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Il Fatto Quotidiano, esempio di onestà per i giornali italiani

È un obbrobrio che, tra tutti i giornaloni italiani, solo il Fatto Quotidiano esponga in modo onesto, dettagliato, chiaro ed esauriente, tutto il marciume che si nasconde dietro il lercio tema della prescrizione, con il quale si vuole, addirittura, bloccare il governo, impedendogli, in modo ostinato, di dedicarsi a migliaia di altri problemi ben più importanti, come ad esempio: riconoscere una paga dignitosa a quei poveracci dei riders che portano gli alimenti a domicilio, che per pochi centesimi sono costretti a sfrecciare, come disperati, nel traffico cittadino, rischiando continuamente di spezzarsi l’osso del collo, o peggio.

Piero Angius

 

Andate avanti, la mia stima a Monteverdi e Lucarelli

Buongiorno dottor Travaglio, sono Vito, un pensionato. Vi scrivo poche parole per mandare un caro saluto all’amministratore delegato Cinzia Monteverdi, e alla giornalista Selvaggia Lucarelli. Andate avanti sempre così.

Vito Matarazzo

 

Matteo sfida gli alleati, rischia la fine di Salvini

Mentre nell’Ue si lavora, grazie anche ai nostri Sassoli e Gentiloni, per passare dal patto di stabilità – che tanti Paesi europei ha messo in ginocchio – a una politica per la crescita e lo sviluppo economico, prevedendo tasse contro chi inquina e incentivi per chi non lo fa, nel nostro Paese assistiamo alla sfida continua tra Renzi e gli alleati di governo sul tema della prescrizione dei processi. Insomma, dalla saggia Europa green passiamo alla minaccia di provocare la crisi di governo da parte dell’Iv e di Renzi. E, infatti, è fallita la mediazione di Conte per un rinvio delle modifiche alla legge Bonafede, in attesa di varare la riforma del processo penale per introdurne una ragionevole durata, con Pd, M5S e LeU favorevoli e con la minaccia di un voto contrario in aula da parte di Renzi. Non resta, quindi, a Conte che sfidare lo stesso Renzi come ha fatto a suo tempo con Salvini. E, se Renzi vuole rischiare la fine ingloriosa del Conte 1 a causa delle dimissioni dello stesso Salvini, si accomodi pure. Il resto è noia.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Berlusconi e la questione morale mai affrontata

Caro direttore, vorrei porre l’accento sulla questione morale che la biografia di Berlusconi ci induce a guardare con le giuste lenti. Troppo spesso la politica ha visto nelle istituzioni repubblicane non un luogo dove portare a compimento il bene comune, ma un piatto di spaghetti simile in modo imbarazzante a quello che, nel finale di Miseria e Nobiltà, viene servito di fronte agli affamati protagonisti. E troppe volte la politica non ha esitato a metterci direttamente le mani dentro se non addirittura, nella foga che l’avidità causava, riempirsene le tasche senza decenza. Con poche differenze: Totò impersonava un miserabile, mentre la politica non è composta dagli ultimi; e, nel caso di quel piatto ricco che è lo Stato, gli spaghetti sono i nostri soldi, la nostra dignità e il nostro futuro. Berlusconi è soltanto l’ennesimo “morto di fame” partorito da quel periodo di decadenza e deregulation che ha coinciso con gli anni 80. Riepiloghiamo brevemente la sua storia. Un palazzinaro abilissimo, talmente perito nel campo del mattone, che sul finire degli anni 70 stava per fallire; e tale sarebbe rimasto, un “Berlusconi chi? Il palazzinaro fallito?”, se non gli fossero piovuti sulla testa dei soldi arrivati chissà da dove, che utilizzò per avviare il suo impero mediatico. Uno straordinario comunicatore, così abile che, senza pagare la politica, non avrebbe mai avuto successo in questo campo; e ciò nonostante, corse il rischio di fallire per debiti, lo ricorderemmo con un “Berlusconi chi? Il magnate dei media fallito?”, se non fosse entrato in politica per usarla, di nuovo, per se stesso. Uno statista geniale, talmente provetto che, dopo il suo venticinquennio costellato di leggi vergogna e incompetenza, l’Italia si ritrova in una situazione disastrosa. Chi ha scritto la carta fondante della nostra democrazia non era uno sprovveduto, continuiamo dunque a porci questioni etiche e morali in politica.

G. C.

 

Nessuna pensione anticipata per le categorie protette

Sono passati nove anni e sei governi dalla riforma Fornero. Gli invalidi dal 46 al 74 per cento continuano a non avere alcun beneficio pensionistico. Nessuna pietà neanche per coloro che sono collocati nelle percentuali oltre il 60 per cento, affetti da pluripatologie anche gravi. Nel frattempo, gente sanissima di peso elettorale va in pensione prima di un invalido. Si ponga rimedio a questa ingiustizia, consentendo a questa categoria di poter accedere alla pensione anticipata.

Una persona malata o con handicap, in un Paese civile, dovrebbe avere l’opportunità di andare in pensione a 60 anni. In questi giorni si riparla di riforma delle pensioni, almeno in questa occasione ricordatevi di noi.

