Il piano di Zinga: blindare subito il patto coi 5S

Un congresso “sulle idee” e non sulle persone, da aprire subito e da chiudere ad aprile. Nicola Zingaretti, galvanizzato dal risultato dell’Emilia-Romagna e dalla crescita nei sondaggi, alla direzione del Pd di ieri ha lanciato la sua proposta. Per rilegittimarsi e blindare la linea di dialogo privilegiato con M5s, forte anche del cono d’ombra in cui sembra essersi infilato Matteo Renzi.

Il progetto per le Regionali è ancora, infatti, quello originario di Goffredo Bettini: lavorare all’amalgama con quel che resta del Movimento, cercando un candidato comune e un’alleanza organica per le elezioni.

La road map è stabilita. Da vedere se procederà spedita o se gli intoppi e le contrarietà verranno fuori. “Non dobbiamo aver paura di un congresso politico, non sui nomi ma sulle idee. Un appuntamento in grado di aprire il Pd”, ha detto Zingaretti. Dunque, l’idea è quella di fare un dibattito aperto, con 10.000 assemblee in tutta Italia, a cui è invitato a partecipare soprattutto chi non è iscritto al Pd. Il percorso congressuale verrà lanciato in un’Assemblea, il 22 febbraio. Poi ci sarà una direzione per scrivere le regole. Ai primi di marzo, con un evento a Firenze (non a caso la culla del renzismo), partirà un congresso su un documento programmatico da discutere nei circoli Dem e nelle assemblee. Spiega Stefano Vaccari, responsabile organizzazione dem: “Non dovranno essere necessariamente promosse dal Pd, anzi; potranno nascere anche spontaneamente”. Le persone per partecipare, dunque, non dovranno entrare nei circoli e quindi simbolicamente nel Pd. I contributi elaborati in queste iniziative confluiranno nel documento su cui, nei circoli, si confronteranno gli iscritti e quanti hanno votato alle primarie 2018. Ne uscirà il Manifesto per l’Italia che l’Assemblea finale del Congresso approverà il 18 e 19 aprile. Interlocutori privilegiati, le Sardine. Ma anche gli ex compagni di partito di Leu.

Zingaretti ha poi annunciato la segreteria unitaria e l’intenzione di nominare un presidente del partito donna. Su questo punto, Lorenzo Guerini, capo con Luca Lotti di Base Riformista, si è espresso positivamente. Ma poi ha chiarito: “No a un congresso di corsa. Da qui a maggio il partito sarà impegnato per le elezioni regionali e amministrative, mettiamo lì tutte le nostre energie”. Br punta ad andare all’autunno con un congresso “vero”, per presentare un proprio candidato (in pole position il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori). E un altro critico è Stefano Bonaccini, appena rieletto Governatore dell’Emilia, che sogna la segreteria del Pd: “Siamo a febbraio e tra un mese parte la campagna elettorale. Il rischio è che non ci siano i tempi sufficienti per fare bene il Congresso”.

Al centro delle assise ci sarà anche la linea politica. Perché se il segretario punta a “inglobare” M5s, c’è una parte del partitoproiettata verso il centro che non è d’accordo. Lui è netto: “Non si lasci ancora da solo il Pd a combattere contro le destre, facendo finta di non vedere la valenza nazionale che avrà lo scontro nelle sei Regioni che vanno al voto”. Chiaro, in questo senso, il messaggio di Zingaretti a Renzi e i suoi: “Picconano gli alleati e non gli avversari, stanno diventando ambigui”. E basta “con i trasformismi”.

