Nel comportamento di Glenn Greenwald non c’è stato niente di illegale. Così il giudice Ricardo Augusto Soares Leite ha stabilito giovedì di non procedere con le accuse di hackeraggio nei confronti del giornalista brasiliano fondatore del sito di inchiesta The Intercept, come richiesto dai pubblici ministeri. I pm sostenevano che Greenwald – nell’ambito dell’inchiesta giornalistica su Lava Jato – non avesse soltanto pubblicato i messaggi dell’ex procuratore Sergio Moro, ma avesse aiutato sei hacker a violare il telefonino dell’attuale ministro della Giustizia e di altre autorità. I sei restano indagati per crimini informatici. Ma per Greenwald non è finita: “Anche se accolgo con favore la decisione, non è sufficiente a garantire i diritti di una stampa libera”, ha fatto sapere. “Il rifiuto si basa sul fatto che la Corte Suprema ha già emesso un’ingiunzione contro tentativi di persecuzione contro di me. Ma non è abbastanza. Chiediamo un decisivo rifiuto da parte della Corte di questa azione penale abusiva: si tratta di un chiaro e grave assalto alle libertà fondamentali della stampa. In alternativa – ha spiegato il giornalista – resterebbe aperta la possibilità di un’ulteriore erosione della libertà contro altri giornalisti”. Dal canto suo Betsy Reed, il caporedattore di Intercept Brasil ha lanciato un allarme: “Rimane un’enorme pressione per perseguire Glenn come rappresaglia per il suo lavoro”. Dal giugno scorso, Intercept ha pubblicato delle storie sulle fughe di notizie sull’Operazione Lava Jato, l’inchiesta per corruzione che ha scosso la politica brasiliana. Le intercettazioni di Moro pubblicate da Greenwald evidenziavano l’interesse del braccio destro del presidente Jair Bolsonaro che le accuse contro l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva vedessero la luce prima delle Presidenziali del 2018. Lula, dopo 19 mesi di carcere per corruzione, da novembre scorso è libero in attesa dell’ultimo grado di giudizio.
Bloomberg scivola sul programma green: copiato a piene mani
Due persone parevano ragionevolmente trarre vantaggio dal disastro dei democratici nei caucuses dello Iowa: Donald Trump, che fa la somma delle sue vittorie – l’assoluzione nel processo d’impeachment – e delle disfatte dei rivali, tutti colpiti nell’immagine dalla conta e riconta; e Michael Mike Bloomberg, uscito indenne dallo Iowa perché lì lui non era in lizza, avendo deciso d’entrare in corsa solo a partire dal Super Martedì del 3 marzo.
Ma Intercept, il sito d’inchiesta, getta un’ombra sulla campagna del miliardario newyorchese ed ex sindaco a tre riprese della Grande Mela. Bloomberg, o meglio i suoi collaboratori, hanno tratto parte dei suoi programmi da siti d’informazione, organizzazioni non profit e think tank, in alcuni casi riproducendone stralci parola per parola, ma senza citare le fonti. Fra i siti “piratati” indicati da Intercept ci sono quelli della Cnn, della Cbs e di Time, del John Jay College of Criminal Justice e dell’American Medical Association. Interpellata, la campagna di Bloomberg s’è giustificata spiegando di avere spedito le newsletter con i programmi tramite un servizio di email che “non ha le note in calce”: “Quando ce ne siamo accorti, abbiamo aggiunto ai documenti citazioni e link”.
Anche a prendere per buona la spiegazione, la campagna del magnate non ne esce bene. Bloomberg si appresta a lanciare sulle tv una nuova massiccia ondata di spot elettorali ed è pronto a raddoppiare le fila del suo staff, già considerevole, con l’ingresso di oltre duemila nuovi attivisti. L’ex sindaco punta a offrire l’immagine dell’unico candidato democratico che può battere Trump, soprattutto se i risultati delle prossime primarie – martedì si vota nel New Hampshire, poi sarà la volta della South Carolina e del Nevada – dovessero confermare la debolezza di Joe Biden e la forza di Bernie Sanders, inducendo i democratici a cercare un nuovo campione “centrista” da contrapporre al senatore del Vermont “socialista”. Fino a questo momento, Bloomberg non suscita entusiasmi fra gli elettori democratici: nei sondaggi è in crescita, ma non va quasi mai in doppia cifra ed è comunque dietro Biden, Sanders, Pete Buttigieg ed Elizabeth Warren. Né pare averlo premiato, in termini di consenso, lo spot da un minuto e dieci milioni di dollari mandato in onda domenica, durante il Superbowl. Trump, nel suo spot, ha raccontato i suoi successi nella riforma della giustizia penale. Bloomberg s’è schierato contro le armi facili, raccontando la storia di George Kemp Jr, un ventenne ucciso durante un litigio nel 2013. Nello spot, la madre, Calandrian Simpson Kemp, spiega la sua adesione a Moms Demand Action, un gruppo che si batte contro la violenza da armi da fuoco nei confronti dei minori. Tornando alle rivelazioni di Intercept, il magnate risulta collegato ad alcune delle organizzazioni da cui ha tratto porzioni del suo programma: ha co-fondato Everytown for Gun Safety, un gruppo per il controllo della vendita delle armi, e Building America’s Future Educational Fund, un ente non profit. In qualche caso, come là dove si parla di infrastrutture, gli autori del programma di Bloomberg hanno intrecciato a fuso insieme passaggi di fonti diverse. Quando il gioco è stato scoperto, tutta la scheda del programma ambientalista, dal titolo Smarter Faster Safer Greener: A Plan To Bring America’s Infrastructure Into the 21st Century, è stata levata dal sito.