Antonio Montoro

 

I NOSTRI ERRORI

Segnaliamo che, contrariamente a quanto riportato nell’articolo pubblicato ieri “Moda e turismo, il virus colpirà pure il Made in Italy”, la presenza cinese nell’azionariato Pirelli è pari al 45,5% e non il 100% come erroneamente riportato.

Ufficio Stampa Pirelli

Prescrizione, Renzi bluffa persino con i sopravvissuti

“Non voteremo questo pasticcio. Se lo vogliono fare ci caccino”.

Matteo Renzi sulla prescrizione, “Corriere della Sera”

 

Enrico Berlinguer ebbe a definire Bettino Craxi “un giocatore di poker”. Anche Matteo Renzi ha confuso la politica con il tavolo verde quando nel 2016 con il referendum sull’abolizione del Senato decise di giocarsi l’intero piatto – Palazzo Chigi e il Pd ai massimi storici – e perse tutto. Perché, a differenza del leader socialista che con una piccola dote di voti, rilancio dopo rilancio, riuscì a scalare il governo, il pokerista di Rignano non sa neppure bluffare. Come quando minaccia di non votare a Palazzo Madama l’accordo raggiunto da Pd, M5S e LeU sulla legge Bonafede. Mentre tutti sanno che se si andasse subito a nuove elezioni Italia Viva rischierebbe di tornare in Parlamento dimezzata o quasi. Infatti, già adesso non sono pochi coloro che dal partitino virtuale nato da una manovra di palazzo (e impantanato in un malinconico 4-5%) sarebbero tentati di ritornare al Pd per afferrare un paracadute elettorale, finché sono in tempo. Una volta scoperto il bluff, l’ex tutto ha cambiato tattica cercando di passare per vittima con quel “ci caccino” che sembra tanto la disperazione dell’ultima fiche. Eppure, un secolo fa, conoscemmo un altro Renzi, quello che di fronte all’infamia Eternit – centinaia di vittime dell’amianto e i dirigenti della multinazionale che la fecero franca grazie alla prescrizione – ebbe un soprassalto d’indignazione per quella giustizia delle scappatoie fatta su misura per i carnefici. Se, come speriamo, in lui quel sentimento non è stato cancellato dal cinismo del potere, vorremmo sommessamente chiedergli di leggere l’intervista che ha rilasciato al Fatto Quotidiano Marco Piagentini, che il 29 giugno 2009 ha perso nella strage di Viareggio la moglie Stefania e i figli Lorenzo e Luca di 2 e 4 anni. Mentre Marco ha subito in questi anni oltre trenta interventi chirurgici, tutti in anestesia totale, per riabilitare un corpo ustionato sul 90 per cento della pelle. Alla tragedia sua e delle 32 vittime si aggiunge adesso la ferita più grave: dal giugno dell’anno scorso, proprio grazie a quella prescrizione che Renzi e gli altri “garantisti” alle vongole oggi difendono, non si può più procedere per i reati di incendio e lesioni colpose gravi e gravissime. In realtà, come scrive Antonio Massari, oggi risulterebbe già estinto anche l’omicidio colposo se non fosse stato agganciato all’aggravante dell’incidente sul lavoro che ha spostato i termini al 2026. Ma se non c’è più l’incendio e non ci sono più le lesioni mortali, ci dica senatore Renzi cosa è allora che ha bruciato i piccoli Lorenzo e Luca, che ha ucciso la loro mamma, che ha ridotto a un corpo straziato il loro papà? Saremmo lieti se un personaggio da cui tutto ci divide, tra un azzardo politico e l’altro, avesse la faccia e il coraggio di rispondere a Marco Piagentini che dice: “La mia vita straziata è la sola che non si prescriverà mai”.

Un finto inverno in Europa, caldo record in Antartide

In Italia – La stravaganza climatica principale dell’ultima settimana è stata il caldissimo foehn di lunedì 3 febbraio in Piemonte. All’osservatorio di Moncalieri 25,9 °C (18 °C sopra media!) non si erano mai misurati in alcun mese da novembre a febbraio nella serie dal 1865. Inoltre, caso rarissimo con il vento dalle Alpi che di solito rende l’aria trasparente, l’orizzonte era offuscato da polvere sahariana giunta con un ampio giro attraverso l’Atlantico e il Golfo di Biscaglia. Caldo record per febbraio con 27,0 °C anche al Capo Bellavista, in Sardegna orientale, e a Catania martedì. La situazione è tornata appena invernale entro mercoledì con un fronte freddo che ha bruscamente abbassato le temperature di 15 °C in poche ore, con danni e alcuni feriti per i venti settentrionali di insolito vigore (124 km/h a Stintino, Sassari, 190 km/h sulle vette delle Alpi orientali), mari in burrasca e un’imbiancata di neve a 500 m dalla Puglia alla Sicilia. Cose che capitano in inverno, come le punte di -5 °C di venerdì mattina in Pianura Padana… ma domani tornerà primavera sotto correnti atlantiche tiepide e tese. In Piemonte, dove vige il divieto assoluto di accendere fuochi, riprenderà il foehn e il tempo secco proseguirà a oltranza, mentre volge al termine un finto inverno che sta giocando un testa a testa con quello del 2006-07 nell’elenco dei più miti in due secoli.

