Hanno vinto Morgan e Bugo, il resto è noia

Accuse incrociate di ricatti messi in atto da “associazioni a delinquere”, mobbing e violenza. Diagnosi di instabilità mentale che volano tra i due antagonisti, una guerra per bande che si consuma dopo 17 anni di amicizia e l’alleanza pro tempore attorno a un brano esilino ornato da un titolo beffardo come Sincero: sancita l’inconciliabilità tra le due versioni dei fatti, forse la verità sta classicamente nel mezzo. Chi ha ragione nel plot-twist che ha stravolto la liturgia sanremese e innescato l’eliminazione? Il “Bugate” deflagra alle due di notte di sabato, con una scena che è già mito. Quando Amadeus chiama sul palco Morgan e Bugo, il primo invita il secondo, con uno scartafaccio tra le mani, a seguirlo giù per la scala. Il resto diventerà virale in un amen. L’ex Bluvertigo trasforma il testo in un’invettiva contro il compagno, reo di aver “violentato”, 24 ore prima, la cover endrighiana di Canzone per te.

Morgan strapazza (stonando a bella posta) Sincero, ed è solo la prima strofa: a quel punto Bugo ghermisce i fogli e si avventura verso l’uscita. È l’istante in cui vedi passarti davanti tutta una carriera di nove album: e intuisci che, a 46 anni, sfuma la chance della vita. “Bugo dove vai?”, gli grida Morgan, apparentemente sorpreso. L’altro è già dietro le quinte, la musica è finita. Vani gli inseguimenti di Amadeus e Fiorello, i riempitivi di Antonella Clerici. Il backstage occultava il dramma di un cantautore beffeggiato da un collega al quale aveva garantito affetto al tempo del clamoroso sfratto. La sentenza arrivava in un lampo: versi cambiati, defezione volontaria, espulsione. Si temeva uno scontro rusticano, già sfiorato nell’imminenza della performance. Con Morgan che si era affannato a cambiare quel testo in chiave derisoria, e Bugo che sostiene di essere stato insultato con epiteti tipo “figlio di puttana, sfigato, non sai fare un cazzo”. In alcune ricostruzioni Morgan viene visto mordere (negherà l’episodio) il collega, che avrebbe risposto con uno sputo. Perché tanto odio reciproco? In due separati incontri con la stampa, i duellanti diranno la loro. Morgan: “Mi hanno usato per far accettare Bugo, è un dilettante, non sa tenere il palco. È a Sanremo grazie a me. Non sono stato ricompensato, quindi avevo chiesto dei punti autorali per una canzone che non mi piace, di cui ho cambiato solo un verso. Desideravo poter lavorare almeno sull’arrangiamento e mi sono proposto come direttore d’orchestra ma sono stato boicottato. Il manager di Bugo, Valerio Soave, mi ha messo le mani addosso perché l’avevo definito malandrino. Mi hanno fatto mobbing per mesi: e una volta ammessi al Festival volevano farmi fuori per imporre lui, che mi mandava messaggi come ‘Piccolo Mozart nano di merda’”. La replica di Soave: “Ho lavorato 25 anni con Morgan, è paranoico, non c’è alcun complotto, non sta bene, chi gli sta intorno dovrebbe salvarlo. Pretendeva ospiti come la Carrà o Sgarbi. Ha proposto 11 partiture per la cover, l’orchestra le ha giudicate insuonabili. Il 27 gennaio mi sono sentito chiedere un contratto da 55mila euro, altrimenti si sarebbe sfilato. Un disegno criminoso a scopo di estorsione”.

Il racconto di Bugo: “Volevo rubargli la scena giovedì? Non eravamo riusciti a provare quel pezzo. Mi accusa di aver fatto una performance orribile? E la sera dopo mi aggredisce prima del nostro turno? Insulta pure la mia famiglia? Quando ha cambiato le parole ho pensato ‘vado via’”. Ora qualcuno dovrà pagare la penale. Intanto si sono presi il Festival. L’hanno mediaticamente vinto, da eliminati.

M’Ama o non m’Ama più. Verso il bis di Sanremo 71?

Tombola! Bisognava arrivare alla quinta serata di questa maratona televisiva travestita da Festival della canzone, per iniziare con la musica (e con Fratelli d’Italia). Ben tre canzoni in gara una in fila all’altra e in mezzo la zia d’Italia, Mara Venier. Poi è subito il momento dalla coppia d’oro, Fiore&Ama, featuring Maria De Filippi. Per sovramercato cantano pure il Gianni nazionale: si fa del morandismo. Nonostante gli hashtag galeotti e i tre giorni di tensione tra gli amici dell’amico Ama, sul palco c’è Un mondo d’amore: cantano gli Amarelli (Amadeus+Fiorello). Ma è previsto anche del freddismo, nel senso che Fiore ha voluto omaggiare Fred Bongusto, Amore fermati. La notte è piccola per noi del Fatto e dunque non possiamo dare il risultato della gara, ma dei premi della critica sì: incetta di consensi per Diodato, che porta a casa i riconoscimenti delle due sale stampa.

M’Ama o non m’Ama? La domanda, come ogni anno, è questa. Calato il sipario sul Festival numero settanta si parla già del 2021. I dirigenti Rai (Stefano Coletta in primis: “Amadeus se lo merita”) sognano un bis di questa edizione dei record (record di share, record di maratone notturne, record di scazzi). Al direttore artistico l’hanno già chiesto, lui però tentenna pur comprensibilmente tentato: “Questo è lo show di quest’anno, non parlerei di ‘probabilissimo’ bis. Chiunque arriverà farà il suo festival. Il mio è troppo lungo? L’ho fatto per dare una dimensione di show, poi ogni direttore artistico farà il suo Sanremo”. Del resto Fiorello, nonostante le battute in diretta ieri sera, aveva detto che per lui Sanremo finisce qui come Miss Italia (ha già stravinto) e ipotizzare un ritorno senza questa imprescindibile parte della conduzione è un enorme salto nel vuoto. Chiunque ci sarà nel 2021 riceverà in dono (ed è un dono avvelenato) il combinato disposto di share stellari e puntate extralarge: più in là delle 2.30 non si può pensare di andare (ogni limite ha una pazienza). E dunque fare meglio dei predecessori (il paragone è sempre con l’anno prima) sarà impresa ardua se non impossibile. Ieri ha parlato anche il presente della Rai Marcello Foa, comprensibilmente soddisfatto: “Sono molto contento del successo di questa edizione, che assumeva un valore particolare per la ricorrenza tonda. L’auspicio che avevamo condiviso in azienda era che portasse serenità, un po’ di svago e spensieratezza. Mi sembra che i dati d’ascolto parlino da soli”. Risate e musica, un mix che funziona. E un volto, quello di Amadeus, “rassicurante e non divisivo”.

