Negozio di Zara: il gioco dell’oca per 50 facchini della cooperativa

Un po’ come fare il gioco dell’oca e tornare alla casella di partenza. Ecco che cosa sta succedendo a 50 facchini egiziani dei magazzini romani di Zara, il marchio spagnolo di abbigliamento. A settembre 2019 – dopo vari scioperi, e pure qualche botta presa dai vigilanti privati durante le manifestazioni – avevano finalmente ottenuto i loro diritti: il corretto contratto di lavoro, il giusto compenso e un risarcimento per le irregolarità degli anni precedenti. In questi giorni, a soli cinque mesi da quella conquista, hanno però di nuovo perso (quasi) tutto. Zara, infatti, ha deciso di chiudere l’appalto con la cooperativa che li aveva assunti e ora questi addetti saranno riassorbiti solo tramite la Manpower, agenzia di somministrazione. Diventeranno quindi interinali, con meno stabilità e peggiori condizioni, raccontano dal sindacato SiCobas.

Finora, come detto, queste persone non erano dipendenti diretti di Zara, ma di una coop appartenente al gruppo Faro, affidataria della logistica per i punti vendita della Capitale. Pratica molto frequente nel commercio, con le grandi imprese che non gestiscono quasi mai direttamente le attività di magazzino, ma le esternalizzano a cooperative multi-servizi. E spesso in questa filiera si nascondono condizioni di lavoro non proprio a norma. La galassia che gravita attorno a Zara, marchio di moda dai prezzi accessibili, non è stata da meno. Nel corso di questi ultimi anni, nel polo di Castel Giubileo (Roma) sono state segnalate situazioni oltre i limiti: turni da 12 ore al giorno, con straordinari non inseriti in busta paga, tredicesime non versate, ferie non godute.

La battaglia dei lavoratori è stata dura e il 5 marzo, durante un presidio davanti al capannone, hanno subito un’aggressione della vigilanza privata con bastoni e pistole taser. Se la sono cavata con qualche frattura alle dita o abrasioni. Zara si è dissociata dall’intervento, mentre la cooperativa ha spiegato che si trattava di professionisti della sicurezza e che quindi sapevano come sgomberare quella che loro ritenevano “un’occupazione” minimizzando i danni alle persone. Fatto sta che dopo l’episodio i lavoratori sono usciti vincitori dalle trattative: sono stati inquadrati nel giusto livello del contratto della logistica e hanno avuto un risarcimento in cambio della rinuncia a cause di lavoro. La vittoria, però, è durata poco. Pochi giorni fa Zara ha detto di voler disdire il contratto con il Faro. La nuova organizzazione prevede il passaggio dei lavoratori alla Manpower, che li assumerà in staff leasing e poi fornirà la manodopera a Zara. Così l’azienda otterrà la massima flessibilità: quando ne avrà bisogno, potrà chiedere ai facchini di lavorare; quando questi non saranno necessari, resteranno a casa e l’agenzia pagherà loro un’indennità di disponibilità. “Quando saranno in servizio, tra l’altro, ci perderanno economicamente – dice il SiCobas – perché saranno retribuiti con il contratto del commercio a un livello che prevede paghe inferiori a quelle attuali del contratto della logistica”.

Il vice di Gigi Riva: “Cagliari, scudetto vinto in panchina”

Il paradosso è devastante, a pensarci bene. “Quel po’ di fama che ho, mi è arrivata per l’anno in cui non ho giocato”. Doveva essere l’anno della svolta, quel 1969, e a suo modo, lo fu. Il signor Corrado Nastasio, livornese purosangue, aveva appena concluso il suo primo campionato di serie A, con la maglia dell’Atalanta, giocando praticamente sempre, 29 partite su 30, 5 gol, caterve di assist e convocazione nella nazionale under 23. Ala veloce, il Cagliari lo ritenne l’uomo giusto per rifornire di cross Boninsegna e Riva e provare a dare l’assalto al cielo, dopo il secondo posto dell’anno precedente, alle spalle della Fiorentina. Il signor Corrado ci fa la bocca, si sente pronto, finché, dai giornali, viene a sapere dell’affare dell’anno: “Lessi che Boninsegna tornava all’Inter e che facevano il percorso inverso Poli, Gori e Domenghini. Capii in un attimo che tutto era cambiato, prima ancora di iniziare”. Cambia anche l’assetto tattico della squadra che l’allenatore, Manlio Scopigno, ridisegna subito e che prevede Corrado sempre sulla fascia, ma molto largo diciamo… oltre la linea bianca.

Morale: la cavalcata trionfale che porterà allo scudetto, Corrado, la compie da seduto, con freddo, neve, vento, pioggia e sole. Conoscerà da vicino le panchine di tutta Italia (“e non c’erano mica le poltroncine con gli schienali imbottiti di oggi, solo legno e ferro, le più comode erano quelle di San Siro, con i tifosi un metro dietro di te, un’emozione unica”). Gioca solo due partite: una da titolare, la 4° di campionato (Cagliari-Lazio 1-0, 5 ottobre 1969, gol di Brugnera), “feci un partitone, ma la domenica successiva, nemmeno sbirciai la lavagna dove era scritta la formazione titolare e me ne andai direttamente in panca”; e la quart’ultima di campionato quando, sempre allo stadio Amsicora, contro il Palermo, partita già in frigo – 2-0, Riva e Nené – a 20 minuti dalla fine sostituisce Zignoli, uscito per una distorsione al ginocchio.