Nel mondo – Lunedì e martedì sono state giornate più estive che invernali anche in Spagna e Francia, con nuovi primati di 29,6 °C a Valencia, 26,6 °C a Biarritz, 26,4 °C a Frejus, presso Nizza, e 24,3 °C a Bastia, in Corsica. Qui il vento impetuoso (195 km/h sul “Capo”) ha propagato un vasto incendio boschivo nel Sud dell’isola. Ed era appena terminato, secondo il servizio di monitoraggio satellitare Copernicus, il gennaio più tiepido mai avuto in Europa con 3,1 °C sopra media, superando di 0,2 °C il gennaio 2007. A Stoccolma, Helsinki, Copenhagen e Praga non è nevicato, e Mosca ha registrato per la prima volta una temperatura media di gennaio sopra zero (0,1 °C), oltre norma di quasi 7 °C. Più risicato ma pur sempre allarmante il primato termico del mese raggiunto anche a scala globale, di cui a giorni si attende conferma da Nasa e Noaa. Inoltre il bimestre dicembre-gennaio è stato il più mite dal 1895 negli Usa, dove peraltro nei giorni scorsi le alluvioni hanno causato 5 vittime nel Sud-Est. Gravi inondazioni anche in Ruanda e Tanzania, una trentina di morti in totale, ieri il violento ciclone tropicale “Damien” ha toccato la costa dell’Australia occidentale con dannosi venti a 165 km/h, e oggi la tempesta battezzata “Ciara” dal Metoffice investe il Centro-Nord Europa. Nemmeno l’Antartide, in piena estate australe, è sfuggita alle anomalie di caldo di questo periodo: 18,3 °C giovedì 6 febbraio alla base argentina Esperanza (Penisola antartica), temperatura più alta mai rilevata nel continente, che supera il recente estremo di 17,5 °C stabilito nello stesso posto il 24 marzo 2015, da poco validato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale. La vastità del problema climatico e ambientale, ma anche del ventaglio di abitudini che fin da subito potremmo correggere nelle nostre vite, affiorano nel libro L’umanità in pericolo (Einaudi) della scrittrice e ricercatrice francese Fred Vargas, nota per i suoi polizieschi. Documentato come un saggio scientifico e avvincente come un giallo, con stile disinvolto aiuta il lettore a capire l’insidia più seria finora apparsa nella storia umana. L’autrice è forse troppo ottimista riguardo alla volontà comune di cambiare di fronte a una minaccia esistenziale per la nostra specie. Ma d’altronde, “che diavolo, mica lasceremo che si compia un simile, mostruoso crimine!”.

Rispetto alla bontà di Dio, la nostra è una giustizia a metà

C’è giustizia sulla terra? E c’è giustizia in cielo? Sono domande antiche e attuali, che tutti ci siamo poste o ci poniamo periodicamente. Sono domande esistenziali ma anche politiche, perché una società umana si giudica anche dalla giustizia che vi si amministra. La Bibbia si occupa della questione, sia per quanto riguarda la terra sia per quanto riguarda il cielo (“Dov’è il Dio di giustizia?”, Malachia 2,17). Anche Gesù si occupa della giustizia degli uomini e della giustizia di Dio. Ne è un esempio la parabola di Matteo 20,1-16 in cui Gesù racconta del padrone di una vigna che dà lavoro a diversi operai giornalieri. Di questi, alcuni lavorano tutta la giornata, altri solo una parte, gli ultimi un’ora soltanto. Quando il lavoro è finito, quelli che hanno lavorato solo un’ora e quelli che hanno lavorato solo una parte della giornata ricevono dal padrone della vigna lo stesso compenso che era stato pattuito con quelli della prima ora, con quelli, cioè, che hanno faticato tutto il giorno.

Un comportamento sorprendente, per non dire scandaloso. La decisione del padrone, infatti, non corrisponde alla nostra esperienza né alla nostra idea di giustizia, che è e rimane, nonostante tutti gli sforzi che possiamo fare, retributiva (a un tanto corrisponde un tanto ecc.). È basata, cioè, su quello che siamo in grado o vogliamo fare, non sul nostro bisogno: certo che abbiamo tutti la stessa necessità di lavorare per vivere, ma la retribuzione è commisurata al lavoro, non al bisogno. Sarà duro, ma è inevitabile, è il male minore. Perché così è la vita, perché così va il mondo.

