“Strano non nomini Dell’Utri, ma era lui il ponte con Arcore”

Francesco Di Carlo, 77 anni, è il collaboratore di giustizia più importante del processo Dell’Utri. Probabilmente senza la sua deposizione l’ex senatore non sarebbe stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a sette anni, pena scontata ormai.

Di Carlo ha raccontato di avere assistito all’incontro di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in un ufficio di Milano con il boss (poi ucciso nel 1981) Stefano Bontate. La Corte di appello di Palermo gli ha creduto. Importante membro del mandamento di San Giuseppe Iato, molto vicino a Totò Riina, che lo apprezzava per la capacità di interloquire con magistrati e politici altolocati, Di Carlo è l’uomo giusto per valutare le parole di Giuseppe Graviano sui suoi (asseriti) tre incontri dal 1983 al 1993 con Silvio Berlusconi.

Di Carlo cosa pensa delle dichiarazioni di Graviano ieri in aula a Reggio Calabria durante il processo ’ndrangheta stragista?

In questo racconto si capisce che lui vuol far trasparire qualcosa che sa, però non torna una cosa: non fa mai il nome di Marcello Dell’Utri.

Perché è strano che Graviano non citi mai Dell’Utri?

Dobbiamo essere onesti su questo: Berlusconi, da quel che consta a me, non teneva lui rapporti di questo tipo. Nessuno andava da Berlusconi se non tramite Marcello Dell’Utri e Tanino Cinà.

Effettivamente Graviano non cita mai Dell’Utri e Tanino Cinà, morto dopo essere stato imputato nel processo per il suo ruolo di intermediario tra Cosa nostra e il gruppo Fininvest. Lei non crede a un legame diretto con Berlusconi?

Lui ricostruisce 25 anni di rapporti con Berlusconi e non c’è mai una volta che avrebbe partecipato Dell’Utri? Mai Cinà? E poi non mi torna nemmeno il ruolo del nonno e del cugino Salvatore, mai sentiti in Cosa nostra.

Sì. Graviano l’ha citata a Reggio. Per il boss lei sbaglia quando dice che i soldi a Milano li aveva investiti suo padre, Michele Graviano. I soldi erano di suo nonno materno, Filippo Quartararo.

Lui cambia il padre con il nonno ma conferma il concetto dell’investimento a Milano della sua famiglia. Io so che Michele Graviano era stato combinato in Cosa nostra quando aveva superato la quarantina grazie anche all’intervento di Giovanni Pullarà. Il nonno Filippo Quartararo per me non era nessuno. I figli stessi, Giuseppe e Filippo, fino al 1982 non erano noti. I nomi che Graviano ha fatto ieri non mi dicono nulla.

Qualche nome della sua epoca però Graviano lo fa. Sostiene che, prima di andare a Milano nel 1983, con il nonno, dopo la morte del padre, a incontrare per la prima volta Berlusconi, lui sarebbe andato a parlare con il padre del “Papa della mafia”, Giuseppe Greco.

Anche questo non mi torna. Il Papa era Michele Greco. Il padre, Giuseppe Greco, avrà avuto 90 anni in quel momento. E io me lo ricordo, non aveva nessun ruolo, stava seduto in disparte. Mi sembra che Graviano voglia portare la storia dell’investimento a Milano, che anche io ho sentito raccontare, troppo indietro, al medioevo e poi con persone che io, che ero in Cosa nostra da molti anni, non conoscevo. Per me Graviano sposta il discorso e toglie le persone che c’entrano con la mafia.

Lei ha raccontato tanti anni fa di avere saputo, dopo la sua morte nel 1982, che Michele Graviano aveva investito a Milano. Ci può ricordare questa storia alla luce della deposizione di ieri?

Michele Graviano era entrato in Cosa nostra grazie anche all’interessamento di Pullarà che lo stimava. Poi una notte io sono stato chiamato per trovare un dottore che lo operasse d’urgenza. Aveva un piede macellato per l’esplosione di una bomba. I Pullarà stavano a Milano, dove avevano un’enoteca nella zona di via Ripamonti vicino a dove fu arrestato Luciano Liggio nel 1974. Poi ho risentito parlare di Michele Graviano dopo la sua morte: mi venne a cercare Pietrino Loiacono perché la famiglia Graviano voleva sapere dove stavano i soldi investiti a Milano, da Michele, però non dal nonno. Poi posso dirle una cosa? Graviano parla di 20 miliardi e bisogna pensare a cosa fossero 20 miliardi allora. Anche Bontate aveva avuto difficoltà a trovare 20 miliardi, ma molti anni dopo quando la mafia si era già arricchita.

Perché chiesero proprio a lei dove erano i soldi?

Perché sapevano che Bontate mi aveva chiesto di investire a Milano, ma io non avevo soldi e non lo feci.

Poi come finì la storia? I soldi si trovarono?

Mi dissero che i soldi poi erano stati trovati, ma avevano deciso di lasciarli investiti lì che potevano rendere di più.

Graviano dice di avere visto una carta del nonno firmata da Berlusconi e che la teneva il cugino, poi morto nel 2002. Ci crede?

Se esiste, non credo che la carta l’avesse il cugino o il nonno.

