Marta, guardiana della Laguna: “Via le grandi navi da Venezia”

Ha lunghi capelli castani, il corpo esile e il sorriso radioso. Quando parla è difficile interromperla. Ha le idee chiare, la voce spedita e un entusiasmo travolgente. Si chiama Marta Canino, è una delle portavoci del Comitato NoGrandiNavi. È nata nel 1985 a Venezia. Sta per ultimare la seconda laurea all’Università Ca’ Foscari in economia e gestione delle istituzioni culturali, dopo essersi specializzata in lingue e letterature occidentali. Paradossalmente in una città come la Serenissima, che accoglie migliaia di turisti al giorno tanto da allarmare anche l’Onu, il suo potrebbe essere tra i profili più ricercati. Ma lei ha scelto di stare dall’altra parte della barricata. Si è schierata contro il turismo di massa che sta desertificando la città. L’attivismo è iniziato nel 2012. Oggi concilia la maternità con l’impegno civile. C’è chi l’ha definita la “sirenetta guardiana della laguna”. Eccellente nuotatrice, agile e dallo spirito indomito tanto da mettere a dura prova le mastodontiche navi da crociera che invadono la città. Conosce a menadito i canali. Guida la barca da quand’era ragazzina. Glielo ha insegnato suo zio, quando la domenica la portava in gita tra le isole col pranzo a sacco. Ricorda nostalgica le feste con gli amici sui barchini, i tuffi nel Canale della Guidecca e le regate. Già giovanissima, quando viveva nel quartiere di Santa Marta, si stizziva “per i fumi neri puzzolenti che le navi le sparavano ventiquattr’ore su ventiquattro direttamente in camera”.

L’indignazione è cresciuta otto anni fa, dopo un incontro con docenti universitari e attivisti a una settimana di distanza dall’incidente della Costa Concordia nei pressi dell’Isola del Giglio. “Mi colpirono gli interventi dei relatori – racconta – perché riuscivano a correlare in tempi non sospetti la questione climatica, il Mose e le grandi navi”. In quell’esatto momento l’amore per la sua città, dove l’acqua e la pietra s’incontrano, dove “la barca – spiega – non è solo folclore”, l’ha travolta. E nonostante le sia già costato tre processi, tutti conclusi con assoluzione, Marta non è disposta a indietreggiare. Il tribunale di Venezia l’ha assolta per la manifestazione del 16 settembre 2012 e per i tuffi del 21 settembre 2013 e del 12 giugno 2016. Le azioni dirette più dirompenti l’hanno sempre vista protagonista. Ricorda l’occupazione di Punta della Dogana come una sorta di battaglia navale: centinaia e centinaia di barchini e gondole affollarono lo specchio d’acqua e le forze dell’ordine provarono a disperdere i manifestanti utilizzando anche un elicottero. “Si sollevarono onde immense, fu molto pericoloso, ma io so navigare bene e ho una barca con un pericolosissimo motore da otto cavalli”, dice ironica. Anziché indietreggiare, si posizionò al centro del canale, rischiando così la condanna per navigazione pericolosa e interruzione di pubblico servizio. Accuse poi cadute nel nulla.

L’anno dopo, durante la manifestazione sulla riva delle Zattere lei era tra i 50 che, segretamente, aveva preparato nei giorni precedenti il tuffo nel Canale della Guidecca. Una volta indossati mute, pinne e salvagente nel gazebo allestito per l’iniziativa, in fila nuotatori scelti si tuffarono e, sebbene la corrente fosse forte, riuscirono a ritardare il passaggio di alcune navi da crociera arrecando un ingente danno economico. Piovvero multe da duemila euro ciascuna e denunce, poi tutte vanificatesi.

Nel 2016 Marta ci ha provato ancora. Questa volta con 35 attivisti. “Abbiamo costruito tre boe molto grandi, ci siamo imbarcati e all’improvviso ci siamo tuffati. Avevo il cuore che batteva fortissimo – ammette – ma sapevo che dovevo farlo”. La qualità della vita, l’ambiente e la sicurezza sono il centro delle sue battaglie. Per lei Venezia è quel lembo di Italia “esotica” da proteggere, costi quel che costi. La voce le trema quando tesse gli elogi della laguna: “Ci sono i ghebi – dice – e i fiori che diventano viola in agosto”. Durante i giorni dell’acqua alta, che ha tenuto col fiato sospeso il mondo intero, Marta era impegnata ad aiutare i concittadini e a ribadire la necessità di mettere in sicurezza la città. “Opere come il Mose sono obsolete, noi i cambiamenti climatici li stiamo già vivendo – denuncia – abbiamo bisogno di estromettere le grandi navi dalla laguna e di investire per allargare le zone cuscinetto e costruire opere utili a fronteggiare l’innalzamento del livello del mare”.

Quest’anno sono previsti 540 attracchi di navi da crociera. L’andirivieni si è interrotto solo per un mese. A gennaio hanno ripreso ad attraversare la città. D’estate, nei fine settimana, c’è un viavai senza sosta. Chiunque percorra i canali con imbarcazioni minori rischia di venire travolto. Risale a pochi mesi fa lo schianto tra la Msc Opera e il battello River Countess. Era il 2 giugno, un mese dopo una nave della Costa Crociere durante un forte temporale ha rischiato di sbattere contro la banchina. “È molto impegnativo l’attivismo – racconta Marta – ma noi non ci fermiamo. Se passa la soluzione di far attraccare le navi a Marghera, non avremo risolto nulla”. Sogna di far rivivere la Venezia dell’infanzia, quella in cui non c’erano solo hotel e ristoranti. Una Venezia a misura di cittadino e di bambino, in cui si rispetti la terra e l’acqua. “Assorbii senza rendermene conto – scrisse Hermann Hesse i primi anni del secolo scorso in Taccuino veneziano – la bellezza particolare della laguna, il profumo dell’acqua, il riflesso della luce sul mare e la strana policromia cangiante dello specchio lagunare”. È tutta racchiusa in queste parole la battaglia di Marta, la ragazza della laguna dallo spirito indomito.