Nel consuntivo finale bisogna citare gli ascolti (fondamentali per gli inserzionisti): anche la quarta serata è stata un trionfo (seguita in media da 9.503.000 spettatori con il 53,3% di share). Una percentuale che non si raggiungeva dal 1999, nella mitica edizione condotta da Fabio Fazio con Renato Dulbecco. Rai pubblicità festeggia, anche se su questo fronte bisogna segnalare qualche crepa. Tim è “sponsor unico” (da quattro anni), ma in viale Mazzini dovrebbero rispolverare qualche puntata di Non è mai troppo tardi per farsi spiegare dal maestro Manzi il significato dell’aggettivo “unico”. In piazza Colombo (con mille problemi di sicurezza) è stato allestito un mega palco dal quale avrebbero dovuto esibirsi molti artisti, griffato Ferrero in ogni centimetro e ribattezzato Nutella stage. Striscia la notizia ha sollevato il caso quando Amadeus è uscito dall’Ariston per una lunga passerella in compagnia di Emma, scortata al suddetto stage. Passeggiata che a molti è sembrata un pretesto per mostrare il logo della crema di nocciola più famosa al mondo, disseminato lungo tutto il percorso. Uno scherzetto “unico” che avrà qualche conseguenza in euro. A proposito di soldi: la politica è stata stranamente silente sulle bagatelle sanremesi per cinque giorni. Ieri si è fatta viva. Il Pd farà un’interrogazione parlamentare per chiedere conto “del numero record di dirigenti Rai in trasferta al Festival, come riportato da alcuni organi di stampa”.

La De Santis vuole fare causa alla Rai perché il Festival è “tutto mio”

I numeri record del Festival di Sanremo (53,3% per 9 milioni e mezzo di telespettatori venerdì sera) raccontano la storia di un grande successo. Teresa De Santis guarda la manifestazione e i dati Auditel con orgoglio, perché è stata lei a organizzare la kermesse canora e a volere Amadeus alla conduzione. Ma anche con rabbia, perché nessuno in questi giorni ha speso una parola nei suoi confronti. Lo ha fatto solo ieri il presidente della Rai Marcello Foa (che fu suo sponsor), davanti alle telecamere dei tg. “Va dato merito a Teresa De Santis, che in queste ore è stata un po’ dimenticata nel flusso delle notizie del Festival. È stata lei a volere fortemente Amadeus e ha avuto ragione. Lei ha impostato questa edizione, senza nulla togliere a Coletta…”, ha detto il presidente. Per il resto, nulla. Non una parola dall’ad Fabrizio Salini, né dal suo successore alla guida di Raiuno, Stefano Coletta.

De Santis è stata rimossadalla direzione della rete ammiraglia, dopo oltre un anno di aspre polemiche per le sue scelte in salsa sovranista (era stata nominata in quota Lega) e il calo degli ascolti di Raiuno, proprio alla vigilia del Festival. Era lunedì 13 gennaio. Il giorno dopo, martedì, si sarebbe tenuta la conferenza stampa di presentazione a Sanremo, quando, dal settimo piano di Viale Mazzini, arriva la notizia della sua defenestrazione: al suo posto veniva promosso il direttore di Raitre, Stefano Coletta. Una cosa mai vista.

In queste sere De Santis non si è persa nemmeno una serata del Festival, che considera una sua creatura. Ufficialmente non parla, ma chi le sta vicino racconta di una persona molto amareggiata e delusa per il trattamento ricevuto, ma pure arrabbiata per non aver potuto godere dei frutti del suo lavoro. Un lavoro che, a suo dire, le è stato scippato. Non essere mai stata citata viene reputata un’imperdonabile mancanza di stile. Ma c’è di più. Ora De Santis è pronta a far causa alla Rai. Due giorni fa si è recata allo Studio D’Amati, a Roma, specializzato in diritto del lavoro e della persona, per mettere in piedi un’azione legale per mobbing e demansionamento. A nessuno, a suo dire, in azienda è stato riservato il trattamento che ha avuto a lei.

Guardando i numeri record del Festival, con chi le sta intorno ha voluto ripercorrerne le tappe. È stata De Santis a scegliere Amadeus e a volerlo alla conduzione, anche perché sapeva che, attraverso Amadeus, sarebbe arrivato Fiorello. “Vengo solo se c’è Amadeus, ma farò il battitore libero”, le ha detto Fiorello in aprile, quando la direttrice era alla ricerca di un conduttore dopo Claudio Baglioni. Ma Salini non era convinto. L’uomo su cui l’ad puntava, non è un mistero, era Alessandro Cattelan, come ha ribadito ieri in un’intervista alla Stampa. In alternativa, Mogol oppure Morgan. Così, dopo esser rimasto sulla graticola per settimane, il primo di agosto Amadeus si tira indietro. “Ti ringrazio, Teresa, ma, se l’ad non mi vuole, lasciamo perdere…”. A quel punto De Santis forza la mano e chiama in soccorso il presidente di Rai Pubblicità, Antonio Marano. Che avverte Salini: attenzione, gli inserzionisti sono in fuga. Così, alla fine, Salini si convince su Amadeus, che il 2 agosto torna sui suoi passi e accetta.

Ma De Santis non rivendica solo la scelta del conduttore (e quindi di Fiorello), ma pure l’idea di trattare il tema della violenza sulle donne. “Bisogna parlarne dal palco dell’Ariston”, suggerisce ad Amadeus. De Santis, si sa, ha poi contestato la scelta di Rula Jebreal, fatta dal conduttore, ma ora ammette che la cosa ha funzionato. Altro merito rivendicato dall’ex direttrice di Raiuno è la scelta di puntare sui giovani e sui nuovi generi. Ora, dopo giorni di silenzio in cui De Santis a Sanremo sembrava il convitato di pietra, sono arrivate le parole di Foa.

De Santis, però, non si dà per vinta e continua a ritenere ingiusta la sua rimozione. “Ho lasciato Raiuno al + 1,2% nel prime time e + 0,80% nel day time. E ora il record del Festival. Forse tanto male non ero…”, fa sapere a chi le sta vicino. A suo modo, una rivincita.