Graviano&B.: la Rai censura e tutti i giornali nascondono

Madre natura canta venerdì, ma pochi lo possono ascoltare nei tg della sera e sui quotidiani di ieri non è da prima pagina. Giuseppe Graviano parla al processo ’ndrangheta stragista di Reggio Calabria, fa il nome di Silvio Berlusconi “incontrato tre volte mentre ero latitante”. E spiega: “Con Berlusconi abbiamo cenato insieme, è accaduto a Milano3 in un appartamento”. Riferisce anche la storia dei soldi del nonno materno: 20 miliardi di vecchie lire all’epoca, anni Settanta, investiti su Milano3 e televisioni private di “Sua Emittenza”.

Parole, nomi e cognomi, che avrebbero cambiato la storia d’Italia se pronunciate nel 1994, dopo la fine della latitanza per l’arresto di Giuseppe e del fratello Filippo Graviano avvenuto proprio a Milano il 27 gennaio. Due mesi esatti dopo, il 27 e 28 marzo 1994, gli italiani alle urne consegnano il Paese a Forza Italia, nuovo partito guidato da Berlusconi al debutto elettorale, e alla sua coalizione con la Lega nord di Umberto Bossi e l’Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Comincia così quello che sarà ricordato come il Ventennio berlusconiano. E tuttora, Berlusconi, se pur da una posizione non più di primissimo piano, è un pezzo del centrodestra, in grado di esprimere addirittura la seconda carica dello Stato: la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Quindi, se è giusto porsi interrogativi sul perché il padrino di Cosa Nostra Graviano decida di parlare proprio ora, dopo 26 anni, è altrettanto legittimo raccontare com’è stata data una notizia di questa portata dalle principali edizioni dei telegiornali di venerdì e dai quotidiani ieri in edicola.

Per il Tg1 delle 20, quelli che definisce “i misteri del boss mafioso Graviano”, non meritano di comparire nei titoli e il servizio arriva soltanto dopo ventitré minuti. Ma il meglio del servizio pubblico Rai è raggiunto dal Tg2 delle 20:30 del direttore in quota Lega Gennaro Sangiuliano: quanto accaduto nell’aula di tribunale a Reggio Calabria non solo non compare nei titoli, semplicemente non viene raccontato. La fu tele-Kabul, il Tg3, nell’edizione delle 19 inserisce la notizia come quinto titolo, penultimo, prima di Sanremo. E il servizio sulla deposizione di Graviano arriva dopo quasi mezz’ora, al minuto 26, precedendo appunto solo i collegamenti con il Festival di Amadeus e Fiorello.

Le televisioni Mediaset, ancora di proprietà della famiglia Berlusconi esattamente come nel 1994, oscurano del tutto l’accaduto. Per il Tg4 delle 19 merita titoli e servizi la storia di Mario, 92 anni, che sposa Maria, 71 anni; e ampio spazio è dedicato anche all’annoso problema dei cani italiani obesi, con tanto di ospite in studio d’eccezione: l’animalista Michela Vittoria Brambilla, berlusconiana della prima ora a cui nulla viene chiesto rispetto alle parole di Graviano mentre è impegnata a occuparsi con amore del cane portato davanti alle telecamere per l’occasione. Un’ora dopo, al Tg5 delle 20 Cesara Bonamici comincia annunciando: “Buonasera, tanti fatti importanti nella nostra prima pagina…”; di Graviano a Reggio non c’è traccia, ma non mancano gli auguri a Vasco Rossi per il compleanno del cantautore di Albachiara, con tanto di immagini della natia Zocca illuminata per l’occasione. Buio, invece, sulle parole del padrino di Cosa Nostra anche su Studio aperto delle 18,30 su Italia1.

Cambia musica soltanto sul Tg La7: il direttore Enrico Mentana già nell’anteprima annuncia che affronterà “una questione gravissima e di lunga data; le affermazioni di Graviano sono circostanziate, anche se il legale di Berlusconi, Ghedini, smentisce tutto”; nei titoli è la terza notizia e poi è il quinto servizio del telegiornale.

Su Nove a Sonoleventi Peter Gomez inserisce dieci minuti di servizi, analisi e approfondimenti su Graviano e Berlusconi nel primo piano, la notizia è seconda solo alle tensioni politiche nella maggioranza di governo.

Per quanto riguarda la carta stampata nazionale, oltre al Fatto, unico quotidiano a dedicare l’apertura al tema, la notizia è degna della prima pagina anche sul manifesto e sul Giornale di Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, diretto da Alessandro Sallusti, che però titola così: “Da Graviano fango e deliri su Berlusconi”. Per tutti gli altri la deposizione di Reggio Calabria compare soltanto nelle pagine interne dello sfoglio.

Cambiate musica

Secondo il sondaggio Pagnoncelli-Corriere, il 57% degli italiani pensano che la prescrizione sia una scappatoia per i colpevoli e il 59% di chi conosce la legge Bonafede la condivide. Buon segno: nemmeno questi partiti infami e questa “informazione” degna di loro sono riusciti a mettere l’anello al naso alla gente. Ora qualcuno dovrebbe domandarsi come sia possibile che, di una legge che domina giornali, tg e talk da mesi, solo il 5% sappia tutto e un altro 40% qualcosa. Il motivo è semplice: se ne dicono e sentono di tutti i colori, senza che arrivi mai un esperto a zittire tutti e a dire come stanno le cose. Infatti i primi a non sapere nulla sono i media: molti descrivono il “lodo Conte bis” all’incontrario: cioè come una norma che svuota la Bonafede bloccando la prescrizione non più dopo la sentenza di primo grado, ma dopo quella d’appello se c’è doppia condanna. Una cosa inutile, visto che in Cassazione si prescrivono solo 600 dei 130 mila processi morti ogni anno. Per fortuna è una balla.