M5S, congresso in piazza. Anche Fico frena Di Maio

Quella piazza deve difendere un totem, cioè un pezzo di identità, ma rischia di essere già altro. L’evento dei 5Stelle sui vitalizi sa già di antipasto di congresso, con la scaletta che è materiale infiammabile, e tutti nel M5S a chiedersi chi parlerà e soprattutto per dire cosa. E d’altronde nelle stanze dove si discute di Regionali e quindi di accordi con il Pd l’aria e i volti quello raccontano, battaglie tra anime tanto diverse. Anche se gli Stati generali verranno solo dopo Pasqua. Nell’attesa si cammina su una nuvola di punti interrogativi e di sospetti, nel M5S dove Luigi Di Maio non è più capo politico. Eppure tutto gira comunque attorno al ministro, che come Nanni Moretti in un film sta lì a rimuginare se lo si noti più da assente oppure se da parte attiva della festa. Solo che non è proprio una festa, la manifestazione per difendere il taglio dei vitalizi convocata a Roma per il 15 febbraio nella non ampia piazza San Silvestro, tanto per ridurre i rischi.

Mercoledì, Di Maio, poche ore dopo il video di lancio dell’organizzatrice Paola Taverna, ha provato a ridefinirne contenuto e senso, sostenendo che quel sabato bisognerà parlare anche di prescrizione e di tutte le altre leggi del M5S “da difendere contro la restaurazione”. Un messaggio da ex che però si sente ancora capo, anche se a detta del ministro è la stampa a travisare. Ma non l’ha presa bene la vicepresidente del Senato Taverna, secca ieri sul Fatto: “La piazza sarà sui vitalizi. Le parole del ministro? Di Maio ha parlato da Di Maio”. Del resto che quella piazza sarà solo su un tema lo aveva dovuto precisare già il reggente Vito Crimi. E ieri anche il presidente della Camera Roberto Fico non si è sottratto: “La manifestazione è sui vitalizi ai parlamentari, lo ha detto anche Paola Taverna”.

Citazione non casuale, nel giorno in cui batte un colpo anche l’ex ministra Giulia Grillo: “Immagino che Di Maio abbia parlato a titolo personale”. Certo, poi Grillo dice anche che “è giusto andare in piazza ma siamo al governo, il tema dei vitalizi andava spiegato meglio”, a riprova che il M5S attuale è un arcipelago agitato. Ma il tema di fondo resta quello, cosa sarà quella piazza, e cosa potrebbe diventare. Dal fronte opposto a Di Maio lo dicono dritto: “Con quell’intervento ha provato a dare la linea, ma la piazza non c’entra nulla con gli Stati generali”. È la convinzione, raccontano, anche della Taverna, che lavora alla manifestazione. Scaletta e dettagli verranno decisi la prossima settimana. Ma ai piani alti lo dicono già tutti: “Di Maio deve parlare, figurarsi”. Anche perché farebbe molto più rumore e danno da zitto. Resta da capire che ruolo avranno i ministri, molti dei quali filo-dem e qualche dimaiano già ammicca (“vediamo chi viene…). “I ministri ci saranno” ha assicurato sempre al Fatto Taverna. Compreso il capo-delegazione Alfonso Bonafede. Mentre mancherà Fico. “La Camera dovrà decidere sui ricorsi contro i vitalizi, sarebbe impropria la sua presenza” dicono da Montecitorio. Mistero fitto, invece, sulla presenza di Beppe Grillo. “Spero vengano tutti, d’altronde perché non esserci?” scandisce nel Transatlantico deserto Sergio Battelli, dimaiano non pentito: “Può scriverlo che lo sono, senza di lui come capo mi manca un punto di riferimento”. Battelli è anche ligure, ma delle Regionali non parla. Ne hanno parlato, eccome, giovedì alla Camera i facilitatori regionali assieme a Crimi e a Danilo Toninelli. Ed è stato stallo. Perché parlamentari e consiglieri regionali vogliono quasi tutti l’accordo con il Pd e il giornalista del Fatto Ferruccio Sansa come candidato. Ma il reggente e Toninelli no. Mentre la consigliera regionale Alice Salvatore, designata candidata presidente dal web, minaccia tempesta in caso di intesa con i dem.

Se ne riparlerà lunedì, ma tanti spingono per un nuovo voto sulla piattaforma Rousseau. Invocato anche per la Campania, altra partita che verrà trattata dopodomani. Fuori a chiedere chiarezza c’è il dem Andrea Orlando, delegato a trattare per le due regioni. Raccontano che anche il sindaco di Napoli De Magistris chiami spesso i 5Stelle di rango per sollecitare l’accordo. “Ma è più facile che succeda in Liguria, in fondo lì anche il Pd sta all’opposizione” ragiona una fonte di governo.