La grana è esplosa nell’imminenza del dibattito fra gli aspiranti alla nomination democratica: sette gli ammessi sul palco di Manchester, New Hampshire, in base a criteri che intrecciano sondaggi e contributi finanziari raccolti, Biden, Buttigieg, Sanders, la Warren e Amy Klobuchar, Tom Steyer e Andrew Yang. Bloomberg è fuori, perché lui non raccoglie contributi, ma spende del suo. Il Comitato nazionale democratico ha però cambiato le regole d’accesso, per consentirgli di esserci a partire dal dibattito in Nevada, il 19 febbraio. Non tutti l’hanno presa bene: Sanders e la Warren leggono la decisione come l’ennesimo tentativo del partito di favorire i “centristi” sui candidati di sinistra.
Ranieri e la Pavone, qui il bello è anche ritrovarsi con gli amici
Io un grazie a questa edizione di Sanremo lo esprimo subito, anche prima della fine. Grazie perché sto incontrando vecchi amici, persone con le quali magari ho condiviso tratti di percorso professionale e umano, e che Sanremo mi sta permettendo di rivedere di nuovo, abbracciarci, sorridere, progettare. Basta anche solo l’intenzione, è già bello pensarci, poi uno vede. Così giovedì ho visto due amici-miti: Massimo Ranieri e Rita Pavone. Con Massimo ci conosciamo da trenta e passa anni, quando andai a Fantastico e lui fu di una ospitalità rara: immediatamente a mio agio, mi fece sentire importante e coccolata; aprii la porta del camerino e trovai un enorme mazzo di rose. Le rose erano rosse, ovvio. Se ci penso, ancora oggi ricordo quella sensazione. E appena ci siamo incrociati all’Ariston è scattata l’eco di quell’emozione.
Bellissimo.
Stessa situazione con Rita: per me lei è un mito, due anni fa sono andata a vederla dal vivo, e la sua energia lascia senza fiato, avvolge la mente, il cuore, i ricordi, e dopo alcuni minuti di chiacchiere, si è fermata, mi ha guardato, ed ecco la scintilla: “Perché non pensiamo a un progetto insieme?”. “Certo, quando vuoi”. “Perché sei fortissima e canti anche in inglese”. “Rita, per me è un piacere”. E lo è realmente: come dicevo prima, già solo l’idea mi piace.
E poi Fiorello.
Quando ci siamo conosciuti avevo 17 anni, lui speaker radiofonico, e già allora potevi intuire le sue capacità, rarissime, di intrattenere e portarti su un’isola solo sua, dove le regole di allegria imprevedibile sono la sua Carta costituzionale. “Sabri, scatta un selfie: passano gli anni ma non siamo niente male”.
Ha ragione.
Lunga vita a Sanremo.
Meriti e bisogni di un Foglio e del suo editore
“Il quotidiano che informa ci preserva dalla quotidianità che disturba”.
(Daniel Pennac)
Si può essere favorevoli o meno ai contributi pubblici per i giornali, contemplati nella maggior parte dei Paesi occidentali per tutelare il pluralismo dell’informazione. Ma un principio dev’essere tenuto fermo, come auspica la Federazione nazionale della Stampa con il suo segretario Raffaele Lorusso: se sono previsti, vanno erogati a quelle testate che non hanno un editore alle spalle, cioè alle cooperative dei giornalisti e a quelle che rappresentano enti morali, come per esempio Avvenire, quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Il caso del Foglio, fondato da Giuliano Ferrara nel 1996 e diretto oggi da Claudio Cerasa, è quantomeno controverso. E lo diciamo, con tutto il rispetto per entrambi e per la loro redazione, dalle colonne di un giornale che – come dichiara la scritta sotto la testata – “Non riceve alcun finanziamento pubblico”.