1. Indagini e primo grado. Non cambia nulla: se la prescrizione scatta prima della sentenza di primo grado, il processo muore lì. Le cose cambiano dopo la sentenza di primo grado.

2. Primo grado, condanna. Se il pm e/o la difesa impugnano, si va in appello. E la prescrizione è abolita fino alla sentenza definitiva, salvo che in appello arrivi l’assoluzione (vedi punto 5).

3. Primo grado, assoluzione. Se il pm impugna, si va in appello. E la prescrizione continua a correre, ma con 2 anni in più di sospensione rispetto ai termini attuali: quanto basta per celebrare gli altri due gradi, anche con i tempi medi odierni. Ma bisogna sbrigarsi, dunque nessun rischio di “processi eterni” per gli assolti in tribunale.

4. Appello, condanna. Se il pm e/o la difesa ricorrono, si va in Cassazione. La prescrizione si blocca sine die fino alla sentenza di terzo grado (conferma della condanna d’appello, annullamento senza rinvio, annullamento con rinvio a nuovo appello).

5. Appello, assoluzione. È la novità del lodo Conte-bis. Se il Pg ricorre (caso rarissimo: riguarda il 2-3% delle assoluzioni), si va in Cassazione. E si recupera la prescrizione “persa” in appello, come se non fosse mai stata bloccata dopo la prima sentenza: termini ordinari, più i 2 anni di sospensione in appello, più 1 altro anno previsto per il giudizio di Cassazione. Anche qui, pochi rischi che il processo si prescriva in vista del traguardo o che duri in eterno.

Ora chi strilla sugli “imputati a vita” cambi musica e dica finalmente la verità: cioè che non voleva processi più brevi, ma più processi morti.

“Una festa inclusiva, un po’ troppo lunga”

Bruno Voglino, storico autore Rai e talent scout a cui si deve la scoperta di un’intera generazione di artisti (Carlo Verdone, Massimo Troisi, Maurizio Crozza, Fabio Fazio, tanto per fare qualche nome), questo Sanremo lo guarda tutte le sere, ma con una certa moderazione. “Cosa vuole, come tutti i vecchietti ho poca pazienza!”, spiega all’inizio della nostra chiacchierata. “Ne vedo un pezzo, poi magari giro o magari mi leggo un libro, poi ci torno un po’. Dura talmente tanto…”.

Ha visto che gli ascolti vanno a meraviglia: qual è il segreto secondo lei?

Amadeus ha messo in piedi una grande festa della televisione, chiamando a raduno tutti i protagonisti dell’intrattenimento che c’è ora in Italia. Non solo quelli della Rai, ma anche delle altre reti. Lui è così, inclusivo. Tutti gli hanno detto di sì, ma su questo non avevo dubbi. Io non lo conosco di persona, ma a fiuto mi sembra uno che in vita sua non ha mai litigato con nessuno.

Una cosa che non le è piaciuta c’è?

Le canzoni: non si capiscono le parole. Non è tanto un fatto di gusto, è che mi piacerebbe almeno seguire i testi… Quasi tutte sono incomprensibili.

E lo spettacolo?

Be’, c’è Fiorello. Lui è una garanzia di successo, un capitolo a parte. Sul resto Sanremo è figlio di questa televisione e quindi ci sono momenti di banalità e scadimento e altri di televisione alta. C’è un mix di toni diversi, sia all’interno della singola puntata che tra una sera e l’altra.

Ha visto il monologo di Rula Jebreal?

Sì, è stato un momento alto. Come il monologo di Benigni sul Cantico dei cantici: questo però lo dico sulla fiducia perché purtroppo mi è sfuggito. Ma ne ho letto bene sui giornali, com’era prevedibile peraltro.

Lei ha scritto “Paura non abbiamo. Donne e televisione in Italia” (Castelvecchi). Che pensa di questo Festival entrato sessista e uscito femminista?

Merito di Amadeus che ha intuito lo spirito del tempo. Ha capito che è il momento di volgere lo sguardo al femminile con una prospettiva diversa. Non più la solita, bieca, che per anni ha perseguitato le donne. Non più solo concentrata sull’aspetto esteriore. In questo senso il Sanremo numero 70 ha fatto una piccola rivoluzione, passando una mano di bianco sul ruolo delle donne in tv. Operazione perfettamente riuscita e più che condivisibile. Posso aggiungere una cosa da vecchio uomo di tv?

Prego.

È molto interessante la composizione del pubblico. Non più solo anziani come me. Ma anche giovani. Vuol dire che questo spettacolo tiene insieme i gusti di tutti. Il Festival di Sanremo non è un programma televisivo, è una festa. Anzi una pausa nella cronaca sociale del Paese, un momento di relax. Amadeus è l’uomo perfetto per indossare questo abito.

Le puntate come dicevamo durano oltre le due di notte. Giusto o esagerato?

