Bendato e picchiato: le ore di tortura di Zaki in Egitto

Interrogato con una benda sugli occhi, minacciato e percosso nel tentativo di estorcere una confessione. Sono gli ultimi, drammatici particolari che emergono sulla vicenda di Patrick George Zaki . Non solo scariche elettriche, dunque. Ore terribili quelle vissute venerdì scorso dallo studente e attivista egiziano bloccato tre giorni fa all’aeroporto del Cairo al rientro in patria per qualche giorno di riposo da Bologna, dove stava seguendo un programma Erasmus.

Tutto questo Zaki lo ha raccontato davanti al Procuratore di Mansoura, città lungo il Delta del Nilo a nord della capitale, il quale, al termine della deposizione, ha confermato la detenzione del 27enne per quindici giorni. Sullo studente egiziano pendono addirittura cinque capi di imputazione, tra cui quello di aver diffuso false notizie e minacciato la sicurezza del Paese, aver usato i social network per istigare rivolte e soprattutto essere considerato un terrorista. Successivamente Zaki è stato rinchiuso in una cella della stazione della centrale di polizia di Mansoura e lì ieri mattina ha potuto, quanto meno, incrociare facce amiche, ossia quelle dei suoi familiari e dei due avvocati della sua organizzazione, Eipr, uno di base nella regione di Mansoura, l’altro arrivato al Cairo: “Zaki era molto provato. – raccontano i legali dello studente che ha vissuto i suoi ultimi sei mesi in Italia, partecipando al Master organizzato dall’Università di Bologna in collaborazione con altri atenei internazionali – La polizia ci ha dato pochi minuti per confrontarci con lui, 4-5 al massimo e li abbiamo sfruttati per parlare del caso giudiziario, di ciò che è successo e di cosa potrebbe accadere nei prossimi giorni.

La speranza per tutti noi è che il caso resti a Mansoura, per consentire alla famiglia di stargli vicino, inoltre qui potrebbe essere tutto più facile per lui, più rilassato, con un’atmosfera meno pesante rispetto al Cairo. Nel breve colloquio Zaki è stato pienamente collaborativo, ma è evidente il peso di quanto ha subìto. Teme possa accadere di nuovo, altre torture e violenze qualora finisca di nuovo sotto le mani della National Security”. Stiamo parlando dello stesso nucleo che quattro anni fa “si è occupato” di Giulio Regeni, rapito, il corpo fatto trovare ai bordi di un’autostrada il 3 febbraio 2016.

La famiglia di Patrick George è molto preoccupata: “Sua madre sta male, è in cattive condizioni. – aggiungono i leader dell’Eipr, in costante contatto attraverso i vari canali di comunicazione sul caso del loro collega – Venerdì lo aspettava per incontrarlo dopo tanti mesi trascorsi in Italia, la notizia del suo arresto è stata dura da accettare. La gente sa come vanno le cose in Egitto, specie dopo l’ondata di arresti seguita alle manifestazioni del 20 settembre scorso. Speriamo si possa risolvere tutto in pochi giorni, ma non credo sarà così semplice”. Di sicuro stamattina Patrick George Zaki non sarà al suo posto in una delle aule della facoltà di Lingue e Letterature Moderne dell’ateneo bolognese. Oggi, infatti, riprendono i corsi del programma Erasmus ‘Gemma’, dopo alcune settimane di sosta seguite al termine della sessione di esami del primo semestre. Difficile addirittura ipotizzare, in questa fase confusa, un suo prossimo ritorno in Italia.

A proposito del nostro Paese, il Ministero degli Esteri, pur non trattandosi di un cittadino italiano, si sta occupando in maniera molto attenta del caso. Il periodo trascorso a Bologna non può passare in secondo piano. La Farnesina, al netto delle polemiche suscitate dal caso Regeni, farà sicuramente affidamento sulla sede diplomatica al Cairo e sull’ambasciatore, Giampaolo Cantini, assieme agli altri Paesi dell’Unione Europea. Il ministro Luigi Di Maio ha chiesto un monitoraggio del procedimento giudiziario da una parte della delegazione europea.