“La vita demolita da una truffa. E ora il reato andrà prescritto”

L’ultima cartella esattoriale dell’Agenzia delle Entrate, Luciano Guiotto, un uomo di Jesolo di 68 anni, l’ha ricevuta appena tre giorni fa. Non prova più nemmeno rabbia. A quelle visite di Equitalia è abituato da anni, da quando ha scoperto che i soldi consegnati al proprio commercialista in realtà non erano stati utilizzati per pagare le sue tasse. Lui, come altri, è una delle parti civili del processo contro Nicola Nardin, commercialista di Jesolo, condannato in primo grado a sette anni di reclusione per truffa, reato riqualificato in appropriazione indebita in appello dove è stata inflitta una pena a cinque anni e undici mesi.

La sentenza di secondo grado è arrivata a gennaio del 2019, quasi tre anni dopo il rinvio a giudizio. L’accusa, secondo il capo d’imputazione iniziale, era quella di essersi fatto consegnare dai propri clienti “le somme destinate al pagamento degli oneri fiscali, tributari e previdenziali in scadenza, omettendone il versamento e impossessandosene”. Nonostante Nardin abbia confessato (sostenendo però di essere vittima di usura), il tempo ha fatto la sua parte. Perché per molti casi contestati, quelli che riguardano “reati commessi fino al settembre del 2011”, è stata dichiarata la prescrizione.

Adesso si attende che venga fissata la prima udienza in Cassazione. “I reati contestati vanno dal 2007 al 2013 – spiega Victor Rampazzo, legale di molte delle parti civili nel processo – e la prescrizione interverrà probabilmente prima della sentenza di Cassazione per quasi tutti i casi. L’appropriazione indebita infatti si prescrive in 7 anni e mezzo e quindi entro breve saranno dichiarati estinti anche i reati commessi nel 2013. Nardin potrebbe quindi non essere chiamato a rispondere dei reati commessi, anche se i truffati potranno continuare l’azione esecutiva per il recupero delle somme: la sua casa è già stata venduta all’asta così anche molti dei beni che erano stati acquistati con i soldi dei clienti. Tuttavia le somme ricavate non basteranno a pagare le spese processuali”. Insomma le cause civili potranno continuare. Ma intanto, oltre al danno, ecco la beffa: non sono mancate infatti le cartelle Equitalia recapitate ad alcuni degli ex clienti di Nardin. Come quella che appena tre giorni fa è stata inviata a Luciano Guiotto, il quale, secondo il capo di imputazione iniziale, insieme alla moglie avrebbe consegnato allo studio Nardin dal 2007 al 2012, circa 162 mila euro. Quei soldi però non sono stati mai usati per pagare le tasse e così Equitalia ora li richiede con gli interessi.

Signor Guiotto, quanto ammonta il suo debito con Equitalia?

Nell’ultima cartella mi chiedono circa 67 mila euro. Ma il debito totale è più di 300 mila euro. Ho un pacco di cartelle Equitalia, ormai non le conto più.

Il suo caso ancora non è prescritto, ma manca poco vero?

Sì, la prescrizione interverrà quest’anno. Io nel frattempo ho perso tutto.

Quando ha conosciuto Nardin?

Lo conosco dal 2000. Ero titolare di un ristorante nel centro di Jesolo che era anche abbastanza rinomato e mi sono rivolto a lui per la mia contabilità. Siamo diventati anche amici, al punto che io e mia moglie siamo stati padrino e madrina di suo figlio. Abbiamo anche fatto tanti viaggi a Medjugorje insieme. Ho scoperto che c’era qualcosa di strano nel 2012, quando il mio consulente del lavoro mi ha avvisato del problema con Equitalia.

Cosa ha fatto a quel punto?