Ma è proprio in questo che differisce la giustizia di Dio dalla nostra, e quindi il Regno di Dio dal regno degli uomini: che la nostra è, e non può che essere, una giustizia a metà (quella dell’uomo “vecchio”), non una giustizia piena ed equa (quella dell’uomo “nuovo”). Anche se il concetto di giustizia che si è sviluppato nelle società occidentali fa riferimento anche a criteri di equità, di proporzione della pena e di riabilitazione del reo, quello che prevale è pur sempre il concetto della giustizia retributiva, che stava anche alla base della legge del taglione (occhio per occhio e dente per dente). Qui, invece, Gesù fa intravedere il mondo nuovo di Dio, quello in cui i criteri di giudizio e di giustizia sono caratterizzati dalla benignità/bontà, ovvero della grazia.

Un criterio che, se applicato rigorosamente, scandalizza l’uomo “vecchio”, anche l’uomo religioso, che infatti lo nega (o cerca di farlo), minimizzandolo, limitandolo, condizionandolo. La frase del v. 15 – una delle più dense teologicamente di tutta la Bibbia – dice: “Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio? O vedi tu di mal occhio che io sia buono?”. Una domanda che resta sospesa perché attende una risposta, anche da noi: anche noi vediamo di mal occhio che Dio sia buono? Ma Dio è così e agisce proprio così: con libertà (“Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio?”) e con benignità/grazia (“vedi tu di mal occhio che io sia buono?”). Ed è fondamentale che la libertà di Dio si coniughi con la benignità, perché la libertà da sola non è per nulla rassicurante, sappiamo che non è detto che porti con certezza al bene.

Libertà e benignità di Dio. Gesù ne ha appena parlato nel suo colloquio con il giovane ricco, al cap. 19 di Matteo, quando gli dice “Uno solo – cioè Dio – è il buono” (v.17. Nella versione di Marco è ancora più interessante: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio”, 10,18). Dio dunque è buono/benigno, i suoi pensieri sono pensieri di benignità, le sue vie sono vie di benignità per noi. Come dubitarne? E perché dubitarne? O anche noi vediamo di mal occhio che Dio sia buono?

*Già moderatore della tavola Valdese

Tanto comanda sempre la Libia

Comanda la Libia. So di avere appena scritto una frase vera e assurda, e so (poiché la vivo fin dall’inizio) che appena la dici ti buttano addosso la coperta sporca dell’unica ossessione che regola ciò che resta della nostra civiltà, l’odio (odio, molto più che paura) dell’immigrato e dell’immigrazione. Sappiamo che il fenomeno è europeo, e che due terzi di ciò che chiamiamo “Unione europea” è capace di odiare “lo straniero” persino senza il lavoro poderoso e incessante di fabbricatori di odio come Salvini, come la Lega, gente che segue tuttora scrupolosamente la parola di un ideologo e maestro Borghezio.

Volete una prova? L’onore ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’Italia richiedono di rifiutare in modo forte e netto la co-partecipazione italiana ai disumani campi libici, di cui le Nazioni Unite e papa Francesco non fanno che ripetere le condizioni di orrore che puntano a impedire la sopravvivenza e sono regolate, come i campi nazisti, da condizioni deliberatamente disumane. C’è una lunga catena di trattati Italia-Libia, in un incoerente sbandare tra destra e sinistra, tra la visione della vita tutta danaro di Berlusconi (per una somma giusta si fa qualunque cosa e chi se ne frega del bambino torturato e della donna stuprata) e la lunga, concitata fuga dal comunismo (dall’accusa terribile di essere ancora comunisti) che induce la catena Pds, Ds e Pd ad accettare di tutto pur di non essere colpiti dall’accusa di restare ancora “comunisti” o anche solo “di sinistra”, accuse che rovinano carriere, posizioni, nomine, vite, e persino partecipazioni regolari ai talk show. Chiaro che bisogna con coraggio liberarsi del passato buonista, e se decade un trattato Berlusconi al servizio della Libia per cessazione di attività del partner Gheddafi, si può sempre provvedere con un trattato Minniti. E quando Salvini pensa di avere mano libera nella gestione della crudeltà contro i deboli, e molti buonisti e papisti dicono che “non durerà per sempre“, ecco che arriva un governo con orgogliosa partecipazione Pd (evidentemente nè di destra nè di sinistra, come gli alleati Cinque Stelle) e si guarda bene dal fare due cose che rischiano di farti piovere addosso l’accusa di comunismo. Primo, l’attuale trattato con la Libia (pessimo e di piena sottomissione, come i precedenti) deve continuare anche se sarebbe scaduto, la Libia resta al comando e usa armi e navi italiane per catturare in mare la preda umana. Secondo, le leggi Salvini dette “decreti Sicurezza” (se scappi da Aleppo bombardata giorno e notte da Putin e Assad, puntando a case, scuole, ospedali, sei un pericolo per la sicurezza nazionale italiana) che multano fino a un milione di euro una nave che salva, per il “reato di salvataggio di vita umana,” quei decreti restano intatti e in vigore, per non farsi gridare dietro “comunista e negro” dalla fiera opinione pubblica leghista. L’epoca post coloniale è stata dura per tutti i Paesi che si sono macchiati del dominio arbitrario e crudele in casa altrui. Ma la vicenda libica italiana è speciale nella umiliante sottomissione dell’Italia all’ex colonia. Gheddafi è stato protagonista della vita economica e della politica italiana da ospite di riguardo. Il settore privato se ne è liberato in tempo. Ma la politica dei governi, da Andreotti a oggi, ha invece accentuato sottomissione e onori. E quando, in modo tragico, è stato spazzato via il dittatore ed ex manager del terrorismo, l’Italia si è inventata un primo ministro di Tripoli che risiede in mare, gli ha mandato (unico Paese al mondo) un ambasciatore, e ha provato a riceverlo a Roma come se comandasse. Non comanda niente, tranne le prigioni e una guardia costiera di pirati armati su navi italiane, impegnati nell’unico scopo di rifornire i lager. Un governo o l’altro potevano notare per tempo che se c’è un generale Haftar con truppe, armi, uniformi e le sue camionette armate in marcia verso Tripoli, dovevano esserci ben altri gruppi e milizie e tribù pronte a conquistare spazio, schiavi e petrolio senza passare per Roma. Infatti turchi e russi hanno cominciato a interessarsi della vicenda, quando si sono accorti che l’Italia aveva un solo nemico, i migranti.

