Ilva, Mittal via in un anno. Servono 2 miliardi (pubblici)

Nell’intricata questione Ilva c’è l’ennesimo rinvio. il governo italiano e Arcelor Mittal ottengono altro tempo per trattare e chiudere un accordo. A grandi linee, però, l’intesa c’è. Lo Stato italiano ottiene che il colosso franco indiano rimanga almeno per un anno. Quest’ultimo, invece, la possibilità di andarsene pagando una penale. Se accadrà, il futuro del siderurgico tarantino sarà nelle mani dello Stato, che si sobbarcherà i costi del rilancio.

Ieri il Tribunale di Milano, che doveva pronunciarsi sul ricorso dei commissari contro il recesso avviato dal colosso franco indiano, ha concesso altro tempo. La nuova udienza è fissata per il 6 marzo. “Sono state post le basi per arrivare a fine mese a un accordo, ma Mittal dovrà ritirare il recesso e rinunciare alla causa civile”, hanno spiegato in una nota congiunta Palazzo Chigi, Tesoro e ministero dello Sviluppo.

L’accordo è sostanzialmente trovato sulle questioni economiche e sugli esuberi. Nel primo caso, Mittal ha ottenuto una clausola (anticipata ieri dal Sole 24 Ore), che gli consente, tra il primo e il 30 di novembre prossimo, di abbandonare gli impianti pagando all’amministrazione straordinaria una penale da mezzo miliardo. Se invece resta, dovrà versare 1,2 miliardi per diventare padrona del siderurgico. Sommati ai circa 180 milioni già pagati, arriverebbe a uno “sconto” di circa 400 milioni rispetto alla cifra offerta per aggiudicarsi la gara dell’Ilva nel 2017. Prima di acquistare gli impianti, continuerà a versare un canone d’affitto dimezzato (7,5 milioni al mese invece di 15).

Che Mittal rimanga, però, nessuno tra gli addetti ai lavori lo crede davvero. Anche perché la multinazionale avrebbe acconsentito a ridurre le pretese sugli esuberi. Non saranno strutturali, ma si ipotizza di usare la cassa integrazione a rotazione coinvolgendo più o meno lo stesso numero di lavoratori (circa 1300) già coinvolto da Mittal a partire da luglio scorso. Segnale che non intende rimanere a lungo. I sindacati hanno chiesto di essere convocati o scatterà la mobilitazione.

Con l’accordo che si va delineando, è possibile fare un bilancio delle cifre. Se Mittal andrà via, alla fine l’avventura italiana le costerà quasi due miliardi: 500 milioni di penale; altrettanti di perdite che si sobbarcherà quest’anno; quasi 600 milioni di investimenti ambientali effettuati o cantierati; 225 milioni versati di canone d’affitto e altri 250 per alcune partite contrattuali.

Con l’uscita della multinazionale, a sobbarcarsi il peso del rilancio dell’Ilva sarà lo Stato. Il colosso franco indiano aveva promesso 1,25 miliardi di investimenti ambientali e altrettanti di investimenti produttivi. Se i primi a fine 2020 saranno completati per ben oltre la metà (al netto dei 700 milioni spesi dai commissari), i secondi sono invece quasi a zero. Gli uomini vicini al dossier stimano che serviranno almeno 2 miliardi.

L’accordo, come detto, andrà chiuso entro fine mese. Restano però diversi nodi ancora da sciogliere. Il primo riguarda le modalità con cui Mittal dovrebbe riconsegnare gli impianti se eserciterà la clausola. Ancora vaghi sono poi i meccanismi con cui entrerà la mano pubblica. Probabilmente Invitalia, la società degli investimenti del ministero dello Sviluppo, affiancherà Mittal (e le banche creditrici) nel capitale di Ilva. Nei piani del governo – a cui studiano il super consulente Francesco Caio e l’ex commissario Ilva Enrico Laghi – l’ambientalizzazione della produzione sarà affidata a una nuova società che dovrà realizzare e gestire i forni elettrici alimentati a materiale preridotto (senza bruciare carbone). Quest’ultima avrà quasi tutto capitale pubblico. l’esecutivo spera in un coinvolgimento di Cassa Depositi e Prestiti e le grandi partecipate statali, come Snam e Fincantieri. Vaste programme.

I sindacati: no all’ipotesi dell’errore umano. “Ora ridiscutere il mito del treno sicuro”

Le procedure di sicurezza devono essere messe a posto”: a dirlo, ieri, Giovanni Abimelech, sindacalista della Fit-Cgil, nel giorno in cui le sigle hanno deciso di fare due ore di sciopero per ricordare i due macchinisti morti nell’incidente del lodigiano. “Dobbiamo ricollaudare tutto – ha aggiunto -. La Procura farà le sue indagini, ma nell’azienda è un’altra cosa”.

Abimelech fa notare che i treni continuano a girare, che questo significa che i fonogrammi dicono in continuazione che è tutto a posto come a Lodi. “Ma se c’è l’errore umano vuol dire che le cose non vanno bene” aggiunge. Si chiede un passaggio in più che certifichi questa sicurezza. “Da ieri – conclude – la certezza del fatto che il treno è sicuro l’abbiamo un po’ persa. Bisogna ridiscutere le procedure”. Da tutti arriva il rifiuto di questa interpretazione . “Anche se si fosse trattato di errore umano, dobbiamo capire perché quell’errore umano è stato fatto, evidentemente in questo caso ci sarebbe un problema di processo che andrebbe coperto” ha detto il segretario generale della Fit Cisl, Salvatore Pellecchia mentre il segretario generale della Filt Cgil, Stefano Malorgio ha parlato di “una serie eventi che si concatenano e su cui bisogna fare chiarezza per dare un segnale forte ai lavoratori che oggi sono preoccupati”. Malorgio spiega che, in base ha quanto ha riferito l’azienda, il sovraccarico delle linee ferroviarie non ha influito su questo incidente specifico. La manutenzione era infatti “programmata” e la circolazione era stata regolata sulla base di questa programmazione. Nessuna operazione in emergenza, dunque. “Bisogna invece provare a capire bene le cause di questo incidente, per vedere se ci sono dei buchi o degli elementi che vanno sanati”.