“La stampa vive grazie al Web. Indipendenza e qualità per vendere”

“Poco importa se le nostre inchieste e reportage sono pubblicate su carta o su internet. Il nostro mestiere non è vendere carta. Ciò che conta è che si possa fare un giornalismo indipendente e di qualità e su questo sono molto ottimista: il giornalismo di qualità continuerà a vivere perché sta trovando il suo modello economico basato sull’abbonamento digitale. Detto questo, non credo che bisogna preoccuparsi troppo per il cartaceo: non scomparirà, offre un rituale quotidiano e un confort di lettura a cui il lettore è affezionato. L’abbonamento cartaceo resiste. Sono pessimista invece sulla vendita nelle edicole, che cala ogni anno. Un sistema che in Francia è in crisi perché la distribuzione presenta una gestione complicata e costi elevati. Ma sono anni che le vendite in edicola pesano poco sul nostro modello economico. La stampa si svilupperà grazie all’abbonamento, ci credo molto. Digitale, soprattutto, ma che può essere complementare al cartaceo”. Parla Jérôme Fenoglio, direttore di Le Monde dal 2015. Nell’ultimo anno la diffusione del quotidiano, fondato da Hubert Beuve-Méry 75 anni fa, è aumentata dell’11,50%, l’incremento più alto della stampa quotidiana, nazionale e regionale, in Francia. Con più di 320 mila copie vendute in media ogni giorno Le Monde si contende il posto di quotidiano nazionale più letto in Francia con il conservatore Le Figaro. Quasi tutti i lettori sono abbonati, più di 300 mila, secondo Fenoglio, di cui 100 mila anche al cartaceo. In un contesto di crisi per la stampa quotidiana e settimanale in Francia, che si traduce in frequenti annunci di tagli di posti di giornalisti, il gruppo Le Monde (che comprende un polo magazine con, tra l’altro, Le Courrier International e Telerama), è in crescita da alcuni anni. E in primavera tutte le testate si trasferiranno nella nuova sede dell’avenue Pierre Mendès-France, nel 13mo arrondissement, in un edificio iper moderno firmato da architetti norvegesi.

Quale è la ricetta vincente?

Primo: Le Monde ha colto molto presto la sfida del digitale, come il New York Times e il Washington Post. Era necessario proporre da subito un’offerta digitale forte offrendo un sito di qualità. Secondo: abbiamo capito subito che l’informazione non può essere solo gratuita. La grande rivoluzione è stata l’abbonamento digitale. Terzo: non abbiamo mai fatto concessioni sulla qualità dell’informazione. Molti giornali per far fronte alla crisi e abbattere i costi hanno tagliato sui giornalisti: un errore drammatico. Le Monde invece ha investito nei giornalisti e ha assunto. Oggi siamo tra 450 e 460 contando anche i free lance regolari, più del 2010. Questo ci ha permesso di costruire una relazione di forte fiducia con i lettori, che si aspettano di abbonarsi a un giornale affidabile, che fornisca delle chiavi di lettura dell’attualità, che riveli informazioni e scandali nascosti, e sappia riconoscere i suoi errori.

L’appartenere ad un grande gruppo vi ha aiutato?

Il modello economico della stampa è cambiato, per riuscire bisogna sapere operare la transizione. E la trasformazione di Le Monde è stata possibile anche perché il gruppo è solido. Il quotidiano ha potuto contare sul buon risultato di Telerama, un settimanale culturale e, sottolineo, cartaceo. Se i news magazine sono in crisi, Telerama è l’esempio di come una rivista specializzata con un’offerta di alta qualità, ha ancora una lunga vita davanti.

Oggi c’è una diffidenza verso la stampa legata alla diffusione delle fake news…

L’informazione di bassa qualità è un problema ed è nemica del giornalismo. Ma la crisi di fiducia investe i siti non affidabili e talvolta le tv all news per il loro modo di coprire l’attualità, non i grandi quotidiani internazionali.

Si è spesso additato internet come principale nemico. È stato quindi un errore?

Internet non è stato la causa della crisi della stampa, ne è la soluzione. La stampa ha sofferto perché era troppo dispendioso dipendere da una sola forma di distribuzione, la carta, appunto. Internet non solo non ha ucciso il giornalismo di qualità, ma ci ha fornito nuovi pubblici. Le Monde può contare oggi su lettori sempre più giovani e pronti ad abbonarsi come fanno con Netflix. Possiamo dire che, in un certo senso, internet ci aiuta a continuare a stampare un’edizione cartacea ogni 24 ore.

Giornali e libri, la carta è finita?

Nelle edicole e sul digitale, la crisi dei quotidiani sembra irreversibile. Se la diffusione massiccia delle news in tv ha ferito a morte i giornali, internet e i social rischiano di assestare il colpo di grazia. I dati sono implacabili. Il più grande quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, passa da 455mila copie vendute nel 2008 a poco più di 200mila nel 2018; nello stesso arco di tempo, Repubblica crolla sotto questa cifra partendo da 442mila copie; La Stampa precipita da 262mila a 113mila. I giornali locali hanno perso la metà dei lettori. I giornalisti tremano e si arroccano a difesa della professione e dei posti di lavoro. Gli editori no. Perdono copie ma distribuiscono dividendi milionari. È la denuncia di qualche giorno fa del Comitato di redazione del Corriere della Sera. L’editore Urbano Cairo chiede un piano di ristrutturazione lacrime e sangue: 50 esuberi, il 15% del corpo redazionale da “rottamare” grazie ai prepensionamenti finanziati con soldi pubblici, eppure, è la denuncia del sindacato, “un anno fa l’azienda ha distribuito dividendi per 30 milioni”. Che fare? Rassegnarsi, oppure tentare altre strade? Il dibattito è aperto. “Ma il tempo è poco”, avverte Raffaele Fiengo. Una vita al Corsera, per un ventennio impegnato nel sindacato, è uno dei più accreditati studiosi del mondo dei giornali, che ha raccontato nel libro Il cuore del potere (Chiarelettere). “Il mio è un’allerta tempestivo. La questione dello stato di salute dei giornali è strettamente intrecciata con lo stato della democrazia, in Italia e in tutto l’Occidente”.

Fiengo ci offre analisi e riflessioni maturate nel lavoro alla Fondazione Murialdi e nell’esperienza di 17 anni come docente di linguaggio giornalistico all’Università di Padova. “Il giornalismo non è in grado di fare la sua parte se non in misura limitata. Instagram in Italia ha 19 milioni di contatti mensili. I social, in combinazione con i big data, le profilazioni individuali, il mercato della diffusione di sentiment, e la non trasparenza degli algoritmi, ipotecano fortemente la formazione dell’opinione pubblica. Soprattutto nelle periferie sociali e culturali, dove queste forme di veicolazione di notizie e ‘sentimenti’ formano senza sforzo i consensi elettorali che stanno minando le democrazie”. Il giornalismo sta perdendo credibilità e funzione? “Sta perdendo addirittura la sua legittimazione di fronte ai meccanismi della pubblicità e del marketing, ci dicono gli studi della Columbia University. Il giornalismo non è neanche più primario dove dovrebbe esserlo, nelle imprese editoriali, nei grandi media, nei giornali, nei siti, nelle tv. I giornalisti del Corriere respingono tagli e prepensionamenti. Bene, è l’occasione giusta per discutere dell’impresa giornalistica”. Stiamo perdendo la guerra contro internet e i social? “Se non raccontiamo la realtà sì. Ti faccio un esempio, tempo fa una inchiesta di Save the Children denunciava l’esistenza in Italia di un milione e duecentomila bambini in stato di povertà assoluta.