Nardin aveva il mio domicilio fiscale, per cui tutte le cartelle esattoriali arrivavano lì. Quando qualcuna veniva spedita al mio indirizzo io andavo nel suo studio e gli chiedevo spiegazioni: lui mi diceva sempre di non preoccuparmi, che erano solo cartelle “pazze”. Così negli anni mi sono convinto di aver pagato tutto, firmavo e gli consegnavo assegni nella cui matrice scrivevo l’importo da destinare all’Iva, all’Irpef o quello che era. Poi è arrivata la brutta sorpresa.

Questa vicenda come ha cambiato la sua vita?

Sono stato costretto a chiudere il ristorante: avevo troppe tasse arretrate da pagare, circa 30 mila euro l’anno per dieci anni. Non avevo più stimoli a continuare. Per non parlare delle spese per sostenere il processo, gli avvocati da pagare… è andato tutto a rotoli.

Lei ha 68 anni, non è un’età facile per trovare un nuovo lavoro.

Nessuno vuole assumere un uomo di quasi 70 anni. Ora sono finito a dare una mano in cucina nei ristoranti di qualche mio amico dove lavoro come cuoco. Questa storia è stata un vero terremoto per tutta la mia famiglia: non ci possiamo permettere di pagare l’università e due dei miei figli hanno lasciato gli studi, devono lavorare anche loro. La mia vita è sempre in attesa di una nuova cartella esattoriale. Equitalia continua a chiedermi denaro, nonostante io abbia dimostrato di esser stato vittima del commercialista. Non credo che le cose possano mai cambiare.

Le norme sulla prescrizione sono cambiate però.

Sì, ma io ci credo poco. Mi sento completamente abbandonato dallo Stato. Anche la legge anti-suicidi che è stata introdotta proprio per chi è sommerso dai debiti, che risultati ha portato?

Indagini, processi e notifiche elettroniche: il dl Accorcia-processi che arriverà in Cdm

Punta tutto sulla riforma del processo penale, lunedì, all’esame del Consiglio dei ministri, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che vorrebbe fortemente centrare l’obiettivo inedito di garantire tempi celeri dei processi. E sempre lunedì, la sua legge blocca-prescrizione dopo il primo grado sarà modificata con un decreto legge. Sarà applicata ai condannati, ma non agli assolti per i quali la prescrizione continuerà a correre. Anzi, per i condannati dal tribunale e assolti in appello, si recuperano i tempi di prescrizione, per così dire persi con l’interruzione in primo grado. È la mediazione trovata giovedì con Pd e LeU, fuori Italia Viva che lunedì minaccia di disertare il Consiglio. Bonafede, comunque, ribadisce che il cosiddetto lodo Conte2 sulla prescrizione non è certo una sua idea “ma nel momento in cui sono ministro di un governo con tante forze politiche so che devo cercare una sintesi. A me interessavano due cose: celerità dei tempi ed eliminazione delle isole d’impunità, obiettivi raggiunti”.

Venendo al merito della riforma, ecco i punti più importanti di proposta, secondo quanto risulta al Fatto.

La durata

Per i primi due anni della riforma i processi devono durare complessivamente 4 anni. Dopo, 3 anni. Quindi nel primo periodo 12 mesi il primo grado, 2 anni l’appello e un anno la Cassazione. Nessun limite per mafia e terrorismo e più tempo per altri reati gravi. Il Csm, però, può cambiare questa tempistica in base a una valutazione della situazione degli uffici giudiziari. Cadrebbe l’obbligo di ripartire da zero alla modifica del collegio.

La stretta sulle indagini

Giro di vite su azione penale e rinvio a giudizio, limitati ai casi in cui, per gli elementi raccolti, è plausibile una condanna dell’imputato. Sarebbero i procuratori a stabilire la priorità per le notizie di reato “sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati”. Le indagini, in base ai tipi di reato, dovranno concludersi tra i 6 e i 18 mesi. Possibile una sola proroga per 6 mesi. Se entro 3 mesi dalla scadenza massima delle indagini il pm non ha tratto le sue conclusioni, deve comunque notificare alle parti il deposito degli atti altrimenti è possibile una sanzione disciplinare.

