocca-prescrizione: a “sgretolare definitivamente” i “principi minimi del diritto”, soprattutto del “diritto alla difesa”, e “quel minimo di residua civiltà giuridica” rendendo “eterni i processi”, aveva provveduto in solitudine il nostro eroe. Che dichiarò serafico: “Era una mia inchiesta, me ne assumo la responsabilità… Dopo che avevo chiesto l’archiviazione, tutti erano convinti che la cosa fosse finita lì, nessuno si era più fatto vivo… Nessuno ha avuto danni, neanche d’immagine: infatti, 9mila euro è un risarcimento molto contenuto… Ora spero che lo Stato non chieda i soldi a me. In fin dei conti sono incerti del mestiere. Se poi mi vogliono crocifiggere, pazienza: pagherò”. Il suo nome è Carlo Nordio. Vergogniamoci per lui.

Guida al fascismo del 1919: “Attenzione, ora continua”

Sto per parlare di un piccolo libro sul fascismo di particolare importanza. Contiene rivelazioni che di solito mancano e si occupa di dettagli e di fatti apparentemente piccoli e locali. È Il fascismo ferrarese, dodici articoli per raccontarlo, di Antonella Guarnieri, Tresogni Editore. E mi accorgo che Alessandra Mussolini mi dà una mano per spiegare ciò che sto per scrivere. Qualcuno dirà che questa signora se l’è cavata abbastanza bene se pensate che ha dovuto trascinarsi dietro la discendenza e il nome di uno dei 2 peggiori dittatori della storia europea, da lei orgogliosamente e ripetutamente vantata.

Ma questa volta ha voluto usare 2 strumenti esclusivi del repertorio fascista: una manifestazione di potere (come osa Liliana Segre discutere l’opportunità di dedicare una strada di Verona al “difensore della razza” Giorgio Almirante, dopo che la giunta comunale di destra si era persino presa il peso di accettare lei, la Segre, come cittadina onoraria?) e un insulto. Perché, dopotutto, la Senatrice a vita Liliana Segre fa parte di un gruppo non tanto gradito al nonno e dov’è il problema se, con l’allegria di chi domina, chiami la sopravvissuta di Auschwitz “strega di Biancaneve”?

Ecco, questo piccolo episodio spiega in che modo Antonella Guarnieri ha narrato e spiegato episodi di fascismo locale (in questo libro il fascismo ferrarese) che hanno sfregiato l’Italia da subito (1919) e per 20 anni. La Guarnieri analizza (nei 12 articoli del titolo) episodi che sono quasi fatti di cronaca, se qualcuno dei protagonisti non fosse un nome di vertice del fascismo (Italo Balbo). E tutti, anche i nomi citati solo perché tratti dalle pagine locali del tempo, sono violenti, cattivi e, quando possibile, assassini. È da pagine come queste (che spiegano implicitamente ma nel profondo, come i film di Bertolucci e La lunga notte del ’43, le storie di Bassani) che emana l’odore del fascismo: falsificazione, crudeltà, mancanza totale di scrupoli e fedeltà al mandante (in questo caso le grandi imprese agricole della vasta e prospera area padana, troppo socialista).

Se alla Camera Mussolini potrà dire di prendersi tutta la responsabilità del delitto Matteotti, le ragioni le trovate in queste pagine: non in una spiegazione dei suoi eventi nazionali, ma nel robusto seme di odio piantato in province fertili dove la paura, e la necessità di sopravvivenza, renderanno facile la conversione di massa e le esaltate piazze fasciste che, prima e dopo i cadaveri, i non giovani che leggono queste righe ancora ricordano.

Ma chi legge questo libro, e chi ricorda, non potrà fare a meno di notare tristi somiglianze con il farsi avanti violento e spavaldo della destra che esige l’eliminazione dei migranti, impone di credere ai complotti e spaventa la sinistra al punto da non toccare né “la sicurezza” secondo Salvini né il rispetto dei diritti umani secondo il trattato (il nostro trattato) con la Libia. Per questo mi sento di dire che il libro della Guarnieri è come un abecedario. Leggetelo e ritroverete la narrazione dei tempi e dei luoghi in cui tutto comincia. Ma attenzione: adesso continua.

Mozart resuscita col Messia di Händel: “È Van Gogh che dipinge la Gioconda”

È come se Vincent Van Gogh avesse dipinto la Mona Lisa. Così Mark Minkowski, direttore d’orchestra, descrive l’adattamento di Mozart del Messia di Händel. Minkowski ne ha diretto la rappresentazione, andata in scena il 30 gennaio, durante la settimana mozartiana di Salisburgo. Rispetto al modello, la versione di Mozart rende l’orchestra più sinfonica, aggiunge nuove parti per i fiati, riempie la struttura del contrappunto progettata da Händel.È il passaggio dal barocco al classico, un’aggiunta di colori, e comunque, conclude Minkowski, “è un altro mondo”.

A dirigere la produzione Robert Wilson, maestro del minimalismo, che si pone di fronte al dato di una musica così ricca da non avere bisogno di aggiunte, e perciò si interroga: “Se chiudo gli occhi, sicuramente inizio a sentirmi molto più concentrato. Mi chiedo: posso poi creare qualcosa sul palco, anche con gli occhi aperti, qualcosa che mi farà ascoltare meglio?”. Ecco il punto: c’è l’urgenza di apparecchiare qualcosa in scena per far sprigionare il suono nel più libero dei modi. Ed è per ascoltare meglio che va guardata la coreografia di Wilson. Un viaggio spirituale – mai religioso – che rappresenta la vita dell’uomo. Nell’intervista rilasciata al Der Standard Wochenende durante il fremere della preparazione dello spettacolo, Wilson si lascia pervadere da un’intuizione: “È lo spirito la natura dell’uomo”. Scorrendo in ordine i testi del Messia, il lettore non trova una storia lineare. Il rifiuto della cronologia e dei legami di causa ed effetto sono il marchio dello spirito, quando si fa astratto. Come fedeltà al dato, Wilson si dedica più alle luci – “molte, moltissime ore” confessa di averci passato – che ai colori.