Il fatto è che un editore Il Foglio l’ha avuto fin dall’inizio, costituito da una società le cui quote erano suddivise tra il finanziere Sergio Zuncheddu (40%); Veronica Lario, seconda moglie di Silvio Berlusconi (30%); lo stesso Ferrara (10%) e lo stampatore Luca Colasanto (4%), con il restante 16% distribuito fra altri imprenditori. Poi, per beneficiare dei finanziamenti ai quotidiani di partito, nel ’97 il giornale si trasformò in una cooperativa e diventò organo ufficiale della “Convenzione per la Giustizia”, movimento politico fondato dai parlamentari Marcello Pera (Popolo della libertà) e Marco Boato (Verdi). Fu lo stesso Ferrara, in una trasmissione di Report, ad ammettere che questo “era un trucco, un escamotage, perfettamente legale” per sfruttare un’opportunità offerta dalla legge sull’editoria.
Dal 2016, la proprietà della testata è passata a Musa Comunicazione (100%), controllata da “Sorgente Group” che fa capo all’immobiliarista Valter Mainetti. Tant’è che, in risposta a una sua lettera pubblica con cui criticava la linea politica del giornale nei confronti del governo giallo-verde, il 9 giugno 2018 il direttore Cerasa firmò in prima pagina una legittima replica intitolata “La voce del padrone”.
Ora, sulla base di un rapporto di 200 pagine predisposto dalla Guardia di Finanza, il governo ha chiesto al Foglio la restituzione di 6 milioni di fondi pubblici che sarebbero stati incassati irregolarmente. La tesi su cui si basa questa contestazione è che in realtà non si tratterebbe di una vera cooperativa. Si attende a giorni un parere dell’Avvocatura generale dello Stato e quindi un eventuale ricorso. Nel frattempo, Mainetti si dice pronto ad assumere i redattori.
Se non è sufficiente la “voce del padrone” per dimostrare che Il Foglio ha un editore alle spalle, tanto basta per invocare la libertà di stampa e gridare allo scandalo. Quasi che qualcuno volesse censurare o sopprimere il quotidiano, privandolo di contributi che potrebbero essere distribuiti piuttosto fra diverse cooperative di giornalisti.
Si dà il caso, però, che “Sorgente Group” stia acquisendo, attraverso un concordato fallimentare, una testata meridionale che vanta 130 anni di storia; è diffusa in Puglia e Basilicata; vende circa 14 mila copie al giorno: cioè La Gazzetta del Mezzogiorno di Bari. Perché l’imprenditore-editore Mainetti, a rischio di sfidare il conflitto d’interessi, fa un’operazione del genere? Quali sono i suoi “meriti e bisogni”? A che cosa può servire un grande giornale del Sud a un immobiliarista? Vuole potenziarlo e rilanciarlo oppure ridimensionarlo e mortificarlo? Auguriamoci che non sia un altro “trucco” per ottenere, direttamente o indirettamente, soldi pubblici.
I finti intellò che insultano Benigni
Dismesso il camice da virologi, infettivologi ed epidemiologi indossato per contrastare il coronavirus, l’esercito degli smagati socialiari, twitstar, influcencer, opinion leader e altro compostaggio s’è scoperto ferrato in critica musicale e televisiva con Sanremo, per rivelarsi alla terza serata, quella con ospite Roberto Benigni, puranco specializzato in esegesi delle Sacre Scritture (“Il Cantico dei Cantici non è un testo PORNO, Benigni vattene!”).
Non che Benigni sia incontestabile (categoria nella quale lo inseriva Edmondo Berselli, con la grazia e l’ironia di Berselli), e anzi forse in ciò – nella sua appartenenza de iure al patrimonio nazionale da esportazione di cui è finito per diventare un prodotto di punta Dop, come il parmigiano – è consistito un limite alla sua bravura. Ma gli insulti che gli sono piovuti addosso durante i 40 minuti della sua esibizione sono un inedito sconcertante. Utenti comuni, mezze calzette, aspiranti attori e incerti autori satirici: tutto un opinionismo à la page ringalluzzito dall’occasione del doppio sacrilegio. Benigni e la Bibbia in un colpo solo, da destra perché Benigni è di sinistra e rende la Bibbia troppo pop leggendone un passo in chiave gender; dal midcult (mezzo acculturamento pretenzioso) che un tempo era l’intellighenzia di sinistra, perché la Bibbia è noiosa e non “ironica”, e Benigni consumato.
Non stiamo parlando di decerebrati odiatori, di quelli che saprebbero spiegare a Robert De Niro come si recita e a Carlo Emilio Gadda come si scrive, e potrebbero sbeffeggiare Dante che legge Dante. A maramaldeggiare sulla sublime lettura sono stati i brillanti, quelli che a seconda di come tira il vento idolatrano o distruggono qualcuno; i facili a innamorarsi, e dunque i più pronti a infangare; gli spiritosi, gli ostentatamente cinici e, tra questi, molti che lo stesso Benigni hanno spolpato (vogliamo pure dire che Benigni si è fatto spolpare?) facendone un idolo e un guru, una testa d’ariete della Cultura contro la destra berlusconiana incolta e il popolo scemo. Persino il viziato pubblico dell’Ariston ha applaudito l’esibizione di Elettra Lamborghini con più calore (dobbiamo cercare su Google: di professione erede, star di Riccanza, curriculum meno lungo di quello di Benigni).