Notifiche elettroniche

Le notifiche elettroniche sarebbero la norma e quelle a mano – ora obbligatorie –, fonte di nullità e un mezzo per arrivare alla prescrizione, saranno una eccezione.

Nuovo Appello

Limitati i casi di appellabilità delle sentenze, previsti processi anche con giudici monocratici, quelli per cui è prevista “la citazione diretta nel giudizio di primo grado e l’applicazione del rito in camera di consiglio”. L’avvocato potrebbe presentare Appello solo se ha un mandato del suo assistito. Se non c’è sentenza entro 2 anni, le parti possono pretenderla e in quel caso dovrà esserci entro 6 mesi. Ma anche in questo caso potrebbe esserci una determinazione diversa del Csm. Non sarà più obbligatorio ascoltare in aula i testimoni già sentiti in tribunale.

Sanzioni per i giudici

Le sanzioni disciplinari per il mancato rispetto dei tempi processuali scatterebbero solo dopo una valutazione del carico di lavoro del distretto giudiziario interessato. Un’ipotesi, però, già respinta al mittente dalla Anm.

Riti alternativi

Si punta a un ampliamento a 8 anni del limite per il quale è ammesso il patteggiamento. Aumentano i delitti per i quali non vi si può accedere. Si allarga l’applicazione del rito abbreviato.

La riforma del Csm

I consiglieri togati passerebbero da 16 a 20 e i laici da 8 a 10. I togati sarebbero eletti in 19 collegi, 3 le preferenze possibili. Senza un vincitore al primo turno si va al ballottaggio tra i due che hanno preso più voti.

Lodo Conte bis è solo un piccolo ritocco: stavolta Iv ha ragione

Il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando, ex ministro della Giustizia, l’ha messa giù dura: “Se ho capito bene, con l’interruzione della prescrizione al secondo grado di giudizio, Bonafede ha rinunciato all’80% delle sue pretese”.

È vero quello che dice Orlando? Il M5S ha fatto sostanzialmente abiura?

Non sembra, e non solo perché il ministro Alfonso Bonafede si è lanciato in pubblici elogi nei confronti del Pd a cui riconosce “grande lealtà, grande correttezza, grande senso di responsabilità”. L’accordo individuato, infatti, sembra calarsi proprio sulla riforma che di Bonafede porta il nome.

Che dice la legge Bonafede su cui l’accordo si innesta?

La legge in vigore dal 1º gennaio avrà effetti concreti non prima di 6 o 7 anni, cioè quando il primo reato scoperto o commesso nel 2020 potrebbe prescriversi. Prima di questa legge, trascorso un determinato periodo di tempo commisurato alla durata della pena massima prevista per quel reato (maggiorata di un quarto), il reato cadeva in prescrizione e il processo si estingueva. Con la legge n. 3 del 2019 “il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza”. Questa sospensione impedisce alla prescrizione di scattare e al reato di estinguersi, provocando la reazione dei cosiddetti garantisti.

Ma quanti sono i processi coinvolti dalla prescrizione?

Intervenendo dopo la sentenza di primo grado, la legge riguarda poco più del 20% delle prescrizioni complessive (dati del ministero della Giustizia relativi al 2017). Che sono state in quell’anno circa 126 mila di cui 67 mila nelle fasi iniziali, davanti al giudice per le indagini preliminari o al giudice per le udienze preliminari; 27.500 davanti al tribunale ordinario e 2.500 davanti al giudice di Pace. Poco più di 28 mila invece davanti alle Corti di appello, quindi quelle bloccate dalla riforma Bonafede. Infine, 670 prescrizioni si sono prodotte in Cassazione (lo 0,5% del totale).

Cosa prevedeva il “lodo Conte 1”?

Il presidente del Consiglio aveva avanzato una prima mediazione che lasciava inalterata la riforma Bonafede solo nel caso in cui nel primo grado di giudizio si fosse prodotta una condanna. Mentre, in caso di assoluzione – e quindi con possibile impugnazione della sentenza da parte dei magistrati – la prescrizione non sarebbe stata bloccata, ma ci sarebbe stata una sospensione di due anni. Un doppio regime per garantire gli imputati da eventuali soprusi da parte dell’ordine giudiziario. La proposta di Giuseppe Conte è stata tacciata di incostuzionalità da diverse parti per via del doppio regime proposto, godenti della prescrizione se assolti in primo grado, con la prescrizione bloccata se condannati (su questo risponde esaurientemente Filoreto D’Agostino a pagina 13).