“Ho fatto la spogliarellista, cucinato per Tarantino e difeso Asia da Weinstein”

Da ragazzina, quando voleva incutere timore, darsi un tono e un ruolo nella vita si definiva la figlia di Ringo (“qualcuno restava turbato”). E in casa ha il corredo adatto all’erede di un celebre pistolero: le rivoltelle sul tavolo del salotto, il cinturone appeso, il cappello di scena, i copioni del padre ben rilegati. Foto. Regali (“questi arrivano dal Giappone). Emozioni complesse da gestire.

Vera Gemma questa complessità la porta sulla sua pelle, e quando si definisce una “sopravvissuta” non lo esprime con orgoglio, ma con la semplice consapevolezza di chi ha affrontato la vita a muso duro (Bertoli dixit) e, come in un romanzo di Salgari, ha battagliato con demoni interiori, ucciso pregiudizi, paure, lottato con l’ambizione e visto e fatto cose “che voi umani…”.

Eppure l’inizio della sua carriera è stato il teatro.

Ho recitato ovunque: dalle cantine underground di Roma ai palchi ufficiali. Con me c’era spesso Valerio Mastandrea, poi Chiara Noschese.

Mastandrea agli albori…

A quel tempo era solo ospite del Maurizio Costanzo Show e non aveva mai recitato; appena l’ho visto in televisione mi sono illuminata.

Cosa aveva visto in lui?

Se ho una capacità, è quella di intuire il talento, ed è una qualità ereditata da mia madre: lei era una manager pazzesca, e mio padre le deve l’80 per cento della carriera; per lui era agente, avvocato, consigliera, psicologa e qualsiasi altra sfumatura necessaria. Lo migliorava di continuo, e noi figlie appresso a loro.

Esempio.

Mamma organizzava in casa una sorta di rassegna cinematografica: ‘Oggi vediamo Chaplin’. Alla fine partiva il dibattito tra noi quattro.

Un peso?

No, felici e partecipi, ed era un’abitudine riservata alla famiglia, mentre lo spazio per gli ospiti era la domenica: allora vivevamo in una villa alle porta di Roma, mamma preparava il pranzo, e il cinema italiano si ritrovava da noi. Da Sergio Leone alla commedia sexy con la Fenech o la Bouchet, fino a star internazionali come Ursula Andress.

Chi l’affascinava?

Un po’ tutto, e mi sentivo frustrata perché messa in disparte. Io volevo affermare la mia personalità in mezzo ai divi.

Ma…

Non mi capiva quasi nessuno, uno dei pochi a comprendermi era Sergio Leone: mi regalava sguardi e attenzioni, come se avesse intuito in me un potenziale; mentre per gli altri ero una bambina rompicoglioni.

Come attirava l’attenzione?

Soprattutto con l’imitazione delle attrici presenti, cercavo la risata. Papà si divertiva, solo che non la smettevo mai; (cambia tono) il vero problema è che le donne presenti erano tutte pazzesche, di una bellezza assurda, e non mi sentivo all’altezza, capivo di dover lavorare su altri piani per pareggiare i conti.

La Fenech regina.

A lei un giorno dissi: ‘Tu sei bella, ma una donna si giudica la mattina quando si sveglia’.

Tosta.

Una scuola di rivalità non da poco.

Sua sorella?

Completamente diversa, ha sviluppato un rifiuto per tutto ciò che è il mondo dello spettacolo, dell’apparire, ed è introversa. Già allora era molto più bella di me, e sempre le domandavano se voleva diventare attrice, mentre a me quell’interrogativo non lo poneva nessuno.

E lei…

Soffrivo da morire e pensavo: ‘Questi non hanno capito un cazzo: lei è bella, ma il talento sono io’.

Andava sui set?

Certo, anche lì frustrante: stavo in disparte e zitta, mentre intorno a me vedevo e vivevo ogni sfumatura come fantastica, tanto da alterare totalmente il mio rapporto con la realtà; in parte è ancora così.

Cioè?

Ho un pessimo rapporto con tutto ciò che è pratico: dalla burocrazia alle bollette, alla spesa. Mi stresso. E dentro di me voglio restare nel sogno.

Quando ha capito che il mondo del cinema non è solo “fantastico”?

Già da piccola, e in fondo alla mia anima, sentivo che qualcosa non tornava; pensavo: ‘È tutto perfetto, non quadra’. Così da adolescente ho iniziato a scappare e cercare altri mondi, fuggivo in borgata, mi infilavo nelle realtà più degradate e pericolose per aggiornare i miei parametri.

In quali borgate andava?

Ovunque ci fosse perdizione, muretti, strade, personalità inedite; poi per sperimentare sono andata in California.

E lì?

Una sera entro in un celebre locale di striptease di Los Angeles, il The Body Shop, dove aveva lavorato anche Courtney Love (cantante e moglie di Kurt Cobain) e mi sono innamorata del posto, un sogno. Desideravo diventare una di loro.

Obiettivo raggiunto?

C’era un livello artistico elevato, ogni performer si creava il personaggio, il suo spettacolo, compresi i vestiti e le musiche; così andai dal proprietario e gli chiesi la possibilità di un provino. Il giorno dopo ero lì. Dopo dieci minuti sul palco.

Com’è andata?

Bene, poi guadagnavo tantissimo: anche 800 dollari al giorno con turni di 12 ore. E questa storia è andata avanti circa un anno; (ci pensa) in quel periodo ho raccolto tanto materiale, ho parlato con le artiste, volevo scrivere un libro.

Cosa le ha dato quel palco?

Mi piaceva la sensazione di essere un desiderio irraggiungibile, vivevo una sensazione di forza, di dominio, di superiorità. Una Dea.

A differenza delle domeniche a casa sua…

Proprio così: allora vivevo nella bellezza, con l’esempio di perfezione incarnato in mio padre. E non ero all’altezza; ancora oggi quando scoprono di chi sono figlia mi guardano e poi aggiungono: ‘Davvero? Non gli somigli’.

Soffriva la bellezza di suo padre?

No, ne restavo incantata e non mi sono mai abituata, ogni volta che lo vedevo mi stupivo. Mi scocciavo solo per le sue disattenzioni, la sua scarsa voglia di capirmi.

A Los Angeles chi erano gli avventori del locale?