Renato Zero, molto più di uno show

“Voi di lassù. C’avete n’aria squisita”. Beh sì, lui è un Equilibrista totale! Renato parla e canta su un filo immaginario, vestito di bianco coi drappeggi svolazzanti, come un angelo, come il Matto della Strada di Fellini, su una corda tesa che non c’è. Renato canta, ma il suo è molto più d’un concerto. Attore, pantomimo, trasformista, ballerino, circense, poeta. E mi sembra che questa canzone, L’equilibrista, esprima il fondamento del suo essere artista, un camminatore dell’immaginario attraverso le generazioni. Mi guardo attorno e riconosco migliaia di famiglie sorcine, sorcio il padre, sorcia la madre, sorcioni i nonni, sorcini i figli e anche i nipotini. Nessuno è da solo, grazie a Renato si percepisce come una moltitudine, come una folla di zeri, tutti uniti al cospetto dello Zero assoluto. “… La sera m’addormento e penso di incontrarvi uno per uno per dirvi grazie Roma di avermi accettato, avermi dato il vostro spazio, la vostra complicità e il vostro sostegno. E ancora una volta sono tenuto a farvi una raccomandazione, non dimenticatemi eh? Vi amo”. E non ce la fa Renato a continuare per gli scrosci, le urla e le lacrime gridate. Con Manolita, sorcina irriducibile, il giorno dopo il concerto, andiamo in pellegrinaggio in una borgata a ridosso dell’Eur, dove Renato è cresciuto, si chiama la Montagnola, c’è una piazza coi giardinetti e il mercato, una chiesona colossale e palazzoni tutt’intorno fino alle campagne. Un luogo storico dicono, dove la Resistenza romana ha tenuto testa ai tedeschi in tempo di guerra. Eppure la gente che ci vive, che si muove, che compra le cose per il pranzo e per la cena, preferisce raccontare un’altra storia: quella di un ragazzino magrissimo, coi capelli neri, folti e selvaggi, vestito di sogni, irriso da tanti, deriso da alcuni, eppure orgoglio di tutti.

 

Coronavirus, il rischio pandemia fa sbadigliare Wall Street e le Borse

Il terrore sul morbo del nuovo decennio suscita paure ancestrali e in Italia rinverdisce (in salsa leghista) la caccia agli untori di manzoniana memoria. Ma esiste un luogo immune dal contagio del 2019-nCoV, come se agli individui che lo popolano fosse stato inoculato un misterioso vaccino. Si tratta dei mercati azionari, che nell’immaginario collettivo sono il regno delle reazioni irrazionali. Al contrario gli indici di borsa alle ferali notizie su megalopoli in quarantena, diffusione esponenziale, cordoni sanitari, fabbriche deserte, scuole sigillate, catene logistiche a pezzi, voli sospesi, medici bardati in tute da film catastrofista, hanno ripiegato neghittosamente per qualche seduta, poi hanno ripreso quota verso i massimi. Il fenomeno non è circoscritto alla borsa americana, meno esposta alla sindrome cinese, ma coinvolge anche gli indici europei e anche i mercati mergenti rimbalzano (anche se in misura minore).

Persino il Vix, il famigerato termometro della paura derivato dalle opzioni sullo S&P500, dopo un’impennata ha ripreso il tran tran su livelli poco superiori alla media dei mesi passati. Allargando la prospettiva il quadro non cambia: il Deri un indicatore di rischio, calcolato dalla banca svizzera Ubs e basato su un’ampia serie di variabili (Vix, Vdax, fluttuazioni sui cambi, swap spread, spread sulle obbligazioni dei paesi emergenti, eccetera) segnala un sentimento ancora intriso di ottimismo. Neanche l’atteso crollo della crescita cinese nel primo trimestre 2020 da poco meno del 6% annuo ad un 2% (non si registrava dai tempi di Mao) non preoccupa oltremodo i grandi investitori, nonostante gli inevitabili effetti dirompenti sull’economia globale.

Le misure di emergenza varate a Pechino, il solito fiume di liquidità immesso dalla banca centrale e il taglio unilaterale dei dazi sui prodotti americani, per quanto abbiano dato un sostegno, non avrebbero arrestato un’ondata di panico. Insomma, per la finanza sembra che di fronte al rischio di pandemia contino molto di più i risultati stellari di Apple o Tesla, la fine della farsa chiamata impeachment e i risultati emersi dalla bolgia dell’Iowa. Il gotha di Wall Street quando apparve il ciclone The Donald gli fu ostile; oggi tifa per il Presidente che ha prolungato (contro tutte le aspettative) il rally di altri tre anni. Quindi nelle penthouse si è brindato alla buona prova di Sanders e al tonfo di Biden. Se il senatore socialista vincesse la nomination a novembre finirebbe umiliato come il “progressista” McGovern nel 1972. Mentre Biden, considerato un rivale serio di Donald, ha l’aria di un pugile suonato.

La teoria del caos postula che il battito d’ali di una farfalla a Pechino possa provocare una bufera di neve a New York. Una malattia incurabile a Wuhan provoca solo lo sbadiglio di un trader a Wall Street.

Cogestione a scuola: altro che baldoria, si parla di antimafia

Ma come sarà Emma? Come sarà questa ragazza di 15 anni che mi ha rintracciato all’estero per invitarmi a parlare di mafia al Nord nel suo liceo, il celebre Berchet nel cuore di Milano? Non è normale curiosità. Emma è figlia di un medico che conobbi bambino, quando il padre, mio maestro e poi collega, me lo presentò nel suo studio un pomeriggio d’inverno. “Lui è Filippo”, mi aveva detto di quel bimbetto di 4 anni. Converrete che essere chiamato decenni dopo proprio dalla figlia del “bimbetto” già studentessa liceale rimescoli gli orizzonti della vita. Le generazioni, i temi che cambiano (quel pomeriggio parlammo con suo nonno dei consigli di fabbrica), e l’idea fissa della staffetta che mi ronza dentro. E in più quell’amarezza che sempre gli ottimisti veri si portano dentro, la preoccupazione di non prendere in giro gli adolescenti rassicurandoli che la mafia possa essere battuta.