Cosa dice allora il “lodo Conte 2”, cioè l’accordo tra M5S-Pd-LeU?

Il “lodo Conte 2”, dal nome del deputato di LeU, Federico Conte, si innesta sul “lodo Conte 1”, mantenendo il regime di sospensione di due anni per gli assolti in primo grado. Per i condannati nel primo grado scatta un blocco provvisorio della prescrizione che diventa definitivo solo dopo l’eventuale condanna in secondo grado. La provvisorietà serve a far scattare un possibile recupero del periodo di prescrizione bloccata nel caso in cui in secondo grado si producesse un’assoluzione. In quel caso, l’imputato, qualora il processo fosse impugnato in Cassazione, potrebbe far valere tutta la prescrizione accumulata perché potrebbe recuperare anche quella bloccata tra il primo e il secondo grado avendo indietro il tempo che è stato congelato in precedenza.

Avrebbe dunque ragione Renzi?

In parte sì, perché l’accordo trovato non modifica di molto la Bonafede, anche se introduce la possibilità di recupero del tempo perduto e quindi un’occasione di accedere alla prescrizione, per quei processi che finiscono in Cassazione e in quella sede vengono prescritti.

Renzi perde, ma ci ripensa: Italia Viva si tiene le poltrone

“Renzi? È nel pallone”. La definizione che va per la maggiore è questa. Per una settimana, l’ex premier ha terremotato la politica italiana, sparato ad alzo zero contro l’equilibrio della maggioranza, intrapreso una guerra santa nel nome della prescrizione. Ma con l’intesa di giovedì notte sul lodo Conte bis tra Pd, M5S e LeU ha perso. Certo, l’accordo è fragile e soprattutto richiede una serie di passaggi parlamentari pieni di ostacoli. Ma Renzi si è rapidamente infilato in un cul-de-sac. L’obiettivo originario – con buona pace della giustizia – era defenestrare Giuseppe Conte e ottenere un nuovo governo. Come dimostra uno scambio di battute durante il vertice. “Noi non torniamo indietro sulla prescrizione”, ha argomentato Maria Elena Boschi. Per sentirsi ribattere: “Ma se si è in maggioranza insieme, bisogna trovare un punto di equilibrio accettabile. Altrimenti significa che i problemi sono altri”. Lei non ha risposto. Come dire, chi tace, acconsente. Tanto è vero che il premier è così tornato sulla questione: Iv promette battaglia? “Battaglia è una parola che non si addice tra forze di governo. Dobbiamo ritrovarci a ragionare nel merito”.

Il piano si scontra con la volontà di Sergio Mattarella, che non sarebbe disposto a far nascere un nuovo esecutivo in questa legislatura. E dunque, l’alternativa a “Giuseppi” sono quelle elezioni che Iv non può permettersi. Perché poi – dopo giorni di sovraesposizione mediatica – cala nei sondaggi, invece di crescere. Quindi, qual è l’obiettivo?

“Questi sono tutti pazzi, il Pd si è piegato”, andava argomentando Renzi ieri. Da qui a una strategia chiara, il passo non è breve. D’altra parte, è il suo limite, ormai noto a tutti: come tattico è fulminante, ma quando si tratta di elaborare progetti di lunga prospettiva, l’errore in genere gli è fatale.

La prima cosa chiara è che Iv non ha nessuna intenzione di uscire dal governo e di dare l’appoggio esterno. “Siamo una forza riformista, non cediamo al populismo nella giustizia. Non ce ne andiamo, ma se ci vogliono cacciare, ce lo dicano”, ha detto ieri mattina l’ex premier. Non ci pensa proprio a rinunciare a quella fetta di potere che ha. Tanto più che ora si gioca la partita per lui centrale delle nomine. “Vorrebbe più considerazione politica da Conte”, dicono i suoi. Significato confuso.