Può capitare pure questo, nel Paese di Petrarca e di Gianluca Vacchi: che Al Bano e Romina, chiamati a esibirsi nella coazione della loro canzonetta kitsch quarantenne, siano applauditi in piedi e esaltati sui social come Poeti Laureati, nel rimescolamento tra alto e basso e nel recupero meta-ironico dal sacchetto dell’umido in cui rifulge certa élite (si fa per dire) intellettuale; e che Benigni venga accolto come una vecchia gloria (“parodia di sé stesso”), rentier del servizio pubblico (“quanto lo abbiamo pagato?”), da gente a cui bisognerebbe solo dire: “Posa quel telefono e ascolta, ché magari impari qualcosa”.
Potrebbe anche essere che il format “ospitata di Benigni” – entrata da marionetta sgangherata su musica felliniana, qualche riferimento all’attualità, lettura e commento di Commedia/Costituzione/Poesia – sia usurato, ma l’essersi prodotto nel commento del canto d’amore più alto mai scritto in una serata di canzoni è un impegno rispettabile che fa precisamente parte del lavoro che Benigni porta avanti da anni (“Non fa ridere”, s’è accorto qualcuno).
Allora: o il pubblico s’è fatto esigente con Benigni: ha letto Berselli, i dantisti, il manuale di Ectodica di Contini, l’opera omnia del Cardinal Ravasi e dunque apprezza il toccamento di genitali al conduttore, ma guai a toccargli le Scritture, in altre parole sa metaironizzare sull’ironista che pretende di insegnargli cos’è la cultura; oppure stiamo andando verso l’analfabetismo, il nichilismo e la refrattarietà da viziati a ogni manifestazione della bellezza. Vorremmo credere alla prima ipotesi; propendiamo per la seconda.
Perché il lodo Conte rispetta la Carta
Il lodo Conte bis sulla prescrizione è stato respinto da Italia Viva, sul probabile rilievo, già avanzato da quella parte politica, dell’incostituzionalità di una normativa che assoggetta a disciplina diversa due situazioni uguali. Allieta la sensibilità del senatore Renzi per profili di legittimità dei quali non sempre, da presidente del Consiglio, aveva perfettamente percepito la rilevanza, come dimostrato da non poche sentenze della Corte costituzionale.
Questa volta l’ansia di recuperare e una certa fretta hanno tratto in inganno il senatore di Scandicci e i suoi giureconsulti. Perché l’unico aspetto sul quale si può, con fondamento, sospettare d’incostituzionalità la legge Bonafede riguarda proprio l’uniformità di disciplina per condannati e assolti. La chiave ermeneutica risiede nell’art. 27 Cost., c. 2 secondo cui l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, formalizzando così il parametro della presunzione d’innocenza. Perché tale presunzione operi occorre che un soggetto acquisti la qualità di imputato. Vi sono, in realtà, due specie d’imputato: una sostanziale e l’altra funzionale. La prima si acquista con il rinvio a giudizio, cioè in base a una circostanziata e motivata attribuzione di fatti di reato formulata dal gip perché un tribunale la accerti in concreto. La qualifica funzionale d’imputato, ex art. 60 c.p.p. in coerenza anche con art. 111, c. 2 Cost., si connette con una mera ipotesi di accusa da far vagliare al gip per l’eventuale formulazione di richiesta di rinvio a giudizio. Conferendo all’indagato tale qualità in senso funzionale, infatti, gli si assicurano in via preventiva eguali strumenti di difesa e garanzia di quelli riconosciuti all’imputato in senso sostanziale.
Le due specie d’imputato si intersecano nel processo penale, ma vanno tenute concettualmente distinte perché operano in situazioni diverse anche in relazione alla presunzione di innocenza collocata, si noti bene, nel titolo dei rapporti civili e non nelle norme sulla giurisdizione. Quella presunzione intende impedire che, fino al definitivo accertamento dei fatti contestati in sede di rinvio, si riversino sull’imputato effetti negativi non coerenti con la tutela della dignità umana. Si tratta evidentemente d’imputazione in senso sostanziale, l’unica idonea a cristallizzarsi nella sentenza definitiva di condanna.