E questa cogestione, poi. Chissà se sarà la solita baldoria travestita da cultura critica. E tu lì in mezzo a fare il domatore invece che lavorare. E invece… e invece voglio raccontare ai lettori del Fatto quel che ho trovato. Un gruppo di ragazzi che discutono nell’atrio, una ragazza che si distacca e viene a ricevermi. Potrebbe avere vent’anni, dunque non può essere Emma. Mi chiede se voglio un caffè, sono un pochino in anticipo. Resto sbalordito, nessun ragazzo mi ha mai offerto un caffè all’arrivo, vengo perfino sfiorato dall’idea che possa essere una giovanissima supplente. Mi accompagna in palestra, dice di essere dell’ultimo anno, si chiama Chiara e vuole studiare pedagogia o servizi sociali. Con lei è Lorenzo, un anno in meno, occhiali e serietà da intellettuale in erba. Gentilissimi, sono lì per garantire che tutto funzioni bene, hanno addosso una targhetta con il loro nome. Sembrano impersonare un cortese ma inflessibile servizio d’ordine. “Io sono la responsabile del coordinamento, devo garantire l’ordine, e questo ogni tanto non è simpatico”, spiega lei. I ragazzi sciamano dentro, sono soprattutto giovanissimi, banchi e sedie sono stati disposti in modo che il gruppone, circa un centinaio, non si sfilacci, che nessuno si apparti a smanettare o tubare in fondo.

Arriva anche Emma. Non è una nuova Greta (per fortuna), come forse speravo di potervi comunicare. È timidissima, vestita in grigio, 2 treccine sottili, occhi grandi e una strepitosa impronta di famiglia. Siede sul pavimento tra i compagni. A vedere quella disciplina autogovernata non ci si crede. Nessuno viene accanto a me a dirigere. Nessuno, meno che mai Emma Martinelli Boneschi, se la tira da leader. Mi spiegano che quel mattino si terranno 33 gruppi di lavoro. 11 ogni ora e mezzo, in sequenza. Significa che ogni studente durante la mattinata ne fa 3 di fila sulle questioni più varie. Ed è così da 3 giorni. Ma come avete fatto a mettere insieme tutti questi temi? “Ognuno ha le sue passioni”, risponde Lorenzo, “e le ha tirate fuori, pensi che abbiamo dovuto escludere molte proposte”.

L’incontro si svolge in silenzio. Mi guardo intorno con occhio esperto. Vedo lo schermo di un solo telefonino. L’attenzione mette addosso una responsabilità inebriante. Tutti sembrano guardare e pensare. Sullo sfondo e ai lati anche una decina di professoresse e professori attentissimi. Una studentessa chiede delle complicità e delle omissioni dello Stato. “Perché senza sarebbe impossibile”, chiosa. Un suo compagno, Mario si chiama, non ha dubbi su dove si tengano davvero le riunioni d’affari dei mafiosi. Non ci crede, e giustamente, alla storiella dei salotti felpati nei grattacieli cittadini. Ci va sul sicuro: “Si incontrano nei bar”. Bravo, gli dico, e lui sorride. Una prof chiede dell’Ortomercato, dove un suo conoscente ebbe paura intravedendo armi sotto le zucchine. Un’altra chiede perché questa montagna di luoghi comuni (il doppio petto, l’inglese…) sui mafiosi di oggi. Suona la campanella, nessuno si alza, poi si finisce.

E ora però immaginate, nell’Italia d’oggi, un liceo in cui un migliaio di ragazzi si autoregola, organizzando in quattro giorni più di 120 lezioni alternative, garantendo in proprio disciplina e silenzio. Dove i prof non approfittano della cogestione per riunirsi al bar o farsi i fatti loro. Voi direte che è ovvio in un liceo classico del centro. Io che questa storia la conosco tutta, vi dico di no, che i licei più famosi a Milano sono stati spesso i meno impegnati su questi temi. C’è qualcosa di nuovo. Saluto Emma, è contenta. E io per lei. Poi esco. E mi sento più leggero.