Quanti direttori hanno mandato giornalisti a scandagliare il Paese dal Nord al Sud per approfondire e raccontare? Nessuno. Ma il tema non è la guerra a internet. Il giornalismo sopravvive se si allarga andando a responsabilizzare in rete chi fa informazione. Almeno trentamila persone. Propongo una sorta di giornalismo per adesione di queste figure per vincolarle ad alcune regole semplici”. Quali? “Tutelare i minori, impegnarsi a pubblicare notizie verificate almeno con una fonte; nessuna forma di ricompensa o vantaggio dai soggetti citati nelle news; niente denigrazione o toni che incitino a odio e violenza”. Le vendite dei giornali crollano e le edicole chiudono. “Almeno3-4mila ogni anno. Muoiono le edicole esclusive, quelle che vivono di riviste e quotidiani”. Le cifre che ci propone Giuseppe Marchica, segretario del Sinagi-Cgil (il sindacato dei giornalai) sono drammatiche. “Abbiamo da poco fatto la notte bianca delle edicole ed è andata bene, nelle prossime settimane ne faremo un’altra allargando il discorso a tutta la filiera dell’editoria. Gli editori devono mettere sul tavolo delle trattative soldi, se aumenteranno di dieci centesimi la quota per ogni pubblicazione che va in edicola, in due anni possiamo stabilizzare il settore. Naturalmente ci vuole altro, l’informatizzazione e una stretta collaborazione con gli enti pubblici per trasformare le edicole in punti di servizio al cittadino”.

Se il mondo dei giornali si dibatte in una crisi che non vede sbocchi, quello dei libri non è certo in buona salute. L’Italia è il paese europeo con il più basso indice di lettura. La metà di chi si dichiara lettore acquista tre libri l’anno, solo il 17% legge almeno un libro al mese e, botta finale, solo il 24% degli italiani adulti ha “adeguate competenze” nella analisi e comprensione di un testo. L’editoria indipendente soffre le concentrazioni, la chiusura delle piccole librerie, e il predominio di “Amazon”. “Detta così è un disastro. Invece…”. Sandro Ferri è editore e fondatore, insieme a Sandra Ozzola, di Edizione e/o. “Un aiuto ci viene dalla recente legge per la promozione della lettura che come editori indipendenti abbiamo sempre sostenuto. La questione del limite dello sconto ad un massimo del 5% mette un freno ad Amazon. Dove domina una politica centrata sugli sconti selvaggi, la qualità del libro sparisce, non si può più investire nei nuovi autori, nella ricerca di nuovi generi letterari, e tutto si appiattisce su pochissimi best sellers e libri alla moda. In Francia, dove da almeno trent’anni gli sconti sono ad un massimo del 5%, c’è un alto numero di librerie indipendenti e la produzione letteraria si è mantenuta a livelli qualitativi molto alti. In più l’istituzione della capitale del libro da assegnare annualmente ad una città, è importantissima come tutti i progetti di promozione della lettura. Aiuta la gente a capire che il libro non è un prodotto per pochi, quasi esclusivo. Pensi che nella maggioranza dei comuni sotto i 50mila abitanti non c’è neanche una libreria”. Pessimismo a parte, la sua casa editrice è la dimostrazione che si può nascere piccoli (voi siete nati nel 1979) e restare indipendenti puntando su un catalogo di qualità. Un esempio per tutti i libri di Elena Ferrante. “Elena arrivò da noi 26 anni fa, non aveva mai pubblicato e una comune amica ci fece avere il manoscritto de L’amore molesto. L’abbiamo letto e ci è piaciuto. Il successo planetario della Ferrante è stato costruito in 26 anni, per tappe. Adesso, grazie anche al successo della fiction tv di Saverio Costanzo, i libri della Ferrante vengono letti anche dalle ragazzine. Nelle condizioni attuali dell’editoria, con editori che non investono in autori sconosciuti e preferiscono pubblicare libri facili e alla moda, un fenomeno del genere sarebbe difficile da replicare. In queste condizioni il libro rischia davvero di morire”.

Da Benigni al “Watersgate”: alfabeto del Festival di Ama

 

A come Ama. È partito con tutto, tutte e tutti contro. Ha condotto benissimo, ha ottenuto risultati inimmaginabili facendo, lui, un passo indietro. Gli si può imputare solo di non aver saputo scegliere, ingrassando le scalette come l’anatra del foie gras. Record di share (finale da urlo con il 60,6% di share), anche grazie a maratone notturne fino alle 2 e mezza. Cinque puntate così lunghe sono un sequestro di persona. Manco con la melatonina da jet leg si poteva sopravvivere. Acclamato a gran voce per il Festival 2021, sarà difficile per lui tirarsi indietro.

B come Benigni. È stato scritto “bene, ma non Benigni”: lo sottoscriviamo. Monologo altissimo (e portarlo qui ha un valore doppio) con brani dal Cantico dei Cantici. Prologo troppo lungo (18 minuti 18) e inutilmente ripetitivo. Quanto mancano i graffi da bischero che sono stati la storica cifra del suo talento. Mancano da tempo, va detto.

C come Clerici. Incarna il nazional popolare, la televisione delle famiglie, dei buoni sentimenti, l’intrattenimento del tinello di casa. In questo festival se l’è cavata bene, senza strafare e con più grazia del solito. Però restano imperdonabili gli abiti da prom (il ballo scolastico di fine anno negli Usa). Va bene che se non lo fai a Sanremo dove lo fai, va bene esagerare. Ma c’è un limite al cattivo gusto.

D come Diletta. Doveva essere la regina di Sanremo 2020, invece ha fatto una figuretta mediocre, che avrà un peso sulla sua carriera. Lo sketch del finto collegamento da bordocampo di una banalità sconcertante, il monologo sul tempo che passa una scelta azzardata (soprattutto se poi ti tocca presentare a fianco di Sabrina Salerno). La moralina era che la bellezza è un dono, ma poi scompare: oltre all’ovvietà, oltre alla nonna ottuagenaria deportata in prima fila (i parenti all’Ariston dovrebbero essere vietati fino al settimo grado), ha fatto un compitino poco credibile. Se si punta tutto sull’aspetto fisico, non si può suonare la tromba contro l’apparenza che inganna. È stupefacente che una ragazza giovane, carina, istruita e piena di futuro si sia data l’unica possibilità di essere un oggetto a uso dello sguardo maschile.