È quindi logico che un rinvio a giudizio confermato in tutto o in parte dal tribunale mantenga integra la capacità di condurre a una pronuncia definitiva (bloccando la prescrizione) e che tale continuità trovi nella presunzione di non colpevolezza adeguato presidio di contrasto. In questo senso l’equilibrio delle posizioni è coerente e ragionevole. Non altrettanto si può affermare nel caso di assoluzione. Da essa consegue che il soggetto riassume la qualità di imputato solo se interviene un’impugnazione ed esclusivamente per finalità di tutela. Manca, in quel caso, la conferma del quadro contestativo del decreto che dispone il giudizio. Quella richiesta è stata respinta e per l’assolto non va proclamata la presunzione d’innocenza, ma l’innocenza tout court. La concezione che mantiene in un soggetto assolto con sentenza la qualità d’imputato in senso sostanziale e non soltanto funzionale non appartiene alla tradizione democratica, ma semmai a regimi organici (dove pesanti condanne non sono sempre esito di processi articolati in gradi di giudizio).
La sentenza di primo grado, in definitiva, non può essere annoverata tra gli accidenti aristotelici, ma produce, nel vivo del rapporto processuale, effetti divergenti relativamente al soggetto condannato e a quello assolto. Per quest’ultimo il blocco della prescrizione si protrarrebbe sine die in carenza dell’elemento legittimante il blocco stesso, cioè un giudizio di colpevolezza, seppure in via di possibile consolidamento, recato in una sentenza di condanna. Il c.d. lodo Conte bis, pertanto, si muove all’interno del perimetro costituzionale non solo per quanto riguarda la distinta disciplina di assolti e condannati, ma anche quando fa scaturire, in caso di divergenti pronunce in appello, conseguenze coerenti con il sistema: blocco della prescrizione per il condannato già assolto in primo grado e restituzione in forma di bonus del periodo prescrizionale bloccato a chi, già condannato, venga successivamente assolto.
Si riconducono cioè a un’equilibrata regolamentazione unitaria due fattispecie, alterate dalle diverse conclusioni raggiunte nei due gradi del giudizio e, per quel tramite, si riafferma l’intrinseca ragionevolezza dell’ordinamento che non omologa in modo retorico e astratto le posizioni di ognuno, ma le conforma in concreto a un eguale canone di tutela integrale, nel pieno rispetto della dignità del singolo.
Mail box
Grazie a Bonafede che cerca di correggere leggi vergognose
Le persone perbene ringraziano Travaglio per quanto il Fatto scrive sempre, ma in particolare per quanto ha ricordato circa le prescrizioni di B. Detto questo, le persone perbene sono anche per cancellare qualunque norma che preveda prescrizione: concetto che dovrebbe essere eliminato dalla Giustizia. La classe degli avvocati porta la grande responsabilità di aver voluto leggi vergognose che proteggono i colpevoli e di operare sempre per ritardare la giustizia. Dobbiamo ringraziare il ministro Bonafede che sta cercando di correggere queste leggi vergognose che prescrivono i reati.
Romano Lenzi
Renzi e le Sardine non sono affatto di sinistra
Gentile Direttore, “la sinistra fa autogol”, scrive Antonio Padellaro sul Fatto. Ma affibbiare il termine “sinistra” a Renzi e alle Sardine mi sembra un ossimoro: i post comunisti si sono lasciati sedurre dalle sirene del neoliberismo per poi salire alla velocità della luce sul carro del capitalismo rampante. Che Renzi e le Sardine non siano di sinistra è dimostrato dal fatto che le casse di risonanza del regime li hanno sempre trattati con i guanti bianchi. La Sardina che nella foto con i Benetton tiene la mano sul petto come se fosse Lancillotto alla corte di re Artù è tanto di sinistra quanto Renzi che strilla contro il blocco della prescrizione e la revoca della concessione alla società autostrade.
Maurizio Burattini
A Sanremo va in scena un finto femminismo
Condivido in pieno il giudizio di Nanni Delbecchi su Sanremo e non smetterò mai di rigraziarvi per come date voce ai pensieri dell’altra Italia, quella a cui il Festival, questo in particolare, non piace! Mai ho visto, neanche ai tempi di Mike, questo “femminismo” che piace tanto al maschilismo: insopportabile. Liberate il caro Massimo Fini: sono curiosa di sapere cosa ne pensa.
Maddalena Siporso
Cina, combattiamo il virus politico, prima che biologico
Credo che sia necessario riflettere seriamente sul comportamento folle di un regime autoritario: quello cinese. Il medico Li Wenliang, che aveva scoperto il coronavirus, è purtroppo morto, ma indigna il fatto che sia stato minacciato dalla polizia quando denunciò il pericolo. Insieme ad altri colleghi venne arrestato e perseguitato, in una maldestra operazione di tentativo di occultamento del contagio. Ormai è chiaro che l’emergenza del coronavirus è stata gestita dai cinesi in modo assolutamente dilettantesco e pericoloso. Il vero virus che dobbiamo combattere è soprattutto politico, prima che biologico.