Sanremo, l’effetto di Rula “Grazie, ricordo bene come papà picchiava mia madre”

Gentile Selvaggia, ho appena saputo che il monologo della Signora Jebreal è stato scritto anche da lei. Le vorrei dire grazie dal profondo di me stessa. Ho amato molto mio padre, fino ai miei 13 anni, quando poi l’ingresso di casa iniziò ad assomigliare ad una porta girevole per la frequenza con cui andava via e poi ritornava. Fino a che, qualche anno dopo, un tumore decise che fosse venuto il momento di fermarsi. Quando lui litigava con mia madre, spesso, mi illudevo che fosse come l’Incredibile Hulk: un uomo vittima di un personaggio letteralmente più grande di lui, un personaggio che non era in grado di controllare. Mi ricordo tutto, le urla, lo schiocco degli schiaffi sul volto di mia madre, il tonfo sordo dei calci, i pianti, i silenzi. E io non capivo, come il papà che non mi aveva mai toccato in tutta la sua vita, potesse diventare quell’orrore che vedevo. Che mia madre sia stata da sempre in grado di far spazientire anche il Padreterno non è mai stata una scusante per me. Avrei preferito vederlo sbattere la porta per ritornare qualche ora dopo con la collera domata piuttosto che questo. O forse non vederlo mai più, saperlo felice altrove. In vita mia ho avuto uomini al limite del patologico (ah, maledetto complesso di Elettra!), ma non ho mai permesso a nessuno di loro di soltanto pensare di potermi picchiare, almeno questo l’ho imparato. Ad ogni modo, grazie Selvaggia. Se le mie braccia fossero infinite arriverebbero fino a Lei per stringerla con l’affetto e la stima che si riconosce a quelle persone ancora Illuminate, in questo Tempo cortocircuitato.

V.

Cara V. , nel ringraziarti, ho solo una piccola ma importante considerazione da fare riguardo il tuo scritto: il fatto che tu non abbia mai scelto persone violente fisicamente ma solo “al limite del patologico”, non è una rassicurazione sufficiente. Stai lontana anche da chi esercita violenze più subdole, quelle psicologiche, perché non è detto che lascino segni meno duraturi degli schiaffi.

 

All’Ariston, il passo indietro delle donne

Cara Selvaggia, volevo riflettere con te sulle donne a Sanremo. Quello che è successo sul palco, a mio avviso, è stato ben peggiore delle gaffe del povero Amadeus, colpevole di essersi presentato in conferenza stampa senza le risposte da casa. Diletta Leotta è stata chiamata per fare tristi gag sul calcio e per recitare un monologo sulla bellezza che ovviamente, se si parla di donne, che fai, non la tiri fuori? Rula sì, belle e toccanti parole. Ma perché una donna, sempre e solo una donna, deve parlare di violenza sulle donne? Perché non un uomo? Perché non Amadeus o Fiorello, magari, che contano molto in tv e forse potrebbero parlare agli uomini in modo perfino più convincente? La fidanzata di Valentino Rossi, Francesca Sofia Novello, mi è sembrata una debuttante allo sbaraglio, per niente disinvolta e senza nulla da dire, chiamata sul palco senza una logica. Offerta in pasto alle critiche di chi “è solo bella”: proprio ciò che si sarebbe dovuto evitare. Infatti è stata massacrata, poverina. La fidanzata di Ronaldo, che dire: messa lì solo per avere il compagno calciatore seduto in prima fila, a prezzo scontato col due per uno (150 mila euro di cachet ben spesi). Ma cosa ha aggiunto al Festival Georgina? Un sorriso e un bel vestito. Poco, per le donne. Le due giornaliste, carine per carità, ma con quale ruolo? I loro discorsetti ben recitati sono andati in onda all’ora dei vampiri, quando a malapena si rimane svegli guardando Elodie in minigonna o Achille Lauro vestito da Dracula; figuriamoci se qualcuno le ha ascoltate disquisire di pannolini e querele temerarie. Potevano farle parlare all’inizio. O anche per niente, perché così è passato il messaggio: voi donne venite dopo la musica, le reunion delle vecchie glorie, dopo Riki e dopo il televoto. Cosa è rimasto? Ah certo, la conduttrice albanese che non ricordo neppure come si chiama, quella che parla a mitraglietta e solo di miracolo, meraviglia e “mai avrei pensato di arrivare a Sanremo”. Come se una donna che arriva lì per annunciare una canzone dovesse baciare la terra su cui cammina Amadeus. Miracolo! Anziché sfornare baguette o passare lo straccio sono a Sanremo. Mica me lo sono meritato, mica è il risultato di professionalità e fatica; no, è fortuna. Che culo. Ma tornerei sulle donne. Sabrina Salerno (forse la più brillante tra le donne dell’Ariston) costretta a commentare una sua foto di 25 anni fa, poco vestita. Poche anche le cantanti e se va avanti così, a Sanremo ci toccherà invocare anziché le quote, le “note rosa”, giusto per essere certi di vedere anche qualche donna con un microfono e un’orchestra alle spalle. Morale: le donne alla fine un passo indietro per me l’hanno fatto.