È la brutalità della televisione di oggi. Ma non da ieri. Ormai tutti sono schiavi dei calcoli dello share e quindi si trascinano le prime serate fino all’alba. Peraltro si sa: lo share calcola anche i telespettatori dormienti… Le scalette delle serate di questa edizione di Sanremo sono mostruose, non finiscono più. È una delle ragioni per cui faccio zapping: non riesco a stargli dietro. C’è una dittatura delle prime serate sterminate: il Festival è davvero sempre lo specchio del Paese, e della tv.

Si parla ovviamente di un Amadeus bis. Dall’alto della sua lunghissima esperienza televisiva, glielo consiglierebbe?

Ma per carità no! Da ex autore e dirigente televisivo, penso che sia sbagliato proporre la stessa minestra al desco dell’ascoltatore. Lo pensavo ai miei tempi e continuo a pensarlo ora che la tv la guardo solo.

“Vasco mi ha scelta perché sono una ragazzaccia”

Vuole proteggerla, la ragazzina Irene. “Credevo nelle favole. Finché presi la prima mazzata, un amore finito male quando ero adolescente: conobbi la rabbia e il dolore. Qualcosa che ti scava e lascia disillusa, e che ti porti dentro anche da adulta. Ma decenni dopo è successo qualcosa di inaspettato”. Cosa? “Quella persona ha chiesto scusa per avermi fatto soffrire. Oggi è mio marito. Questo è il regalo della vita. Il dolore può preparare un riscatto”.

Sorride, la Grandi. Guarda indietro alla sua storia e prova tenerezza per la giovinetta che “dopo quello smacco trasformava la sconfitta in una totale attitudine rock: buttati, mi dicevo. Fregatene! Così andavo sulla spiaggia in mezzo a una comitiva di sconosciuti, senza presentarmi. E cantavo. Il chitarrista è quello che non rimorchia mai, suona mentre gli altri pomiciano. Io simpatizzai con lui, che mi portò per la prima volta in uno studio. Ecco, quello era il mio destino”. Del resto, in casa l’avevano svezzata con le pappe più succulente del rock’n’roll. “Mamma ascoltava Lou Reed. Io scoprii di amare quegli irregolari che mi invitavano a essere diversa. Gli Stones, i Police. I grandi cerimonieri del suono black: cantavo e ballavo imitando Prince. E James Brown. Il funk di Lenny Kravitz e Terence Trent D’Arby, il soul di Sade e Aretha. In famiglia consumavamo anche i primi dischi di Vasco”. Quel maturo signore che oggi tempesta Irene di messaggi da Los Angeles: “Mi scrive: ‘Vai, sei una bomba, spacchi tutto, fantastica’”. E glielo ripeterà di persona il 19 e 20 giugno al Circo Massimo, quando la cantautrice aprirà i concertoni del Blasco.

Una lunga storia d’amicizia, quella tra Grandi e Rossi. Il primo approccio fu nel 2000: “Al mio discografico venne l’idea vincente: Vasco aveva già regalato a Patty Pravo Dimmi che non vuoi morire, così avanzammo la proposta al re del rock italiano. Al massimo ci dirà di no, pensavamo. Invece gli piacque il mio atteggiamento ribelle, quello di Bum Bum e In vacanza da una vita. Vasco vedeva la mia personalità, gli anfibi indossati senza rinunciare alla femminilità, quel caratteraccio maschile che mi spinge a non comportarmi, sul palco, come un’educanda. A me piace allargare le gambe…”. Ride, temendo di essere fraintesa. “Mentre canto, beninteso!”.

Vasco le cucì addosso La tua ragazza sempre. Tre anni più tardi rinsaldò la collaborazione: “Prima di partire per un lungo viaggio era un titolo profetico, il viatico per un cambiamento profondo nella mia vita. Stavo ripudiando il dovere di compiacere gli altri. Dovevo instaurare un confronto anche duro, ma sincero, con me stessa. Non ha senso andare a caccia di approvazione a tutti i costi. E ora mi piaccio così, con i miei pregi e difetti. In stato di grazia, definitivamente curata e salvata dal potere della musica, la rabbia trasformata in una potente energia positiva”. Quella che traspare da Finalmente io, la sua proposta sanremese (comparirà nel repackaging dell’ultimo album Grandissimo), di nuovo firmata da Vasco e Gaetano Curreri. Uomini che amano le donne e le ritraggono con intuizione psicoanalitica. “Questo è il dialogo che mi serve, lo scambio con autori e musicisti per indagare sulla mia anima. Il rock è una vibrazione misteriosa che non ti deve far vergognare di ciò che sei, è un modo per denudarsi davanti agli altri, restando vestita, e sentendoti bella. Se volessi trasgredire fino in fondo urlerei parolacce a bocca piena, nel mezzo di una canzone, davanti a milioni di telespettatori. Perché no?”. Nel festival avvelenato dalle polemiche sulle donne, Irene Grandi invita tutte a “cercare la strada verso ciò che ci fortifica, invece che pensarci solo vittime. Siamo libere di girare come meglio crediamo. Sentiamoci ganze”.

