“I colpevoli vanno puniti e basta: Martina non si è buttata da sola”

“In 20 minuti la giustizia italiana ha deciso che la morte di mia figlia non avesse colpevoli”. A nove anni di distanza, la voce di Bruno Rossi è strozzata. Lui, storico ex sindacalista genovese, ogni tanto si ferma per prendere fiato, poi ricomincia a raccontare la storia di sua figlia Martina: tra le sue parole si intrecciano commozione e rabbia per una giustizia che forse non avrà mai. Due settimane fa ha chiesto e ottenuto un incontro con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Gli ho fatto vedere tutte le carte, ma gli ho detto soprattutto una cosa: non è possibile che uno Stato civile non riesca a giudicare chi ha ucciso mia figlia per intervenuta prescrizione”.

La vicenda risale al 3 agosto 2011 quando la studentessa genovese Martina Rossi, 20 anni e una carriera da architetta davanti a sé, precipita da un balcone di una camera di albergo a Palma di Maiorca, dove era in vacanza con due amiche. I magistrati spagnoli archiviano come suicidio, ma la tenacia dei genitori fa aprire l’inchiesta della Procura di Genova, poi passata ad Arezzo. Secondo i magistrati, a provocare la morte della ragazza sarebbe stato il tentativo di una violenza sessuale da parte di due ragazzi di Arezzo conosciuti sul posto, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi: il 14 dicembre 2018, in primo grado il Tribunale aretino condanna entrambi a sei anni di carcere, tre per tentata violenza sessuale di gruppo e tre per morte come conseguenza di un altro reato. I due ricorrono in appello ma a fine novembre scorso, arriva il colpo di scena: la seconda accusa è prescritta mentre nel 2021 si estinguerà anche il reato di violenza sessuale di gruppo. Difficile arrivare a sentenza definitiva entro un anno. “Così la morte della mia Martina, per la giustizia italiana, non sarà mai esistita”, dice lapidario il padre.

I reati per la morte di sua figlia Martina rischiano di prescriversi tra un anno.

Questa è la cosa che mi fa più male: da nove anni sto cercando giustizia per Martina e in parte l’avevamo anche trovata con la sentenza di primo grado. Anche se era un verdetto un po’ stretto, era un primo successo. Poi a fine novembre è arrivato il giudice di appello che non è nemmeno potuto entrare nel merito, dichiarando i reati prescritti. Quel giorno è sembrato che i giudici di Arezzo avessero lavorato per niente, con una sentenza inapplicabile. Eppure, Martina non è cascata da sola da quel balcone.

I magistrati nella sentenza parlano di tentata violenza sessuale.

Martina era la ragazza più bella del mondo e soprattutto perbene: studiava architettura a Milano e, dopo aver passato tutti gli esami, le avevamo regalato un viaggio a Palma di Maiorca. Amava il mare e voleva andare una settimana a rilassarsi: era la prima volta che volava. Ma non voleva fare sesso con il primo sconosciuto e per questo è morta: l’hanno ritrovata in maglietta e mutande.

Cosa ricorda di quel giorno?

Ero nella mia casa di Imperia e si era seccato un albero di albicocco: dopo aver tagliato i rami, mi ricordo che avevo avuto solo il tempo di farmi la doccia quando mi suonarono alla porta 5 carabinieri: ‘Oddio – ho pensato – chissà cosa ho fatto di male durante la mia attività di sindacalista’.

E invece…

E invece no: quei 5 uomini in divisa mi hanno detto che Martina era morta. Non ci volevo credere. A quel punto io e mia moglie abbiamo preso un aereo a Genova e alle sei del pomeriggio eravamo davanti al suo corpo in Spagna: lì mi è crollato il mondo addosso. Da allora la mia vita è cambiata.

Come?

Da quell’agosto 2011, il 90 per cento dei miei respiri ha lo scopo di cercare giustizia per mia figlia. Aver perso la propria ragione di vita e ottenere un po’ di giustizia è il minimo. Non sopporto sapere che due delinquenti siano ancora liberi: vorrei capissero che hanno fatto del male a mia figlia e che devono pagare.

Solo che la prescrizione renderà tutto vano.

Io sono un militante e anche a 80 anni continuerò a lottare per avere giustizia: chi uccide una persona non se la può cavare con la prescrizione, soprattutto dopo una sentenza di condanna. Non è un’ingiustizia: è uno scandalo. Mi ricordo che quando ero piccolo a casa mia veniva Umberto Terracini (presidente dell’Assemblea costituente e storico dirigente del Pci, ndr) che conosceva molto bene mio padre: “I delinquenti vanno puniti” diceva.

Lei è favorevole alla riforma della prescrizione entrata in vigore a gennaio?

Certo. A fine gennaio siamo andati a parlare con Bonafede e si è preso a cuore la questione. Ma il sostegno sta arrivando da tutta Italia.

Ovvero?