Il segretario nazionale della Uiltrasporti, Paolo Fantappè, chiede invece di aprire un confronto sul sovraccarico delle linee “troppo stressate, con troppi treni e una liberalizzazione troppo massiccia che non permette di prendere in considerazione finestre manutentive. Vogliamo che la sicurezza prevalga sul profitto”. In giornata, le sigle hanno incontrato il numero uno di Fs, Gianfranco Battisti, e l’ad di Trenitalia, Orazio Iacono e l’ad di Rfi, Maurizio Gentile, e in parte i toni si sono distesi, complici anche l’aver ottenuto la donazione alle famiglie delle vittime della paga per le due ore di sciopero. Ai rappresentanti dei lavoratori è stato anche assicurato un confronto con un tavolo permanente sulla sicurezza sul lavoro e sugli aggiornamenti sul piano industriale per ripensare e valutare investimenti in tecnologie, oltre che in risorse umane e formazione.

Di sicuro, ora, per i sindacati si apre un nuovo fronte di trattativa. È infatti in corso quella per il rinnovo dei contratti di lavoro della mobilità e delle attività ferroviarie. Secondo quanto circola negli ambienti, una delle proposte arrivate da Rfi riguarda l’aumento del numero di notti di lavoro obbligatorie per gli operatori della manutenzione, che passerebbero da due più la terza non consecutiva su contrattazione a tre più la quarta a seguito di contrattazione. Toccherà ora ai sindacati far valere il peso dei rischi che quest’ennesimo incidente ha mostrato, proprio perché, come dicono, non si ripeta.

Dalla manutenzione alla vigilanza: le falle della rete di controllo

Appena hanno saputo dell’incidente, dall’Agenzia nazionale sulla sicurezza ferroviaria (Ansf) è iniziato un raro brulicare operativo: sopralluoghi, partecipazioni alla commissione d’inchiesta, nervosismo. Per chi deve vigilare che i gestori della rete (o meglio il gestore unico, Rfi) assicurino sicurezza e manutenzione l’incidente di Lodi è un altro duro colpo nel giro di pochi mesi, da quando l’indagine per Pioltello (persero la vita tre persone) ha messo sotto la lente anche gli allora vertici dell’agenzia, il direttore Amedeo Gargiulo e il responsabile dell’ispettorato, Giovanni Caruso, e ha iniziato a identificare la filiera dei responsabili di quella che oramai è una strage silenziosa.

In Ansf, la frequente inadeguatezza strutturale di Rete ferroviaria italiana è ben nota: le carte parlano spesso di lacune documentali, prescrizioni non soddisfatte, interventi inefficaci. Un verbale del 2016, ad esempio, racconta di interventi inidonei proprio sugli apparati di sicurezza svolti dal personale della manutenzione e “che per pura casualità non hanno avuto conseguenze più gravi”. I rapporti sono senza scampo: “Inefficacia delle azioni intraprese finora”, “presunzione di criticità di natura sistemica”. Nel dettaglio, uno di questi richiedeva, a maggio 2016, “sistemi automatici per verificare, prima della messa in esercizio di un impianto di sicurezza sottoposto a un intervento manutentivo, il corretto funzionamento delle logiche d’impianto e la concordanza tra l’effettivo stato fisico degli enti di piazzale e il comando e controllo”. In sintesi, l’agenzia chiedeva ad Rfi di mettere in piedi un sistema che garantisse che, in caso interventi ci fosse un sistema automatico che eseguisse un controllo sulla corrispondenza tra quanto manutenuto, i comandi e i sistemi di sicurezza. Calando questa prescrizione al caso Lodi, un apparato di sicurezza di questo genere non avrebbe consentito lo scambio bloccato sulla deviata né il via libera al treno. Senza alcuna fretta, Rfi risponde alle osservazioni quasi un anno dopo, a marzo 2017. “Ad oggi non sono disponibili sistemi automatici e quindi non possono che essere demandati alle squadre degli agenti della manutenzione dislocati in corrispondenza degli enti di piazzale e in cabina secondo procedure codificate per la verifica…”. Rfi si impegna poi ad avviare attività di ricerca e sviluppo sulla materia. Fine della storia. Nessuna mitigazione, nessun controllo ulteriore, nessuna imposizione da parte di Ansf. Si sa tutto, ma poi si fa ben poco. L’apparato ispettivo di Ansf è praticamente azzerato, le ispezioni non sono sul campo ma solo documentali per accertarsi che il gestore segua le attività programmate e pianificate e l’agenzia che dovrebbe spingere sul controllo, unendo anche la vigilanza su autostrada (Ansfisa), per metà brancola nel buio e per metà è stata azzoppata da un emendamento che l’ha resa solo ‘promotrice’ della sicurezza e non più ‘responsabile’ come pensato quando fu istituita dall’allora ministro Danilo Toninelli.

Oltre la tecnologia, c’è poi il sistema umano della manutenzione. Le politiche di Rfi prevedono che si svolga solo di notte, il blocco della circolazione va da circa mezzanotte alle cinque del mattino ed è deciso dal cosiddetto Posto operativo centrale che, di fatto, è il regolatore della circolazione e copre da solo centinaia di chilometri di rete. La macchina della manutenzione parte invece dai “posti di movimento”: gli operai delle ditte che hanno vinto in subappalto le gare di Rfi in “assicurazione di qualità” si devono immettere sui binari e in poco più di tre ore (considerando tempi di accesso e di uscita), devono controllare binari, segnalamento, frequenze, sistemi per il pubblico e così via. Al termine degli interventi, devono informare il ferroviere responsabile sul proprio tratto che, attraverso i fonogrammi, comunica al regolatore centrale le eventuali misure di mitigazione (anche solo consigliare un rallentamento su un tratto) oppure che nulla osta al passaggio. Problema: tutto è veloce, si basa su comunicazioni e i via libera tra i vari gradi di lavoro e manca un cosiddetto sistema ridondante, che duplichi le verifiche annullando i rischi.

Un problema di filiera, quindi, che pone diversi tipi di soluzione: una tecnologica che, però, ad oggi non sembra essere disponibile, e una umana con l’aumento del personale ferroviario responsabile, passato dagli oltre 200mila dipendenti degli anni Novanta ai circa 70mila di oggi. Più difficile invece pensare o ipotizzare la manutenzione di giorno: si dovrebbero individuare giorni e ore in cui le linee siano meno utilizzate e rischiare di perdere viaggiatori. Meglio lasciare tutto così. Anche perché, se pure Ansf (o Ansfisa) dovesse svegliarsi, non effettuerà ispezioni in notturna. E, come nel 2014 e nel 2019, potrà continuare a rilasciare i certificati di sicurezza nonostante tutti i rilievi e le prescrizioni di non ottemperanza. Perché tanto si sa, i treni sono sicuri: cosa vuoi che succeda?