Cristiano Martorella
Da Trump a Salvini, mai s’è vista tanta ignoranza al potere
L’ignoranza c’è sempre stata, eppure in ogni epoca si sono distinti grandi personaggi culturalmente elevati, tanto da segnare svolte di progresso e di giustizia sociale malgrado l’istinto naturale dell’essere umano sia quello dell’egemonia individuale. Oggi si dice che le classi medie stanno scivolando verso il basso della scala economica, altrettanto sembra aver prodotto il più straordinario strumento di conoscenze di massa: internet. È fonte inesauribile di consultazione, ma non sviluppa la creatività e l’applicazione che sono alla fonte della crescita morale e culturale degli individui; anzi, appiattisce la conoscenza a semplice “consumo”: basta osservare, a caso, personaggi come il laureato Renzi o Salvini, in Italia, e Trump negli Usa, giunti al potere malgrado una abissale e pericolosa “ignoranza”, loro e di chi li sostiene.
Giampiero Buccianti
Il volontariato è il nostro più prezioso patrimonio
Abbiamo un patrimonio straordinario: il volontariato, un’attività di aiuto e sostegno per soccorrere il prossimo in difficoltà. Anche nella mia Piombino, l’associazione della Misericordia è un grande punto di riferimento per il territorio con i suoi valorosi volontari, ragazzi e ragazze straordinari. Nel silenzio più assoluto e senza clamore svolgono un lavoro di alta qualità umana e professionale.
Massimo Aurioso
Festival, sarebbe utile mettere i sottotitoli ai brani
Spettabile redazione, non ho problemi di udito, ma devo ammettere che spesse volte faccio fatica a capire le parole delle canzoni di Sanremo: sarei grata se durante le esibizioni ci fossero i sottotitoli, specialmente per i testi dei rapper decisamente troppo veloci per le mie possibilità. Questo sistema sarebbe utile anche per i sordomuti e risparmierebbe la fatica della lingua dei segni.
Rossella Beccalossi
Le mete esotiche ed esentasse dei pensionati italiani
Addio al paradiso fiscale del Portogallo: il governo intende tassare i pensionati stranieri. Tutto ciò farà cambiare meta a tanti connazionali che decidono di lasciare il nostro Paese?
Gabriele Salini
I NOSTRI ERRORI
Ieri, in questa pagina, abbiamo invertito le firme delle lettere scritte da Lidia Tarenzi e Franco Petraglia. Ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.
Fq
Polemiche interne. Certe cose càpitano nelle migliori famiglie, però mi scuso
Caro direttore, leggo su alcuni siti online lo scambio di accuse a mezzo stampa fra l’ad del Fatto Cinzia Monteverdi e Selvaggia Lucarelli. Che succede al “Fatto Quotidiano”?
Marcello Santamaria
Caro Marcello, càpita nelle migliori famiglie: ogni tanto qualcuno sbotta. Tantopiù nella nostra, formata da persone di carattere che – come diceva Montanelli – di solito hanno un pessimo carattere. Me compreso, s’intende. Selvaggia è con noi da cinque anni: decisi di ingaggiarla quando lessi un suo articolo su “Libero” che mi prendeva ferocemente per il culo. Mi piaceva e mi piace proprio perché scrive bene ed è stronza almeno quanto me. In più aveva un processo per aver violato dei segreti e speravo tanto che fosse vero, perché adoro i giornalisti che violano i segreti. Poi purtroppo si scoprì che era tutto falso, il che mi deluse parecchio. Ma, malgrado l’assoluzione, decisi di tenerla ugualmente. Selvaggia era già una star del web, dunque non condivisi la scelta del mio amico Peter di tenerla fuori dal sito del “Fatto” per via di quel ridicolo processo. Quel “peccato originale”, da allora, innescò una catena di polemiche, tossine, tensioni e incomprensioni interne che ha coinvolto inevitabilmente anche Cinzia, nostro amministratore delegato: manager bravissima, amica geniale e paziente ma, da buona carrarina, piuttosto fumantina (come peraltro io, che carrarino non sono). Del resto solo chi sa quanto riusciamo a essere rompiballe, capricciosi e narcisi noi giornalisti (me compreso) può capire la vita d’inferno di chi amministra un giornale, soprattutto il nostro. L’altro giorno Cinzia è stata calunniata da un giornaletto con accuse personali e private tanto volgari quanto false. E non ci ha visto più: ha risposto a quell’articolo (dedicato alla nuova collaborazione della Lucarelli con un sito web) con una lettera piena di cattiverie su Selvaggia. Che le ha risposto per le rime. Al “Fatto”, però, vige la separazione dei poteri: l’ad dirige la società e il direttore dirige il giornale, scegliendosi le firme migliori. Perciò sento l’obbligo di scusarmi con la nostra giornalista Selvaggia Lucarelli per quelle espressioni che non riflettono minimamente la posizione della direzione e della redazione. Finché dirigerò il “Fatto”, non rinuncerò a nessuna delle firme che ho scelto perché le ritengo fondamentali al servizio dei lettori. E fra queste c’è sicuramente Selvaggia, una giornalista che in questi anni con noi è cresciuta e ci ha sempre garantito un contributo di lealtà, impegno, disponibilità, professionalità e qualità. Dunque farò di tutto perché continui a collaborare al “Fatto”, ancor più frequentemente e stabilmente di quanto è avvenuto finora.