Da qualche settimana è partita una raccolta firme per chiedere che il processo a Martina non finisca in prescrizione. A oggi ne sono state raccolte 75 mila: non ho mai creduto che raccogliendo firme si potesse cambiare il mondo, ma ora qualcosa si può raggiungere. Martina non me la restituirà più nessuno, ma almeno voglio avere giustizia.

Craxi, Kennedy e riforme: il Conte bis è Federico

Sull’importanza di essere Conte potrebbe sbizzarrirsi un moderno Oscar Wilde. Come nella commedia del tardo Ottocento, oggi il dibattito politico italiano pare non possa prescindere dal nobile appellativo divenuto (cog)nome proprio: del deputato, del presidente, del lodo sulla prescrizione, dell’intero governo. È tutto un Conte bis, come l’accordo trovato attorno alla riforma Bonafede che recupera gli anni di prescrizione per chi viene assolto in Appello dopo una condanna in primo grado e che rende potabile la riforma Bonafede a Pd e Leu.

L’ideatore dell’omonimo accordo non è però il presidente del Consiglio, ma l’onorevole Federico Conte, 47 anni, avvocato (del popolo?), eletto con Liberi e Uguali e d’improvviso deus ex machina della giustizia.

D’altra parte, pur essendo alla prima legislatura, la scuola politica di Conte è piuttosto referenziata: il padre Carmelo entra in Parlamento nel 1979 e ci esce nel 1994 causa disfacimento della Prima Repubblica e, soprattutto, del suo partito: il Psi. Federico ha diciassette anni quando il padre entra nel governo Andreotti (il sesto di sette, 1989, pieno merito del cartello tra Craxi, il Divo e Forlani), responsabile di uno di uno di quei ministeri dal nome romantico e dal sapore antico – tipo Marina Mercantile – ovvero “I problemi delle aree urbane”.

Tempo un paio d’anni e da Eboli – provincia di Salerno – Federico si sposta a Roma per studiare giurisprudenza alla Luiss. Qui si laurea con la lode con una tesi sui reati contro la pubblica amministrazione. Relatrice? Paola Severino, poi ministra montiana e madre della legge sull’incandidabilità dei condannati che farà decadere Silvio Berlusconi dal Senato. Conte bis esercita da avvocato e intanto si avvicina alla politica, declinando nel Partito democratico l’eredità socialista del padre: “Sono avvocato di frontiera”. Quale frontiera? “Quella tra la teoria del diritto e la sua realizzazione pratica. Politicamente, la linea del riformismo”.

Nel variegato correntismo dem si affaccia dalle parti di Gianni Cuperlo e nel 2013 viene eletto nell’assemblea nazionale, poi diventa segretario in Campania. Qui si candida con Vincenzo De Luca nel 2015, non eletto. Accusano il Pd di nepotismo, ma lui alza le spalle: “A Kennedy nessuno ha mai rinfacciato chi fosse il padre”.

Con l’ispirazione di John Fitzgerald, nel 2017 Conte lascia il Pd e si trasferisce in Articolo 1- Mdp, con cui conquista il seggio alla Camera nel 2018, prima fiero oppositore dei gialloverdi e poi tifoso dell’intesa tra 5 Stelle e centrosinistra nelle settimane del suicidio leghista.

Eppure sulla giustizia, lui che ora è conciliatore tra Movimento, Pd e LeU, Conte non ha proprio idee grilline. Basti pensare a una proposta di legge firmata nell’estate di due anni fa che proponeva di abolire l’ergastolo. “È un’antica battaglia di sinistra, – dice oggi – quasi ideologica, culturale, perché il fine pena mai non si concilia con il principio di rieducazione”. Per non agitare il governo sarà meglio fermarsi al lodo prescrizione.

Lodo prescrizione nel Milleproroghe (con sospensione)

Tramonta l’ipotesi di un decreto legge per modificare la blocca-prescrizione di Alfonso Bonafede, previsto al Consiglio dei ministri di domani. La via dell’emendamento al Milleproroghe è praticamente certa anche se fino a sera la concitazione regnava assoluta tra le forze della maggioranza e in via Arenula, dove ha sede a Roma il ministero della Giustizia.

Ma M5S, Pd e LeU sono per una volta graniticamente compatti e vogliono tutti insieme, d’accordo con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, disinnescare Matteo Renzi e le sue minacce politiche che hanno l’obiettivo di condizionare il governo, con la conseguenza di uno stallo diventato insopportabile per il resto della maggioranza.