Di tutto. Un pomeriggio è arrivato pure Quentin Tarantino e mi sono nascosta in bagno: lo conoscevo.

Grande fan di suo padre.

Sfegatato, ed ero stata a casa sua grazie al fidanzato di Asia (Argento): un giorno scopro che è molto amico di Tarantino e gli chiedo se posso andare da loro per cucinare italiano. Dopo pochi giorni mi arriva un’email con l’indirizzo e una specifica incoraggiante: ‘Quentin è felicissimo, ti aspetta’.

Perfetto.

Sono partita da Roma con il guanciale nascosto in valigia. Sono arrivato a casa di Quentin e mi ha mostrato la cucina, mi sono chiusa lì, ignorata, mentre gli altri stavano in salotto a discutere di cinema. Porto a tavola la carbonara, Tarantino l’assaggia, e con la bocca mezza piena sentenzia: ‘Ho capito quanto ho mangiato male fino a oggi’.

E poi?

Finito il pasto ci ha portati nella sua sala cinematografica, costretti a vedere due film con papà: Un uomo da rispettare e L’arciere di fuoco, quest’ultimo pure noioso, solo a lui può piacere.

Com’è andata?

Ero concentrata, dovevo restare lucida, così rifiutavo il vino, mentre loro gli davano giù e nelle scene salienti mi stringeva la mano. Li sapeva a memoria.

Lei e suo padre.

Per fortuna ci siamo ritrovati negli ultimi anni, quando ho realizzato un documentario dedicato a lui, una sorta di dichiarazione d’amore mai espressa prima, e po’ per l’egocentrismo d’attore e un po’ per la sensibilità da genitore, abbiamo iniziato a parlare tanto. Come mai prima.

Una fortuna.

Sì, perché papà è morto subito dopo, e quel documentario ha chiarito i lati portanti della nostra e della mia vita e per assurdo sono riuscita a vivere l’addio meglio di mia sorella.

Le amiche venivano a casa per incontrare suo padre?

Sono cresciuta con tutte che sospiravano un ‘ammazza quanto è bono’, e verso i 40 anni era di una bellezza assurda; però il top lo raggiungevamo con il tour dei giapponesi; (ride) e poi uno capisce perché sono cresciuta un po’ strana.

Cosa accadeva?

Dal Giappone organizzavo un pacchetto completo con viaggio in Italia e visita alla villa di Giuliano Gemma, quindi al cancello di casa parcheggiavano i pullman e io, mia sorella e papà eravamo costretti a indossare il kimono e accogliere i fan. Tutti in fila per una foto con lui, mentre noi due prendevamo i doni.

È una sopravvissuta?

Tante volte, a partire dal dolore per la morte di mia madre: cinque anni di malattia, con lei che non mi ha mai preservata da nulla, cruda nelle sue verità: ‘Preparati, manca poco, c’è un Dio per tutti, trova il tuo e continua a lavorare’. Anzi, lo pretendeva: la sera andavo in teatro e il giorno l’assistevo; e poi sono sopravvissuta a una serie infinita di situazioni pericolose nelle quali mi infilavo.

Quindi da se stessa…

Mai posta limiti di nessun tipo, ho frequentato chiunque, mi sono ritrovata in un’auto inseguita dalla polizia.

Tutto ciò la unisce molto ad Asia Argento?

Ce lo diciamo sempre: ‘Madonna che culo a essere ancora vive’.

Da cosa è dipendente?

Dalle emozioni forti: anni fa mi sono fidanzata con un domatore e con lui sono entrata nella gabbia dei leoni, e dopo un po’ di pratica mi sono esibita al circo.

La Vera Gemma di 49 anni cosa direbbe alla Vera Gemma di 18?

Non c’è molta differenza: a modo mio sono stata una bambina prodigio, a 7 anni già leggevo Moravia e avevo pensieri non della mia età. Quindi a 18 ero oltre e purtroppo avevo pochi amici.

E con Asia Argento?

Con lei ho la sensazione di avere una persona al mondo, almeno una, che mi capisce.

Come giudica la sua battaglia sul #MeToo?

Non ho partecipato molto e ci sono aspetti legati a lei dai quali mi dissocio, e non abbiamo la necessità di condividere sempre tutto.

È in disaccordo?

Non è questo il punto: è una sua battaglia, un suo credo profondo, ma certi traumi li ho vissuti insieme ad Asia.

A cosa si riferisce?

Ero con lei al Festival di Toronto quando Weinstein ci inseguiva dappertutto e noi scappavamo disperate.

Ha molestato anche lei?

No, era fissato solo con Asia, a me spettava il ruolo di carabiniere atta a proteggerla, con questo energumeno che veniva a bussarci alla camera d’hotel e noi chiuse dentro, terrorizzate.

Lei e l’Argento avete un tono di voce simile.

Ce lo dicono tutti, e spesso coincide il modo di parlare; forse perché abbiamo passato tanto tempo insieme.

E insieme siete partite per Pechino Express, in onda da martedì.

Siamo finite in villaggi dell’Oriente così estremi, dove gli abitanti non avevano mai incontrato un occidentale.

Fisicamente duro?

Stremante, vivi tutto il giorno per strada, mangi se riesci, e dormi dove capita, magari in uno sgabuzzino circondata da ragni e gatti randagi.

Però…

Sono soddisfatta, ho dimostrato chi sono, il mio reale carattere, le ambizioni, il non essere viziata, sapermi adattare.

Viziata…

Sono oggettivamente cresciuta nel lusso, nelle ville, papà guadagnava tantissimo, per fortuna l’educazione è stata diversa: sacrificio, sport e nessuna lagna.

Sport obbligatorio?

Sempre, tutti i giorni, potevo scegliere solo la disciplina, l’importante era il sacrificio fisico: alla fine, con mia sorella, per dieci anni ho frequentato una scuola di tip tap, e i miei che alle proteste rispondevano: ‘Ti servirà’.

È servito?

Mai! Eppure ogni volta lo specifico ai provini, mai nessuno ne è rimasto colpito. L’unica speranza è partecipare a Ballando con le stelle da Milly Carlucci.

Lei e i soldi.

Me ne sono sputtanati tanti, con al mio fianco una lunga serie di fidanzati squattrinati e sfruttatori. Pagavo tutto io.

Droghe.

La curiosità mi ha portato a provarle tutte, mi sono salvata solo perché non sono mai stata dipendente da niente.