Ti amo, ti odio, ti amo: Fiorello-Tiziano, la pace con Amadeus nel mezzo

Ma quanto è vero che chi trova un amico trova un tesoro? Sul palco di Sanremo 70 le cose filano che è una meraviglia. Il Festival macina record su record, sempre meglio, sempre più su: la serata dei duetti ha registrato in media 9 milioni e 800mila telespettatori, per uno share del 54,5%. Un dato così non si vedeva dal 1997, quando però il sipario era calato alle 23.27. Giovedì, per dire, la puntata è finita che era venerdì da un pezzo: ore 2.05. Non è un dettaglio da poco. Ieri sera è stato il momento dei giovani: premio della critica agli Eugenio in via di Gioia, a Tecla quello della Sala stampa Radio tv, la gara vera l’ha vinta Leo Gassmann.

Dopo la pausa, è tornato Fiorello (la cui assenza si è sentita molto giovedì) e il destino ha voluto che avesse promesso di travestirsi da coniglio. E come sempre si prende la scena. La ricetta di questo ultra-Festival è cast fisso, davvero stellare: Tiziano che canta, Rosario che fiorelleggia. Ma i due hanno litigato o no? Risposta: sì, e non poco, a causa dell’infelice uscita di Ferro martedì sera. Nervoso per aver steccato Mia Martini? Infastidito dal ritardo della sua esibizione? Irritato per la citazione della “sua” Perdere l’amore che chiudeva la canzone parodia eseguita da Fiorello? E chi lo sa… Sta di fatto che, come vi abbiamo raccontato, Tiziano ha lanciato in mondo visione l’hashtag #Fiorellostattezitto. Facendo incazzare non poco il siculo (quasi con la valigia in mano) per gli insulti ricevuti sui social. La polemica è stata sopita con imperioso piglio dalla Rai: ma quale litigio, ma quale irreparabile dissidio. Ferro si è scusato con una letterina: voleva fare una battuta, giocando con il re dei comici, finendo con un (secondo lui) ironico #Tizianostattezitto. Ancora ieri mattina in conferenza stampa è stato chiesto all’amico dei nemici, Amadeus, come stavano le cose: “Tra Fiorello e Tiziano Ferro c’è un fantastico rapporto. Nessuna polemica. Vorrei difendere il senso di amicizia, di rispetto e di famiglia che c’è in questo Festival”. Sotto testo: ma cosa volete, ancora? La guerra non c’è mai stata e dunque nemmeno la pace. Ama dev’esser più cauto con le affermazioni assertive, gli capita di venir smentito un po’ troppo spesso dai fatti (cfr. video di Roger Waters). È così vero che ieri pomeriggio Selvaggia Lucarelli ha pubblicato un’intervista a Fiorello sul sito www.tpi.it. Di codesto tenore: “Non è giusto darmi del permaloso come se mi fossi arrabbiato per nulla, accetto le critiche, accetto che si dica che non faccio ridere, qualunque cosa, ma Tiziano Ferro ha fatto una cosa che non si fa”. Proprio lui che ha detto in tv che le parole hanno un peso! “Dopo che ha lanciato sul palco #fiorellostattezitto, ho ricevuto insulti tremendi per 24 ore. Tu lanci un hashtag dal palco di Sanremo e sai cosa scateni, come se poi fosse colpa mia se ci sono 50.000 ospiti e si fa tardi la sera. Parliamo tanto di cyberbullismo e non valutiamo le conseguenze? C’è un vigile che si è suicidato in questi giorni per gli attacchi sul web”. Insomma una cosa seria: “Ha lanciato una campagna d’odio nei miei confronti. Abbiamo responsabilità nei confronti dei nostri figli, c’è gente debole, che si butta dalla finestra, io sono io, a me non frega niente, però c’è chi non regge. Tiziano deve capire, deve crescere anche lui. Io sono stato male per gli insulti”.

Rapporto fantastico o scazzo drastico? Due ore dopo sui social compare la foto della pace di Sanremo: Ferro&Fiorello, abbracciati e sorridenti. Ci vorrebbe proprio un amico: i due hanno poi cantato insieme Finalmente tu, il brano con cui Fiorello partecipò al Sanremo 1995. La ciliegina sulla torta dell’amicizia la mette Piero Pelù: “Ho aspettato 40 minuti sul pianerottolo ad aspettare quel cazzone di Fiorello che finiva le sue battute”. Il tono è scanzonato, ma il problema c’è. Gli artisti sono nervosi (la scaletta della serata di ieri prevedeva la fine alle 2. 22), i discografici idrofobi. Guerra e pace a Sanremo: si predica l’amore (anche carnale, vedi monologo di Benigni) e un po’ si fa anche la guerra. Nessuno ci dà retta, ma puntate più compatte (ed è un gentile eufemismo) avrebbero fatto un miglior servizio agli spettatori presi in ostaggio e agli artisti che qui vengono nell’utopica convinzione di partecipare a una kermesse musicale.

Dell’“American Beauty” è rimasto solo Mendes

Comunque vada, qualcosa è cambiato. Domenica notte Sam Mendes potrebbe bissare con 1917 la statuetta per la regia di American Beauty, ma gli Academy Awards e Hollywood non sono più quelli di vent’anni fa.

Back in the days, 26 marzo del 2000, la settantaduesima Notte degli Oscar, officiata per la settima volta da Billy Crystal allo Shrine Auditorium di Los Angeles: domani la novantaduesima cerimonia (diretta dalle ore 22.45 su Sky Cinema Oscar e in chiaro dalle 23.50 su TV8) sarà senza presentatore, ma la DreamWorks (Amblin) che conquistò con American Beauty ben cinque premi potrebbe replicare.