Ecco perché il decreto legge che era la strada privilegiata pure al ministero della Giustizia, subito dopo l’accordo di giovedì sera sulla prescrizione, ha ceduto il passo all’emendamento dentro al Milleproroghe. Solo così si evita che Renzi possa ancora blandire la clava della crisi di governo e dell’appoggio esterno. Anche se l’ex premier ha ritrattato perché in realtà non vuole andare a elezioni, essendo da un lato consapevole dei sondaggi a lui sfavorevoli e dall’altro desideroso di pesare nella partita succulenta delle prossime nomine. Insomma, è per dare un brusco colpo di freno a Italia Viva che M5S, Pd e LeU non vogliono andare al Consiglio dei ministri per approvare un decreto legge con l’assenza plateale dei ministri renziani, come annunciato dal senatore fiorentino. Per arrivare però alla scelta dell’emendamento, maturata solo nella serata di ieri, ci sono stati confronti serrati con i tecnici parlamentari e del ministero della Giustizia per superare lo scoglio dell’ammissibilità. Infatti la Bonafede, che blocca la prescrizione per tutti dopo il primo grado è una legge in vigore quindi non si può votare una proroga com’è accaduto per tre volte – su proposta proprio dell’attuale Guardasigilli – alla riforma Orlando sulle intercettazioni, approvata ai tempi del governo Renzi ma non entrata in vigore e stoppata fino all’accordo di dicembre giallorosa.

Dunque, poiché è certamente impossibile modificare il codice penale con un emendamento, la soluzione, che qualcuno nella maggioranza, con una battuta, ha chiamato all’italiana, sarebbe questa: emendamento con una sorta di sospensione tecnica, brevissima, della legge Bonafede che porta con sé il cosiddetto lodo Conte 2 venuto fuori dall’intesa M5S-Pd-LeU, senza Iv, giovedì. Il lodo sarebbe così approvato con il Milleproroghe, in discussione alla Camera, dove la maggioranza ha i numeri al netto dei renziani. A quel punto, resterà il blocco della prescrizione per i condannati in primo grado e in appello mentre per gli assolti la prescrizione continuerà a correre.

Il piano M5S, Pd e LeU prevede l’approvazione dell’emendamento, che blinda l’intesa di giovedì e mette all’angolo i renziani, in contemporanea alla riforma penale di Bonafede, quella accorcia processi, al Consiglio dei ministri. Il primo giorno utile è martedì ma è più probabile che sia più in là. “Ma non troppo”, ci dicono ambienti vicini a via Arenula.

La via del Milleproroghe è come prendere due piccioni con una fava: azzera pure l’emendamento allo stesso provvedimento, di Lucia Annibali, Iv, che chiede la sospensione della Bonafede (versione attuale) fino al 2021 e rende innocuo il voto del 24 alla Camera del ddl di Enrico Costa, FI, che prevede l’abolizione della Bonafede. Certo, i renziani potrebbero vendicarsi in Senato, dove la maggioranza senza di loro non ha i numeri: mercoledì la commissione Giustizia esamina il decreto intercettazioni, cioè la riforma Orlando modificata. Ma la tenuta del resto della maggioranza su lodo Conte 2 e riforma penale fa ritenere a diversi esponenti di governo che alla fine sarà Renzi a dover cambiare atteggiamento. Anche perché sono ben 400 le nomine da fare.

La Privacy stanga Tim: 900 mila euro di multa

Quasi un milione di euro di stangata: l’ha beccata Tim perché non ha trattato in modo trasparente i dati personali dei suoi 8 mila tecnici addetti alle installazioni e alle manutenzioni delle reti. Ha conservato le informazioni sui lavoratori molto più a lungo rispetto a quanto pattuito: cinque anni anziché sei mesi. Senza chiarire come funzionavano gli algoritmi che regolano la distribuzione dei compiti e i premi economici. Insomma, non ha dato comunicazioni complete ai dipendenti sul modo in cui ha usato i dati e il Garante della Privacy ha multato il colosso delle telecomunicazioni con 900 mila euro.

Il ricorso della Slc Cgil è di giugno 2018. A fine 2017 la Tim, dopo aver avuto l’ok dell’Ispettorato del lavoro, aveva avviato il controllo a distanza dei suoi “tecnici on field”, che non lavorano in sede ma – appunto – “sul campo”.

Tim, però, è andata oltre il consentito: “La società – si legge – ha effettuato trattamenti di dati personali con il nuovo sistema di Work Force Management provvedendo a conservare i dati raccolti, per cinque anni, previo rilascio di un’informativa ai dipendenti nella quale è indicato il diverso termine massimo di conservazione pari a sei mesi”. Tim si è difesa dicendo che solo in poche “casistiche particolari” quelle informazioni sarebbero state tenute per un tempo superiore, ma non ha convinto il Garante, il quale ha definito “tutt’altro che infrequenti” le circostanze elencate, poiché contemplavano reclami dei clienti, infortuni, danneggiamenti e “non meglio definite analisi statistiche di trend”. Capitando spesso avrebbero legittimato la Tim a conservare i file con le profilazioni dei dipendenti per 5 anni.

Il sistema, ha detto Tim, tratta i dati anagrafici, il calendario turni, le attività del lavoratore (come la presa in carico, l’inizio e il completamento del lavoro) e la localizzazione Gps acquisita con lo smartphone. In varie occasioni, quindi, queste informazioni permettono di individuare il luogo in cui il tecnico si trovava.