Ludovica

Cara Ludovica, hai molte ragioni, ma ti invito a consolarti con me, pensando a questo: immagina se a litigare come Ferro e Fiorello, come Bugo e Morgan, fossero state quattro donne. “Ecco, le solite donne che non fanno squadra”, “Le solite donne invidiose”, “Le donne sono le peggiori nemiche delle donne”, avrebbero detto. E invece, noi forse avremo fatto un passo indietro, ma gli uomini ne hanno fatto uno avanti, inciampando in liti da parrucchiere. Anzi, da parrucchieri.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Il Papa visiterà la Terra dei Fuochi: avviso ai negazionisti e alla politica

L’annuncio ha riempito di gioia, tra gli altri, il parroco di Caivano don Maurizio Patriciello, che però non dimentica le asperità della lotta: “La sua presenza è dire che i negazionisti hanno sbagliato”. La notizia è questa: papa Francesco andrà nella Terra dei Fuochi il 24 maggio. La città scelta è Acerra, in provincia di Napoli, dove oltre a fare i conti con roghi, rifiuti tossici e bonifiche mancate, ci sono le polveri sottili del termovalorizzatore.

La visita di Bergoglio cadrà nel quinto anniversario della Laudato si’, sulla cura della casa comune, che è stata la seconda enciclica del suo pontificato, nel 2015. Ed è proprio dalla Terra dei Fuochi, come il papa ha rivelato in un libro intervista, che venne l’ispirazione per quel testo importante sull’ecologia integrale, dalla difesa dell’ambiente alla giustizia per i poveri. Era il 2014 e il pontefice sorvolava la zona di Caserta in elicottero: rimase colpito dalle immense distese nere di ecoballe.

L’arrivo di Bergoglio in Campania avrà senza dubbio un risvolto politico e questo avverrà a una settimana dalle elezioni che si terranno in quella regione per il governatore. La data infatti è quasi certamente quella del 31 maggio e chissà se fra gli aspiranti presidenti ci sarà il generale Sergio Costa, oggi ministro dell’Ambiente e che da carabiniere è stato uno dei simboli della difficile lotta all’inquinamento nella Terra dei Fuochi. Costa, sulla carta, potrebbe essere il candidato della coalizione giallorossa tra democratici e grillini. In ogni caso, in un’intervista al Mattino di Napoli, il vescovo di Acerra monsignore Antonio Di Donna (che sarebbe peraltro tra i candidati alla successione del cardinale Crescenzio Sepe ad arcivescovo di Napoli) ha ricordato che l’impegno della politica sinora è stato a metà. Nel bilancio positivo c’è la mappa dei veleni sotterrati, in quello negativo ci sono invece le mancate bonifiche e l’aumento dei roghi.

La visita del papa sarà preceduta il 18 aprile da un convegno ad Acerra con i vescovi delle 70 diocesi italiane (27 al nord, 20 al centro, 23 al sud) interessate da 57 siti pericolosi. Sono le Terre dei Fuochi del Belpaese. Un’emergenza spesso dimenticata.

Mammapack, il sito Internet per i figli del sud fuggiti all’estero

Ai lettori di questa rubrica e al caro Coen. Tempo fa raccontai di un signore napoletano che si era inventato un modo sgradevole per fare soldi, portare i turisti in giro per Napoli in una sorta di vomitevole “mafia tour”. L’iniziativa, ovviamente, è stata aspramente criticata da chi ama la città e da chi non sopporta più il cinismo di chi vuole speculare sui suoi drammi. Oggi, però, voglio raccontarvi una iniziativa di due giovani napoletani che va in direzione ostinata e contraria. Il “mammapack”. L’idea è semplice e di sicuro successo perché punta sulle mamme napoletane (intese come mamme dell’intero Sud) che hanno i figli che vivono fuori, per studio o per lavoro. Quelli, per intenderci, che quando tornano a casa per le feste riempiono le valige di alimenti e cibo, per ritrovare anche in luoghi lontani odori, sapori, sensazioni, della loro terra. Quando le derrate alimentari finiscono, e il giovane emigrato avvisa la famiglia, nelle case del Sud scatta il panico. Mamma, padre, zii e nonni danno vita ad una meravigliosa macchina organizzativa: la famiglia tutta si mobilita per preparare e mandare al figlio lontano il “pacco”. C’è chi pensa agli acquisti, chi alla preparazione, chi alla spedizione. L’iniziativa dei due giovani napoletani si offre come il modo più veloce e meno stressante per rendere il tutto più veloce. Bastano pochi clic sul sito (mammapack.com) e il gioco è fatto. L’idea è geniale ed è anche il triste segno dei tempi. Il Sud, soprattutto quello delle piccole città e dei paesi, si spopola. La gioventù è costretta ad andar via per trovare una strada. E “noi – mi ha detto giorni fa lo studioso Vito Teti – soffriamo per tutta la vita di una doppia mancanza, da bambini quella del padre emigrato all’estero per trovare fortuna, da adulti e genitori quella dei figli che vanno via per lo stesso motivo”. Parole che fanno riflettere, dolori che il pacco di mammà potrà solo parzialmente lenire. Parole che danno il senso profondo di un fallimento. Il Sud si sente abbandonato e parte.