“Scopigno mi consigliò di non affondare troppo, in prospettiva futura”. La domenica dopo, manco a dirlo, rientrò lo squalificato Mancin. L’anno successivo, andò un po’ meglio, ma nemmeno troppo. Cinque presenze, perfino un gol, quello del pareggio interno 1-1 con il Catania. E addirittura una manciata di minuti in Coppa dei Campioni, nel ritorno degli ottavi di finale, contro l’Atletico Madrid (andata 2-1 per i sardi), il “Vicente Calderon” pieno come un uovo. Vantaggio spagnolo con Aragones. Il raddoppio è un gentile omaggio dell’arbitro, che concede un rigore ignobile, proteste, Tomasini si fa espellere.

A quel punto, Scopigno tenta il tutto per tutto, toglie un terzino, Martiradonna (“con quel cognome non andrai lontano – gli diceva il mister “filosofo” – se ti fossi chiamato Martin o Martir invece…”), e inserisce un attaccante, il signor Corrado appunto. Il destino è spietato, gli spagnoli segnano subito il terzo gol, per la tripletta di Aragonés.

Salutata l’isola, va a Modena, poi alla Lucchese in serie C, Novara in B, per finire la carriera al sud, Lecce e Brindisi, sempre in riva al mare, prima di tornare a Livorno, dove lavorerà come portuale per mantenersi. Tifoso accanito degli amaranto che segue tutte le domeniche, a prescindere dalla serie, c’è perfino un club con il suo nome. A Cagliari, il vice-Riva ha lasciato un pezzo di cuore: “Allora le ‘rose’ non avevano mille petali come oggi. Erano previste solo due sostituzioni, il portiere e un giocatore. Così, ogni domenica, ci ritrovavamo sempre noi tre, io, il portiere di riserva Reginato e mister Scopigno. Una convivenza forzata da cui scaturì un minimo di confidenza e di amicizia”.

A Reginato (il 12), per dire, andò anche peggio del signor Corrado (il 13). Albertosi gli lasciò solo gli ultimi 20 minuti del campionato, Torino-Cagliari 0-4, il tempo di ricevere due passaggi indietro e fare un rinvio con i piedi. Quanto basta, comunque, per vincere un campionato. Con il mister, curioso e strepitoso allenatore del Cagliari, introverso, chiuso, arguto e artefice di quel capolavoro dello scudetto di mezzo secolo fa, profonda stima e rispetto. È già leggenda quella volta quando, durante un allenamento, Scopigno arrivò con un cartello in mano e lo piantò sulla linea di fondo. C’era scritto: “Qui finisce il campo” ed era proprio per Nastasio il quale, per impeto e irruenza, tendeva a finire spesso oltre con la palla.

E poi quella domenica, chissà dove ma non importa, con il Cagliari in vantaggio in una partita tiratissima, e con Scopigno che fuma in silenzio in panchina e sembra immerso in un altro mondo. Il signor Corrado, più ansioso, alla fine gli chiede: “Mister, quanto manca?”. Scopigno a quel punto sale a bordo di un’astronave e torna per un attimo sulla terra. Si gira verso di lui, molto lentamente, sbuffa il fumo in aria e lo guarda con l’occhio semichiuso: “A cosa, scusa?”

L’ambigua scalata di Nicchi il duce

Perché il calcio italiano è diventato questa indegna cosa cui ogni giorno ci tocca assistere? Perché i fatti succedono senza che nessuno ci faccia caso; anche se sono importanti; anche se produrranno conseguenze irreparabili. Come nel 2009 quando Marcello Nicchi diventa presidente nazionale AIA (associazione italiana arbitri).

Sono passati tre anni da Calciopoli e a capo del movimento spunta un ex dal passato imbarazzante. Al termine della stagione ’96–’97 il designatore Casarin lo ferma dopo due incresciosi episodi di cui è protagonista: uno di bullismo puro (in Vicenza-Bologna 2-0 espelle Andersson del Bologna che a bordo campo chiede a Ulivieri di essere sostituito non ritenendosi tutelato dall’arbitro; Casarin ferma Nicchi per tre mesi), uno di inettitudine (in Perugia-Napoli 1-1, al rientro dopo la sospensione, convalida un gol di mano dal perugino Rapajc). L’anno prima, in Sampdoria-Inter 0-0, Nicchi aveva ammonito per simulazione Mancini, atterrato invece da Pagliuca; Mancini aveva perso la testa, era stato espulso e aveva rimediato 6 giornate di squalifica.

Per Casarin, il modo di porsi nei confronti dei giocatori, che Nicchi prendeva di petto quasi sfidandoli, era inammissibile. Sipario, quindi.

Domanda: com’è possibile che un arbitro così discusso diventi presidente nazionale? Difficile dirlo. Quel che è certo è che Nicchi fu il quarto uomo di Pierluigi Pairetto (il designatore radiato a Calciopoli per i rapporti con Moggi) nella finale europea ’96, Germania-R. Ceca 2-1: un buon amico insomma, e certo il figlio di Pairetto, Luca, con Nicchi a capo dell’AIA di strada ne ha fatta nonostante i continui pastrocchi (l’ultimo: i 7 ammoniti più un espulso della Roma nel 2-4 contro il Sassuolo).