Finora, le geolocalizzazioni hanno funzionato solo quando gli addetti hanno comandato riparazioni di cavi, ma a breve permetteranno di controllare anche altre circostanze come l’inizio e la fine della pausa pranzo. Non sono attività illecite di per sé, ma Tim aveva mandato un’informativa ai suoi dipendenti dicendo che avrebbe conservato i dati per sei mesi e non cinque anni. “Un tempo che crea eccedenza rispetto allo scopo per il quale vengono raccolti”, ha detto Carlo De Marchis, tra i legali che hanno curato il ricorso. Tra l’altro, a dare ordini a queste persone non è un capo in carne e ossa, ma un sistema informatico che li fa arrivare sullo smartphone con un algoritmo che poi serve anche a riconoscere i premi economici. Il meccanismo è entrato in funzione a maggio 2018, Tim ha informato i lavoratori solo ad agosto 2019, molto dopo il ricorso della Cgil. “Il provvedimento – commenta Riccardo Saccone della Slc Cgil – si riferisce a comportamenti del passato management Tim, con il quale noi abbiamo molto litigato. Oggi, per fortuna, ci sembra sia diverso e spero che questo segni definitivamente l’archiviazione di quella stagione”.

“Sullo scambio intervento urgente e non ordinario”

I lavori sul deviatoio 5 di Livraga erano non ordinari e gli operai nelle ore precedenti avevano già fatto tre interventi sulla stessa tratta. Questo emerge dall’inchiesta sul deragliamento del Frecciarossa avvenuto giovedì alle 5:34 e che ha provocato la morte dei due macchinisti. Vi era dunque un’emergenza e la necessità di fare in fretta. I lavori come recita il fonogramma inviato alla centrale operativa di Bologna terminano alle 4,45, e cioè 25 minuti prima che il treno parta dalla stazione centrale di Milano. Ieri negli uffici della Polfer di Piacenza si sono tenuti gli interrogatori dei cinque indagati e cioè tutta la squadra dei manutentori di Rfi che ha lavorato sullo scambio. I cinque lavoratori hanno spiegato la loro posizione. Gli interrogatori sono andati avanti fino a tarda sera alla presenza del pm Giulia Aragno e degli investigatori del Nucleo operativo incidenti ferroviari.

L’iscrizione nel registro degli indagati dei cinque lavoratori, si legge nell’avviso di garanzia, è dovuta al fatto che tutti, secondo la Procura di Lodi, “non avrebbero svolto l’attività in modo adeguato”. I cinque sono accusati di omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose. Al centro dei verbali quello scambio rimasto in deviata (aperto) e che invece doveva essere chiuso e posto nel “giusto tracciato”, come scritto nel fonogramma, per permettere il passaggio del treno. Capire perché si trovasse in quella posizione è il cuore dell’indagine coordinata dalla Procura di Lodi. La Polfer ha sequestrato tre hard disk contenenti alcuni video importanti. Si tratta di una telecamera posta nella carrozza tre e di alcune riprese fatte dalle telecamere di sicurezza della palazzina attrezzi di Livraga. La prossima settimana sono previsti i primi accertamenti irripetibili. Anche per questo è stata necessaria l’iscrizione dei lavoratori, per permettere ai loro legali di partecipare agli accertamenti.

L’incarico ai consulenti sarà dato già domani. Le analisi tecniche si svolgeranno sulle carrozze e sullo scambio. Il fatto che lo scambio fosse aperto, secondo la Procura, è da legarsi a un errore umano. Ora quale errore e se sia realmente umano è ancora da capire. Di certo quel giorno la squadra di manutentori aveva già operato tre interventi precedenti su altri scambi. La notte di giovedì il deviatoio 5 presentava due problemi: uno meccanico e uno elettrico. Il primo riguardava il meccanismo che apre e chiude lo scambio. Meccanismo composto da tre elementi. Gli operai hanno sostituito il primo, quello più importante. E nonostante ciò il problema è continuato sotto il profilo elettrico. Per questo si è scelto di riportare lo scambio nel “giusto tracciato”, ovvero in posizione dritta rispetto al senso di marcia del treno e lo si è fatto dalla centralina presente nella palazzina di Livraga. Dopodiché è stata tolta la corrente. Un particolare di non poco conto perché la disalimentazione del deviatoio lo ha cancellato dalla rete informatica dell’alta velocità.