Chi è lei?

Sono buona, sono cattiva, sono estroversa, sono chiusa. Sono tutto e l’opposto di tutto. Ma in realtà sono vera, con la “v” sia maiuscola che minuscola.

È stata mai giudicata “matta”?

Tutta la vita, e mi fa soffrire tantissimo.

Un pensiero che le regala un sorriso.

Un momento intenso con mio padre: mentre montavo il documentario, e a un certo punto l’ho guardato e manifestato un mio turbamento: ‘Papà, non riesco a liberarmi della bambina che ho dentro’. E lui: ‘Tienila con te, è la parte più bella che hai’.

(Una poesia di Costantino Kavafis recita: “Non conobbi legami. Allo sbaraglio, andai. A godimenti, ora reali e ora turbinanti nell’anima, andai, dentro la notte illuminata. Mi abbeverai dei più gagliardi vini, quali bevono i prodi del piacere”).

Twitter: @A_Ferrucci

Usa e Iran, il mistero della nuova guerra che non c’è mai stata

Un mese fa il mondo sembrava sull’orlo di una guerra catastrofica: il 3 gennaio Donald Trump ordina di assassinare con un drone il generale iraniano Qassem Soleimani, mentre si trova a Baghdad, l’Iran reagisce con un lancio dimostrativo di missili sulle basi Usa in Iraq, l’esercito iraniano abbatte per sbaglio un aereo civile in partenza da Teheran, muoiono 176 persone. La guerra temuta, però, non è scoppiata. Anzi. Trump ha potuto vantare un altro (provvisorio) successo della sua politica estera imprevedibile: ha ucciso il secondo uomo più potente dell’Iran dopo l’ayatollah Ali Khamenei senza veri contraccolpi negativi. Perché l’escalation di violenza tanto temuta non c’è stata?

Le spiegazioni che circolano sono diverse. Un think tank israeliano, Besa, parla di “momento Chernobyl” per l’Iran: le dittature, alla lunga, distruggono la capacità di governare e questo crea la condizione per incidenti catastrofici, come l’esplosione di una centrale nucleare o l’abbattimento di un aereo per errore. I retroscena rivelati dal New York Times, in effetti, raccontano una Repubblica islamica in cui i generali dell’esercito non hanno il controllo delle truppe, il governo non sa cosa fanno i militari e nessuno riesce a mascherare le inefficienze altrui. Secondo questa lettura, la morte di Soleimani e l’abbattimento dell’aereo segnano l’inizio della fine del regime. Il successore di Soleimani, Esmail Ghaani, è un sessantenne logorato, non riuscirà a portare avanti l’ambizioso progetto di Soleimani di costruire una “Mezzaluna sciita”, un impero informale cementato da azioni terroristiche per ridimensionare i sunniti e sfinire gli americani in tutti i terreni su cui sono presenti. Senza la spinta verso l’esterno, il regime degli ayatollah imploderà sotto il peso delle sanzioni economiche e del malcontento diffuso.

Col passare dei giorni, però, sembra legittima la lettura opposta: la morte di Soleimani e la reazione dell’Iran sono stati il gattopardesco cambiamento necessario perché nulla cambi davvero. I milioni di iraniani in piazza per i funerali di Stato hanno confermato che Soleimani era un vero leader, con un potere ben superiore a quello della sua qualifica formale di capo della Forza Quds, l’unità della guardia rivoluzionaria specializzata in operazioni non convenzionali. Una figura ingombrante, sia per il primo ministro Hassan Rouhani, sia per gli ayatollah. Le tensioni che da un decennio attraversano la società iraniana possono forse sfociare in un ritorno alla democrazia, come sperano in Occidente, ma potrebbero anche produrre un regime militare, come pare temessero sia le leadership civili che religiose del Paese. Morto Soleimani, la strategia della sua unità Quds proseguirà a destabilizzare Libano, Iraq e Siria, ma senza quella sorta di Che Guevara persiano a vantare i successi. Gli amanti dei complotti osservano che la fonte delle informazioni necessarie a organizzare l’attacco americano deve essere interna al regime iraniano. La mancata escalation, quindi, si spiegherebbe col fatto che la morte di Soleimani ha rafforzato l’attuale assetto istituzionale iraniano: contestare governo e ayatollah è oggi più difficile dopo che il Paese si è compattato contro l’offensiva straniera.

Dal lato americano, la Camera dei rappresentanti guidata dalla democratica Nancy Pelosi ha votato una risoluzione per impedire a Trump altre iniziative senza consenso preventivo. Tutti i presidenti cercano di aggirare i limiti del proprio potere esecutivo, però soltanto il Congresso ha la legittimità di dichiarare guerra. Ma alla Casa Bianca e al Pentagono non interessa un conflitto aperto: con la scusa di reagire agli attacchi iraniani (a loro volta conseguenza dell’assassinio di Soleimani), Trump ha spianato un sistema di missili Patriot in Iraq. Con il doppio risultato di tenere Teheran sotto pressione, ma anche di tacitare ogni velleità di autonomia dell’Iraq, oggi governato da una maggioranza sciita teleguidata dall’Iran. All’indomani della morte di Soleimani, e del suo omologo e collaboratore iracheno Abu Mahdi al-Muhandis, il Parlamento iracheno ha votato una risoluzione per chiedere alle truppe Usa di lasciare il Paese che hanno inviato nel 2003. Come risposta si trovano i missili Patriot al confine con l’Iran.

L’assassinio di Soleimani, quindi, non ha scatenato una guerra. Ma sembra aver consolidato un equilibrio fragilissimo le cui vittime principali sono i cittadini iraniani e gli sfidanti democratici alle Presidenziali di novembre che non sanno più se criticare Trump perché ha rischiato di destabilizzare il Medio Oriente con l’uccisione di Soleimani o perché non ci è riuscito.