F come Fiorello. A Rosario la Rai deve fare un monumento (equestre) di fianco al cavallo di Viale Mazzini. È stato bravissimo, generoso, è stato il quid che mancava a un’edizione con pochissima personalità. È stato la torta, non la ciliegina. Con leggerezza, brio, intelligenza, fatto tutto: ha ballato, ha cantato, ha imitato, ha condotto.

G come Georgina. Inspiegabile invito (o spiegabile per Ronaldo in prima fila). Per quanto riguarda la performance forse Cr7 se la cavava meglio nel tango. La gag della camicia di Amadeus – davanti bianconera, dietro nerazzurra – penosa come poche. Consoliamoci con questo: il cachet l’ha dato in beneficienza (come Tiziano Ferro e Rula).

J come Jebreal. La vera regina del Festival, le altre scompaiono tutte. Autorevole, bellissima, elegante e di grande classe (nessuna come lei). Il monologo è stato toccante e riuscito. Ha portato a Sanremo la sua storia (la mamma che non è sopravvissuta allo stupro subito da ragazzina) e insieme un tema universale. È snob, e allora? Il finale del suo intervento vale la pena di essere scritto a beneficio dei distratti: “Domani chiedetevi pure al bar com’era vestita Rula? Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?”.

L come Lauro. Idolo assoluto, un artista vero che si merita a pieno titolo di essere inserito in questo abbecedario (che non include i cantanti in gara). Ma le sue performance sono tutte degne di menzione: premio speciale allo spogliarello della prima serata con la tunica francescana. Ma anche il travestimento da marchesa Casati Stampa (che ammiccava pure a Cher) non era niente male. È il nuovo Renato Zero. Come ha detto Fiore sabato sera (lui con gorgiera, parrucca e perlage sul viso, stile Elisabetta I): lui è talmente avanti che è già lunedì. È stato uno dei baciatori di questa edizione (insieme a Fiorello e Tiziano Ferro, il frontman dei Pinguini e Mara Venier a cui va un voto alto per aver sdoganato la discesa scalza della famosa scalinata).

M come Mollica. Vincenzo nazionale è al suo ultimo Festival, va in pensione il 29 febbraio. Dopo il saluto affettuoso in diretta è venuto in sala stampa a salutare. E ha girato ai giornalisti un autorevole consiglio. “Una volta Federico Fellini mi ha detto: Vincenzo, non sbagliare mai il tempo di un addio. O di un vaffanculo. Ti si può ritorcere contro”. Poi: “Mo’ però leviamoci che questi tengono che fa”.

N come Novello. Ma anche un po’ Sbirulino. Francesca Sofia, fidanzata di Valentino Rossi, non ha fatto passi indietro. Ma nemmeno molti in avanti.

R come Ricchi e poveri. La reunion degli zii d’Italia, per la prima volta dal 1981 nella formazione originale con Marina Occhiena, è stata forse il vero momentone di queste cinque serate. Se m’innamoro, Sarà perché ti amo, Mamma Maria: anni Ottanta per sempre.

S come Squalificati. Bugo e Morgan non hanno mangiato il panettone sanremese, mettendo in scena un melodramma di serie Z sul palco venerdì e il giorno dopo una scazzottata a distanza, condita di ingiurie e calunnie di ogni sorta. Squallore raro, e chissenefrega di chi ha ragione. Fuori gara, giustamente.

T come Tiziano. La prima sera ha provato un tributo all’inarrivabile (anche vocalmente) Mimì e ha sbagliato. Ma errare è umano, si emozionato e scusato. Ne ha pestata una non piccola con l’hashtag #fiorellostattezitto. Epperò: la versione swing di Nel blu dipinto di blu valeva il prezzo del biglietto. E pure

V come Vejsiu. Alketa, star della tv albanese, una delle due signore della terza serata, pur vestita da principessa Disney, ha fatto un figurone. Parlantina scioltissima a mitraglietta, ha eclissato l’ingessata Georgina non ancora coniugata Ronaldo. Se il Festival l’avesse presentato lei, le serate sarebbero finite alle 23.30.

W come Watersgate. In ogni Festival c’è un incidente di percorso. A questo giro è stato la mancata messa in onda del video messaggio di Rogers Waters, leggenda vivente della musica: decisione spacciata per scelta editoriale, che più probabilmente ha un fondo di inspiegabile censura. Parlava di lotta alla violenza sulle donne, poesia e musica.

Diodato: “Ora per Taranto faremo ancora più rumore”

Quel bambino. La prima dedica di Diodato nella notte in cui cambiava tutto è stata per Antonio, il piccolo che un tempo era stato, prima di aprire pian piano la porta sul mondo. “Avevo paura, e mi rintanavo nella mia stanza”. Quando ieri è spuntata l’alba, dopo neanche un’ora di sonno, l’immagine del bimbo era ancora lì. “Mi sono rivisto, con un brivido, mentre imparavo il giro di Do sulla chitarra, Wish you were here o forse Bennato. Il mio spirito ragazzino è ancora accanto a me”. E la famiglia non smetterà di proteggerlo. “Mamma e papà hanno fatto un tifo da stadio, il loro figlio ha vinto a Sanremo, sono orgogliosi come il giorno che presi la laurea in cinema al Dams”. La fama gli si riversa addosso, d’improvviso, pretendendo frammenti dell’anima di questo 39enne cantautore amabile e timido, che cerca “di mettere la musica al centro di ogni cosa, perché qualcun altro possa riconoscersi in ciò che provo io, come era accaduto per me mille volte: mi chiedevo se i miei idoli mi avessero seguito con una telecamera, se io fossi in un Truman Show dove mi avevano stanato”.

Nella notte in cui è cambiato tutto, Diodato ha capito che non potrà più chiudersi la porta alle spalle. Dovrà forzare la naturale riservatezza e raccontare molto di più di sé, esporsi alla pruderie del grande pubblico, che ha imparato ad amarlo nel giro di una settimana. Non c’è chi non gli chieda se Fai rumore, il brano con cui ha trionfato al Festival (guadagnandosi anche il Premio della Critica), sia dedicato alla sua ex Levante. Avevano vissuto la loro storia in disparte, senza doverne rendere conto a nessuno, evitando di costruirci su delle chance di carriera, come invece avrebbero fatto mille altri nella loro situazione. Vincolati dal patto di non salire mai su uno stesso palco, finché fossero stati insieme. A un certo punto è finita, e si sono ritrovati avversari all’Ariston. Antonio ha vinto, Levante si è complimentata sui social. Catapultato a Domenica In, si è arreso davanti alla Venier: “Sì, la canzone è per una mia ex bella, bruna, sexy e che canta molto bene”. Sperando che basti per pagare il primo debito con il gossip. Perché Fai rumore non è solo un unguento per far guarire certe privatissime cicatrici: è un gioco di specchi in cui puoi vederci riflesse tante altre cose.