L’eccidio fascista nell’oblio: 2 mila cristiani uccisi in Etiopia nel 1937

Caro Enrico, eccomi alla ricerca del tempo… percepito. Cocquio Trevisago è un comune della provincia di Varese, poco meno di 5mila abitanti, c’è il mulino–museo dedicato a Innocente Salvini, pittore paesaggista del Varesotto, poco lontano c’è Gemonio, dove vive Umberto Bossi. Ma da 80 anni c’è anche una strada intitolata al generale Pietro Maletti “medaglia d’oro”. Cadde infatti in battaglia a Sidi el Barrani il 9 dicembre del 1940, contro gli inglesi. Però, tre anni prima, si macchiò dell’eccidio di Debre Libanos, il più sacro dei luoghi di culto della chiesa cristiana d’Etiopia. Di questo non c’è traccia sulle targhe. È memoria nascosta nei nostri armadi della vergogna. In otto giorni, dal 21 al 29 maggio 1937, gli “italiani brava gente” ai comandi di Maletti sterminarono più di 2mila monaci, diaconi, studenti e pellegrini copti. Il massacro fu il culmine delle spietate rappresaglie decise da Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, rimasto ferito nell’attentato di Addis Adeba (19 febbraio 1937) che provocò 7 morti. Il 20 maggio telegrafò a Maletti: “Passi per le armi tutti i monaci indistintamente compreso il vice priore”. Lo zelante generale eseguì. Poi inviò a Graziani il dispaccio: “Liquidazione completa”. Divenne un eroe fascista. Dopo la morte, gli intitolarono tre strade. A Castiglione delle Stiviere, dove era nato, a Mantova e a Cocquio, giacché scrisse il podestà “da molti anni soggiornava con la famiglia in comune, ove godeva il rispetto e la generale estimazione”. Mantova e Castiglione hanno cambiato i nomi delle strade. Invece, Cocquio no. Chissà perché. O forse possiamo immaginarci perché. Fatto sta che solo ora il sindaco Daniele Centrella si è deciso al gran passo. Proprio oggi proporrà al consiglio comunale di dedicare la strada alle vittime di Debre Libanos. Per quasi un secolo la via Maletti, il massacratore di duemila cristiani, è stata la strada della chiesa. Tardivi conti col passato? Forse. Però, la verità storica oltre che scomoda, è necessaria. Un vaccino contro il virus del nazionalismo e del sovranismo.

Da Simonino ad Almirante. La culla dell’antisemitismo

“Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri … Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. È all’autore di queste righe – Giorgio Almirante, segretario di redazione della Difesa della razza, su cui furono pubblicate nel maggio 1942 – che il Comune di Verona ha appena deciso di intitolare una via. Sempre nel 1942 quella stessa esecrabile rivista aveva riesumato e propalato una antica e terribile storia di violento antisemitismo: la redazione guidata da Almirante (evidentemente ossessionata dal tema del sangue, in tutti i suoi risvolti) aveva addirittura deciso di mettere in copertina il dettaglio di una tavola di uno dei più famosi testi a stampa del Quattrocento, le Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel (1493). Vi si vedeva un bambino che veniva orribilmente torturato e mutilato da sette ebrei, che ne raccoglievano il sangue: era il piccolo Simonino da Trento, da secoli venerato come santo martirizzato dai perfidi giudei. La verità, però, era un’altra: e una magnifica mostra che dovrebbe essere visitata da tutte le scuole della Repubblica (L’invenzione del colpevole. Il ‘caso’ di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia, visibile fino al 13 aprile a Trento, al Museo Diocesano Tridentino, guidato con sapienza da Domenica Primerano) permette agli italiani di oggi di conoscerla fino in fondo.

Il 26 marzo del 1475, giorno della Pasqua, fu trovato in un canale che lambiva la cantina di Samuele l’ebreo il cadavere di un bambino cristiano, Simone, sparito da casa la sera del giovedì santo. Poteva essersi trattato di una morte accidentale, ma i segni sul corpo potevano anche far pensare ad un omicidio a sfondo sessuale, e al tentativo dell’assassino di addossare la colpa agli ebrei. Qualunque cosa fosse successo al povero Simone (trasformato, suo malgrado, in una macchina di morte e di soldi), è esattamente così che finì. Si mise in moto una infernale macchina giudiziaria: il podestà ordinò l’arresto di Samuele, di sua moglie Brunetta e degli altri ebrei presenti in sinagoga per i riti della Pasqua ebraica (quell’anno coincideva con quella cattolica). Dopo aver raccolto voci popolari e la deposizione di un ebreo convertito, si formulò il capo di accusa che da almeno tre secoli era un triste classico della persecuzione degli ebrei: Simonino sarebbe stato dissanguato per mescolare il suo sangue all’impasto del pane azzimo da consumare per la Pasqua, in un rovesciamento sacrilego e cannibalesco dell’eucarestia cristiana.