Il disastro del Frecciarossa indagati cinque operai Rfi

Sono cinque gli indagati per il deragliamento del Frecciarossa Av 9595 che ha provocato due morti e 31 feriti. Tutti a vario titolo sono accusati di omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose. Si tratta dei membri della squadra di manutentori di Rfi che giovedì mattina ha lavorato sullo scambio al chilometro 166 dell’alta velocità Milano-Salerno. L’iscrizione è stata fatta nella tarda serata di ieri dopo una giornata di rilievi. Oggi gli operai saranno interrogati da indagati e sono stati destinati ad altro incarico da Rfi. L’iscrizione dei lavoratori è un atto dovuto anche in vista dei prossimi accertamenti che saranno disposti dalla Procura di Lodi. Sono, infatti, accertamenti irripetibili ai quali dovranno partecipare tutte le parti.

Torniamo al disastro di giovedì. Secondo le annotazioni degli investigatori lo scambio era in “deviata”. Un errore, ma di chi? Per questo l’inchiesta punta a ricostruire la catena delle responsabilità. Per tutta la giornata di ieri il nucleo investigativo della Polfer guidato dal vice-questore Marco Napoli ha effettuato diversi rilievi sia sullo scambio sia sulla carrozza numero due, quella che si trovava dietro la motrice e che si è piegata di novanta gradi. Il dato su cui ci si concentra è il cosiddetto punto zero posto al chilometro 166. Qui si trova lo scambio. Qui giovedì mattina alle 5,34 è passato il treno compiendo una curva che non doveva fare e comunque non percorrerla a circa 290 km/h. Sappiamo che alle 4:45 un fonogramma viene inviato alla centrale operativa di Bologna. Si comunica che lo scambio è “stato disalimentato” ed è stato posto in “posizione normale” cioé secondo il cosiddetto “giusto tracciato”.

Sulla carta, dunque, lo scambio è chiuso e il treno che è partito da Milano alle 5:10 può passare. Che vi fosse un’accertata anomalia su quello scambio è stato confermato ancora ieri. Di più: il togliere l’elettricità e dunque sottrarre lo scambio al monitoraggio informatico effettuato da remoto indica già una prima concausa del deragliamento. Eliminare il comando elettrico significa, infatti, che il guasto su cui ha lavorato la squadra composta dai cinque manutentori nella mattina di giovedì non era stato risolto. Da qui la decisione di disalimentarlo e riportarlo dritto. Un’operazione di routine, viene spiegato. Dettata dalla necessità di non bloccare il traffico ferroviario. In fondo quello scambio non è utilizzato se non per effettuare alcuni lavori di manutenzione.

Questa la scelta, comunicata con un fonogramma a Bologna che in quel momento vede sparire dal proprio tracciato lo scambio. Il segnale non c’è, ma c’è la comunicazione del coretto posizionamento. Il treno può partire.

Se così fosse successo non vi sarebbero stati problemi. Ora però lo scambio è risultato in deviata, nonostante il fonogramma dicesse il contrario. Lo scambio in condizioni normali viene manovrato da Bologna. In questo caso è stato comandato dalla palazzina ferroviaria di Livagra, pochi metri dopo lo svio che ha provocato il deragliamento. Su questo punta l’inchiesta, capire come sia stato possibile lasciarlo aperto.

Ancora non è chiara quale sia stata l’anomalia sulla quale hanno lavorato i manutentori. A quanto emerge si tratterebbe di un problema nel meccanismo di movimento dello scambio. Questo, in ipotesi, potrebbe giustificare il fatto che chi a Livraga ha dato il comando di allineamento non si è accorto che non funzionava. Per questo lo scambio potrebbe essere rimasto tragicamente in deviata.

Insomma l’ipotesi di un errore umano ora si lega anche a un malfunzionamento tecnico dei comandi. Paradossalmente se lo scambio fosse rimasto in deviata ma alimentato e quindi collegato alla rete, sarebbe scattato un alert che avrebbe fatto rallentare il treno in modo da prendere la curva alla giusta velocità. Proprio per questo gli investigatori e la Procura di Lodi dovranno a breve disporre degli accertamenti irripetibili. Da qui le prime cinque iscrizioni. In mattinata sempre in Procura si è svolta una riunione di coordinamento sui prossimi accertamenti tecnici. Per tutta la giornata la scientifica ha lavorato su treno e rotaie.

Il procuratore di Lodi, Domenico Chiaro, non ha però parlato con i giornalisti rimandando a una comunicazione prevista per oggi. Al momento ancora non si sa quando le quattro gru potranno accedere all’area per togliere i treni dai binari e far ripartire la circolazione. Ma, assicurano gli investigatori, è solo questione di pochi giorni.

Un Paese in maschera salvato dai rider. Nelle città deserte circola solo il delivery

All’orizzonte solo uomini e zaini. Nel silenzio spettrale del coprifuoco, le uniche sagome che si muovono per strade deserte hanno pacchi sulla schiena, viaggiano su due ruote. Solo loro hanno il permesso di girare mentre tutto è immobile e chiuso nella Cina in quarantena. Dietro i vetri delle abitazioni si nascondono i cinesi che in questi giorni si affidano a silenziosi, restii e improbabili eroi a cui devono la loro sopravvivenza: fattorini, corrieri, tassisti. “I rider sono i veri eroi di questa storia” racconta il manager italiano Jonathan Marano, 34 anni. Risiede da cinque anni in Cina, da sette vive con la moglie Tang Wen, madre dei suoi due figli. Nel formicaio della sua metropoli, Shanghai, 21 milioni di abitanti, l’ultima volta è riuscito a contare 7 persone per strada: “Di solito in Cina l’unico posto in cui riesci a stare da solo è casa tua”. I rider sono l’ultima speranza di sopravvivenza nei giorni del contagio in “uno scenario incredibile, inedito, apocalittico”.