The Donald, via i “traditori”: lo accusarono al Kievgate

“You’re fired!” è la frase che rese celebre Donald Trump come conduttore televisivo del suo show The Apprentice: “Sei licenziato”. Il magnate presidente lo ha detto più volte, da quando è alla Casa Bianca: ha licenziato consiglieri per la Sicurezza nazionale, ben tre, capi dello staff, ministri, consiglieri e avvocati, tutta gente scelta da lui: lo spoils system non c’entra. Uscito assolto dal processo di impeachment, Trump ha iniziato il repulisti: via tutti quelli che gli hanno testimoniato contro o che, pur stando dalla sua parte, hanno tradito le sue attese. “Chi ha innescato l’inchiesta e danneggiato il presidente deve pagare”, dice l’ufficio stampa. Così, Trump ha richiamato il rappresentante degli Usa presso la Ue Gordon Sondland e ha cacciato dal Consiglio per la Sicurezza nazionale il colonnello Alex Vindman, allontanando pure suo fratello Yevgeny Vindman, consulente legale alla Casa Bianca. Fra le figure a rischio, c’è, o ci sarebbe, pure il capo dello staff ad interim della Casa Bianca, Mick Mulvaney, che non depose, ma che rilasciò dichiarazioni “incriminanti” in conferenza stampa: il presidente, però, smentisce di volerlo sostituire con il deputato Mark Meadows, uno dei suoi più accaniti difensori.

Sondland, come Vindman, è stato uno dei testi chiave nell’inchiesta della Camera che ha portato all’impeachment di Trump ed ha annunciato lui stesso il benservito: “Il presidente intende richiamarmi immediatamente”, dichiara Sondland, un uomo d’affari anti-Ue mandato a Bruxelles per meriti acquisiti in campagna elettorale: donazioni alla squadra del magnate. Lo strano è che la sua deposizione era stata elogiata dal tycoon, anche se aveva ammesso il quid pro quo: niente aiuti militari all’Ucraina se Kiev non avesse messo sotto inchiesta i Biden. Il legale di Vindman, un ufficiale di origine ucraina, afferma: “Gli è stato chiesto di lasciare per avere detto la verità”. Nei suoi confronti, Trump twitta insulti pesanti: “Un insubordinato… una talpa”.

Il Kievgate era già costato il posto a personaggi eccellenti, fra cui l’inviato speciale degli Usa in Ucraina Kurt Volker, l’ambasciatrice a Kiev Marie Yovanovitch, diplomatici di rango come Bill Taylor e Michael McKinley, e ancora Jennifer Williams, consigliere per gli affari europei del vice-presidente Mike Pence. Le scosse d’assestamento post impeachment alla Casa Bianca hanno fatto passare in secondo piano il dibattito fra gli aspiranti alla nomination democratica nel New Hampshire, dove martedì 11 ci saranno le primarie: i sondaggi danno avanti Buttigieg e Sanders; Biden e la Warren inseguono. Sul palco venerdì erano in sette: in ordine alfabetico Biden, Buttigieg, Klobuchar, Sanders, Steyer, Warren, Yang. Fuori gioco Gabbard, Bennet e Patrick, oltre a Mike Bloomberg, che non partecipa alle primarie di febbraio.

Salvador, all’inferno e ritorno

Javier aveva 17 anni quando, nel 2010, sfuggì al reclutamento della banda del suo quartiere rifugiandosi negli Stati Uniti dove viveva già sua madre, Jennifer B. Aveva 23 anni Javier quando morì per mano della gang rivale, quattro mesi dopo essere stato rispedito a El Salvador, causa respingimento della richiesta d’asilo da parte degli Usa. “A El Salvador è così. Basta un tatuaggio scomodo e sei morto”, è il commento degli operatori di Human right watch; la Ong ha appena pubblicato il primo dossier su quasi dieci anni di deportazioni forzate, abusi e morti di cittadini salvadoregni a causa dei rimpatri dagli Usa. E la responsabilità della polizia di frontiera americana, questa volta, non c’entra. O meglio, non ne è l’unica causa. Le forze dell’ordine dei paesi d’origine dei migranti non sono da meno, quanto a crudeltà.

Tre anni dopo Javier, da El Salvador scappano i cugini Walter e Gaspar T. rispettivamente 16 e 17 anni. Dopo sei anni negli Usa, Washington rifiuta di dare loro asilo e anche i due fanno ritorno al proprio destino. Una notte, i poliziotti salvadoregni entrano in casa e iniziano a picchiarli, prima ancora di svegliarli, senza mandato e senza una ragione. Li portano in commissariato e lì vengono picchiati per tre giorni di seguito, trattenuti con l’accusa di associazione a delinquere. Angelina N. a 20 anni, nel 2014, era riuscita a sottrarsi agli abusi perpetrati su di lei dal padre di sua figlia di 4 anni e da un altro membro della loro banda. Fermata dalle autorità Usa nel tentativo di passare la frontiera, Angelina viene deportata quello stesso anno. E quello stesso anno, decide di non provare neanche più a denunciare l’uomo che riprese a violentarla puntandole una pistola alla tempia e minacciando di morte suo padre e sua figlia se avesse fatto ricorso alla polizia. “Gli Stati Uniti da anni hanno la responsabilità diretta di mettere a rischio la vita di milioni di persone, sapendo che rimpatriandole a El Salvador in molti casi le condannano a morte”, scrive nel rapporto Hrw, secondo il quale sarebbero 1,2 milioni i salvadoregni residenti negli Stati Uniti senza cittadinanza. Di questi, poco più di un quarto hanno un permesso permanente, mentre i restanti tre quarti sono senza documenti, con uno status precario e dunque facilmente preda delle bande. L’Ong ha stimato che in soli quattro anni, dal 2014 al 2018, tra Usa e Messico i deportati salvadoregni sono stati circa 213 mila, nel silenzio generale.

“Nessun governo, nessuna agenzia dell’Onu o altra Ong ha monitorato finora cosa accade alle persone una volta rimandate in territorio salvadoregno”, denuncia Hrw che, attraverso questo primo dossier vuole testimoniare che le politiche degli Usa sempre più stringenti in tema di asilo e immigrazione mettono “sistematicamente in pericolo i richiedenti asilo, oltre a violare ripetutamente gli obblighi di protezione nei confronti dei cittadini di El Salvador che nel proprio paese di origine sono esposti a gravi rischi”. I numeri del dossier – ricavati con difficoltà da articoli di cronaca, atti giudiziari e interviste a familiari superstiti, membri della comunità e funzionari, in assenza di un conteggio ufficiale – parlano chiaro: dal 2013, 138 salvadoregni sono stati uccisi una volta rimpatriati dagli Usa.