La statista Meloni è stata chiara: affondare subito le navi che portano a terra i salvati, arrestarli tutti, diritto di asilo o no, e deportarli. Abbiamo avuto persino una “alta rappresentante” italiana per Affari internazionali, nell’Unione. Ha taciuto per cinque anni, ordine del governo leghista che intanto si dedicava a insultare l’Europa e a minacciare l’uscita dell’Italia dall’Unione (per andare presumibilmente in Ungheria). Un solo fraterno obiettivo ci legava e ci lega alla Libia, togliere di mezzo i migranti, non importa come, mentre guerre contro i civili continuano anche in questo momento, (Turchia, Curdi, Siria, territori iracheni, Yemen). Come vedete, l’Italia, con un partito o l’altro al governo, è ferma e succube. Nei prossimi giorni la Libia (e la Turchia e la Russia) ci faranno sapere.

Non lasciate Venezia

Gentile Signor Ministro Franceschini, circa un mese fa, il 17 dicembre 2019, in occasione della “restituzione ai cittadini” dei Giardini Reali di Venezia, per elogiare la munificenza dei mecenati che avrebbero reso possibile l’evento, lei ha dichiarato che “questa è una bellissima storia d’amore e generosità che deve essere d’esempio (…)”.

Siamo abituati, ma non rassegnati, alla incessante privatizzazione dei beni e degli spazi più preziosi delle nostre città, sottratti ai cittadini e consegnati ai privati investitori ed ai loro clienti, ma l’episodio avvenuto a Venezia, e riportato dal Corriere del Veneto del 22 gennaio 2020, ci sembra richieda una sua esplicita presa di posizione. A un gruppo di bambini, accompagnato dalle maestre, è stato impedito di sostare all’interno dei Giardini Reali e mangiare un panino (…). L’operazione è stata gestita dal personale della Venice Gardens Foundation, (…) alla quale è stato concesso il controllo dei giardini (5.500 mila metri quadrati contigui a Piazza San Marco comprensivi di lussuosa caffetteria di nuova costruzione con vista sull’antistante bacino) al canone di 28.000 euro annui (poco più di 2000 euro mensili). La presidente della Fondazione, Adele Re Rebaudengo, a commento dell’accaduto, ha peraltro ribadito che intende far rispettare il “decoro” e si è rivolta al sindaco affinché faccia applicare il regolamento che lei stessa ha scritto.

(…) Le chiediamo di adoperarsi affinché il Comune riveda radicalmente il contratto di concessione alla Venice Gardens Foundation che lungi dall’essere considerata un mecenate degno di plauso, ha interpretato nel modo peggiore il proprio ruolo di gestore di un bene della collettività.

(…)

https://emergenzacultura.org

 

Paola Somma, Lidia Fersuoch. Maria Pia Guermandi, Vezio De Lucia, Tomaso Montanari, Filippo Maria Pontani, Pier Luigi Cervellati, Giovanni Losavio, Vittorio Emiliani, Paolo Berdini, Giorgio Boscagli, Nino Criscenti, Cesare Chiericati, Salvatore Giannella, Alfredo Antonaros

Matteo Modalità sanremo (sticazzi!)

Già dall’attaccosi rischia il diabete per la quantità di zucchero sparsa nell’incipit-slurp: “Da tre giorni Matteo Renzi si è messo in modalità Festival. Lo ha postato e twittato, scanso equivoci”.