Il Dragone chiuso in casa si affida agli ultimi prodi che attraversano quartieri lunari per spostare merce. Tracciati nelle app dal gps, monitorata la loro temperatura da ispettori ai cancelli dei palazzi, i rider ripongono gli acquisti negli “alveari con riconoscimento facciale: delle grandi caselle presenti in ogni edificio, dove infilano pacchi di ogni tipo” dice Jonathan. Gli addetti alle consegne sono giovani, ma “spesso anche ultracinquantenni delle campagne che arrivano in città senza prospettive, in una città come ShangHai guadagnano in yen oltre mille euro al mese”.

Coraggio nei polpacci e nelle scapole, sulle spalle zaini frigo o termos delle consegne, entrano ed escono da edifici dalle luci accese e serrature chiuse. Insieme ai robot dispiegati da Pechino negli ospedali, i rider non si fermano mai mentre il resto del Paese è “sottoposto a misure e controlli senza precedenti: a Xi’an è vietato uscire di casa se non ogni tre giorni, Henan è praticamente in quarantena, per il resto solo una persona in ogni nucleo è autorizzata a uscire di casa”.

“Siete usciti? Perché? Dove siete stati?”. Ogni sera una telefonata dalla sede del Partito comunista, struttura presente in ogni compound abitativo, chiede dei movimenti di tutti città per città, zona per zona, quartiere per quartiere “per tracciare gli spostamenti, tenere sotto controllo i percorsi compiuti, per monitorare un eventuale contagio” dice il manager.

Niente si muove in Cina, tranne i ragazzi mascherati dalle fasce chirurgiche sulla bocca. Fabbriche e industrie inerti, ritmo piatto: “Oltre ai rider, gli unici lavoratori attivi sono quelli del settore della distribuzione alimentare ed energetica, tutto il resto è in stato di arresto”.

Impavidi i fattorini e impavidi “i commessi dei supermercati che vorrebbero chiudere, ma sono costretti a tenere aperti i negozi di beni di prima necessità, mentre a tutti gli altri è vietato lavorare per scelta del governo”. L’ultima volta che Jonathan è entrato in un negozio gli addetti per aiutarlo hanno scavato nei depositi in cerca di merce ormai introvabile come il gel disinfettante. Ha cercato le mascherine online ma “la richiesta è stata evasa, per ordine governativo tutte le mascherine sono state spedite a Wuhan e non alle altre province”.

Un Paese in maschera. Una ridda di tessuti protettivi di vario tipo che Jonathan e i cittadini della Repubblica conoscono ormai a memoria. “Ci sono le mascherine N95, poi le Ffp2 e Ffp3 ad alta performance, i cinesi sono abituati a usare quelle di importazione straniera, ma sono andate esaurite e usano quelle patrie poco filtranti, in Cina esiste la cultura delle maschere dall’emergenza smog” dice il manager ora rimpatriato in Italia. Mette piede fuori casa a Fermo, ma non fino al suo ufficio: “Quarantena è un termine improprio, rimango in regime di contumacia, rientro in azienda tra 15 giorni”.

Moda e turismo, il virus colpirà pure il made in Italy

Se la Cina ha la febbre anche l’Italia non sta bene. L’epidemia di coronavirus 2019-nCoV partita da Wuhan nello Hubei non è solo un problema sanitario ma anche economico. Secondo il centro di ricerca britannico Oxford Economics citato dalla Bbc è presto per quantificare gli effetti, perché molto dipenderà dalla capacità di contenere il virus. In ogni caso però nel primo trimestre di quest’anno l’economia cinese crescerà meno del 4% rispetto allo stesso periodo del 2019, con una stima sull’intero anno del 5,6% che, prima dell’epidemia, era del 6%. Il tutto dovrebbe impattare sull’economia mondiale tagliando lo 0,2% alle attese di crescita: ma solo nell’ipotesi che si eviti lo “scenario peggiore”.

I contraccolpi si sentiranno anche nella Penisola. Il 23 marzo 2019 l’Italia è diventata il primo Paese del G7 a unirsi al progetto cineseBelt and Road Initiative. In quell’occasione aziende cinesi e italiane hanno firmato 10 accordi per un valore dai 5 ai 20 miliardi di euro nell’energia, acciaio e gas naturale con nuovi investimenti in Cina di Eni, Leonardo, Fincantieri e i loro fornitori e subfornitori. Il 7 novembre l’Autorità portuale dell’Adriatico orientale e China Communications Construction Company (Cccc) hanno poi stretto un accordo per creare piattaforme logistiche collegate al porto di Trieste.

Ma i legami tra i due Paesi sono già forti. Secondo l’ultimo report di Fondazione Italia-Cina e Cesif, in Cina e a Hong Kong ci sono quasi 2mila imprese italiane con 190mila addetti e un fatturato di 36 miliardi. Dai primi anni Duemila sono cresciute di sette volte, specie sul fronte produttivo, perché prima due terzi delle aziende italiane in Cina aveva solo uffici commerciali.

In Cina Fca da fine 2015 produce i modelli Jeep Cherokee e Renegade. Ma uno degli impianti europei potrebbe dover interrompere la 2-4 settimane a causa di problemi di approvvigionamento da quattro fornitori cinesi dovuti al blocco causato dall’epidemia. Nei giorni scorsi stessa sorte era capitata a Hyundai mentre Volvo ha dovuto cambiare fornitore di batterie per i veicoli ibridi per non fermare la produzione. In Cina c’è Brembo, che dal 2016 controlla il produttore di freni Asimco Meilian Braking Systems e ad aprile 2019 ha inaugurato un nuovo stabilimento a Nanjing. C’è Ferrero con lo stabilimento a Hangzhou, inaugurato a fine 2015, che ha conquistato un quarto del mercato cinese dei prodotti in cioccolato. Da fine 2017 c’è Prysmian Group con lo stabilimento di Jiangsu. Dal canto loro i cinesi controllano Pirelli (100%) il 35% di Cdp Reti, il 2% di Intesa SanPaolo, UniCredit e Generali, il 40% di Ansaldo Energia e l’intera Candy.

D’altronde nel 2018 l’interscambio Italia-Cina ha toccato quota 43,9 miliardi: l’Italia è quarto fornitore tra i Paesi europei con export per 13,2 miliardi, tra cui formaggi, vino, gelati, caffé con i marchi Illy e Lavazza. Quanto all’import, l’Italia ha acquistati prodotti cinesi per 30,7 miliardi. Nei primi 9 mesi del 2019 invece l’export italiano in Cina è calato a 9,4 miliardi.