Di questi, 70 sono casi di violenza sessuale, tortura o altri crimini perpetrati di solito dalle bande. In più di 100 casi gli operatori hanno riscontrato un legame tra le ragioni che hanno spinto le vittime a fuggire dal proprio paese e quella della loro morte e – come per Javier, i cugini T. e Angelina – tornano a soffrire gli stessi maltrattamenti, spesso negli stessi quartieri da cui sono fuggiti e dalle stesse persone, che si tratti di membri di bande, agenti di polizia, forze di sicurezza o criminali domestici. E l’allarme di Human right watch si fa più forte tanto più ora che “le politiche di asilo e immigrazione di Trump rendono più difficile per le persone in fuga dai propri paesi ottenere asilo negli Usa, separando i bambini dai genitori”. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero di salvadoregni che ha paura di tornare a El Salvador è aumentato esponenzialmente. Tra il 2012 e il 2017, il numero di richiedenti asilo annuali salvadoregni negli Stati Uniti è cresciuto di quasi il 1.000 per cento, passando da circa 5.600 a oltre 60.000. E sempre più spesso ricevono un ‘no’, quasi sempre definitivo, come Javier, Walter, Gaspar e Angelina.

Tramadol. La droga del migrante

Le confezioni vengono buttate via. Le pillole, tutte rosse, tagliate una a una. Tramadol Hydr. Tamol XX. Ma anche Rivotril, Anafranil. Arrivano nei trolley, in quel non luogo che è diventata l’ex pista di Borgo Mezzanone, periferia di Foggia: una, due volte alla settimana. Assieme a bustine di cocaina, hashish, marijuana messa a macerare in bottiglie di gin, da vendere ai migranti “abitanti”. Per lo più braccianti agricoli che in questo periodo dell’anno vanno a raccogliere – anche se è inverno, per 8-10 ore al giorno – broccoli, carciofi, verze, bietole e spinaci. Qualcuno, per i campi, parte in bici. In tanti, col pulmino del “capo nero”, il migrante che forma le “squadre” pronte all’uso del caporale di turno. Il tramadolo rosso si compra a 3 euro a pasticca: più o meno quello che in media si guadagna qui per riempire un cassone di verdure. “Alcune persone vengono per vendere medicine qua… vengono anche per la polvere bianca”, ci raccontano dalle baracche. “Il tramadolo è per tutto. Cura anche la schiena”. “Certi sono diventati matti…”. Alcuni lo assumono per i suoi effetti analgesici e calmanti. Altri, per reggere certe prestazioni fisiche e lavorative, e ridurre la necessità di dormire e mangiare. Altri ancora, per la “resistenza” sessuale. C’è chi lo prende al posto dell’eroina, per sopportare l’astinenza. E chi contro depressione e ansia. Il tramadolo è un oppioide. Tra i tanti, è ritenuto il “più innocuo”. È un oppiaceo farmaceutico. Di quelli che, in Italia, posso essere prescritti dal medico di base – non essendo considerati sostanze stupefacenti, in quanto farmaci – per trattare “il dolore moderato e moderato-severo”. Come quando un anziano si rompe una gamba o il femore, per esempio. Ma si sta diffondendo sempre più un uso non medico del tramadolo. A partire da alcuni Paesi del West Africa. E a dire che siamo di fronte a un’emergenza pari a quella dell’uso del Fentanyl negli Usa (l’altro oppioide sintetico che lì ha causato oltre 47.000 morti per overdose, solo nel 2017), sono le Nazioni Unite.

Secondo l’ultimo World Drug Report, 53 milioni di persone hanno ammesso nel 2017 di aver fatto uso di oppioidi nell’anno precedente. Le maggiori quantità di oppiacei sintetici sono state sequestrate non negli Stati Uniti o in Cina, ma in Nigeria (a seguire, in Egitto): a far schizzare il Paese in cima alla classifica è stato proprio il tramadolo. La quantità sequestrata di tramadolo ha raggiunto la cifra record, a livello mondiale, di 125 tonnellate: nel 2010, non arrivava a 10 chili (l’aumento è di 1.249.900% !!!). E l’87% dei sequestri è avvenuto proprio in Africa occidentale e centrale.

Nei Paesi in via di sviluppo – con scarso accesso alle cure mediche e che non sono in grado di permettersi i più costosi analgesici in uso in Occidente – il tramadolo viene usato come antidolorifico. Ecco perchè l’International Narcotics Control Board delle Nazioni Unite ha rifiutato di aggiungerlo all’elenco delle “sostanze controllate”. Per evitare che fosse reso difficile l’accesso nei Paesi a basso reddito, per cui il tramadolo è un farmaco vitale. Avendo un decimo della potenza della morfina, si è ritenuto, erroneamente però, che la probabilità di creare dipendenza da tramadolo fosse bassa. Esiste invece un problema, in caso di sovradosaggio. La dose raccomandata dovrebbe essere di 50 mg per compressa, mentre in Paesi come Nigeria, Gabon o Ghana raggiunge i 200 o 250 mg, aumentando i rischi per la salute e creando dipendenza. Basti pensare che, senza andare in Africa, l’Agenzia francese per la sicurezza dei farmaci ha disposto che gli antidolorifici contenenti tramadolo – i più usati in Francia – vengano prescritti per cure di massimo 3 mesi, proprio per limitarne l’abuso e il rischio di astinenza. Anche nella maggior parte dei Paesi dell’Africa occidentale e centrale, è legale solo la vendita di tramadolo da prescrizione. Gran parte della popolazione qui, però, è solita acquistare medicinali al di fuori dei canali ufficiali: un mercato nero, quello dei farmaci contraffatti, che solo per il continente nero è stimato in 200 miliardi di dollari. Il tramadolo utilizzato per scopi diversi da quelli medici non proviene da fonti farmaceutiche autorizzate, ma è preparato in laboratori senza licenza. Qui viene sintetizzata la sostanza di base, che arriva per lo più dall’India, il primo hub per il traffico di tramadolo. “Pillole contraffatte o di qualità inferiore, originariamente made in India e Cina – spiega Jeffery Bawa, responsabile dell’Unodc per il Sahel – entrano nell’area subsahariana atttraverso Paesi costieri come Benin, Ghana, Costa d’Avorio e Nigeria. Da qui, parte il traffico illegale in tutta la regione e in alcune parti del Medio Oriente, come Gaza”. Per arrivare fino all’Italia.