Appena eletto, Nicchi porta all’AIA come suo vice Nicola Pisacreta e come capo del settore tecnico Alfredo Trentalange. Pisacreta è il guardalinee che nella più scandalosa partita di Calciopoli, Roma-Juventus 1-2, nel ’94–’95, fece convalidare il gol di Cannavaro segnato in fuorigioco e sostenne Racalbuto nella concessione del rigore del 2-1 per un atterramento di Zalayeta avvenuto fuori area (“È fuori e nemmeno netto” disse Bergomi in telecronaca Sky, tuttora reperibile su Youtube). I due minuti di proteste di Totti e compagni non servirono.

In quanto a Trentalange, di Torino pure lui, era l’osservatore di Rocchi nella scabrosa partita Chievo–Lazio finita nel mirino degli investigatori. Il voto che diede a Rocchi fu alto e venne interrogato perché spiegasse. Curioso notare come Gianluca Rocchi, nell’organigramma AIA, figuri oggi come rappresentante degli arbitri; e come tra i responsabili degli Organi Tecnici ci sia Matteo Trefoloni, che era l’arbitro designato per la famosa Roma–Juve di cui sopra e che non se la sentì, e mandò un certificato medico per farsi sostituire, sapendo cosa lo aspettava. “Posso affermare – disse Trefoloni all’interrogatorio – che sia Bergamo che la Fazi (designatore e segretaria, n.d.r.) svolgevano un’attività volta a determinare in noi arbitri una sudditanza psicologica che si traduceva poi a seconda delle partite da arbitrare in una gestione delle stesse in linea con il volere dei citati”. Dopo Roma-Juve, il presidente Figc Carraro, che aveva chiesto un arbitraggio imparziale, chiamò Bergamo e disse: “Allora io non conto un cazzo!”. Oggi i telefoni tacciono.

Coronavirus. Il contagio si estende alle 4 ruote

L’impatto del coronavirus sull’industria mondiale dell’auto rischia di essere devastante. Questo perché la provincia dell’Hubei, di cui Wuhan è il capoluogo nonché l’epicentro del contagio, è una fucina che sforna senza sosta componentistica per milioni di veicoli di parecchi dei marchi oggi sul mercato. Ed è una delle undici province che insieme producono i due terzi delle vetture vendute in Cina. In pratica, se non arrivano rifornimenti da lì rischiano di paralizzarsi anche fabbriche americane o europee, come ha fatto notare il numero uno di Fca Mike Manley. Parecchi costruttori poi, Toyota e Renault giusto per citarne alcuni, hanno fermato i propri impianti nella zona: il rischio che l’epidemia si propaghi nelle fabbriche è molto alto. Per ora vengono utilizzate le scorte di magazzino ma lo stop alle linee di montaggio, se dovesse protrarsi anche a marzo ed oltre, significherebbe rinunciare a qualcosa come 1,7 milioni di vetture, pari circa al 5 per cento della produzione annuale cinese. Al di là della questione strettamente industriale, nondimeno, a danneggiare l’economia è pure la componente psicologica: l’epidemia incide sulla fiducia dei consumatori, che annullano o rimandano i propri acquisti. In un contesto del genere, gli analisti stimano che il Pil cinese possa diminuire fino al 5% a fine anno. Le prossime settimane, dunque, saranno cruciali per stabilire l’entità delle ripercussioni, sia a livello locale che globale.

I semafori intelligenti di Audi sbarcano in Europa

Ingolstadt e ora Dusseldorf sono le prime città europee a sperimentare un sistema di interazione tra infrastrutture e veicoli che coinvolga anche i semafori. Il progetto, firmato Audi, si chiama Traffic Light Information: sbarca in Europa dopo il debutto, nel 2016, negli Stati Uniti. Il sistema sfrutta la tecnologia di connessione vehicle-to-infrastructure e rende i semafori delle città intelligenti: cioé, capaci di “dialogare” con i veicoli. Dalla fine di gennaio 2020 sarà attivo su tutti i modelli Audi della flotta e-tron, prodotti da luglio 2019 ed equipaggiati con il pacchetto connect navigation & infotainment. Le funzioni principali del sistema Traffic Light Information sono due: Green Light Optimized Speed Advisory (GLOPSA) e Time–to–Green. La prima, GLOPSA, aiuta il guidatore ad approfittare dell’onda verde agli incroci: un sistema che calcola il tempo e la velocità ideale (nei limiti stradali imposti) per arrivare al semaforo proprio nel momento in cui scatta il verde. Una tecnologia per rispondere al problema delle lunghe code e degli ingorghi (rendendo più efficiente la mobilità); ma utile anche a ridurre lo smog. Secondo i dati raccolti dalla stessa Audi sullo studio di un progetto pilota, il Traffic Light Information consentirebbe di abbassare del 15% i consumi su tutte le auto, proprio perché eviterebbe fermate, ripartenze o accelerazioni inutili. Il sistema Time–to–Green, invece, è lo strumento che informa il guidatore, già fermo al semaforo rosso, tra quanti secondi dover ripartire, lasciandolo libero di rilassarsi, ma pronto a premere l’acceleratore.