In quel momento la centrale operativa di Bologna non lo ha più visto. Fosse stato collegato avrebbe prodotto un alert tale da far rallentare il treno in modo da prendere alla giusta velocità la curva prodotta dalla deviata. Rimanendo alla versione dei manutentori, l’operazione si è conclusa bene, tanto che il fonogramma lo dimostra. Cosa succede dopo? Secondo procedura, rimesso a posto lo scambio è stato vistato dal capo squadra. Lo scambio, però, è gestito da un sistema oleodinamico. Impossibile aprirlo e chiuderlo a mano. Tra le ipotesi si valuta anche un calo di pressione del sistema per mancanza di olio o per infiltrazioni di aria che hanno fatto riaprire lo scambio. La Polfer ha sequestrato, oltre alle due scatole nere, anche il libretto statistico della manutenzione con le annotazioni fatte fino a giovedì mattina e il modello della corrispondenza telefonica. Gli indagati restano cinque, ma l’indagine punta a ricostruire la catena di comando, fino a valutare il coinvolgimento della società Rfi (ancora non indagata) e dell’ad secondo la legge 231 sulla responsabilità penale degli enti.

Schierato contro Al Sisi e “seguito” fino in Italia

“Quella di oggi è stata una giornata molto difficile. Sono molto preoccupata”. Rita Monticelli, ricercatrice e professoressa associata del dipartimento di lingue, letterature e culture moderne dell’Università di Bologna, negli ultimi sei mesi ha avuto modo di conoscere e apprezzare a fondo Patrick George Zaki, iscritto al Master Gemma sugli studi di genere e delle donne. Uno studente modello: “Serio, preparato – aggiunge la docente –, sempre presente a tutte le lezioni e in regola assoluta con la sessione di esami. Quelli del primo semestre, cinque se non sbaglio, li ha superati brillantemente, storia, letteratura, metodologia e via discorrendo. Di lui, in particolare, risalta il suo spirito critico aperto e il rispetto delle opinioni altrui. Stamattina (ieri, ndr) una studentessa e la sua tutor mi hanno avvisato di cosa era accaduto, non potevo crederci. Spero davvero si risolva tutto in fretta e bene e lo aspetto alla ripresa dei corsi, magari non dal primo giorno, ossia da domani, ma molto presto”.

Patrick Zaki è arrivato a Bologna dal Cairo il 28 agosto scorso e il 2 settembre si è iscritto ufficialmente al corso dopo aver sbrigato le pratiche amministrative. In questi mesi ha vissuto in un alloggio messo a disposizione dall’Università nell’ambito del programma Erasmus Gemma. Il progetto, la cui sede di coordinamento è a Granada, in Spagna, prevede la compartecipazione di più atenei in ambito internazionale. Ogni studente deve svolgere attività in due sedi, una in quella di appartenenza e un’altra all’estero: “Non ricordo con esattezza, ma è probabile che Patrick George abbia scelto proprio Bologna e questo a tutte e tutti noi della sede universitaria bolognese ha fatto molto piacere” aggiunge la professoressa Monticelli.

Dall’ottobre scorso l’Eipr (Egypian iniziative for personal rights) ha visto sei membri della propria organizzazione finire in manette. Alcuni di questi sono stati fermati dall’agenzia di sicurezza nazionale e interrogati per due giorni prima di essere rilasciati, altri ci hanno messo qualche settimana di più. Nessuno, tanto meno lui, sapeva che da qualche mese il Ministero degli Interni egiziano aveva preparato per lui un mandato d’arresto. Il regime non dimentica e attraverso tutte le sue fonti di intelligence controlla in maniera maniacale ogni voce contraria, dentro e fuori dal Paese. I post che Zaki ha pubblicato non sono passati inosservati, inoltre di lui l’intelligence già sapeva abbastanza. Per anni il 27enne originario di Mansoura ha fatto parte dell’Eipr, ma soprattutto ha collaborato con Khaled Ali, noto avvocato e attivista del Cairo, candidato per alcune settimane alle elezioni presidenziali del marzo 2018. Patrick George Zaki era presente la sera di fine gennaio di quell’anno, quando Ali, a pochi giorni dalla scadenza delle candidature ufficiali, annunciò, tra la sorpresa generale, la sua intenzione di interrompere la corsa elettorale. Nel marasma del quartier generale di Ali, un ufficio nel cuore di Downtown, Zaki assistette a quel passo indietro, lo stesso compiuto da tutti gli altri candidati opposti al presidente Abdel Fattah al-Sisi che, due mesi più tardi, ebbe vita facile con il 97% dei consensi.

Studente egiziano arrestato: “Già torturato come Regeni”

Uno studente egiziano, in Italia all’Università di Bologna con il progetto Erasmus, è stato fermato dai servizi di sicurezza e arrestato venerdì mattina all’aeroporto internazionale del Cairo. Su di lui pesanti accuse, addirittura di terrorismo, dopo la pubblicazione di alcuni post anti-regime sui social network nei mesi scorsi. Poche ore prima aveva lasciato il nostro Paese per tornare in visita alla famiglia a Mansoura, 130 chilometri a nord della capitale.