1917, il cavallo di battaglia di Steven Spielberg contro l’odiata Netflix che compete con The Irishman di Martin Scorsese, parte con dieci nomination e il favore dei pronostici, nondimeno l’effetto déjà-vu è parziale, di più, manchevole. Se Mendes si laureava, sesto nella storia degli Academy Awards, Best Director al primo film e, nostalgia canaglia, sul tappeto rosso Brad Pitt e Jennifer Aniston sfilavano insieme, il patron di Miramax Harvey Weinstein, reduce dall’inaspettato successo di Shakespeare in Love dell’anno precedente, dettava legge e spendeva milioni di dollari in promozione sfidando DreamWorks e Kevin Spacey, dopo quella da non protagonista per I soliti sospetti, alzava la statuetta da protagonista per l’uomo di mezz’età infatuato dell’amica della figlia in American Beauty.

Vent’anni dopo, l’uomo che ha messo lo zampino in venti titoli nominati all’Oscar, da Pulp Fiction del 1994 a Lion del 2016, di cui cinque vittoriosi (Il paziente inglese, Shakespeare in Love, Chicago, Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re e Il discorso del re), sta alla sbarra a New York per la supposta violenza sessuale ai danni di due donne: del Dio (copyright Meryl Streep) che fu non v’è traccia, nemmeno del Punisher che si vantava d’essere, oggi Harvey Scissorhands ha mollato le cesoie per il deambulatore. Oramai più avvezzo alle aule che al set è anche Spacey, pluri-indagato per abusi sessuali: per ora sta tenendo fede al suo inquietante videomessaggio natalizio del 2018 “Se non ho pagato per quello che ho fatto, di sicuro non pagherò per quello che non ho fatto”, ma anche lui è fuori dai giochi.

In due decenni è cambiato un mondo, si sono dissanguati gli ascolti televisivi (dai 46 milioni del 2000 ai 30 del 2019), sicché la guerra, meglio, la lotta per la sopravvivenza inquadrata da 1917 non è metaforicamente peregrina: di quei giganti oggi ne rimane in piedi soltanto uno, Sam Mendes.

Quasi incontrastato, a dar retta ai bookmakers, per la migliore regia, salvo sorprese da parte del Quentin Tarantino di C’era una volta a… Hollywood o, attenzione, il Bong Joon-ho di Parasite. Il regista sudcoreano in realtà ha già vinto: dopo la Palma d’Oro di Cannes, una pletora di riconoscimenti Oltreoceano, dai Golden Globes a quelli di ben quattro sindacati (attori, sceneggiatori, montatori e scenografi), un exploit senza precedenti per un film straniero o, come si dice ora, internazionale.

Forte di un botteghino strepitoso (163 milioni di dollari a fronte degli 11 di budget), Parasite staglia la propria ombra sulla statuetta più ambita, Best Picture, e che colpo sarebbe: per cinefili e fan che gridano poliglotti al capolavoro; per Cannes, che ritroverebbe la supremazia issando sulla vetta del mondo un film asiatico, laddove alla concorrente Mostra di Venezia riesce solo con americani e messicani; per Hollywood, che smaltendo la sbornia #OscarsSoBlack – e snobbando le quote rosa – si aprirebbe artisticamente e vieppiù commercialmente a Oriente. Ovvio, quello di Bong Joon-ho è il candidato più serio all’Oscar per il film internazionale, sebbene Penélope Cruz chiamata – se l’è lasciato sfuggire Almodóvar… – a premiare la categoria farebbe propendere per Dolor y gloria del suo Pedro..

Netflix a piangere miseria e Tarantino ad accontentarsi della sceneggiatura originale e del non protagonista Brad Pitt, il campione di nomination Joker (11) è dato trionfante con il protagonista Joaquin Phoenix e la colonna sonora della islandese Hildur Guðnadóttir: bene, ma non benissimo, anche se il Leone d’Oro di Todd Phillips l’impresa l’ha fatta al box office, con un miliardo e 71 milioni di dollari. Piccole donne di Greta Gerwig per lo script non originale, sul versante attoriale femminile Renée Zellweger ha in tasca la statuetta da protagonista per Judy (Garland), l’aristocratica hollywoodiana Laura Dern quella da non per Marriage Story.

 

Sono 14 ogni mese i neonati già drogati e in crisi d’astinenza

Sono nati da nemmeno 24 ore e manifestano gli stessi sintomi. Pianto prolungato e inconsolabile. Tremano, spesso vomitano. Dissenteria. Un quadro molto simile a quando gli adulti precipitano in una crisi di astinenza da sostanza stupefacente, tipo eroina. Li chiameremo Andrea, Martina, Luca. Sono alcuni dei tanti neonati drogati da oppiacei a causa della tossicodipendenza della loro madre. Ogni mese in Italia nascono così 14 bimbi, se facciamo una media tra le regioni: circa 170 all’anno. Il ministero della Salute li classifica con il codice 779.5, che identifica la diagnosi di sindrome da astinenza. Un giorno di vita e devono essere disintossicati con dosi a scalare di morfina o metadone. A volte occorrono settimane per riportarli in buone condizioni di salute.