“Certo, l’amore. Non ne avevo mai parlato prima. Ma la musica si espande oltre una vicenda privata: io spero che possa alimentare il bisogno di umanità che ci lega tutti, non solo in una relazione di coppia. Dobbiamo infrangere il silenzio, confrontarci, a costo di scelte dolorose. Ognuno deve pescare in profondità la propria verità, afferrarla anche attraverso il dissenso. Così Fai rumore può dar voce anche a battaglie necessarie. Per questo l’ho dedicata anche a Taranto, alla situazione insostenibile che i miei concittadini vivono quotidianamente”.

Il vento velenoso del quartiere Tamburi, che in certi giorni ti costringe a serrare le finestre, arriva fino a Milano, dove vive Diodato. “Ogni volta che in tv sento parlare della crisi dell’ex Ilva cambio canale. Sempre la stessa solfa. Ti raccontano del ricatto che subisce la città, incastrata tra l’emergenza del lavoro e la priorità della salute: ti spiegano la questione, peraltro sacrosanta, degli operai in lotta e della nuova proprietà, della produzione dell’acciaio e degli altiforni da spegnere, e solo alla fine accennano al tema ambientale. E a me cadono le braccia di fronte al politico di turno, che non è mai lungimirante”.

Insieme ad altri musicisti come Roy Paci o attori come Davide Riondino, Diodato è tra gli organizzatori dell’Uno Maggio, “che non è solo un concertone, ma una mobilitazione continua con i Comitati dei cittadini liberi e pensanti e gli altri che operano a Taranto. Quando è venuto lì Conte gli abbiamo proposto soluzioni alternative, vedremo. Quelli che lo hanno preceduto sembravano più impegnati ad evitare di pestare merde sul loro cammino. Del resto, di fronte ai miliardi che ballano attorno all’ex Ilva, la vita di un uomo vale zero”. Però Antonio è diventato, nel giro di una notte, immensamente più visibile. “Non mi tirerò indietro: se la mia musica potrà alzare il volume su Taranto, faremo ancora più rumore”.

Rispettando, certo, l’agenda da artista: a maggio rappresenterà l’Italia all’Eurovision Song Contest di Rotterdam, mentre a giorni uscirà il suo quarto album. In copertina un missile che sta per abbattersi dentro una piscina, in lontananza uno stabilimento siderurgico. Undici canzoni che sono fogli strappati dal diario di Antonio. Come La lascio a voi questa domenica, ispirata a un fatto realmente accaduto, il suicidio di una donna sotto un treno a Cattolica: “Due anni fa: e io ero a bordo di uno di quei vagoni. I passeggeri imprecavano per il ritardo che si accumulava, se la prendevano con i politici e con le ferrovie, nessuno che pensasse alla disperazione di quella poveretta”. O scampoli di guarigione sentimentale come Non ti amo più e Fino a farci scomparire: “Perché mi chiedo in che modo una storia così totalizzante possa dissolversi nel nulla. Ma alla fine anche la separazione ha un senso: i due protagonisti saranno legati dalla consapevolezza di aver vissuto un amore più grande delle piccolezze che lo hanno travolto”. C’è poi quella che dà il titolo all’album, Che vita meravigliosa, voluta da Ozpetek nella colonna sonora de La dea fortuna. “È nata alla fine di un concerto, in una stanza d’albergo: la mia vita non è sempre esaltante, ma vorrei restasse sempre così!.

“Se fossimo tutti cinesi… Il comunismo trionferà”

“Il più grande Paese del mondo è comunista. Ci sarà un motivo? È anche il Paese più efficiente, ne dovremmo prendere atto o no? È il luogo dove si seleziona la classe dirigente applicando il merito. E pure questo è un fatto. Se un indizio resta solo un indizio, e due indizi sono appunto due indizi, tre fanno una prova”. Oliviero Diliberto, comunista italiano in quiescenza per via dell’estinzione naturale del proprio partito (la data di morte risale a più di un decennio fa) si è legato sentimentalmente alla Cina dove insegna ai compagni studenti i rudimenti di diritto romano. La sua università è proprio a Wuhan, città che siamo stati costretti a conoscere e che ci insegue come un’ombra cattiva per via del coronavirus.

“Ha da aggiungere qualcosa forse al mio curriculum”

Certo: lei oggi è preside di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma e titolare della cattedra di Diritto romano.

Ancora qualcosina sarebbe da riferire.

Che è un comunista in quiescenza l’abbiamo detto. Comunista ma non pauperista. Tribuno colto. Conosce il mondo e apprezza le sue comodità.

Riferisca che non ho mai lasciato l’insegnamento. Non l’ho fatto quando ero impegnato da deputato in Parlamento, non l’ho fatto da ministro della Giustizia. Insegnavo gratis, naturalmente. Ma ho sempre tenuto a mente quale fosse il mio vero lavoro. Avere un lavoro è una rete di protezione enorme.

Le ha permesso di non essere uno di quegli alcolisti anonimi della politica.

Un drogato che non smette, che si rovina la vita, che risolve la triste coda della propria esistenza come un figurante qualsiasi. Sarebbe stata una condizione che non mi si addice e, se posso, il lavoro – qualunque lavoro – permette di affrancarsi da una passione, la politica appunto, che spesso e purtroppo si trasforma in ossessione. Permette quindi di essere più libero, di avere occhi per guardare il mondo, e fare e pensare ad altro.

Lei è un barone dell’università. Non ho messo il punto interrogativo, ho sbagliato?

Ho un rapporto vitale e paritario con i miei studenti che, detto tra parentesi, sono bravissimi.

Capito, è di manica larga.

Mi applico per rendere equo il giudizio. Se sei bravo e meriti il massimo dei voti da me avrai il massimo. Non mi pare un atto di esuberanza giovanilistica.

A Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia, che durante il periodo di carcere a Rebibbia per scontare la sua condanna, si iscrisse a Giurisprudenza, quanto dette al suo esame?

Trenta e lode.

Vede? È di manica larga.

Affatto. Era molto preparato e mi parve giusto premiarlo. Ho dato trenta anche a un fior di camorrista. Lì però capii che aveva abusato un po’ con la conoscenza mnemonica. Gli feci i complimenti ma gli dissi che, insomma, è sempre meglio comprendere a fondo. Mi rispose: ho tanto tempo a disposizione per cui posso permettermi di imparare a memoria ogni singola parola. Sul tempo a sua disposizione non ebbi da obiettare.

Ha da riferire di altri studenti modello di Rebibbia?

L’omicida della contessa Filo della Torre, il filippino. E poi un altro camorrista, non so se di rango o meno.

Trenta all’uno e all’altro.

No, in quei casi no.