Patrick George Zaki, 27 anni, è iscritto alla facoltà di Lingue moderne dell’ateneo bolognese e frequenta il corso in studi di genere del Dipartimento di letteratura internazionale attraverso il programma Erasmus “Gemma”. Nell’agosto scorso Zaki è arrivato a Bologna per il suo corso di studi dopo aver ottenuto una laurea in Farmacia. Poche settimane dopo, il 20 settembre, al Cairo e in altre città dell’Egitto è scoppiata una protesta anti-regime che ha portato in strada decine di migliaia di persone, suscitando la violenza reazione del governo guidato da Abdel Fattah al-Sisi. La pubblicazione dei suoi post su quell’evento potrebbe essere alla base del suo arresto appena uscito dal terminal 2 dell’aeroporto cairota: “Lui è un nostro attivista – spiegano dall’Eipr, una delle tante associazioni egiziane che si occupano di diritti umani – e l’aver mostrato il suo punto di vista su quelle proteste ha sicuramente giocato un ruolo decisivo. Siamo attenti all’evolversi della situazione, ma dopo essere scomparso per un giorno dal momento del suo arrivo, siamo riusciti a sapere che adesso si trova in una prigione della sua città d’origine, Mansoura. Zaki ha subìto torture e violenze, gli hanno applicato l’elettroshock, è stato minacciato e interrogato su cosa facesse in Italia”.

L’intelligence egiziana è sicura che Patrick George Zaki non abbia svolto un normale periodo di studio a Bologna, quanto messo in piedi una rete anti-governativa estera volta a rovesciare il governo di al-Sisi. Una sorta di presunta “cellula” italiana collegata all’ex attore e imprenditore Mohamed Ali, esiliato in Spagna da cinque anni e anima della protesta scatenata sei mesi fa nel Paese In realtà il 27enne, membro della rete internazionale Lgbt, fino all’altro giorno ha frequentato il corso universitario a Bologna. Venerdì è salito sull’aereo per tornare a casa per qualche giorno. Era la prima volta dall’agosto 2019. Al momento risulta abbastanza difficile prevedere cosa accadrà nei suoi confronti ed è difficile ipotizzare un suo imminente ritorno in Italia per proseguire il corso di studi. Ieri pomeriggio il procuratore di Mansoura gli ha rinnovato la detenzione per quindici giorni.

Fino alla notizia dell’arresto Zaki era uno sconosciuto per le autorità italiane, alle quali l’Egitto non l’ha mai segnalato. Dalla Farnesina fanno sapere che il Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, segue l’evolversi del quadro in contatto con la nostra ambasciata al Cairo. Il presidente dell’Emilia-Romagna, il neo-riconfermato Stefano Bonaccini si auspica di “avere presto notizie del giovane ricercatore egiziano” mentre il sindaco di Bologna, Virginio Merola si dice preoccupato: “Dal balcone del nostro Comune sventola lo striscione giallo per Giulio Regeni, per questo non possiamo essere indifferenti a quanto accaduto”, ha commentato. Il Pd chiede al governo di intervenire. Infine Erasmo Palazzotto: “Come si fa a considerare ancora l’Egitto un luogo sicuro. Il governo italiano non può continuare a far finta di niente nelle relazioni con un Paese che continua a violare i diritti umani”, ha twittato il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Dal settembre scorso il governo egiziano ha arrestato migliaia di persone ritenute ostili e pericolose per la sicurezza nazionale. Attivisti, professionisti, giornalisti, tutti da mesi in attesa di giudizio e sottoposti a torture e vessazioni.

Alternanza scuola-lavoro, grave un ragazzo

Schiacciato da un cancello a 17 anni durante l’alternanza scuola-lavoro, trasportato in elisoccorso e ricoverato in terapia intensiva. È accaduto giovedì mattina nel cortile di una ditta di Genola (Cuneo) e la vittima è uno studente. Le sue iniziali sono L.O., ha 17 anni ed è iscritto al corso “Tecnico riparatore veicoli a motore” dell’Azienda di formazione professionale (Afp) di Verzuolo.

La questione rilancia i dubbi sull’alternanza scuola-lavoro dell’Unione degli Studenti: “Svolgiamo attività non coerenti con il nostro percorso di studi, che addirittura mettono in pericolo la nostra stessa vita”, ha denunciato ieri l’organizzazione giovanile per voce della coordinatrice nazionale Giulia Biazzo: “Quello che è accaduto non può essere considerato solo un incidente. Si tratta dell’ennesimo caso in cui i percorsi di alternanza non solo non sono formativi, ma diventano manodopera per le aziende, senza diritti e senza sicurezza”.

Un’inchiesta è in corso per accertare le responsabilità. Ad accorgersi dell’incidente giovedì è stato un operaio della ditta Emmeti Mondino Trattori di Genola, specializzata nel commercio e nella vendita di trattori e macchine agricole. Dopo aver trovato il giubbotto del giovane collega che avrebbe dovuto terminare il servizio a mezzogiorno, l’uomo ha cominciato a cercarlo e poco dopo lo ha trovato caduto a terra, nel retro del piazzale, e schiacciato da una cancellata. Il ragazzo è stato quindi trasportato in elisoccorso col codice rosso e ricoverato in gravi condizioni all’ospedale Molinette di Torino. Dopo una notte in terapia intensiva, ha cominciato a dare segnali di ripresa.