Nel triennio 2016-2018 la percentuale di questi bambini sul totale delle nascite è sempre oscillata intorno allo 0,04%. In valori assoluti, 566 bimbi, tra nord e sud del Paese (con numeri più alti in Veneto, Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Toscana e, per il Piemonte, in aumento). Dati che potrebbero non giustificare l’allarme. Invece non è così. Perché quei 14 bimbi che ogni mese nascono in astinenza sono solo ciò che emerge in superficie, la punta dell’iceberg. C’è un mondo sommerso, un mondo di abusi di altre droghe difficili da intercettare. Se la sindrome da astinenza dall’eroina viene quasi sempre subito rilevata dai clinici, altrettanto non si può dire dell’intossicazione da cocaina, cannabis, nuove droghe. O dalla dipendenza dal Fentanyl, forte analgesico oppioide sintetico, molto richiesto in un mercato dello spaccio di farmaci che viaggia su binari ben diversi da quelli dell’eroina.

È qui che si entra in un cosmo nebuloso di cui, ammettono i neonatologi, poco o nulla si sa. “È molto raro che sfugga il controllo su una donna eroinomane in stato di gravidanza: generalmente entra in ospedale per partorire con la segnalazione dei Serd, i servizi per il trattamento delle dipendenze” dice Fabrizio Sandri, direttore del reparto Neonatologia dell’ospedale Maggiore di Bologna. “Arriva e sappiamo già cosa aspettarci, scatta il protocollo sanitario previsto in questi casi. Nel caso degli altri stupefacenti, invece, tutto diventa più complesso. Con la cocaina, per esempio: la sua presenza si rileva con l’esame delle urine, che non sempre è richiesto. E, a meno che non sia la madre ad ammetterne l’uso, la diagnosi non è semplice. Generalmente si tratta di bambini più irritabili, con un peso inferiore alla media e una circonferenza cranica più piccola. Ma ci sono sintomi molto più subdoli e meno eclatanti”.

È così che le intossicazioni da cocaina o da nuove droghe sintetiche non finiscono nelle statistiche. “Il problema è che, mentre sull’astinenza da oppiacei abbiamo dei dati, sugli altri stupefacenti no” conferma Fabio Mosca, presidente della Società italiana dei neonatologi. “Eppure sono droghe pericolose per il bambino anche a distanza di tempo. Il passaggio placentare di una sostanza che produce un’azione eccitatoria come la cocaina può dare conseguenze anche nel corso della crescita, come ridotta capacità di attenzione, forte irritabilità, anomalie del comportamento”. “Manca la consapevolezza del rischio – dice Guido Faillace, presidente di Federserd, la federazione degli operatori dei dipartimenti e dei servizi delle dipendenze – anche perché, tra gli adulti, la cognizione dello spartiacque tra uso e abuso è molto labile. Eppure la cocaina è sempre più diffusa, soprattutto tra i giovani, come anche le nuove droghe sintetiche o il Fentanyl. È un campo minato, ingannevole: le donne arrivano al parto senza alcuna coscienza della dipendenza e dei pericoli per il neonato”.

Fatma e Mila, meglio Voltaire della religione

Fatma e Mila non si conoscono, vivono in paesi e contesti opposti, la prima in Iraq, la seconda in Francia, eppure entrambe rischiano la vita per aver espresso la propria opinione sul potere delle religioni di imbrigliare la libertà. “Se per evitare di essere uccisa devo rinunciare a reclamare i miei diritti di cittadina, tra cui quello di vivere in uno stato laico dove tutti sono considerati uguali indipendentemente dalla religione che professano, o non professano come nel caso degli atei perseguibili per blasfemia dalla legge coranica (sharia) tuttora vigente, allora sono disposta a morire”, ci dice la studentessa ventiduenne di Baghdad che si definisce agnostica. Fatma, assieme ai compagni della facoltà di Medicina, dallo scorso ottobre ogni giorno manifesta a piazza Tahrir, dove decine di persone sono state uccise dalle milizie sciite sostenute da alcuni ministri del governo uscente, dai parlamentari del blocco sciita e dai Pasdaran della vicina repubblica islamica iraniana. “Non vogliamo più che il nostro paese venga usato come terreno di scontro tra Iran da una parte e Stati Uniti e Israele dall’altra. Noi giovani vogliamo essere governati in modo laico da persone irachene indipendenti, non dagli uomini di Trump o dell’ayatollah Khamenei. Per quanto riguarda noi donne, la situazione è ancora più tragica. I mullah sciiti gestiscono un giro di prostituzione alla luce del sole e nessuno fa nulla. Usano la formula dei matrimoni brevi, o di piacere, per aggirare la legge che vieta la prostituzione e fare i soldi sulla nostra pelle. La maggior parte delle donne sciite ripudiate attraverso il divorzio, che solo il marito può chiedere, finisce emarginata e senza aiuti economici. A quel punto scatta la carità pelosa del mullah che offre alle divorziate un misero compenso se accetteranno di contrarre un matrimonio breve. Queste donne sono consce del fatto che l’aspirante marito temporaneo si rivolge al mullah e lo paga solo per avere dei rapporti sessuali legali e lasciarle una volta soddisfatti, ma non possono sottrarsi perché altrimenti non saprebbero come sopravvivere dato che il lavoro non c’è, tantomeno per una divorziata”. Fatma si congeda dicendo che lei e i suoi compagni vorrebbero “Voltaire al potere e non i mullah”. Peccato che, proprio in questi giorni, il filosofo dell’Illuminismo sembri non godere più dell’ incondizionato sostegno delle istituzioni nel suo paese natale, la Francia. Due settimane fa, Mila, una studentessa di 17 anni che vive nella provincia di Lione, dopo aver litigato via Instagram con un coetaneo musulmano che l’aveva accusata di essere “una sporca lesbica”, aveva replicato con linguaggio colorito accusando le religioni, specialmente l’Islam, di essere rimaste al Medioevo. Ora Mila vive sotto scorta e ieri è entrata nel liceo che l’ha accolta, dopo essere stata costretta a lasciare il precedente. Nicole Belloubet, ministra della giustizia, aveva affermato: “L’insulto alla religione è un attentato alla libertà di coscienza”, pur sapendo che la Francia è stato il primo paese in Europa a riconoscere il diritto di criticare le religioni. La ministra ha poi ritrattato.