Marco Travaglio
La morte di Vannini, processo da rifare: omicidio volontario
Un urlo di gioia dopo cinque anni di dolore e tensioni. Marina Conte, la mamma di Marco Vannini, ieri si è abbandonata al pianto e alle urla di felicità dopo la decisione della Cassazione: il processo ai Ciontoli – la famiglia accusata di aver causato la morte di suo figlio, appena ventenne – è da rifare. Lo hanno stabilito i giudici della prima sezione penale della Cassazione, accogliendo la richiesta delle parti civili e del sostituto procuratore generale Elisabetta Ceniccola che al termine della requisitoria aveva chiesto di annullare con rinvio la sentenza d’appello per la famiglia Ciontoli e disporre un nuovo processo per il riconoscimento dell’omicidio volontario con dolo eventuale per la morte di Marco.
“Devo ancora elaborare perché veramente non ci speravo più – ha ripetuto ieri mamma Maria –. Sono troppo felice, Marco ha riconquistato rispetto e la giustizia ha capito che non si più morire a 20 anni”.
Era la notte tra il 17 e il 18 maggio 2015 quando Marco Vannini viene ucciso da un colpo di pistola mentre si trova a casa dell’allora fidanzata Martina a Ladispoli, sul litorale romano. Era in bagno, quando, secondo quanto ricostruito nell’iniziale capo di imputazione, Antonio Ciontoli, papà di Martina, simulando uno scherzo e ritenendo che la semiautomatica che aveva fosse scarica, “scarrelando” premeva il grilletto in direzione del giovane. Dal momento in cui Marco viene colpito, la famiglia tarda a chiamare il 118, per poi dare al personale paramedico una serie di informazioni false e fuorvianti “così cagionandone, accettandone il rischio, il decesso del Vannini”.
Con queste accuse, l’intera famiglia Ciontoli finisce alla sbarra: il padre Antonio, all’epoca dei fatti sottufficiale della Marina militare che prestava servizio in un raggruppamento distaccato dai servizi segreti, i figli Martina e Federico e la moglie Maria Pezzillo. Le pene inflitte in primo grado sono pesanti: il capofamiglia viene condannato a 14 anni di reclusione con l’accusa di omicidio, gli altri a tre anni a testa. In Appello però la condanna viene ridotta per il solo Antonio Ciontoli: il reato contestato viene derubricato in omicidio colposo e gli viene inflitta una pena a cinque anni di reclusione.
La famiglia del giovane Marco nel frattempo ha continuato a cercare giustizia. Così ieri si è tenuta l’udienza in Cassazione. Durante la propria requisitoria il Pg Elisabetta Ceniccola ha affermato: “Si tratta di una vicenda gravissima per la condotta degli imputati e addirittura disumana considerati i rapporti con la vittima. Marco era un ospite in quella casa e come tale andava trattato”. Il ventenne, ha aggiunto, “non è morto per un colpo di arma da fuoco, ma per i 110 minuti di ritardo nell’allertare i soccorsi. Tutti per ben 110 minuti mantennero una condotta omissiva menzognera e reticente. La gravità della situazione era sotto gli occhi di tutti loro. Se metto una bomba su un aereo non posso dire che non volevo far morire delle persone. Nel caso di Marco Vannini il proiettile è come la bomba di quell’aereo”. “Antonio Ciondoli – ha aggiunto l’accusa – ha ottenuto l’adesione di tutta la sua famiglia per evitare effetti dannosi sul suo lavoro dopo aver sparato un colpo di pistola a Marco Vannini”.
Insomma il pg non ha dubbi: quello di Vannini fu omicidio volontario con dolo eventuale. E per questo ha chiesto ai giudici di annullare la sentenza di appello per Antonio Ciontoli, la moglie e i due figli, e fare un nuovo processo. E i giudici di Cassazione hanno accolto questa richiesta. Adesso quindi il processo torna a discutersi in Appello. “Abbiamo perso tante battaglie, ma quella più importante l’abbiamo vinta noi”, ha detto ieri Valerio Vannini, il papà del giovane Marco.
Annibale e le Alpi, macché caldo: un’era glaciale!