Non solo Borgo Mezzanone. A Reggio Emilia, “Unità di Prossimità”, un servizio di unità di strada della cooperativa Papa Giovanni XXIII, lavora da anni con persone italiane e straniere con fragilità complesse come abuso di sostanze e difficoltà abitative e sanitarie. Secondo una loro indagine – l’unica del genere condotta in Italia – il tramadolo per uso non medico è assunto anche nel nostro Paese. Luca Censi, referente operativo di Up, racconta di come nelle loro uscite territoriali trovassero, tra gli scarti di materiale sanitario abbandonato, sempre più blister di Tramadol. Così per circa due anni hanno indagato l’utilizzo dell’oppioide sintetico, con l’obiettivo di monitorarne l’uso in strada a Reggio Emilia. Ne è emerso che il consumatore italiano assume tramadolo solo per scopo ricreativo, alla dose di 50 o 100 mg. I dati più interessanti però sono emersi dai migranti richiedenti asilo, per lo più provenienti dal West Africa: utilizzano compresse a dosaggio più alto (200/250 mg, 0,50-1 euro a pezzo) proveniente da India e Nigeria, per lo più dal mercato nero. Non solo a scopo ricreativo e come antidolorifico, ma soprattutto in associazione alla cannabis come sedativo per stati ansiogeni e depressivi. “L’idea che ci siamo fatti è che il super-tramadolo, quello da 250 mg – spiega Censi – sia lo stesso che queste persone usano in Africa, portato in Italia anche grazie al ruolo crescente che potrebbero avere i cartelli della mafia nigeriana”.

L’unica indagine sui consumi di droga in Africa arriva proprio dalla Nigeria: uno studio del 2017 sull’uso non medico degli oppioidi da prescrizione, tramadolo in testa. I consumatori sarebbero 4,6 milioni, di età compresa tra 15 e 64 anni. In 8 casi su 10, consumatori abituali che spendono in media 3,6 dollari quotidianamente (in un Paese dove la maggioranza vive con meno di 2 dollari al giorno).

“Quello che facciamo è leggere i consumi rispetto al contesto”, racconta Censi. “Un conto è se prescrivo tramadolo a una persona in seguito a un trauma o come de-ospedalizzazione, un altro è se a farne uso è chi vive in strada ed è un richiedente asilo bloccato nel limbo dei centri di accoglienza. È droga, in questo caso. Associata alla condizione specifica in cui vive, oggi in Italia, un richiedente asilo. L’incertezza estrema, l’impossibilità di essere padroni del proprio futuro è la stessa che avvertono nei loro Paesi d’origine”. Ce lo ricorda Sarah, questo il nome di fantasia che ci hanno dato all’ex pista adibita a campo, a Borgo Mezzanone. Sarah è la giovane donna africana che, dopo tre giorni di agonia, è morta giovedì scorso, in seguito all’ennesimo rogo scoppiato nelle baracche. Aveva ustioni sul 90% del corpo, la metà di terzo grado. Sarah non ha ancora un nome. E non sappiamo se mai l’avrà.

Essere Ignazio Visco è davvero un lavoro difficile

Essere Ignazio Visco non è un lavoro facile: si ritrova, dopo un primo settennato “sfortunato”, confermato governatore di Bankitalia solo perché Renzi l’aveva messo sulla graticola costringendo il Quirinale a blindarlo (così ha raccontato Gentiloni in un libro). Ora opere e omissioni del passato tornano a trovarlo di continuo, da ultimo sotto forma di Popolare di Bari. Ieri il povero Visco s’è presentato dunque assai nervoso davanti alle meglio grisaglie dell’Assiom Forex e s’è dedicato alla tradizionale autodifesa, pratica che di recente s’è fatta più difficile. Ha detto Visco: “Quando Pop Bari ha acquisito Tercas sulla base di una propria autonoma scelta imprenditoriale, la Vigilanza…” ha fatto tutto bene (riassunto). Bizzarro, visto il risultato e visto che nel bilancio 2014 dello stesso istituto c’è scritto: “Nell’ottobre 2013 la banca è stata chiamata a valutare una possibile acquisizione di Tercas…”. Chiamata da chi? “Banca d’Italia”, aveva spiegato a verbale l’allora presidente Marco Jacobini al cda il 17 ottobre 2013. Ha detto Visco: “Ho letto ricostruzioni che segnalerebbero ‘estrema accondiscendenza dei vertici dell’istituto’ nei confronti di Pop Bari”, “una insinuazione non solo del tutto priva di fondamento ma altamente offensiva”. Speriamo avrà modo di spiegarlo al Gip di Bari, che l’ha sostanzialmente scritto nella sua recente ordinanza di arresto di Marco Jacobini e del figlio. Ora, non sappiamo se Visco – come si vocifera da tempo nei palazzi romani – possa lasciare l’incarico in anticipo: nel caso, qualcuno dica a Renzi di tacere.

La stanchezza non si sente, i tacchi sì: ormai sono diventati una gag

Per la prima volta da quando sono a Sanremo mi sono concessa qualche attimo per respirare il clima della città, quell’aria salmastra e floreale che conosco molto bene. E ancora una volta mi sono ritrovata bambina, quando a 10 anni stavo dall’altra parte a chiedere gli autografi, e magari saltava qualche giorno di scuola. Io come loro. Aspettavo queste giornate per vedere i miei miti, in particolare un anno ha coinciso con il film del periodo, un cult assoluto, Il tempo delle mele, e al Festival arrivò Richard Sanderson, autore della colonna sonora, quella musica con la quale le ragazze e i ragazzi della mia generazione (e forse pure le successive) hanno sognato durante i primi lenti alle feste del sabato pomeriggio. Ecco, io ero fuori dall’Ariston in sua attesa e riuscii a strappare quella firma come oggi ho visto tanti fan chiedere selfie e ancora selfie ai protagonisti di quest’anno.

Che bello.

E poi tutti continuano a domandarmi se sono stanca. No, non lo sono. O forse sì, ma che importa? È talmente intenso stare qui, da tramutare la presunta stanchezza in energia positiva, adrenalina, gioia, divertimento, quindi va benissimo, tra una prova sul palco, il trucco, il vestito, poi devo affrontare i soliti problemi con i tacchi, ma su quei trampoli non sto a mio agio, non l’ho mai nascosto e oramai è diventata una gag. Comunque sono pronta ad affrontare nuovamente la scalinata, e questa volta ne sono certa: non inciampo.

Ps. Il tempo delle mele in qualche modo mi ha accompagnato negli anni successivi, e non solo come colonna sonora: per un periodo sono stata fidanzata con Pier Cosso, protagonista del sequel. I casi della vita…