Sul caso sono in corso gli accertamenti dei carabinieri della Compagnia di Savigliano e del Servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (Spresal) dell’Asl di Cuneo. Dalle prime ricostruzioni si ipotizza che il ragazzo stesse spostando il cancello e questo, uscito dai binari, lo abbia travolto. Dovranno essere accertate anche le responsabilità dell’azienda e del tutor.

Da molto tempo non si verificavano incidenti a studenti impegnati nell’alternanza scuola-lavoro, programma introdotto con la “Buona scuola” dal governo di Matteo Renzi per avvicinare gli allievi degli istituti superiori al mondo delle professioni.

Il 13 giugno 2018 uno studente di 17 anni impegnato in un’officina meccanica di Montemurlo (Prato) perse la falange di un dito. Circa un mese prima in un’azienda di Udine un altro giovane si era ferito alla mano utilizzando un macchinario. Nel dicembre 2017 un 18enne del Ravennate si era rotto le gambe per il crollo della gru su cui stava operando. All’inizio dell’anno scolastico, con la riforma dell’alternanza, i programmi sono diventati Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto). “La modifica non ha portato alcun tipo di miglioramento – prosegue l’Unione degli studenti -. La ministra Azzolina si assuma la responsabilità politica di incontrarci e aprire una fase di riscrittura totale dell’alternanza”.

“Se siete stati a Wuhan non andate in classe”

Il governo italiano “consiglia” una quarantena volontaria per gli alunni da poco rientrati da Wuhan e dalla provincia di Hubei, le zone della Cinadalel quali è partita l’epidemia di Coronavirus. Come anticipato venerdì dal Fatto, ieri è arrivata la circolare del ministero della Salute che, in sintesi, invita le famiglie e i dirigenti scolastici, di concerto con le Asl, a far osservare ai ragazzi un periodo di isolamento a casa di 14 giorni.

Le misure si applicano a bambini e studenti dalle scuole dell’infanzia alle superiori, di ogni nazionalità, che nelle due settimane precedenti al loro arrivo in Italia si siano trovati nelle aree cinesi a rischio indicate dall’Organizzazione mondiale della sanità. La discrezionalità è affidata alle famiglie e ai presidi, i quali possono segnalare la circostanza di rischio all’Asl competente e avviare un’azione di “sorveglianza attiva”, quotidiana, per la valutazione degli eventuali sintomi. Ovviamente le assenze saranno “giustificate”.

La comunicazione è arrivata dopo ben nove giorni dalla dichiarazione dell’emergenza sanitaria nazionale, da parte del premier Giuseppe Conte, arrivata il 30 gennaio. “Un atto tardivo di buon senso”, l’ha definita la capogruppo di Forza Italia in Senato, Anna Maria Bernini. La necessità di tenere a casa gli studenti provenienti da Wuhan era stata sottolineata il 3 febbraio dai governatori leghisti Attilio Fontana, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, presidenti rispettivamente di Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. “I governatori della Lega, insultati da qualche fesso di sinistra per giorni, allora avevano ragione e aspettano le scuse di chi li ha accusati di allarmismo è razzismo”, ha commentato il leader del Carroccio, Matteo Salvini. La lettera dei governatori leghisti era stata respinta dall’Istituto superiore di sanità, che aveva risposto affermando che “le misure adottate per le popolazioni scolastiche sono quelle necessarie a tutelare la salute della popolazione”. In quel frangente, il deputato di Italia Viva, Marco Di Maio, aveva definito “ripugnante” l’iniziativa, parlando di “speculazioni politiche”; ieri, la sua collega renziana, Lisa Noja, ha invece attaccato il governo, chiedendo che “siano le istituzioni a decidere e non mettano il peso della scelta sulle famiglie”.

L’altro fronte aperto è quello della chiusura di voli diretti fra Italia e Cina. Il 31 gennaio il governo italiano ha sospeso i collegamenti, riaprendo, il giorno successivo, soltanto la possibilità di effettuare voli cargo merci. Il provvedimento, non intrapreso da molti altri paesi dell’Unione europea, è stato accolto con una certa irritazione da Pechino, che nel corso della settimana ha spinto per un alleggerimento della misura. Ieri il ministero degli Esteri italiano è stato anche costretto a smentire una notizia pubblicata dall’agenzia Xinhua, che annunciava la ripresa temporanea di alcuni voli diretti. Solo a metà gennaio, infatti, l’Enac aveva firmato con l’ente per l’aviazione cinese un accordo per lo sviluppo del trasporto aereo tra i due Paesi, che aveva portato i collegamenti aerei dai 56 settimanali esistenti a 164, di cui 108 con decorrenza immediata e altri 28 a partire dall’estate. “Siamo il Paese europeo con il più alto numero di collegamenti aerei con la Cina”, aveva esultato la ministra ai Trasporti, Paola De Micheli.