Ora si dà il caso che in questa settimana appena finita l’ex premier leader di Italia Viva sia stato soprattutto in modalità prescrizione dal mattino a notte fonda, minacciando crisi, carestie e apocalissi. Ma questo pensiero non deve aver sfiorato per nulla la giornalista della Stampa Michela Tamburrino, autrice di una ficcante intervista a Renzi sul settantesimo festival di Sanremo. L’anno scorso le toccò Salvini e così l’album dei Matteo è completo. A dire il vero, di Matteo nell’intervista ce n’è pure un altro. Primo domandone: “Adesso le va di lusso, solo il piccolo accenno di Fiorello quando ha detto che tra i Matteo l’unico che funziona in Italia è quello in tonaca con un Don davanti”. Il narciso Renzi fa finta di ridere e chiosa: “Fiore è un grande”. Poi si ritorna sul Matteo modalità festival. A contare è soprattutto la formulazione delle domande: “Una settimana sabbatica per la politica. Le manca l’aria?” E via di questo passo, fino alla solenne dichiarazione renziana che cantare fa bene anche ai diritti civili. Alla fine si scopre pure che Renzi è stonato. Sticazzi!

La polizia arriva di notte: fabbrica svuotata

L’ennesimo dramma senza senso apparente del lavoro, con un’azienda che chiude all’improvviso i battenti e sposta la produzione altrove, benché gli affari siano in salute. Non è servita a nulla la protesta, la “battaglia romantica” dei 17 lavoratori (una era interinale, e la maggior parte donne) della Faist di Cerratina, in provincia di Lanciano, che dormivano da giorni in automobile fuori dalla loro fabbrica, dove si producevano turbine di auto e veicoli commerciali all’interno di una multinazionale inglese con 33 stabilimenti e 4 mila addetti in tutto il mondo. A turno stazionavano lì fuori, sotto un cielo nero che spruzzava neve, per cercare di evitare che la loro casa lavorativa da vent’anni venisse sgomberata e traghettata di peso altrove. Ma non è servito.

Il blitz che ha spento le loro ultime speranze è scattato all’alba di venerdì. Erano le 5 del mattino: un numero consistente di poliziotti mandati dalla questura di Chieti è piombato sul posto e ha liberato l’area dirimpetto all’ingresso dei cancelli dell’azienda, bloccato dalle auto dei dipendenti in presidio. Poco dopo sono usciti dalla struttura, scortati dai militari, sei tir carichi dei macchinari delle linee produttive che la Faist ha voluto trasferire d’imperio in un altro suo complesso in Umbria, a Montone, in provincia di Perugia.

Dai lavoratori nessuna ribellione ulteriore: solo rassegnazione e sguardi attoniti. E pensare che nel pomeriggio si sarebbe dovuto tenere un meeting in prefettura sulla vicenda, ovviamente saltato a tempo indeterminato. “È una vicenda surreale che un’azienda smonti la fabbrica prima di aprire la procedura per i licenziamenti collettivi prevista dalla legge. E la cosa grave è che nessuno sia riuscito, nonostante i nostri numerosi appelli, a farci organizzare un incontro – dice al Fatto Domenico Bologna, segretario Abruzzo e Molise della Fim Cisl -. Ma noi continueremo la nostra lotta sia a livello legale che istituzionale. Si tratta di un precedente pericoloso”. “Siamo tornati ai tempi in cui le forze dell’ordine e lo Stato erano schierati a difesa del padrone – protesta Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione comunista -. La polizia è intervenuta in una vertenza sindacale che si era appena aperta, pregiudicandone l’esito. Consentendo ai tir di portare via i macchinari, il questore ha in pratica delegittimato il corretto confronto sindacale”.

Il questore di Chieti Ruggiero Borzacchiello, rispedisce al mittente le accuse: “Noi non abbiamo sgomberato assolutamente niente, la richiesta è arrivata dall’azienda che ci ha rappresentato la situazione dicendo che c’erano dipendenti che impedivano l’accesso dei mezzi: siamo andati lì, abbiamo avuto anche la possibilità di interloquire proprio per capire e cercare di comprendere le ragioni che erano sul tavolo. Le operazioni si sono concluse in maniera pacifica, senza nessuna problematica, non ci sono stati episodi di violenza. Le altre motivazioni le lascio a chi di dovere”.

Il deputato abruzzese di Italia Viva Camillo D’Alessandro annuncia che presenterà un’interrogazione parlamentare: “Nello sfregio di ogni regola, la Faist ha sgomberato macchinari e impianti abbandonando i lavoratori al proprio destino – scrive in una nota -. Il caso Faist deve diventare nazionale”.

In uno degli striscioni che tappezzavano le mura intorno alla fabbrica di Lanciano trascinata via in una notte sanremese di metà inverno, stava scritto: “L’indifferenza ora è complice dei misfatti peggiori”.

Palazzo Chigi boccia Consob. Si apre lo scontro con Savona

Un braccio di ferro infuocato tra la Consob di Paolo Savona e la Presidenza del Consiglio: in mezzo, il rinnovo del contratto dei lavoratori dell’Autorità di vigilanza sui mercati, a cui Savona tiene particolarmente, tanto da celebrarlo con orgoglio nella email di auguri inviata ai dipendenti a Natale. La bocciatura è arrivata qualche giorno fa con un decreto di Palazzo Chigi, uno stop che Savona non sta prendendo bene, ventilando addirittura le dimissioni. Per legge, Consob deve recepire il contratto applicato in Bankitalia, ma può aggiungerci delle specificità. E sono queste che Palazzo Chigi ha respinto, giudicandole illegittime, anche se cercavano di risolvere grane non da poco alla Consob. Se Bankitalia ha riformato il suo contratto nel 2016, Consob ha atteso 4 anni per uniformarsi e in questo tempo progressioni e avanzamenti di carriera sono rimasti fermi, così come gli stipendi.