Tutto sull’auto elettrica. Il bilancio tra costi e risparmi

Sono tanti gli studi che dubitano dei benefici ambientali delle auto elettriche, adducendo che l’impronta di carbonio complessiva di una EV (electric vehicle) nel suo intero ciclo di vita, cioè dalla produzione allo smaltimento, sia paragonabile a quella di un veicolo termico. Ora, però, sta progressivamente aumentando la schiera di chi all’automobile a batteria non riconosce neanche i vantaggi economici relativi ai costi di gestione, gli stessi promossi dalle case automobilistiche per rendere più digeribili prezzi di listino ancora molto, troppo alti.

Basti pensare che una Opel Corsa turbobenzina, da 130 Cv di potenza con cambio automatico, costa 20.750; mentre lo stesso modello, con motore elettrico da 136 Cv, sale a 32.400 . Né i costruttori né i fornitori di energia, poi, riescono a prevedere quanto costerà in futuro fare il pieno a un’autovettura elettrica. I prezzi attuali dell’energia, purtroppo, non hanno alcuna valenza di riferimento: non sono ancora confortati da un parco circolante di elettriche tale da generare un nesso tra domanda e offerta che sia realmente attendibile. Trattasi, per giunta, di costi privi delle tradizionali accise sui carburanti che però in Italia – per le sole autovetture – valevano 18,5 miliardi di euro nel 2018 e incidono per oltre il 40% del prezzo del carburante, dai 0,6 ai 0,73 al litro.

Tributi a cui, quando le elettriche faranno massa critica, difficilmente l’amministrazione pubblica rinuncerà e che, prevedibilmente, verranno applicati anche all’energia destinata all’autotrazione: quest’ultima oggi costa dai 0,17 /kWh se si fa la ricarica a casa – ma senza una Wallbox i tempi di rifornimento diventano biblici – fino ai 0,79 /kWh se ci si serve presso le colonnine di rifornimento rapido.

Manutenzione? L’ordinaria costa assai meno rispetto a quell di un’auto benzina o diesel, perché la meccanica elettrica è semplice e virtualmente esente da interventi tecnici. Ma quella straordinaria, invece, potrebbe far tremare i polsi: pure sinistri di entità moderata potrebbero, per ragioni di sicurezza, richiedere la sostituzione del battery–pack, che rappresenta la parte più costosa dell’intera vettura.

L’unico vantaggio economico certo sembra essere quello relativo alle spese per il bollo: a seconda delle regioni, è gratuito per i primi 36–60 mesi – rimane tale in Piemonte e Lombardia – e dopo, a parità di potenza, si può pagare fino al 75% in meno rispetto a quanto si corrisponde per un’automobile termica e non si paga il superbollo, perché la potenza omologata non sempre corrisponde alla massima erogata, come invece succede sulle auto termiche. Ci sarebbe anche la gratuità per ztl e parcheggi su striscia blu. Finché dura.

Mutui, resta di nuovo a secco il fondo di garanzia sulla casa

Ha i mesi contati il fondo per i mutui prima casa, una misura che nel corso degli anni ha registrato un boom di domande da parte degli under 35 titolari di un rapporto di lavoro atipico e dei nuclei familiari monogenitoriali con figli minori, vale a dire i più svantaggiati agli occhi del sistema bancario, perché non hanno le garanzie reddituali e patrimoniali indispensabili per ottenere un prestito per l’acquisto della casa. Il plafond del fondo si sta infatti esaurendo e, allo stato attuale, non sono state stanziate altre risorse. Così, senza ulteriori iniezioni di liquidità, la garanzia statale che aiuta chi ha difficoltà ad accedere a un mutuo per acquistare o fare interventi di ristrutturazione (e accrescimento dell’efficienza energetica) degli immobili da adibire abitazione principale, rischia di chiudere i battenti da qui a fine a giugno.

A metterlo nero su bianco è la Consap, la società del Tesoro che si occupa della gestione del fondo, che sul proprio sito ha scritto questo messaggio: “In considerazione del trend attuale delle domande di accesso al Fondo, si informa che l’iniziativa proseguirà presumibilmente per tutto il primo semestre 2020, fino ad esaurimento delle disponibilità, salvo eventuali rifinanziamenti”. Di tempo, insomma ne è rimasto poco ed è per questo che l’Adiconsum ha inviato una lettera al ministero dell’Economia chiedendo di rifinanziare lo strumento. Proprio come già successo lo scorso anno, quando di tempo ce n’è stato ancora meno dal momento che le risorse sono terminate già a febbraio. Tant’è che ad aprile è stato il decreto Crescita a rifinanziare la misura con 100 milioni di euro e dalla Consap avevano spiegato che nei mesi precedenti il Fondo aveva operato grazie a 70 milioni messi a disposizione dal ministero dell’Economia, ultima tranche del finanziamento iniziale di 650 milioni di euro, ma in esaurimento. Lanciando però un segnale chiaro: con le nuove risorse messe a disposizione dal governo, la Consap garantiva la continuazione dell’erogazione delle garanzie per l’acquisto delle prime case per tutto il 2019 e in parte per il 2020. Esattamente quello che è successo. Ma sarebbe una disfatta il mancato rifinanziamento, perché questa misura funziona bene e negli ultimi anni ha permesso a migliaia di giovani di comprare un immobile.