Ma a soffrire di più i colpi del virus, nell’immediato, sono moda e turismo. Secondo la Camera nazionale della moda italiana, il settore perderà l’1,8% dei ricavi nella prima metà del 2020 per l’epidemia: un terzo dei consumatori globali di prodotti del lusso italiano è cinese e molti marchi hanno chiuso i negozi in Cina. L’Italia è seconda solo alla Francia per vendite di moda e beni di lusso in Cina, 90 miliardi nel 2019. “A dicembre le prospettive per il 2020 erano di ritorno al nostro tasso di crescita storico annuo dei ricavi di circa il 3%”, ha detto il presidente della Cnmi Carlo Capasa, “ma saremo fortunati se quest’anno cresceremo dell’1%”. Intanto le case cinesi Angela Chen, Ricostru e Hui hanno cancellato le sfilate alla settimana della moda femminile di Milano di febbraio e un migliaio tra giornalisti e acquirenti cinesi non si presenteranno.

Secondo elaborazioni di Cst per Assoturismo Confesercenti, se e solo se i contagi si stabilizzeranno entro marzo la stima più ottimistica fa prevedere -30% per le presenze di turisti cinesi e oltre -6% per i turisti stranieri in Italia con un incremento del 2,5% delle presenze italiane. I flussi del 2020 potrebbero segnare un calo di 1,6 milioni di cinesi e di circa 11,6 milioni di altri turisti stranieri, con una flessione complessiva a fine anno del 3,3%. Le regioni più colpite saranno Lazio, Toscana, Veneto e Lombardia che insieme raccolgono oltre l’80% dei pernottamenti dei cinesi. Gli incassi turistici potrebbero calare di 1,6 miliardi ma i contraccolpi si sentirebbero anche sul Made in Italy: ogni turista cinese nel 2018 aveva fatto acquisti per 1.167 euro in Italia.

Ma il virus causa anche altri danni. Secondo Deutsche Welle, 3.012 delle 39.242 attività commerciali di Milano sono di residenti nati in Cina senza calcolare quelle dei cinesi di seconda generazione. Dunque oltre il 13% dei negozi al dettaglio è della comunità cinese e il quartiere di Chinatown era quello che faceva segnare gli aumenti maggiori di valori immobiliari. La psicosi del contagio colpisce l’Italia anche in altri modi.

Altri 9 in arrivo da Wuhan. Nuova quarantena a Roma

Questa notte un volo militare porterà a Roma altre nove persone provenienti dalla zona di Wuhan che rischiano di aver contratto il Coronavirus. Giunti nella Capitale, dovranno osservare il periodo di isolamento, al pari dei 55 italiani già ospiti presso il Centro sportivo olimpico dell’Esercito alla Cecchignola. La notizia è trapelata dalla Protezione civile. I viaggiatori di nazionalità italiana, greca e svedese, sono bloccati a Londra da diverse ore. Qui le autorità britanniche hanno impedito loro di imbarcarsi per l’Italia, benché non abbiano sintomi. Dopo una lunga interlocuzione fra Roma e Londra, ieri si è quindi deciso di inviare un aereo militare a Brighton, dove i nove verranno imbarcati e trasferiti a Pratica di Mare. Di lì, è probabile che il gruppo venga trasferito presso l’ospedale militare del Celio, a due passi dal Colosseo, essendo la struttura della Cecchignola inservibile per la presenza degli italiani rimpatriati il 3 febbraio.

Intanto, come anticipato dal Fatto, si è materializzata la grande beffa per le persone in quarantena nella cittadella militare, per le quali sono ricominciate daccapo le due settimane di isolamento, a partire da ieri. La circostanza ha creato particolari tensioni fra i vari componenti della macchina organizzativa, dopo che giovedì un ragazzo di 29 anni è stato trovato positivo al virus 2019-nCoV e trasferito all’ospedale Lazzaro Spallanzani. “Il ritorno a scuola dei bambini in quarantena alla Cecchignola sarà al termine dei 14 giorni di isolamento”, ha risposto secco il direttore scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito, aggiungendo che “i colleghi della Cecchignola stanno tracciando tutti i contatti dell’italiano risultato positivo al Coronavirus”. “Al momento i tamponi sugli altri ospiti sono tutti negativi. I nostri connazionali attendono che passi il tempo e che scoprano di non avere nulla e poter tornare a casa”, ha spiegato, provando a stemperare gli animi, il sottosegretario alla Salute, Pier Paolo Sileri. Il viceministro, fra l’altro, era sull’aereo insieme ai 56 rimpatriati e per questo il presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini ieri ha chiesto che venisse sottoposto a quarantena. Per evitare che eventuali altre diagnosi simili possano allungare ulteriormente i tempi del periodo di isolamento, sono stati riorganizzati gli alloggi del centro sportivo e limitati al minimo gli spazi comuni. A parte le famiglie con bambini, ognuno degli ospiti avrà una stanza singola, dalla quale si potrà uscire solo in casi eccezionali o, chi lo desidera, per “fare una corsetta”. Ovviamente, nessuna limitazione per l’utilizzo di tecnologie: internet e abbonamenti gratuiti alle pay-tv cinema e sport per far passare meno faticosamente l’isolamento.

La gestione dei rimpatriati non sarebbe l’unica preoccupazione del capo della Protezione civile e commissario dell’emergenza sanitaria Angelo Borrelli. Ci sarebbe infatti una “falla” nei controlli, che riguarda gli equipaggi delle navi da crociera e, soprattutto, dei mercantili nei porti italiani. In particolare a Civitavecchia, primo porto nel Mediterraneo per i crocieristi, che ogni settimana riceve anche diversi cargo merci cinesi. La libera pratica sanitaria, infatti, in questi giorni è stata concessa alle navi senza una verifica capillare sui marittimi i quali, una volta arrivati in porto, vengono a contatto con diversi lavoratori locali. Ieri la Protezione civile regionale ha disposto dei turni di 12 ore di medici e infermieri per incrementare i controlli, che però vengono svolti soltanto con la misurazione della febbre senza i termoscanner utilizzati negli aeroporti. È ancora in discussione l’ipotesi di un provvedimento del ministero della Salute per sottoporre a specifici controlli o a quarantena coloro che sono rientrati da Wuhan e dalla provincia di Hubei negli ultimi 15 giorni, compresi gli allievi cinesi delle scuole.