Al suo arrivo, Savona ha cercato di sbloccare la situazione ma le cose non sono andate come sperava, inasprendo le tensioni con Palazzo Chigi. Il contratto è stato frutto di un lungo confronto con i sindacati. La sua firma, il 16 dicembre, aveva diviso le sigle: i comunicati di quei giorni riportavano da un lato l’accordo dei confederali (Cgil, Cisl, Uil) con Cida e Sibc, e dall’altro l’opposizione della Falbi, che aveva parlato di un eccessivo “disallineamento”. L’intesa prevede l’adeguamento al regolamento di Banca d’Italia, che quindi recepisce anche gli aumenti salariali, ma anche dei soldi in più, una tantum, ai dipendenti per chiudere i mancati scatti di questi anni, assicurando almeno l’equivalente di uno scatto di carriera per tutti. Una soluzione che in cifre vale circa 7 mila euro e che avrebbe dovuto risarcire anche dei sette anni di stop delle sessioni di avanzamento dirigenziali. Per risolvere queste ultime, sono previste decine di nuove nomine, tra cui quattro posti da funzionario generale e ben dieci da condirettore, nonché l’istituzione di un fondo premiale, anche questo per riconoscimenti non strutturali, che riguarda “sviluppo, formazione, efficientamento e qualità dei processi”.

Palazzo Chigi, a quanto pare, non ha ben compreso la ratio di questi accordi e ha inviato più volte richieste di chiarimento alla Consob, prima in relazione all’istituzione del Fondo poi sulla sostenibilità finanziaria della riforma, puntando il dito sulla “corresponsione della somma una tantum al personale”. Il dubbio riguarda le coperture necessarie per questa misura (prese dal bilancio Consob) ma anche una non concordanza tra la cancellazione dei diritti acquisiti tra il 2016 e il 2019 e la decisione di compensare il personale con una somma versata in un’unica soluzione e “parametrata alle qualifiche rivestite negli stessi anni pregressi”. Per i tecnici della presidenza del Consiglio “non sono indicate le modalità di determinazione della somma”, tanto più che parte dei soldi verrebbe dal “fondo oneri contrattuali”, che però sarebbe “vincolato al finanziamento a regime della riforma”. Almeno per il versamento una tantum, le risposte dell’Autorità non hanno soddisfatto Palazzo Chigi. Tra i sindacati ci sono posizioni contrapposte. C’è chi ritiene che l’accordo sia il migliore possibile, dopo anni di impasse e nella prospettiva di un contratto che alla lunga ridurrà i compensi per i dipendenti. E c’è chi ci vede solo un giro di nomine, tanto più che la riforma assegna al presidente e alla commissione maggiori poteri per decidere le progressioni di carriera (l’equivalente di quanto avviene in Bankitalia col governatore). Nelle intenzioni di Consob, il visto di validità sarebbe servito come garanzia da eventuali ricorsi, invece è arrivata la sberla. In Consob il malumore è forte, visto che Palazzo Chigi ha fatto una valutazione formale ed è entrato nel merito della contrattazione collettiva. Savona non l’ha presa bene e c’è chi pensa che sia pronto a lasciare se lo scontro dovessero continuare.

 

Giani tra Renzi e Lotti: venera la Madonna e “rispetta” i massoni

Eugenio Giani voleva fare il sindaco di Firenze. Adesso è il candidato del centrosinistra – operazione che unisce Zingaretti e pure Lotti e Renzi – per la Regione Toscana. Ci si adatta. Alla quinta legislatura da consigliere a Palazzo Vecchio patì la rottamazione di Matteo Renzi e non fu confermato assessore, però scrisse Firenze giorno per giorno, un almanacco spesso saccheggiato dal giovane sindaco che proveniva dal contado e curava la propaganda autoctona. Alla vigilia della sesta legislatura, stava quasi per scoccare il quarto di secolo in municipio, Giani era pronto, in uno di quei completi fresco lana e cravatta assai lunga con cui officia più cene a sera, ad agguantare il testimone di Renzi ormai primo ministro. Il deputato Dario Nardella, peraltro con origini campane e pare tifoso del Napoli, era in servizio a Roma e all’esordio comunale prese la metà dei voti di Giani, che qui viene chiamato il Giani o l’Eugenio o l’Eugiani per fare presto. Finì con Renzi che indicò Nardella. E Giani cindolò per settimane con le promesse di Matteo, vieni a Roma come sottosegretario con delega allo Sport o come capo del credito sportivo, vieni con noi a Roma che si governa assieme.