Basti pensare che dal 2015 al 2019, secondo quanto emerge dalla relazione su “La gestione fuori bilancio del fondo di garanzia prima casa” approvata lo scorso mese dalla Corte dei Conti, le istanze presentate per accedere alla misura sono state 174.367 e di queste ben 155.000 sono state ammesse al finanziamento con l’erogazione di mutui da parte del sistema bancario. Dall’indagine, inoltre, emerge che l’età dei beneficiari, per circa il 60%, è ricompresa nella fascia fra i 20 ed i 35 anni e che la maggior parte dei giovani richiedenti (84,55%) non risulta titolare di alcuna delle condizioni di priorità per l’accesso al Fondo. Mentre nel 97% dei casi le istanze presentate sono finalizzate esclusivamente all’acquisto dell’immobile.

Nel dettaglio, il meccanismo del fondo prevede il rilascio di garanzie a copertura del 50% della quota capitale per mutui ipotecari fino a 250.000 euro erogati per l’acquisto degli immobili adibiti a prima casa di qualsiasi metratura, purché non di lusso, da parte di giovani coppie in cui almeno uno dei due non abbia superato i 35 anni, dei single (anche separati o divorziati) con figli minori e dei giovani under 35 titolari di un contratto di lavoro atipico. È poi la stessa banca a fare domanda alla Consap che entro 20 giorni comunica l’ammissione alla garanzia. L’istituto di credito avrà poi 90 giorni per perfezionare il mutuo e decidere se erogarlo.

Il fondo non ha però sempre funzionato bene. Istituito nel febbraio 2011 dal governo Berlusconi (e poi foraggiato da Monti e Letta), in pratica è rimasto sepolto per anni nei cassetti delle filiali delle banche: su 50 milioni di euro stanziati dal 2011 al 2013, ne era stato erogato appena un milione. Quando i giovani si presentavano agli sportelli, le banche – che avrebbero dovuto concedere un mutuo a tassi agevolati nettamente inferiori a quelli allora in vigore – facevano orecchie da mercante sponsorizzando solo i proprio prodotti. Del resto non c’era l’obbligo per gli istituti di credito né di aderire all’iniziativa né di concedere il mutuo nel caso una coppia ne facesse richiesta. Dal 2015, invece, quando è diventato operativo il nuovo Fondo tutto è cambiato, perché anche se le condizioni sul tasso di interesse sono diventate peggiorative per i mutuatari (è stato eliminato lo sconto), questo ha permesso alle banche di non rimetterci più e di cominciare ad accordare il mutuo agli under 35 che si sono presentati sempre più numerosi allo sportello ottenendo la garanzia statale nel caso di mancato pagamento delle rate.

Lavoratori come gli schiavi

In un passo illuminante dei Memorabili di Senofonte, Socrate domanda a un concittadino impoverito, Eutero, come si guadagni da vivere. Col lavoro manuale, risponde Eutero. Socrate lo incalza: e quando da vecchio ti mancherà la forza come ti manterrai? Eutero non sa rispondere. Socrate ha la soluzione: abbandona questo pesante lavoro ‘in proprio’ e mettiti alle dipendenze di un ricco, trovati cioè un datore di lavoro. La risposta di Eutero è inorridita: “Non potrei mai sopportare di essere schiavo… Mi rifiuto di essere al servizio di un altro uomo!”. In questo scambio è racchiusa l’intera ideologia ateniese del lavoro: nessuna vergogna nel lavoro manuale (la cui dignità è anzi stabilita e difesa dalle leggi), ma il lavoro subordinato no, è indegno di un cittadino – non è pensabile cioè che un cittadino, membro del demos sovrano, possa subordinarsi a un altro cittadino.

Questo rifiuto di ogni forma di subordinazione si tradusse in una vera e propria egemonia delle dinamiche democratiche non solo nella forma dello Stato ma anche nella società civile: ogni organizzazione operante nella città democratica, che fosse una società di mutuo soccorso, un club religioso o un’associazione di commercianti, di artigiani, di viticoltori, mimava nelle sue strutture di autogoverno, fin nei minimi dettagli, i meccanismi democratici della polis. C’era un Consiglio tirato a sorte, un’Assemblea, magistrature anch’esse sorteggiate; si decideva insieme, democraticamente, su tutto, con procedure identiche a ogni livello. Il governo democratico della polis si reggeva cioè su un’abitudine pervasiva ai suoi processi, alle sue procedure, riprodotte tali e quali nella sfera economica e in quella sociale.

L’ipocrisia di fondo degli Ateniesi, che escludevano la subordinazione dalle relazioni tra i cittadini ma al contempo ponevano un’intera categoria – gli schiavi – nella condizione di subordinazione più assoluta, non cambia la sostanza del problema: governarsi insieme democraticamente al livello dello stato è incompatibile col relazionarsi gli uni con gli altri, nel quotidiano, in modo autoritario. Questa constatazione non è estranea alla riflessione moderna sul lavoro. La ritroviamo ad esempio espressa con la consueta lucidità da Vittorio Foa quando nella sua autobiografia, nell’interpretare l’antifascismo come istanza di democratizzazione pervasiva della società, parla di “struttura autoritaria, e persino dispotica, del rapporto di lavoro, del rapporto tra capitale e lavoro”. Foa rileva cioè l’incoerenza tra l’autoritarismo del rapporto di lavoro – il contesto di socialità più diffuso e quasi fondativo della vita sociale ed economica – da un lato, e un sistema politico che si vuole democratico dall’altro. La stessa istanza la troviamo espressa da Bruno Trentin, che in una lettera del ‘75 a Berlinguer parla di trasformazione “nella società attraverso nuovi organismi di potere democratico, istituzionali, sindacali, popolari…”.