Il silenzio s’è rotto. Ma il boss non ha chiarito la “cortesia” che gli chiese B.

Silvio Berlusconi, nato a Milano, 83 anni, è stato il politico italiano più potente per almeno 18 anni dal 1994 al 2011. Tuttora resta probabilmente l’italiano più ricco e famoso nel mondo.

Giuseppe Graviano, 56 anni, nato a Palermo invece è il boss condannato per le stragi del 1992 in Sicilia e del 1993 a Firenze e Milano nonché per gli attentati del 1993-94 a Roma e dintorni. Il protagonista della stagione del terrorismo mafioso che ha eliminato i magistrati più importanti della recente storia dell’Antimafia, Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, gli uomini delle loro scorte, e tante persone innocenti. Quelle stragi, secondo le testimonianze dei pentiti recepite nelle sentenze della magistratura, sono state compiute per cambiare le leggi e la politica italiana a cavallo tra Prima Repubblica e Seconda Repubblica.

Ieri il boss ha detto chiaramente per la prima volta in un’aula di Tribunale quello che aveva sussurrato nell’orecchio di un compagno di detenzione, Umberto Adinolfi, nel 2016-2017 nel carcere di Ascoli Piceno. E che, chiamato in aula da una Corte a Palermo, si era rifiutato di spiegare. Il racconto di Graviano (tutto da riscontrare) è impressionante: Graviano dice di avere conosciuto Berlusconi, di averlo incontrato tre volte, di avere cenato con lui nel 1993 poco prima del suo arresto e di considerarlo un traditore. Il racconto diretto di ieri di Graviano rende più comprensibili alcuni messaggi presenti nelle conversazioni intercettate contro la sua volontà nel 2016. Quelle parole vanno decrittate alla luce di quel che ieri ha detto. E questo sarà il compito dei magistrati, non solo quelli di Reggio Calabria che lo hanno interrogato ieri nel processo ’Ndrangheta stragista’. Anche i pm di Firenze che indagano da due anni su Berlusconi e sul suo ex collaboratore Marcello Dell’Utri per l’ipotesi che abbiano avuto un ruolo nelle stragi del 1993 a Firenze e Milano (dieci morti) e negli attentati di Roma dovranno cercare di capire quel che ha voluto dire il boss. Probabilmente anche i pm di Caltanissetta che indagano sulle stragi del 1992 (che non hanno iscritto Berlusconi dopo le conversazioni intercettate in cella nel 2016-7) dovranno ristudiare le sue parole in cella alla luce di ciò che ha detto in aula.

In particolare c’è una frase detta da Graviano nel carcere di Ascoli il 10 aprile 2016 che merita di essere riletta dopo l’interrogatorio di ieri. Il perito della Corte di Assise di Reggio Calabria, come quello della Corte di Palermo nel processo Trattativa, a differenza della difesa di Marcello Dell’Utri, ritiene che Graviano abbia confidato al compagno di detenzione: “Berlusca mi chiese una cortesia”. Il boss dice questa frase dopo aver detto altre due frasi criptiche che sembrano riferite sempre a Berlusconi: “1992 già voleva scendere, voleva partecipare (…) ed era disturbato” e poi “volevano indagare”. Quando il pm Giuseppe Lombardo ha cercato di farsi dire da Graviano cosa volesse dire con quel “era disturbato”, il boss ha evitato di rispondere.

La novità di ieri è che Graviano ha detto chiaramente in aula alla Corte che in cella parlava di Berlusconi e che – a detta del boss – il Cavaliere incontrò il cugino del boss nei primi mesi del 1992, prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio, per comunicare alla loro famiglia che voleva scendere in politica e chiedeva una mano. Alla luce di questa “chiave di lettura” bisognerà ridomandarsi cosa sia “la cortesia” che a suo dire sarebbe stata chiesta da ‘Berlusca’ a Graviano (sempre nel suo discorso in cella) e poi perché questa cortesia c’entri con “l’urgenza” di fare qualcosa e con il fatto che “volevano indagare”.

Un’ipotesi formulata in via del tutto teorica dal pm Antonino Di Matteo, quando sosteneva l’accusa del processo Trattativa, è che “quando Graviano parla di cortesia si riferisca alla strage di via D’Amelio”. Comunque Graviano, ove anche avesse espresso quel concetto, potrebbe mentire.

Il racconto fatto ieri dal boss parte dal 1970 quando il nonno materno Filippo Quartararo, grande commerciante di frutta, si sente chiedere 20 miliardi di vecchie lire per avere il 20 per cento di un investimento a Milano. Il nonno non li aveva ma insieme ad altri amici siciliani arriva a coprire una quota di 4,5 miliardi, dei quali 1,5 miliardi li mette Antonio La Corte, un ristoratore. Poi altri 10 miliardi li mette l’ereditiere Carlo Alfano e altri soldi li avrebbe messi la famiglia Chiazzese che però lascia la mano dopo l’uccisione di un rampollo della famiglia nel 1981. Altri soldi li metterebbe anche la signora Serafina, vedova di Salvatore Di Peri. I soldi secondo Graviano sarebbero puliti.

Nel 1981 muore il padre Michele Graviano, un imprenditore che secondo il pentito Franco Di Carlo era stato inserito in Cosa Nostra in età avanzata. Graviano padre è stato ucciso dai perdenti e in particolare dal mafioso Gaetano Grado, della famiglia di Stefano Bontate. Il nonno materno, ormai ultra-ottantenne, dopo la morte del padre, mette Giuseppe e il cugino Salvatore Graviano al corrente degli investimenti effettuati una dozzina di anni prima a Milano e chiede a Giuseppe di seguirlo a Milano per prendere in mano il rapporto.

Il nonno riteneva che non ci fosse nulla di male e che i soci siciliani occulti dovessero diventare pubblici. Così Giuseppe, dopo essersi consigliato con Giuseppe Greco, padre del “Papa della mafia” Michele Greco, sale sotto la Madunina. Giuseppe è ancora in lutto ma toglie l’abito nero per non dare nell’occhio e incontra Berlusconi insieme al cugino Salvatore e al nonno Filippo. L’incontro avviene – aggiunge con qualche incertezza Graviano (“se non erro”) – nell’hotel Quark di Milano. Non un posto qualunque. In questo hotel Graviano racconta di avere festeggiato il Capodanno 1990. Sempre qui Graviano dà appuntamento a un suo favoreggiatore che voleva far giocare il figlio al Milan e gli aveva chiesto una mano per trovare lui un lavoro. Insieme al fratello Filippo e al favoreggiatore il 27 gennaio 1994 sarà arrestato nel ristorante Gigi il Cacciatore.