A questo punto ci fu l’intervento decisivo di Johannes Hinderbach, il principe vescovo di Trento, che intravide tutti gli ingredienti di una straordinaria storia di successo mediatico: questa parola non è abusiva, giacché il nuovissimo strumento della stampa a caratteri mobili fu subito impiegato intensivamente, facendo di Simonino il primo santo “tipografico”. Da una parte Hinderbach manipolava l’opinione pubblica con una martellante campagna stampa, dall’altra usava la leva del governo temporale usando, in modo straordinariamente crudele anche per gli efferati standard del tempo, lo strumento della tortura e delle ordalie. Sottoposti a sofferenze indicibili, gli ebrei finirono per confessare ciò che non avevano fatto (terribile la supplica di uno di loro ai torturatori: Quid debeo dicere?, “che devo dire perché smettiate?”), morendo in parte in mano agli aguzzini e in parte sul rogo, o decapitati (alcuni si convertirono in extremis pur di non essere bruciati vivi, come sarebbe loro toccato in quanto giudei).

Nulla e nessuno poté opporsi al potere del principe-vescovo e alla sua macchina da assassinio giudiziario: nemmeno il messo papale, il dotto vescovo domenicano Battista de’ Giudici, che fiutò immediatamente il falso, ma fu messo in minoranza anche nella curia romana, dove Hinderbach contava su molti alleati (e sulla superstiziosa devozione diffusa anche tra i prelati umanisti e nell’animo dello stesso papa Sisto IV, che pare si votasse al Simonino per un dolore alla gamba). Il culto così decollò in tutta Europa, e nel 1588 arrivò infine la beatificazione ufficiale: che produsse una lunghissima tradizione iconografica, un maniacale culto delle reliquie e una tradizione di processioni e riti pubblici che a Trento sono ininterrottamente durati fino al 28 ottobre 1965.

In quella data, una Chiesa ormai impegnata dal Concilio Vaticano II al dialogo con quelli che da “perfidi giudei” sarebbero divenuti (nelle successive parole di Giovanni Paolo II in visita alla Sinagoga di Roma) “fratelli maggiori”, abolì il culto di Simonino da Trento. Il merito era dell’onestà intellettuale di monsignor Iginio Rogger, prete di Trento e storico di grande qualità: accertata la verità storica, egli smontò, letteralmente, il culto del povero bambino, seppellendone finalmente la mummia fino ad allora conservata in una teca. Nelle parole limpide e coraggiose dell’arcivescovo di Trento che aprono il catalogo della mostra si legge che “la verità come approdo condiviso sembra essere oggi più che mai una meta lontana, anche dentro la Chiesa”: proprio per questo è importante svelare agli italiani di oggi la cruenta e antica storia dell’antisemitismo. Perché la mano che nel 2020 scrive “Juden Hier” su una porta di Mondovì è mossa ancora dal principe vescovo Hibderbach e da Almirante: ricordarlo è l’unico modo per combatterla.

Dati digitali, guerra in mare tra sommergibili e spioni

La domanda globale di trasmissione dei dati digitali sta esplodendo, con ulteriori previsioni di enorme crescita nei prossimi anni grazie all’avvento degli standard di telecomunicazione 5G. A differenza di quanto pensano molti, però, la stragrande parte dei dati non viaggia via satellite ma su cavo: il 97% delle trasmissioni dati internazionali segue una fittissima rete di fibre ottiche posate sul fondo dei sette mari. Secondo le ultime statistiche, sono 378 cavi che raggiungono ormai una lunghezza complessiva di oltre 1,4 milioni di chilometri, 35 volte il giro del mondo. La storia di questa rete è iniziata 170 anni fa quando il primo cavo sottomarino per le comunicazioni, all’epoca telegrafiche, fu posato nel Canale della Manica. Nel 1866 il primo cavo sottomarino transatlantico collegò l’isola irlandese di Valentia con Heart’s Content, nella provincia canadese di Terranova. Questa rete strategica di infrastrutture critiche è sempre più sotto la lente dello spionaggio internazionale.

Dal 1990 al 2019 nella rete globale di cavi sottomarini per telecomunicazioni sono stati investiti 50 miliardi di dollari. Dal 2015 il settore ha assorbito quasi 8,5 miliardi di dollari, pari a 1,7 miliardi e altri 56.400 chilometri di rete l’anno. Il mercato mondiale da cinque anni è dominato dal quadrante Asia-Pacifico, al quale sono andati il 23% degli investimenti globali, seguito con una quota del 17% ciascuno dalle aree Oceano Indiano – Asia orientale ed Europa Medio Oriente Africa, poi con il 16% dai cavi tra le due sponde dell’Oceano Pacifico. Alle Americhe è andato “solo” il 14% degli investimenti mondiali, il 12% alle reti transatlantiche e l’1% comincia a essere investito nei cavi che passano per le aree polari. La capacità media del nuovo sistema negli ultimi cinque anni è aumentata del 37%. Da una media di poco più di 31 Terabit al secondo (Tbps) nel 2014, i nuovi sistemi ora raggiungono una media di 42,5 Tbps. Si stima che la capacità globale aumenterà del 79% entro la fine del 2022 e che nei prossimi due anni i sistemi supereranno i 100 Terabit al secondo.