Questo stesso problema si ripropone oggi ancora più attuale – basta sfogliare i volumi gemelli di Marta e Simone Fana Non è lavoro, è sfruttamento! e Basta salari da fame! Negli ultimi decenni la precarizzazione sistematica, contrariamente alle promesse, non ha portato a un maggiore controllo dei lavoratori sul proprio lavoro, sul proprio tempo, sulla propria vita. Non ha creato alcuna orizzontalità dei rapporti di lavoro. Al contrario ha sostituito alla verticalità strutturata, gerarchica, della fabbrica fordista una verticalità ancora più estrema: quella di rapporti diretti da prestazione talmente asimmetrici nelle rispettive opzioni e nei rispettivi diritti da configurarsi come rapporti di puro arbitrio, di dominio assoluto del datore di lavoro sul lavoratore. A questi sviluppi si è accompagnata l’erosione drammatica dei redditi da lavoro, non solo dei precari ma del lavoro dipendente in generale, sempre più ricattabile e dunque sempre più soggetto all’arbitrio padronale. Non è un caso che la demolizione degli spazi di autogoverno democratico del lavoro e l’erosione dei redditi da lavoro (a favore di quelli da capitale) siano stati gli obiettivi congiunti della riscossa capitalista degli ultimi quattro decenni: i due processi si implicano a vicenda, sono causa ed effetto l’uno dell’altro.

Ma questa erosione degli spazi di autogoverno democratico del lavoro non può non avere conseguenze gravi sulla salute della nostra democrazia. Come si può pensare di avere un sistema democratico funzionante, blaterare di cultura democratica, se la forma più diffusa e quasi ‘naturale’ di rapporto interpersonale tra i cittadini – il rapporto di lavoro – è di tipo autoritario? Manca l’abitudine, manca la scontatezza stessa del paradigma democratico di dibattito, di interazione e di decisione orizzontale, perché quel paradigma è limitato a pochissimi luoghi e momenti specifici (se pure, ancora, a quelli!).

Atene, senza essere un modello, ci aiuta a mettere meglio a fuoco questa pericolosa schizofrenia tra politica e lavoro, tra governo della comunità e gestione del quotidiano, contrapponendovi l’idea di fondo che i cittadini di una democrazia non possono essere reciprocamente implicati, quotidianamente, in relazioni di tipo autoritario, pena l’incapacità di agire da cittadini democratici. Era vero allora ed è vero oggi: non ci può essere democrazia dove i rapporti di lavoro rimangono il luogo del dominio dispotico dell’uomo sull’uomo.

Cisgiordania: militari israeliani hanno fermato l’annessione

Quando Donald Trump, il 28 gennaio, ha svelato il suo piano per risolvere il conflitto israelo-palestinese, i collaboratori di Benjamin Netanyahu avevano risposto che l’annessione della Valle del Giordano e della Cisgiordania, così come indicato nel piano del presidente americano, sarebbe stata analizzata dal consiglio dei ministri israeliano “sin da domenica 2 febbraio”. La notizia era stata accolta con entusiasmo dagli elettori del primo ministro, e soprattutto dai coloni. Ma poi, senza fornire spiegazioni, era stato annunciato alla stampa che la riunione in questione non avrebbe avuto luogo. Il voltafaccia del governo ha scatenato una manifestazione dei coloni che sono entrati con i loro trattori nella Valle del Giordano per chiederne l’annessione immediata. Come spiegare la retromarcia di Netanyahu? Si spiega perché due autori del progetto di Trump, David Friedman, ambasciatore Usa in Israele, e Jared Kushner, consigliere (e genero) di Trump, e principale artefice del progetto, non erano d’accordo sul punto delicato delle annessioni. Friedman, impegnato come Kushner nel finanziamento della colonizzazione e favorevole all’annessione “rapida” dei territori, difendeva l’intervento immediato del governo israeliano. Kushner invece riteneva che una decisione così importante, anche storica, non potesse essere presa da un governo provvisorio e preferiva che i dirigenti di Israele aspettassero l’esito delle elezioni legislative del 2 marzo prima di portare avanti il programma di annessione dei territori occupati. Secondo Kushner sarebbe anche meglio attendere la creazione della commissione di coordinamento bilaterale prevista dal piano Usa prima di procedere alle annessioni.