L’armonia di Mozart innestata sul contrappunto di Händel pone chi ascolta di fronte alla realtà delle cose: è l’alternanza di luce e buio a costituire la trama della vita. La rappresentazione non è però completamente astratta; in scena entrano delle travi galleggianti di legno, il mare, un iceberg, un monolito e perfino un grande scheletro. Oggetti del viaggio spirituale di Wilson, che chi guarda non deve sforzarsi a interpretare, tantomeno analiticamente, ma a fruire poeticamente.

Mozart evita la tristezza, però. Anche nel Messia, il suo rifugio è la gioia. È forse un retaggio dell’infanzia, di quando – bambino prodigio, per le corti d’Europa – il suo compito era intrattenere, e perciò evitare inquietudine e paura. Raramente, infatti, compone in minore, mostrando che il genio non è nient’altro che, come nell’intuizione di Baudelaire, infanzia ritrovata per un atto di volontà.

È però stupefacente che, in tutta questa bellezza, sia rimasta fuori la sostanza del Messia. L’oratorio di Händel è basato quasi interamente su testi dell’Antico Testamento, ed è attraverso le parole di Isaia che viene ripercorsa la vita di Gesù. Il simbolo del pastore e dell’agnello ritorna profusamente, e soltanto l’annunziazione ai pastori è presa dal Vangelo di Luca. Jennens, l’autore del libretto originale per Händel, fuga ogni dubbio: “Il soggetto eccelle ogni altro soggetto. Il soggetto è il Messia”

La rappresentazione del Messia, a Salisburgo, è un invito a rimanere nel presente. Nulla è ancorato al tempo, e obbliga la contemporaneità, appunto povera di simboli come la coreografia di Wilson, a stare davanti a ciò che del Messia – oltre la gioia, oltre ai colori – è ciò che rimane: la salvezza.

La strada per avere la felicità gratis: un brivido di freddo

Non avete i soldi per fare la costosa crioterapia dei calciatori milionari? Nessuna paura. Non solo la possibilità di accedere ai benefici del freddo è alla vostra portata, ma vi porterà, con semplici mosse pratiche, dritti verso la felicità. È la tesi di Andrea Bianchi, un passato come ingegnere, un presente come curatore del sito di successo Mountainblog e guru del barefoot hiking, la camminata a piedi nudi. Dopo Il silenzio dei passi, il libro dove esaltava le virtù del camminare scalzi e che oggi è diventato una scuola, ha appena pubblicato, per Vallardi, La via del freddo alla felicità, dove espone in maniera più diffusa il suo metodo (chiamato Hot Mind), applicabile ovunque e in tutte le stagioni. Il punto di partenza è semplice: uscire dalla propria confort zone termica, quella che ci fa stare con i riscaldamenti accesi a marzo e ci spinge e indossare sofisticate giacche termiche in città. Per cambiare abitudine, il primo passo – c’era da aspettarselo – è il respiro, con una tecnica che Bianchi mutua dalla tradizione dello yoga. Una volta imparato a respirare correttamente, si possono cominciare a mettere in atto le prime pratiche di avvicinamento al freddo. La prima, importantissima, è quella della doccia fredda la mattina, un’abitudine di cui, garantisce l’autore, non si riuscirà più a fare a meno (secondo un esperimento olandese, diminuisce le assenze per malattia del 29%). Il secondo consiglio è passare appena svegli del tempo a piedi nudi a contatto con il pavimento. Ma le scarpe non vanno tolte solo in casa: anche sui sentieri, e soprattutto sulla neve, la camminata a piedi nudi produce benefici. Com’è un vero toccasana, dove possibile, immergersi in laghi e fiumi naturali.

Un’altra pratica da riscoprire, secondo Bianchi, è anche quella del dormire all’aperto, magari con una coperta o leggero sacco a pelo. Nessun problema se vivete in città: potreste sempre approfittare per dormire in terrazzo. Sia in città che in montagna, comunque, il consiglio è lo stesso: toglietevi uno strato, giacca se inverno, felpa se primavera ed evitate di coprirvi se la temperatura cambia nella giornata. Il motivo è semplice: in questo modo il corpo non subisce passivamente il calore di un capo messo addosso, ma impara ad autoregolarsi da solo, producendo calore in maniera autonoma (si chiama “termogenesi senza brivido”). Questo processo migliora la circolazione, fa bruciare più calorie, produce un effetto antiinfiammatorio, attiva il sistema immunitario, migliora l’umore. Insomma, alla prossima pausa pranzo, toglietevi le scarpe. E state più spesso fuori e seminudi, bambini compresi, che sarebbero capaci di difendersi naturalmente se non fossero soffocati da giacche e inutili cappelli. Perché sentire freddo, almeno fino a un certo punto, è un fatto culturale. Il che vuol dire che cambiare si può, anche se in maniera progressiva, specifica l’autore. Un corpo che si sa regolare termicamente, tra l’altro, è un corpo che suda di più e quindi è capace di sopportare anche meglio il caldo.