Intanto, in mattinata arriveranno a Pratica di Mare, da Londra, gli altri nove italiani provenienti da Wuhan che necessitano di essere tenuti in quarantena nei locali messi a disposizione dall’Esercito. Fra loro non ci sarà Niccolò, il 17enne di Grado, bloccato in Cina, che presenta ancora una leggera febbricola. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha manifestato la volontà di mettere a disposizione un volo di Stato per riportarlo a casa.

In un primo momento si era pensato di ospitare i nove all’ospedale militare del Celio, ma a quanto pare saranno portati alla Cecchignola, dove da ieri è ripartita la quarantena per i 54 rientrati il 3 febbraio. Oltre al ricercatore 29enne di Luzzara (Reggio Emilia) cui venerdì è stato diagnosticato il Coronavirus, ieri all’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive ‘Lazzaro Spallanzani’ di Roma è stata trasferita anche una donna che presenta una leggera congiuntivite, uno dei sintomi del virus 2019-nCoV. I test hanno fin qui dato esito negativo, ma i medici hanno comunque deciso di trattenerla “a scopo precauzionale”.

“Le trattative Stato-mafia furono due e Berlusconi pagò i clan fino al 1994”

La Procura di Palermo del dopo stragi ha vissuto un periodo di grande speranza, man mano che si avvertiva con sempre maggiore chiarezza come importanti strutture di Cosa Nostra stessero cedendo. (…) La strada si è fatta via via più in salita. E chissà quante opportunità (…) sono sfuggite. Sullo sfondo un’ipotesi inquietante: che ad aggravare il cambiamento di quadro, già di per sè cupo, abbia potuto contribuire la “trattativa” fra Stato e mafia.

(…) Innanzitutto va chiarito che – secondo la Corte di assise di Palermo – le trattative sono state due. La prima, che si svolge nel biennio 1992-93, vede come protagonisti: dalla parte dello Stato, gli ufficiali del Ros dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; dalla parte di Cosa nostra, Vito Ciancimino e il medico-mafioso Antonino Cinà, con Salvatore Riina come massimo referente. Destinatari della minaccia sono i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. (…)

La seconda trattativa, che si svolge fra il 1993 e il 1994 vede come attori principali Marcello Dell’Utri e Leoluca Bagarella, e come destinatario della minaccia il primo governo della Seconda Repubblica, quello di Silvio Berlusconi. Secondo la ricostruzione dei giudici, Dell’Utri si propone e si attiva come interlocutore dei capi di Cosa nostra per una serie di benefici a favore dell’organizzazione mafiosa. E agevola lo sviluppo della trattativa, rafforzando il proposito mafioso di rinnovare la minaccia delle stragi e favorendo la ricezione di tali minacce da parte del governo presieduto da Berlusconi. A sua volta Bagarella, utilizzando come tramiti Vittorio Mangano (lo “stalliere di Arcore”) e Dell’Utri, avrebbe inoltrato a Berlusconi una serie di richieste finalizzate a ottenere alcuni benefici riguardanti la legislazione antimafia e l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi reclusi. (…)

I giudici confermano così il ruolo di “cinghia di trasmissione” di Dell’Utri fra Cosa Nostra e l’ex premier. E anche se “non v’è e non può esservi prova diretta sull’inoltro della minaccia da Dell’Utri a Berlusconi (perché ovviamente soltanto l’uno o l’altro possono conoscere il contenuto dei loro colloqui)”, ci sono tuttavia “ragioni logico-fattuali che inducono a non dubitare che Dell’Utri abbia riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione mafiosa Cosa Nostra mediati da Vittorio Mangano”. La prima di queste ragioni logico-fattuali è costituita – secondo la Corte – dall’esborso, da parte delle società di Berlusconi, “di ingenti somme di denaro poi effettivamente versate a Cosa nostra. Dell’Utri, infatti, senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi, non avrebbe potuto, ovviamente, disporre di così ingenti somme da recapitare ai mafiosi”.

Ma fino a quando Berlusconi avrebbe pagato esponenti della mafia? Nel precedente processo a carico di Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, il fatto che Berlusconi pagasse Cosa nostra era considerato dimostrato solo fino al 1992, prima dell’inizio delle stragi e del successivo impegno politico dell’imprenditore. Invece – stando alla valutazione della Corte di assise della trattativa – tali pagamenti proseguono “almeno fino al dicembre 1994”. (…) Un’altra ragione logico-fattuale che i messaggi di Cosa Nostra fossero pervenuti al governo sta nel fatto che – secondo la Corte – in almeno una occasione il primo esecutivo guidato da Forza Italia avrebbe portato avanti iniziative legislative favorevoli a Cosa Nostra. E Cosa Nostra venne informata prima ancora degli stessi ministri del governo Berlusconi.