Pur di non accettare la realtà del riscaldamento globale si continuano a rimestare luoghi comuni come la traversata delle Alpi da parte di Annibale nel 218 a.C. Perfino il Nobel per la fisica Carlo Rubbia, nel novembre 2014 affermò in Senato: “Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti per venire in Italia. Oggi non ci potrebbe venire, perché la temperatura della Terra è inferiore a quella che era ai tempi dei Romani”.
Anche il matematico Piergiorgio Odifreddi su Le Scienze del dicembre 2019, pur senza intenti negazionisti, cita un periodo caldo romano, “quello che permise ad Annibale di attraversare le Alpi con gli elefanti”. Ma perché mai allora avrebbe dovuto fare così tanto caldo? Solo perché gli elefanti evocano un clima africano? E le Alpi sono forse oggi inaccessibili per il freddo? Nemmeno conosciamo il valico di passaggio di Annibale attraverso le Alpi occidentali durante la Seconda guerra punica, fatto tramandato dallo storico greco Polibio e dal latino Tito Livio. Il dibattito attuale, su cui ha fatto il punto la mostra “Hannibal et les Alpes” (Musée Dauphinois di Grenoble, 2012), si concentra sul Col Clapier, valico a 2475 m tra Maurienne e val di Susa, anche se la mancanza di ritrovamenti archeologici non permette di attribuire a questa ipotesi una credibilità superiore alle altre: Piccolo San Bernardo, Monginevro, Moncenisio, Colle delle Traversette? Riguardo a quest’ultimo passaggio a ben 2950 m presso il Monviso, secondo il geologo canadese William Mahaney (2017) la presenza di resti organici nei suoli del versante francese sarebbe riconducibile allo sterco degli animali in sosta al seguito di Annibale. Ma considerando la millenaria tradizione dell’allevamento nelle valli alpine e la natura accidentata di questo colle, sfavorevole al passaggio di un esercito di 26.000 uomini e 37 elefanti, tale ipotesi appare molto debole, pertanto tutti gli altri valichi papabili risultano compresi tra 1700 e 2500 m. La traversata avvenne in autunno, al tempo del tramonto delle Pleiadi che nel 218 a.C. si verificava intorno al 29 ottobre, quando ”la neve cominciava ad ammassarsi sulle cime” dice Polibio, e “poiché infatti sopra la neve che c’era prima e che era rimasta dall’inverno precedente era da poco caduta quella dell’anno… ogni volta che, calpestata questa, mettevano il piede su quella sotto che era gelata, non la fendevano più, ma vi sdrucciolavano sopra, scivolando con ambedue i piedi”. Tito Livio sottolinea che “accrebbe terrore anche la caduta della neve”, e l’esercito incontrò “neve recentemente caduta su quella vecchia e intatta, e… quando essa per il passaggio di tanti uomini e di tanti animali si fu disfatta, il cammino avveniva sul sottostante ghiaccio rimasto scoperto”. La neve fresca autunnale nascondeva quindi vasti banchi di neve residua dell’inverno precedente, forse accumuli di valanga, che evidentemente erano sopravvissuti a un’estate breve e fredda. Dove diavolo era il caldo tropicale? Inoltre, stando a Polibio, “i luoghi vicini ai valichi sono tutti completamente privi di alberi e spogli dal momento che la neve vi rimane ininterrottamente sia d’estate che d’inverno”. Questo mitico scenario glaciale era un’icona classica e popolare fino a qualche tempo fa visto che pure le figurine Liebig degli Anni Trenta illustrano correttamente Annibale e i suoi elefanti in un paesaggio innevato. Invece oggi, in epoca di riscaldamento globale, sotto i 2500 m tra le Alpi Cozie e Graie a inizio autunno non resta quasi mai traccia di neve residua, nemmeno sui versanti in ombra, talora perfino oltre i 3000 m. E così i documenti storici vengono sovvertiti addirittura in senso opposto per avallare tesi negazioniste dei cambiamenti climatici! Nessuno cita poi il seguito: i 21 elefanti superstiti alla traversata alpina perirono quasi tutti nel dicembre successivo durante “freddo e neve eccezionali” che caratterizzarono la Battaglia della Trebbia presso Piacenza, dice ancora Polibio. Superstite fu solamente “Surus”, l’elefante di Annibale. I climatologi non si fermano peraltro su un solo episodio storico, ma sulla base dei dati ricavati da anelli degli alberi, pollini fossili e ghiacciai non hanno trovato traccia di un periodo romano che fosse più caldo di quello attuale, come riportano Ulf Buentgen e colleghi nello studio “2500 Years of European Climate Variability and Human Susceptibility” apparso su Science nel 2011. Dunque, altro che più caldo di oggi, la traversata di Annibale di oltre due millenni fa somigliava più alla cronaca di un’era glaciale!