Bibliofilo.

Venticinquemila libri.

Anche Dell’Utri ha una grande biblioteca. Siete amici?

No, l’ho visto tre volte in vita mia.

Il suo più grande successo politico da ministro della Giustizia (era il governo D’Alema) fu la riabilitazione di Palmiro Togliatti attraverso la sua scrivania, ritrovata in un sottoscala e riproposta nella sua sede di elezione, a imperitura memoria del comunismo. Dopo di che il comunismo chiuse i battenti.

L’Occidente ha pagato il fallimento perché chi ha rappresentato quella grande idea ha fallito. Naturalmente, mi ci metto anch’io.

Perché i poveri non sono comunisti?

I poveri sono stati comunisti. Il Pci in Italia ha difeso le classi meno abbienti. Poi ha immaginato che il successo lo conferissero altri ceti sociali e ha progressivamente dimenticato quello che si chiamava il proletariato, la classe operaia. Che, a ragion veduta, ha restituito la cortesia.

E lei ha traslocato ad Oriente, nella serie A del comunismo.

I cinesi hanno pensato di elaborare un codice civile, di cui erano sprovvisti. Senza il diritto romano non esiste codice. Visto che in Italia c’era un professore di diritto romano, per di più ministro della Giustizia e comunista, hanno pensato di coinvolgerlo.

I cinesi conoscono bene i loro doveri ma non i loro diritti. È una democrazia autoritaria, contro la quale lei farebbe le barricate.

È un modello di democrazia differente. Giudicare con i nostri occhi, con la nostra cultura, ci induce a una alterazione della percezione.

Vuol dire che le libertà fondamentali così compresse sono un problema di percezione?

Voglio dire che le conquiste, anche dal punto di vista delle libertà fondamentali, sono tante. Dobbiamo ricordare però la storia di quel Paese, lo stato dell’economia, la millenaria differenza culturale tra Oriente e Occidente. Se tira una linea: ecco da dove sono partiti, ecco dove sono arrivati, la dimensione dell’evoluzione civile e politica è impressionante.

Ha parlato di meritocrazia.

Ho riferito un giudizio di un osservatore americano, Daniel Bell, in un volume edito dalla Luiss, l’università della Confindustria. Lui scrive che c’è più merito nelle scelte degli uomini dell’establishment in Cina che non negli Usa.

Da quanto manca da Wuhan?

Purtroppo questa emergenza mi tiene lontano dalla mia università (la Zhongnan University of economics and law). Ho ammirato la compostezza, l’efficienza, la serietà con cui stanno facendo fronte a questo disastro. Ho anche ammirato la capacità del presidente Sergio Mattarella di non far mancare, in un momento di difficoltà, una voce di amicizia e tolleranza.

Resta comunista.

Ma certamente!

Come Bertinotti. A proposito, lui festeggia gli ottant’anni. Sarà un evento. Inviti a destra e a manca. Lei ci sarà?

Non sono stato invitato.

L’epidemia ha ucciso già più della Sars Isolati altri 8 rientrati a Roma da Wuhan

Sono in tutto 64 gli italiani sotto osservazione per il coronavirus. Tra loro anche due neonati di pochi mesi. Ai 56 ospiti della città militare della Cecchignola a Roma –, tra cui due bambini di 4 e 8 anni con qualche linea di febbre risultati negativi ai primi test allo Spallanzani – ieri si sono aggiunti gli otto cittadini italiani rimpatriati da Wuhan, città epicentro dell’epidemia del virus in Cina, ricoverati in isolamento per due settimane all’ospitale militare del Celio. Nelle prossime ore potrebbe raggiungerli Niccolò, il 17enne bloccato a Wuhan per la febbre, nonostante sia risultato negativo ai test del coronavirus. “Faremo di tutto per riportarlo a casa, nessuno deve rimanere indietro”, ha detto ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, annunciando che l’aereo militare che porterà lo studente di Grado in Italia dovrebbe decollare nelle prossime ore.

E mentre altri 12 pazienti sottoposti ai test sono in attesa di risultato, restano stabili allo Spallanzani le condizioni del 29enne ricercatore e della coppia di cinesi, gli unici tre contagiati in Italia. Riflettori puntati anche sulla coppia di Taiwan, ripartita il 31 gennaio dall’Italia e trovata positiva al coronavirus al ritorno a Taipei, insieme al figlio, anche lui contagiato. La famiglia sarebbe passata per la Toscana e il Lazio e il loro viaggio è stato tracciato per verificare i loro “contatti stretti e continuativi”. “Non abbiamo casi acquisiti sul territorio nazionale. I tempi della coppia di Taiwan ci fanno ben sperare ma i controlli verranno ugualmente effettuati”, ha fatto sapere il direttore scientifico dello Spallanzani. Mentre la Spagna segna un secondo caso di virus: si tratta di un cittadino britannico di Mallorca. L’uomo, insieme ad altri tre familiari – ora tutti in quarantena – sarebbe entrato in contatto sulle Alpi francesi con una persona poi rivelatasi affetta dal virus.

Sono invece risultati negativi ai test i 1800 passeggeri e l’equipaggio della nave da crociera ad Hong Kong in quarantena da mercoledì dopo che 8 passeggeri cinesi di un viaggio diverso erano risultati contagiati. L’ultimo bollettino ufficiale globale parla di 90 nuovi decessi per coronavirus, 814 in tutto, contro i 774 che ne ha causati tra il 2002 e il 2003 la Sars. L’Organizzazione mondiale della sanità, pur confermando una certa “stabilizzazione”, ha avvertito che è presto per tracciare un trend di contenimento. Solo dalla terza settimana di febbraio si saprà “se i metodi sono stati adeguati”, ha spiegato l’epidemiologo americano Ian Lipkin, a capo del Centro per le infezioni della Columbia University. “Complice anche l’arrivo della primavera la forza del virus potrebbe ridursi e portare le persone fuori dagli ambienti chiusi dove il pericolo è più alto”, ha osservato Lipkin. “Ci sono due momenti chiave” da tenere d’occhio: il ritorno al lavoro e la riapertura delle scuole dopo il Capodanno cinese. “A quel punto sapremo se siamo nei guai“, ha concluso Lipkin.

Ritorna Belsito: la cassa di soldi e l’aiuto del Trota

Un aereo cargo russo, una cassa con milioni di euro in contanti sparita nel nulla. E una partita di oggetti d’arte della Costa d’Avorio. Sono gli elementi di una strana vicenda che unisce ancora una volta gli ex compagni di partito e di processo Francesco Belsito e Renzo Bossi. Condannato per i fondi della Lega, costati al partito una confisca da 49 milioni, Belsito cerca affari in Africa come consulente e investe soldi “per conto di amici”. Questo ha spiegato nell’’intervista condotta per Sono le Venti, il programma di approfondimento giornalistico di Peter Gomez sul Nove.