Spie, bugie e videotape: Credit Swiss fa nero Thiam

Alla fine Tidjane Thiam, amministratore delegato del Credit Suisse, si è dimesso. È stato lo stesso gruppo bancario elvetico ad annunciarlo ieri, precisando che a succedergli (a partire dal 14 febbraio, quando le dimissioni di Thiam diventeranno effettive) sarà Thomas Gottstein, attuale direttore della filiale svizzera del gruppo.

Il presidente Urs Rohner conserva invece il suo posto e potrà portare a termine il mandato che scade nell’aprile 2021. Nel frattempo le azioni della banca crollavano in Borsa.

A mettere nei guai Tidjane Thiam, 57 anni, costringendolo a lasciare il gruppo, è stato uno scandalo di spionaggio interno in cui lui nega di essere coinvolto. La vicenda è scoppiata lo scorso settembre quando è emerso che Iqbal Khan, ex responsabile della gestione patrimoniale del Credit Suisse, passato a sorpresa alla concorrente Ubs, veniva pedinato nelle vie di Zurigo da detective privati al servizio del gruppo.

Un giorno, aveva raccontato la stampa svizzera, Khan ha capito di essere seguito mentre circolava al volante della sua auto. Si è dunque fermato, è sceso e si è diretto verso l’auto sospetta per fotografarne la targa. L’uomo che era a bordo è sceso a sua volta e i due sono arrivati alle mani. Khan aveva sporto denuncia per “minacce”.

Un’indagine interna affidata dal Credit Suisse a uno studio legale ha permesso di risalire al mandante dei pedinamenti: si tratta di Pierre-Olivier Bouée, ex direttore operativo della banca e “braccio destro” di Thiam, poi licenziato a dicembre. L’indagine aveva stabilito che Bouée aveva agito di sua sola iniziativa, senza informare i superiori, e “scagionava” quindi Thiam.

La vicenda di spionaggio si era anche arricchita di dettagli personali che avevano messo in luce degli attriti tra Thiam e Khan anche fuori dalla banca: si è saputo che a un certo punto i due colleghi erano diventati vicini di casa, proprietari entrambi di due belle ville in riva al lago di Zurigo. Ma erano sorti problemi di vicinato, con continui litigi per lavori troppo rumorosi o per alberi che coprivano il paesaggio. Sarebbe stato a quel punto che Khan avrebbe cominciato a cercare lavoro altrove, trovandolo nella potente Ubs.

A dicembre, quando il primo caso sembrava chiuso, sono emerse nuove rivelazioni: anche Peter Goerke, ex capo del personale del Credit Suisse, era stato fatto pedinare dalla banca. Lo scandalo dei pedinamenti “ha scosso il mondo tranquillo delle banche svizzere”, scriveva ieri la Bbc. Ma la vicenda non si è chiusa neppure lì: a inizio febbraio il giornale della domenica Sontangs Zeitung ha rivelato che il Credit Suisse avrebbe infiltrato il sistema elettronico di Greenpeace per poter prevenire eventuali azioni dell’organizzazione ambientalista, che in passato ha già preso di mira l’istituto bancario. Di fronte a uno scandalo senza fine, ieri il cda ha dunque accolto in modo unanime le dimissioni di Tidjane Thiam, che ha ribadito: “Non ero a conoscenza della sorveglianza dei due ex colleghi”.

Il banchiere franco-ivoriano, diplomato alla prestigiosa École Polytechinque di Parigi ed ex ministro della Pianificazione e dello Sviluppo in Costa d’Avorio, aveva ripreso le redini del secondo maggiore istituto elvetico, dietro Ubs, mentre attraversava un periodo di crisi nel luglio 2015. Nessuno gli nega il merito di aver risollevato il gruppo come già aveva fatto in passato con l’assicuratore britannico Prudential.

Ma lo scandalo ha messo la banca in agitazione. Si sono create fazioni interne. Diversi azionisti, tra cui Harris Associates, schierandosi con Thiam, hanno chiesto le dimissioni del presidente Rohner. Che invece ha vinto e alla radio svizzera Srf ha detto: “Non c’è mai stata lotta di potere tra me e Tidjane Thiam”.