Nato per caso a Empoli nel ’60, cresciuto a San Miniato, provincia pisana che si mescola con la fiorentina, si trasferì per le elementari a Firenze con il padre ferroviere, la mamma morì a trent’anni, studente e dirigente socialista, gruppo Riccardo Lombardi e non Bettino Craxi, democratico con Walter Veltroni del più siamo meglio stiamo contro il meno siamo meglio stiamo di Italia Viva di Renzi o di una canzone di Renzo Arbore, ex capo di Firenze Parcheggi e del museo di Dante, ancora delegato provinciale per il Coni e seguace di Giovanni Malagò, per un momento – tra il 2014 al 2015 – Giani ha temuto di raggiungere la pensione all’ufficio affari legali di un’azienda sanitaria locale dove entrò con concorso da ragazzo e dove mancava dal ’97. Poi ha trovato conforto sulla prestigiosa cadrega di presidente del consiglio regionale e Firenze giorno per giorno è diventata Toscana giorno per giorno per accordare la memoria popolare con l’aspirazione personale. E ogni giorno, per i toscani, in coda al telegiornale di Italia 7, Giani racconta una ricorrenza, un aneddoto, un personaggio e fa campagna elettorale a costo zero. Il 7 febbraio è toccato al comune aretino di Poppi col cammino di San Romualdo al monastero di Camaldoli.

Renzi optò per la fondazione Open, dismessa un paio di anni fa e oggi al centro di un’inchiesta giudiziaria, invece la scalata al potere di Giani è supportata da un’associazione, si chiama Laboratorio Toscana, la gestisce l’avvocato Leonardo Lascialfari, compagno di università e di pratica forense nello studio di Alberto Predieri. Lascialfari ha una carriera con una miriade di incarichi, da segnalare un mandato nel cda di FidiToscana, una società di servizi finanziari per le imprese di cui la regione è azionista al 46 per cento, segue la banca Mps con il 27. Fu la regione a nominare Lascialfari. Laboratorio Toscana raccoglie le donazioni per Giani, la più rilevante – 20.000 euro – è di Aboca spa, azienda agricola toscana del settore omeopatico e farmaceutico.

Giani ha una stanza al palazzo del Pegaso con due affreschi alle due pareti più ampie e centinaia – non è un modo di dire – di cornici, targhe, spille, coppe, bandiere, in mezzo tre cartine geografiche toscane, una fisica, una politica e una storica col Granducato. “Questa me l’hanno dedicata a Santa Maria a Monte per la sagra della patata tosca, questa in Lunigiana a Pondenzana per i panigacci. Guardi lì, in alto a destra, è la mia colonna santa”. Un crocifisso ligneo; la Madonna di Montenero patrona di Toscana; la Madonna che allatta il bambino, iconografia classica di Magliano di Grosseto; una robbiana con l’annunciazione a Maria del santuario di Chiusi a Verna. Eugenio Giani si piace molto e ha una maledetta voglia di piacere a tutti. Quest’anno che sente odore di urne, a Capodanno, s’è tuffato tre volte nell’Arno con un costume prebellico con i colori dei canottieri fiorentini e della Regione Toscana. Il premier Renzi in visita a Firenze gli ordinò di togliersi la fascia con lo stemma regionale e un umiliato Giani ubbidì. “Io non sono renziano”, dice. E cos’è Giani? “Io sono un socialista, riformista, liberale. Il Pd è la mia casa. Io sono per un campo largo: lavoro, ambiente, sociale, la mia cultura sono i fratelli Rosselli, Giuseppe Dolfi, Sandro Pertini”. Espone una fotografia con la firma di Carla Voltolina in Pertini.

Giani sta tra chi considera Craxi un rifugiato o un latitante? Non risponde. Ha saputo che rappresenta un motivo di tensione tra gli ex amici Renzi e Lotti? “Che significa?”. Lotti spinge per una lista Giani e Renzi no, per non soffocare il debutto di Italia Viva: “Lotti è un politico capace che fa bene ai democratici, Renzi ha scelto un percorso che non comprendo. Io ho il sostegno di 18 sigle e non andremo oltre le 6 liste, dunque io faccio un passo indietro”. Italia Viva in Toscana va con i dem e altrove (forse) da sé, strategia vincente? “Io cerco il consenso da Carlo Calenda all’estrema sinistra. Io includo, non escludo”. E i Cinque Stelle? “Oggi sono concorrenti, ma se vogliono venire con noi, sono strafelice”. Tempo fa andò a una celebrazione della breccia di Porta Pia organizzata dal Grande Oriente d’Italia, il gran maestro Bisi lo menzionò con orgoglio in una intervista, ha citato il mazziniano, patriota e massone Dolfi, ha deposto corone di fiori a Giovanni Becciolini, martire dell’antifascismo e icona del Goi con un nipote anch’egli fratello, insomma Giani che rapporto ha con la massoneria? “Io sono laico su questo aspetto e nutro un grande rispetto, ma non sono inserito in quel mondo”, spiega con fastidio nell’unico attimo di tensione. Poi ricorda che ha inaugurato il comitato Giani presidente a San Miniato, ieri l’hanno accolto con gli onori a Pontedera, l’altra mattina a Carrara, di passaggio a Pistoia un Cinque Stelle gli ha confessato che il Giani è figo.