Tra gli investimenti dell’ex tesoriere della Lega salta fuori l’artigianato locale. Belsito, che per sua stessa ammissione ne sa poco o nulla, l’anno scorso ha tentato di esportare ben 138 casse contenti 700 statue di legno: 50 elefanti, 50 scimmie, 300 maschere, 200 statue e 100 ippopotami. Il dettaglio si legge nell’autorizzazione rilasciata dal Museo del costume di Grand Bassam, l’ente che in Costa d’Avorio dà il nullaosta all’uscita dal Paese di manufatti locali. Sul documento è indicato il proprietario della merce, ed è proprio Belsito, con tanto di numero di passaporto.

A occuparsi del trasporto vengono chiamati imprenditori russi che mettono a disposizione un aereo cargo. Ed è qui che entra in scena Renzo Bossi. È stato l’ex “trota” a metterli in contatto con Belsito e chiedere loro i preventivi. Alla fine, però, il trasporto salta. E qui le versioni dei protagonisti divergono. Secondo gli imprenditori, incontrati dai cronisti a Mosca, le casse vengono fermate nel giugno 2019 ad Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio, prima di partire per Istanbul, la destinazione prescelta per le casse. “Durante un’ispezione viene aperta una cassa, era piena di banconote da 100 euro”, raccontano mostrando la foto di un baule colmo di denaro. “C’è anche una scatola di diamanti. Noi non ne sapevamo nulla”.

Bossi, raggiunto mercoledì scorso sotto la sua abitazione milanese, dice di essersi occupato solo dei preventivi per il trasporto aereo, su incarico dell’ex compagno di partito. Alla fine il migliore è quello dei russi: 120mila euro. “Questa non l’ho mai vista”, dice in lacrime appena gli viene mostrata la foto della cassa piena di soldi. “Mi sono cagato sotto”. Sostiene che l’aereo non sia mai arrivato ad Abidjan, perché Belsito, nonostante il contratto, non ha mai versato l’acconto agli imprenditori. Promette un’intervista per l’indomani, in modo da chiarire tutti i dettagli della vicenda. Ma anziché venire all’appuntamento, rilascia una intervista al quotidiano Libero in cui accusa i giornalisti di volerlo fregare e di averlo intimidito. Cosa in realtà mai avvenuta. Aggiunge di non saper nulla dei “traffici” di Belsito e di essere tornato in contatto con l’ex tesoriere dalle Lega dopo il processo solo “per carineria”.

Dal canto suo Belsito, ammette di essersi interessato a una partita di oggetti d’arte tribale, ma sostiene che l’affare è andato a monte quasi subito. E sulla cassa piena di soldi? “La cassa non esisteva, sono stato truffato anch’io da un avvocato d’affari locale che mi ha mostrato quella foto per convincermi a lavorare con lui. Ho perso 200mila euro”. Eppure esiste un video, in mano agli imprenditori russi, in cui Belsito, alla presenza di Bossi, parla di una cassa ad Abidjan. Il video, insieme ad altri documenti e interviste esclusive verrà mandato in onda da Sono le Venti, nel corso di una inchiesta a puntate che inizia questa sera.

Ma mi faccia il piacere

Il partigiano Silvio. “Il presidente Berlusconi si vanta addirittura di essere stato un partigiano” (Alessandro Sallusti, Dimartedì, La7, 4-2). Calcolando che è nato nel 1936, non si esclude che fosse pure un eroe del Risorgimento.

Maestri di giornalismo. “La figlia di Tortora accusa: Travaglio fa cattivo giornalismo” (intervista di Gaia Tortora a Pietro Senaldi, Libero, 3.2). Mo’ me lo segno.

Tentazione unica/1. “Il premier ora dica se siamo di troppo. Possiamo lasciare” (Maria Elena Boschi, senatrice Iv, La Stampa, 8.2). “Non voteremo questo pasticcio. Se lo vogliono fare, ci caccino” (Renzi, Corriere della sera, 8.2). In fondo non chiedono granchè: possibile che non si possa proprio accontentarli?

Tentazione unica/2. “Renzi: mi accordo con Salvini per il voto dopo il referendum” (il Giornale, 8.2). Magari: mal che vada, un Matteo su due ce lo leviamo dalle palle.

Memento. “Ricordiamoci che i mafiosi sono uomini di merda” (Alessandro Sallusti sulle rivelazioni di Graviano su B., il Giornale, 8.2). Però sono degli ottimi stallieri.

Quattro amici al bar. “Tutti contro Bonafede… Domanda: possibile che abbia ragione Bonafede, mentre il resto del mondo ha torto? Non s’apre un problema di legittimazione democratica per questa normativa, sconfessata dai suoi stessi destinatari (i magistrati, ndr)?” (Michele Ainis, Repubblica, 2.2). “L’Anm ha chiesto da sempre l’interruzione della prescrizione con la sentenza di condanna di primo grado, per restituire al processo la sua piena efficacia” (mozione unanime del Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, 1.12.2019). “Ormai la blocca-prescrizione la vogliono solo Bonafede, Travaglio e pochi altri” (Luca Telese, Otto e mezzo, La7, 29.1). “A difendere l’addio alla prescrizione sono rimasti quattro amici al bar: Travaglio, quattro pm e Bonafede. Il resto del mondo, e a ragione, è contrario” (Filippo Facci, Libero, 6.2). “La riforma della prescrizione piace al 59%. Il 57% ritiene che la prescrizione spesso consente ai colpevoli di evitare la condanna e propende per l’eliminazione o l’allungamento affinché si giunga a sentenza, evitando l’estinzione del reato; solo il 20% la considera una garanzia per gli imputati” (Nando Pagnoncelli, Corriere della sera, 7.2). Mi sa che, in quel bar, tutti non ci stiamo.

Testa di Trota. “Quelli del Fatto mi vogliono rovinare la vita. Mi perseguitano per uccidere la Lega” (Renzo Bossi, Libero, 7.2). Gli abbiamo chiesto come si chiama.

Via Craxi. “Com’è difficile intitolare una strada a Craxi” (Fabio Martini, La Stampa, 5.2). Le tangenziali sono già tutte impegnate?

Da un Matteo all’altro. “Io consigliera di Salvini? Se vuole…” (Annalisa Chirico, la Verità, 3.2). Poveretta, come s’offre.

Il ciuccio. “Le balle di Marco/1… Tanto per dare qualche informazione, il capo della magistratura esiste, ed è il presidente della Repubblica” (Sansonetti, Il Riformista, 4.2). No, è il presidente del Csm: la magistratura è “autonoma e indipendente da ogni altro potere”, anche da lui.