L’arresto a Milano secondo Graviano è anomalo. La tesi (anche questa tutta da riscontrare) di Graviano è che si siano uniti tre soggetti contro di lui: “L’imprenditore del nord (Berlusconi, ndr), una parte della Procura di Palermo e Totuccio Contorno”. In questo quadro molto confuso, Giuseppe Graviano ha inserito le sue confidenze sui rapporti tra il nonno e Berlusconi. Nella precedente udienza Graviano ha suggerito al pubblico ministero di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo di indagare sui misteri del suo arresto a Milano per capire i segreti delle stragi del 1992 e 1993 e l’omicidio del poliziotto Antonino D’Agostino dell’agosto 1989. Quanto ai rapporti con Berlusconi, Giuseppe Graviano sostiene di avere letto una carta privata (“la copia ce l’ha mio cugino Salvatore Graviano con la firma dell’imprenditore del nord”) con i nomi del nonno e degli altri soci occulti di Berlusconi che volevano emergere, tra questi Carlo Alfano e Antonio La Corte più altri.

Secondo Graviano, non solo i cantieri edili degli anni settanta ma anche le televisioni di Fininvest create più avanti facevano parte dell’accordo con i siciliani. Nel 1993 il cugino Salvatore chiede al boss latitante di andare a Milano. Proprio quando Berlusconi sta per scendere in politica ufficialmente, a dicembre 1993, secondo lo stesso Graviano avviene l’incontro al quale partecipa anche il cugino Salvatore. I tre cenano insieme in un appartamento di Milano 3, il villaggio residenziale costruito da Silvio Berlusconi. A detta di Graviano un appartamento sarebbe stato concesso in uso a Salvatore Graviano e poi offerto anche in uso da Salvatore a Giuseppe. L’incontro ha per oggetto la questione societaria ma poi non se ne fa nulla perché all’appuntamento successivo con Berlusconi, fissato a febbraio del 1994, non si possono presentare i due cugini: Giuseppe è arrestato il 27 gennaio e Salvatore il 2 febbraio 1994, poi sarà assolto e morirà nel 2002 per un tumore.

Oltre ai rapporti economici con Silvio Berlusconi, Graviano ha ripercorso anche l’origine della “stagione politica”. Nei primi mesi del 1992 Silvio Berlusconi incontra il cugino Salvatore Graviano e gli racconta che vuole scendere in politica e chiede un appoggio. Il racconto di Giuseppe Graviano può sembrare un romanzo per chi non abbia mai seguito le vicende delle indagini sulle stragi di Firenze e Caltanissetta e quelle della Procura di Palermo sulla Trattativa Stato-mafia.

Però non arriva come un fulmine a ciel sereno. Si può dire invece che tanto tuonò (senza che la politica e i media reagissero in modo opportuno) che alla fine Giuseppe Graviano è stato costretto a far piovere un diluvio di dichiarazioni per ottenere un po’ di attenzione.

Le dichiarazioni di Giuseppe Graviano non vanno prese come se fossero quelle di un testimone attendibile e nemmeno come se fossero quelle di un collaboratore di giustizia. Un pentito che mente rischia di perdere la protezione dello Stato e i vantaggi della sua condizione. Un imputato che non collabora, come Graviano, invece può mentire impunemente.

Il boss ha presentato (in diretta web di Radio Radicale) un racconto suggestivo ma che presenta evidenti zone oscure e passaggi poco coerenti. Per esempio Giuseppe Graviano nega qualsiasi responsabilità nelle stragi. Smentisce totalmente i pentiti che lo accusano, in particolare Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina. Si professa innocente su tutta la linea. Colora il suo rapporto con Berlusconi con una serie di personaggi che paradossalmente tenderebbero a renderlo lecito. I soldi investiti a Milano non sono del padre o di altri soggetti tacciati dai pentiti di essere mafiosi ma del nonno e di altri insospettabili. I rapporti politici con Berlusconi sono stati tenuti principalmente dal cugino Salvatore, anche lui considerato un personaggio minore finora e comunque deceduto nel 2002. Inoltre ci sono alcune cose che non tornano con quello che è stato detto in carcere a bassa voce al compagno di detenzione Umberto Adinolfi.

In quelle conversazioni in cella registrate nel 2016-2017 il boss per esempio non nomina mai il cugino Salvatore Graviano in relazione a Berlusconi e parla in prima persona dei suoi rapporti con l’imprenditore milanese. Comunque il suo racconto, anche se depistante e dal sapore ricattatorio, non può più essere ignorato.

Di Matteo: “Mi davano del fanatico”. E solo Rotondi difende l’ex Cav.

“Non entro nel merito delle nuove dichiarazioni di Giuseppe Graviano. È certo, però, che anche nella sentenza definitiva di condanna del senatore Marcello Dell’Utri sono stati ricostruiti rapporti stabili e duraturi tra Berlusconi e Cosa Nostra. Sembra che in questo Paese certe cose non possano nemmeno essere ricordate e che chi si ostina a farlo sia destinato, come è capitato a me e ai miei colleghi, per queste indagini, a essere additato come un visionario fanatico”.

Lo ha detto il consigliere del Csm Antonino Di Matteo, già pm del processo trattativa Stato-mafia, commentando le dichiarazioni del boss mafioso Giuseppe Graviano, in cui sostiene di avere incontrato nel 1993 l’ex premier Silvio Berlusconi a Milano 3. Una circostanza smentita con forza dai legali di Berlusconi.