Netanyahu, forte della sua amicizia con Trump, e alla ricerca di idee per guadagnare punti sul rivale Benny Gantz, avrebbe probabilmente proclamato vittoriosamente l’annessione di circa la metà della Cisgiordania, eludendo le reticenze di Kushner, se non si fosse imbattuto in un altro ostacolo, molto più coriaceo: l’esercito israeliano. Il capo di Stato maggiore Aviv Kochavi e Nadav Argaman, direttore dello Shin Bet (i servizi di intelligence interna), hanno fatto notare infatti a Netanyahu che una decisione precipitosa avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche. I vertici militari avevano del resto già frenato Netanyahu quando, prima delle elezioni del 17 settembre 2019, il primo ministro in difficoltà nei sondaggi, aveva detto che, se fosse stato eletto, avrebbe annesso la Valle del Giordano. Alla fine dunque, il 4 febbraio, durante una riunione elettorale, il primo ministro israeliano ha ceduto e annunciato che non avrebbe chiesto al governo di approvare l’annessione della Valle del Giordano prima delle elezioni di marzo. Tra i motivi avanzati: la reazione negativa dell’Ue all’annuncio del piano di Trump e il tempo necessario per preparare i documenti tecnici. Ovviamente non è per simpatia per la causa palestinese che il capo dell’esercito israeliano e quello dell’intelligence interna sono ostili all’annessione di gran parte dei territori occupati. I loro argomenti sono numerosi e innanzi tutto di ordine diplomatico-strategico. Una tale decisione, a loro avviso, avrebbe un impatto notevole, ancora difficile da stimare, sulle relazioni con la Giordania, la cui popolazione è composta soprattutto (tra il 45% e il 65%) da abitanti di origine palestinese. Tra questi, anche la moglie del re Abd Allah II, Rania al-Yassin, figlia di un medico di Tulkarm emigrato in Kuwait. Il regno hascemita, il solo con l’Egitto ad aver firmato un trattato di pace con Israele, resta agli occhi degli strateghi israeliani, e nonostante le tensioni interne, un polo di stabilità in una regione esplosiva. Annunciare in tali condizioni l’annessione della Valle del Giordano potrebbe rafforzare il movimento dei Fratelli Musulmani, che continua a denunciare i legami diplomatici e di sicurezza del regno con Israele. La situazione diventerebbe molto difficile in caso di mobilitazione dei palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme e nella Valle del Giordano, al punto da minacciare l’esistenza stessa del trattato.

Nel tentativo di contenere l’esplosione di rabbia palestinese, due unità d’élite dell’esercito sono state mobilitate nella regione e una terza è stata inviata in rinforzo alle forze già presenti nella Valle del Giordano per prendere posizione intorno ai villaggi palestinesi a est di Nablus. Ma il rischio di una crisi con la Giordania e di una destabilizzazione del regno non è né l’unico né il più preoccupante degli argomenti avanzati dall’esercito per opporsi all’annessione dei territori occupati. Numerosi ufficiali lasciano planare la minaccia di una “guerra del nord” contro Hezbollah, Siria e Iran – a cui potrebbe unirsi anche Hamas, nel sud – per scoraggiare un’iniziativa israeliana che obligherebbe l’esercito a mobilitare le forze su più fronti. La “guerra del nord” resta oggi “la minaccia più grave” per Israele, diceva già a inizio 2019 il Rapporto strategico annuo del generale Amos Yadlin, direttore del National Institute for Security Studies (Inss) ed ex capo dell’intelligence militare (Aman). “Il governo sta provando, non senza difficoltà, con l’aiuto dell’Egitto, a stabilizzare il fronte meridionale – ha osservato un ufficiale – Sarebbe molto imprudente se una decisione di annessione portasse alla destabilizzazione di una nuova regione, costringendoci a occuparci di un terzo fronte: la Cisgiordania”. Alcuni soldati approfittano del loro status di riservisti o di pensionati per dire ad alta voce ciò che pensano i colleghi in servizio e non si accontentano solo di mettere in guardia contro le conseguenze tattiche o strategiche dell’annessione, ma si mostrano anche ostili al principio stesso di annessione. E per vari motivi. “L’annessione è pericolosa – ha detto nei giorni scorsi il generale Yadlin – Essa può ostacolare il cammino verso un eventuale accordo politico e verso una futura possibile separazione tra Israele e i milioni di palestinesi che vivono in Giudea e in Samaria (Cisgiordania, nda). In fin dei conti, essa può condurci all’incubo dello Stato unico. Un tale stato non potrebbe essere al contempo ebraico e democratico e provocherebbe il crollo del sogno sionista”.

I Comandanti per la sicurezza di Israele (Cis) fanno più o meno lo stesso tipo di ragionamento. Il movimento riunisce oggi più di 280 generali in pensione, nonché degli ex responsabili del Mossad, del Shin Bet e della polizia. Tutti ritengono che “una soluzione a due stati con i palestinesi, nell’ambito di un accordo regionale di sicurezza, è essenziale tanto per la sicurezza di Israele che per il suo futuro come dimora nazionale e democratica del popolo ebraico”. Da più di un anno, un gruppo del Cis sta lavorando sulle ripercussioni sulla sicurezza di Israele e sul suo futuro di un’eventuale annessione della Cisgiordania. Il rapporto che ne è emerso è circolato ampiamente all’interno dello Stato maggiore. In questo rapporto si sostiene che “i progetti di annessione della Giudea-Samaria, finora considerati delle fantasie di una minoranza estremista, hanno di recente assunto la forma di concreti progetti di legge e di proposte del governo. Queste misure – aggiunge il documento – non tengono conto del desiderio della maggior parte degli israeliani di preservare la maggioranza ebraica e il carattere sionista dello Stato, in conformità con lo spirito e i valori della Dichiarazione di Indipendenza di Israele”. Secondo il rapporto del Cis “gli sforzi di una minoranza determinata pro annessione, che incoraggia il processo di annessione dei territori sia per via traverse che legali, provocheranno per forza di cose delle onde d’urto che minacceranno la sicurezza di Israele, il suo carattere ebraico e democratico, i suoi rapporti con i paesi vicini, con la diaspora ebraica, e influenzeranno negativamente l’atteggiamento della comunità internazionale nei confronti del Paese”. “Israele – scrivono gli autori del rapporto – dovrebbe astenersi da ogni tipo di azione finalizzata all’annessione – per vie legali o no – basata sull’errato presupposto che si potrà resistere e far fronte alle reazioni palestinesi, arabe e internazionali. Riteniamo – aggiungono – che qualsiasi legislazione pro annessione, anche parziale, condurrà al crollo dell’Autorità Palestinese e alla necessità di rioccupare militarmente tutta la Giudea-Samaria. Ogni misura di questo tipo deve essere adottata sulla base di un ampio consenso nazionale, passando per la presentazione del progetto al popolo israeliano, per un referendum o delle elezioni nazionali. Ogni annessione dovrebbe essere messa in atto esclusivamente nell’ambito di una struttura e di un processo diplomatico internazionale concertato. Nessuna popolazione palestinese deve essere annessa se non gode di tutti i diritti civili. Nel caso in cui solo diritti parziali venissero concessi, Israele rischierebbe di essere considerato in tutto il mondo come un regime di apartheid”.