Il bi-ciuccio. “Le balle di Marco/2… L’on. Bruno Bossio non è imputata, è indagata in una sola indagine” (Sansonetti, ibidem). Purtroppo la Procura di Catanzaro nell’ultimo anno ha chiesto due volte il suo rinvio a giudizio. Dunque è imputata, e due volte.

Sempre. “Non è un problema di Renzi o di Lucia Annibali… Noi siamo sempre stati contrari (alla blocca-prescrizione)”. (Lucia Annibali, deputata Iv, Corriere della sera, 5.2). Anche quando la proponevano loro.

Il titolo della settimana/1. “Di Maio torna in piazza contro il suo governo” (Repubblica, 6.2). Poi, in piccolo e in lieve contraddizione col titolo, il sommario: “Chiede di trasformare l’iniziativa anti-vitalizi in una giornata a difesa delle riforme M5S: ‘Vogliono cancellare lo stop alla prescrizione e il reddito di cittadinanza’”. Siccome a voler cancellare lo stop alla prescrizione e il reddito di cittadinanza non è il governo, che anzi li difende, ma Renzi, indovinate chi va “contro il suo governo”.

Il titolo della settimana/2. “Il partito degli anti-Davigo” (rag. Claudio Cerasa, Il Foglio, 5.2). Si riunisce nell’ora d’aria.

I titoli della settimana/3. “Prescrizione, torna tutto in bilico. Travaglisti furiosi (Sansonetti, Il Riformista, 4.2). “Prescrizione, palla a Conte: saprà liberarsi di Travaglio?”, “Dai, avvocato Conte: scarica Travaglio e salva governo e diritto” (Sansonetti, ibidem, 5.2). “Prescrizione, l’ultimatum di Travaglio: o Renzi molla o è crisi” (Sansonetti, ibidem, 6.2). Dài, su, Piero: adesso è l’ora della medicina.

“Sorrisi e amicizia, il mix vincente è stato il nostro Carnevale di Rio”

“Hanno venduto la merce più rara che c’è in questo momento in televisione: il sorriso. E per questo hanno vinto”. Renzo Arbore è in tournée, ieri sera era a Cosenza (“È la seconda volta che torno qui e il teatro Rendano è di nuovo sold out: incredibile come le persone vengano ancora a sentirmi suonare e cantare…”), ma non ha mai smesso di guardare il Festival di Sanremo: “Non mi sono perso nulla, ho rivisto alcune performance su Rai Play e ho seguito con alcuni amici tecnologici pure i live tweet”.

Quindi, diceva, il Festival fa il record di ascolti perché genera il sorriso?

Ogni volta che viene promessa la risata – vedi Benigni ma vedi anche, per esempio, Fazio che mette Frassica in coda per tenere il pubblico – c’è un’attenzione particolare. È un’epoca in cui, per usare il linguaggio di Fiorello – e lui si farà una risata, leggendolo – si vede in tv il “litigismo”. In tutte le trasmissioni, chiamano un ospite e poi ne arriva un altro che lo contrasta, si scannano ovunque. Quelli che noi ragazzi degli anni 50 chiamavamo altarini, adesso sono delle polveriere di pettegolezzi su vecchi amori, abitudini… persino rispetto a personaggi che non si possono difendere perché sono morti. Però c’è anche un altro ingrediente che quest’anno ha fatto la differenza.

Quale?

L’amicizia celebrata in maniera così vera e sincera tra due bravi ragazzi: Amadeus e Fiorello. Il primo è felice di essere lì, vi è arrivato faticosamente ed è molto puntuale nel dirigere quella macchina complessa. In passato ne abbiamo visti tanti leggere il gobbo, sbagliare i nomi dei cantanti o dei direttori d’orchestra. Lui no. E così Rosario ha la libertà di fare l’incursore, una posizione straordinaria. Tutto ciò che offre è un di più. Guai se fosse lui il presentatore.

E perché guai?

I presentatori non sono deputati a far sorridere, contrariamente a quanto è stato tentato in passato, e non voglio fare nomi. Il presentatore è un amministratore di condominio.

E invece Fiorello è il vicino che disturba l’assemblea.

Il suo spiritaccio è di natura goliardica, di quella goliardia sana che in Italia andrebbe rivalutata. Io, che ho ricevuto una laurea in Goliardia dalle mani di Umberto Eco, mi posso considerare un teorico e ho portato a cantare Fanfulla da Lodi, ritrovo in molte sue gag lo spirito, l’allegria e la dissacrazione del movimento ‘sopravvissuto’. Cantare Montagne verdi sull’aria di Generale è una vecchia formula; noi intonavamo l’Inno di Mameli su Sapore di sale. Si scherza con il basso essendone l’alto.

Si parla di gag, gaffe e non di canzoni, però.

In realtà il livello delle canzoni è buono e vario. C’è una nuova leva di artisti curiosi, da Achille Lauro ai vari trapper, ma c’è anche la vecchia guardia – Al Bano, i Ricchi e Poveri – e brani melodici scelti bene. Per esempio quello di Tosca, che ha dimostrato una grande classe pure con la più commovente invenzione del Festival, Piazza Grande fatta alla maniera del fado portoghese. O Gualazzi con E se domani. O la celebrazione di Almeno tu nell’universo, la migliore canzone di tutta l’epopea dei 70 anni del Festival.

Prima citava Benigni. Le è piaciuto?

Ho visto che sui social divide molto. Se dovessi dargli un consiglio, gli direi: primum ridere, deinde philosophari. Solo lui può capire. Non arrivi con la banda, prometti l’allegria e poi fai una bellissima, ma seria, esibizione.

Non crede che le puntate siano state troppo lunghe?

Dal primo giorno mi sono detto ‘c’è troppa carne al fuoco’. Conosco la mentalità dei discografici e dei cantanti: esibirsi a notte fonda significa accumulare nervosismo e adrenalina, che è quanto di peggio possa capitare a un artista. E poi il pubblico… quanta gente si è addormentata sul divano…

Amadeus ha lasciato trapelare che non condurrà anche l’edizione numero 71. Una scelta saggia?

Ognuno si deve misurare con se stesso. Amadeus parte dal presupposto che sarà difficile rivedere un Festival a questi livelli, con questi numeri. Anch’io, dopo Indietro tutta, mi sono accucciato. Cosa fatta capo ha.

Ogni anno partono i tentativi di boicottaggio di Sanremo e poi finisce che tutti lo guardano e tutti ne parlano. È un’arma di distrazione di massa?

È il nostro Carnevale di Rio, persino la stampa è tutta concentrata su ciò che accade all’Ariston. Anzi, i politici dovrebbero approfittarne per bypassare la prescrizione o altri temi. Approfittatene, gente, approfittatene.