Di Matteo, sollecitato dall’agenzia Adnkronos, è fra i pochi a intervenire sulle dichiarazioni del boss che sembrano confermare il contenuto delle sue conversazioni in carcere intercettate nel 2016, nelle quali Graviano aveva toccato gli stessi argomenti. Nel silenzio della politica parlano i parlamentari M5S della Commissione antimafia: “Il boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, già condannato all’ergastolo, avrebbe dichiarato durante il processo ‘’ndrangheta stragista’, che lo vede imputato, di aver incontrato tre volte a Milano Silvio Berlusconi mentre ero latitante”. “In attesa delle opportune verifiche in merito alle dichiarazioni che sta fornendo il boss di Brancaccio – proseguono i parlamentari grillini dell’Antimafia – precisiamo che queste informazioni che coinvolgono l’ex Cavaliere Silvio Berlusconi, se confermate, sarebbero sconcertanti. Chi rappresenta la politica dovrebbe difendere le istituzioni, non andare a cena con chi vorrebbe distruggerle per i propri interessi e a discapito della società civile”.

Berlusconi e la mafia è un tema che fa paura, così nessun altro commenta le parole del boss di Brancaccio. L’unica altra voce che si leva, in questo caso però per difendere Berlusconi, è quella di Gianfranco Rotondi, già ministro nel governo guidato dal leader di Forza Italia tra il 2008 e il 2011: “Povero quel Paese in cui la lotta politica porta a dare più valore alle invenzioni di un mafioso che alla parola di un ex premier”, ha twittato Rotondi, presidente dell’ultima Democrazia cristiana ora trasformata in fondazione.

“Ero in affari con Berlusconi. Cenai con lui a Milano nel 1993”

Sostiene di averlo incontrato “al massimo tre volte”: lui era un pericoloso latitante di mafia, l’altro un rampante imprenditore all’apice della sua carriera, con un futuro da presidente del consiglio. A legarli un “rapporto economico” antico nel tempo: venti miliardi di lire partiti da Palermo negli Anni 70 e investiti nell’edilizia nel Nord Italia. Ma non solo: “C’erano le tv, Canale 5, Mediaset”. Dopo 26 anni di religioso silenzio Giuseppe Graviano parla e fa il nome più atteso: Silvio Berlusconi.

Da mesi il boss che custodisce i segreti della stragi chiede di essere ascoltato dalla corte d’assise di Reggio Calabria. Il processo è quello sulla ’Ndrangheta stragista, ma Graviano non è un pentito e neanche un testimone: è un imputato e come tale non ha l’obbligo di dire la verità. Eppure “Madre natura”, come lo chiamavano i suoi uomini, ci teneva a rispondere alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.

In aula sostiene di conoscere la soluzione di vari misteri: “Le darò – dice al pm – degli elementi da cui lei potrà trovare l’agenda rossa e chi ha ucciso il poliziotto D’Agostino”. E se due settimane fa aveva parlato genericamente di “imprenditori del Nord”, questa volta è molto più specifico: “Negli anni 70 mio nonno aveva messo i soldi nell’edilizia al Nord. Il contatto è col signor Berlusconi, glielo dico subito”.

E poi: “Ho incontrato tre volte a Milano Berlusconi mentre ero latitante”. E ancora : “Con Berlusconi abbiamo cenato insieme. È accaduto a Milano 3 in un appartamento”. Insomma: a sentire Graviano i rapporti tra la sua famiglia e l’ex premier sono vecchi di più di quarant’anni: “Mio nonno materno, Quartanaro Filippo, era una persona abbastanza ricca, era un grande commerciante di ortofrutta. Ha investito i soldi nell’edilizia del Nord Italia”. Che tipo di investimento? “Venti miliardi di lire con il 20 percento”.

Quei soldi erano del nonno benestante, non del padre mafioso. In aula non ci fanno caso: è calato il gelo dal momento in cui il boss ha fatto il nome del leader di Forza Italia: “Quando è morto mio padre, mio nonno mi disse: Io sono vecchio e ora te ne devi occupare tu”. Il vecchio Quartararo muore nel 1986, il padre di Graviano nel 1982. In quei quattro anni, Graviano sostiene di aver avuto il tempo di conoscere il leader di Forza Italia. “Io e mio cugino Salvatore siamo partiti per Milano. E mio nonno ci ha presentato al signor Berlusconi”.

Il primo incontro sarebbe stato “all’Hotel Quark”. Chi c’era? “Mio cugino Salvatore, io, mio nonno”. Berlusconi era da solo. “Sì”, risponde Graviano. L’ultimo incontro con l’ex premier invece risale al dicembre del 1993 in un appartamento di Milano 3 che era stato “dato” al cugino. “È stata una cena. Ci siamo incontrati io, mio cugino e Berlusconi. C’era qualche altra persona che non ho riconosciuto”. Ma l’ex premier era al corrente di essersi seduto a cena con un latitante? “Non lo so, penso di sì – risponde il boss – Lo sapeva come mi chiamavo”.

Il pm lo incalza: “Quando vi incontrate, ricava la certezza che i 20 miliardi sono stati investiti a Milano 3?”. Risposta affermativa, anzi, dice Graviano “tutto quello che aveva fatto, anche a Milano 3, le televisioni, Canale 5, tutto”. Una affermazione non riscontrabile in alcun modo. “Ma c’era una carta privata – sostiene l’imputato – che io ho visto, la copia di mio nonno è in possesso di mio cugino”. Come dire: di quel rapporto economico esisterebbero le prove e lui le ha viste. L’avvocato Niccolò Ghedini taccia le dichiarazioni come “totalmente e platealmente destituite di ogni fondamento”. Frasi che, per il legale di Berlusconi, hanno lo scopo di “ottenere benefici processuali o carcerari”.

Ma a Reggio il boss di Brancaccio è un fiume in piena: “Tramite mio cugino con Berlusconi avevamo un rapporto bellissimo”. Talmente bello che già nel 1992 Berlusconi gli confida l’intenzione di fondare un partito. “A mio cugino Berlusconi parlò di questo progetto”, dice specificando un passaggio cruciale per gli inquirenti. “È successo nel 1992, non come dicono nel 1993. Il partito era stato preparato già prima della strage di Capaci”. C’è ancora tempo per spiegare il perché, nelle intercettazioni, Graviano definisca Berlusconi traditore: “Quando si parlò della riforma del Codice penale e di abolizione dell’ergastolo mi hanno detto che lui chiese di non inserire gli imputati coinvolti nelle stragi mafiose. Lì ho avuto la conferma che era finito tutto”. Ma perché allora ha deciso di parlare proprio adesso? Perché è stato in silenzio per più di un quarto di secolo? “Io adesso non sto facendo niente, io adesso sto dicendo solo qualcosa. Ma posso dire ancora tante altre cose”. È un messaggio, l’ennesimo.