In una lettera del 28 gennaio al procuratore Avichai Mandelblit, consigliere giuridico del governo, il presidente del Cis, Matan Vilnai, generale in pensione e ex ministro, ha scritto: “Sarebbe irresponsabile bruciare le tappe di un indispensabile processo di valutazione, col rischio di esporre a gravi conseguenze la sicurezza di Israele”. Se Mandelblit dovesse accogliere questo appello alla prudenza, riuscirà a convincere Benjamin Netanyahu? Una cosa è certa, ha buona possibilità di essere ascoltato. Mandelblit, che era stato il più stretto collaboratore del primo ministro tra il 2013 e il 2016, è anche il magistrato che, nel febbraio 2019, ha formalmente indagato Netanyahu e lo ha accusato, il 21 novembre scorso, di corruzione, frode e appropriazione indebita. Non ascoltare Mandelblit potrebbe far crescere ancora di più le reticenze dei militari, che Netanyahu non può ignorare. I loro discorsi potranno spingere alla riflessione un primo ministro politicamente alle strette e un elettorato fanatico il cui solo sogno è di controllare tutta la Cisgiordania?

(traduzione Luana De Micco)

Addio al centro, vola la sinistra di Sinn Fein

Il quadro definitivo dovremmo averlo solo nel pomeriggio di oggi, ma una cosa era già certa ieri mattina: nella Repubblica irlandese ha vinto la volontà di cambiamento, e soffia da sinistra. Terremotati i partiti principali, il Fianna Fail e il Fine Gael, entrambi di centrodestra, che da Dublino, alternandosi, hanno dominato la politica irlandese per quasi 100 anni. Gli elettori hanno punito il Fine Gael al governo, che perde oltre il 5% sul 2016 e non arriva al 22%. I voti centristi si concentrano sul Fianna Fail, in calo di un più contenuto 2% e fermo al 23. Il voto anti-establishment si incanala quasi tutto sul Sinn Fein, in passato braccio politico dell’Ira, il gruppo paramilitare repubblicano che ha deposto le armi dopo gli accordi del Venerdì santo che hanno posto fine ai Troubles. I suoi attivisti sono ancora intrecciati, per eredità familiare o partecipazione diretta, a quegli anni dolorosi, e il partito non ha mai smesso di essere il campione dell’indipendenza dell’Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna. Ieri a Dublino almeno un gruppo ha festeggiato con canzoni del repertorio dell’Ira, ma è un stato un caso isolato. Ormai nella Repubblica irlandese Sinn Fein è visto soprattutto come unica credibile alternativa di sinistra alle politiche di austerity degli ultimi 10 anni. Un desiderio di cambiamento profondo, trainato dagli elettori fra i 18 e i 24 anni e motivato da due fattori principali: lo stato disastroso della sanità pubblica e del mercato immobiliare, inaccessibile ad almeno due generazioni, mentre Brexit preoccupa solo l’1% dei votanti. Il Sinn Fein guadagna almeno il 10%, diventa il primo partito con quasi il 25%, sfonda anche nelle roccaforti avversarie: trionfa perfino nella circoscrizione elettorale del Primo ministro Leo Varadkar, che rischia il seggio.

Ora punta a governare. La leader Mary Lou McDonald ieri ha confermato i colloqui in corso con forze politiche minori, come i Verdi, in ascesa, e i Socialdemocratici, dopo il netto rifiuto di Fine Gael e la cautela di Fianna Fail nel considerare una coalizione con il Sinn Fein. “Ora abbiamo un mandato molto consistente” ha dichiarato una trionfante McDonald: alle politiche precedenti, nel 2016, Sinn Fein aveva ottenuto 23 dei 159 seggi totali: ora, a sorpresa si avvia a conquistarne fra i 36 e i 40. Sarebbero di più se avesse schierato un numero più alto di candidati, visto che molti hanno vinto con ampio vantaggio sugli avversari. Ma nel partito nessuno si aspettava tanto consenso dopo le recenti, pesanti sconfitte sia alle amministrative che alle Europee,

Gli scenari sono aperti: tenere fuori dal governo una forza politica che ha ottenuto il 25% sembra politicamente insostenibile. Includerlo, una rivoluzione copernicana in un paese plasmato da quello che sembrava un inamovibile bipartitismo di centro.