Secondo il rapporto annuale del Submarine Telecoms Forum, però, stanno emergendo due fenomeni nuovi che tengono banco tra gli esperti del settore e nelle relazioni internazionali. Il primo riguarda l’ingresso diretto dei grandi operatori digitali Facebook, Google, Microsoft e Amazon. Sino a qualche anno fa, i cosiddetti over the top, cioè i colossi dell’economia digitale, pagavano pesanti canoni ai proprietari dei cavi (sia imprese private che consorzi, spesso finanziati) per acquistare capacità di banda. Oltre il 90% dell’investimento mondiale nelle reti di cavi sottomarini realizzato da fine anni ‘80 a oggi è stato finanziato da consorzi privati, mentre da singole società e da istituti finanziari multilaterali di sviluppo, come la Banca mondiale, è arrivato il restante 10% degli investimenti totali. Da qualche anno invece i giganti della data economy investono direttamente per posare cavi propri: nel biennio 2016-2018 gli over the top hanno finanziato in proprio il 31% dei nuovi collegamenti.

Ma nel settore emerge con forza sempre maggiore il tema strategico della sicurezza. Ogni anno nel mondo si contano in media più di 100 rotture di cavi sottomarini, la maggior parte delle quali causate involontariamente da attività umane come la posa di ancore o la pesca. Ma ci sono anche casi di rotture dolose. Naturalmente, proteggere i cavi diventa ancora più importante quando la resilienza e la ridondanza del sistema sono basse e i Paesi o le isole sono collegati solo attraverso uno o due cavi. Secondo un recente studio del Ccdcoe, il centro d’eccellenza cooperativo per la difesa digitale della Nato, però, il problema è diventato quello della sicurezza fisica e digitale delle reti sottomarine. In caso di conflitto eventuali rotture intenzionali dei cavi come forma d’attacco potrebbero bloccare l’economia mondiale.

Ma c’è anche lo spionaggio. Secondo la Nato esistono sottomarini appositamente equipaggiati e anche sommergibili che operano da navi madre come la russa Yantar, un battello per scopi speciali costruito come nave oceanografica ma in realtà capace di gestire la raccolta di informazioni. Sono sistemi di intelligence in grado di accedere ai dati che transitano sui cavi in fibra ottica senza danneggiarli, capaci di ascoltare, confondere ed eventualmente anche alterare le comunicazioni. Come segnalato dal New York Times nel 2015, la Yantar è stata avvistata al largo della costa Usa e poi davanti a Guantanamo, Cuba. Negli anni seguenti la nave russa ha navigato vicino alla Groenlandia, nel Mediterraneo orientale lungo un cavo che collega Israele e Cipro, al largo della costa siriana e infine, a novembre scorso, nel mare caraibico di Trinidad e Tobago.

D’altronde gli Usa la sanno lunga sullo spionaggio sottomarino. Nell’ottobre 1971 il sommergibile americano Halibut fu impegnato nella missione supersegreta Ivy Bells nel mare di Ochotsk a nord del Giappone: trovò un cavo usato dalle forze armate sovietiche e ne captò le trasmissioni. Nel 2005 la Marina degli Stati Uniti ha varato il sottomarino Jimmy Carter capace di spiare le comunicazioni sottomarine via cavo. Secondo Edward Snowden, il whistleblower ex dipendente della National Security Agency americana, i servizi segreti britannici e Usa intercettano i cavi in fibra ottica.

Ma il nuovo fronte caldo è tra Usa e Cina. Il Team Telecom, un’unità di sicurezza interforze Usa vigila sui cavi sottomarini con gli Stati Uniti, che vengono autorizzati se le compagnie che li gestiscono firmano accordi di sicurezza della rete che prevedono ispezioni. Ad esempio nel 2017 il Team Telecom ha dato il via libera al cavo New Cross Pacific (Ncp) che collega direttamente Cina e Stati Uniti, nonostante sia in parte di proprietà di China Mobile. Ma nei giorni scorsi Google e Facebook hanno abbandonato il progetto del cavo sottomarino lungo 13mila chilometri Plcn, annunciato nel 2017 per collegare direttamente Hong Kong agli Usa, che doveva entrare in funzione nell’estate del 2018 con 120 Terabit al secondo. Lo scontro Usa-Cina ha fermato tutto.