È stata la Boschi, nel pomeriggio, a rilanciare la linea dura: “La mediazione è una toppa peggio del buco”. Iv ha chiesto ad Alfonso Bonafede di non presentare il decreto che recepisce l’accordo nel prossimo cdm. Ma se lo farà, è pronta a non votarlo. Poi c’è il passaggio sul lodo Annibali nel Milleproroghe: i renziani diranno sì. Così come voteranno la proposta Costa che arriva in Aula il 24 febbraio per cancellare la riforma Bonafede. Fino a qui, però, grossi rischi non ci dovrebbero essere né per il governo, né per lo stesso Renzi di vedersi sfuggire il voto di mano: i numeri per mandare sotto la maggioranza alla Camera non ci sono. E in Senato? Fino a dove si spingerà l’ex premier? Potrebbe non deciderlo per parecchi mesi. Sul Milleproroghe, il governo è intenzionato a mettere la fiducia: non ci sarà modo di votare qualche emendamento “pericoloso”. Per quel che riguarda la proposta Costa, il senatore di Scandicci sarebbe pronto a ripresentarla come primo firmatario. Ma ci vorranno mesi prima che sia calendarizzata. Poi, ci saranno i voti sul Lodo Conte bis e sulla riforma del processo penale. Anche per quelli, ci vuole tempo. Non è detto, però, che Renzi non si trovi a un bivio sconveniente: dover scegliere tra una marcia indietro e un voto che rischia di far chiudere la legislatura.

Anche qui, le variabili sono tante. Quanti lo seguiranno, mettendo a rischio la propria sopravvivenza in Parlamento? Sentite Pier Ferdinando Casini, vicino ai renziani: “Renzi ha ottenuto sulla #prescrizione un risultato tutt’altro che insignificante. Non trascurerei di valorizzarlo”. Gli umori dentro Iv non sono dei migliori: il partito non dà nessuna garanzia sul futuro.

Da notare che ci sono voci che circolano insistenti da mesi. “Matteo non ne può più, è pronto a mollare la politica e a lasciare tutto a Maria Elena”, si racconta nei corridoi del Senato. Che alla fine lo faccia davvero, magari per dedicarsi alle sue attività parallele (e molto retribuite), come le conferenze in giro per il mondo, è tutto da dimostrare. Finora la politica l’ha tenuto in ostaggio come una sorta di amante tossica, nonostante la discesa rovinosa. Ma il fallimento del suo progetto è un dato ormai conclamato. E la delusione è tanta.

Le cene eleganti

Se a qualcuno serviva la prova che B. non conta più nulla, gliel’ha fornita ieri Giuseppe Graviano. Erano 15 anni che minacciava di cantare, ma poi non si decideva mai: B. poteva ancora rendersi utile, meglio tenerlo vivo e sotto ricatto. Ora non più. Per capire la sua improvvisa conversione da stragista a cantante basta questa frase lancinante: “Adesso sto dicendo solo qualcosa, ma posso dire ancora tante altre cose”. Il boss di Brancaccio non è un collaboratore di giustizia, tenuto a dire tutta la verità e, se non la dice, punito con la revoca del programma di protezione per sé e i suoi cari. È un mafioso condannato a vari ergastoli per le stragi del 1992-’94, sentito al processo “’Ndrangheta stragista” come imputato di reato connesso con la facoltà di mentire; e, se mente, rischia la condanna per calunnia, cioè il solletico per chi di galera uscirà solo da morto. Ma, come per tutti gli imputati che parlano (fatto eccezionale, per i mafiosi irriducibili), non basta il suo status per togliere credibilità alle sue parole: prima di affermare che mente (o dice la verità), bisogna dimostrarlo.

Delle tre cene “eleganti” con B., non sapremo forse mai. Ma certo mente sulle stragi, di cui dice di non saper nulla e invece furono opera sua; ma ne aveva già parlato in carcere, intercettato a sua insaputa, a proposito della “cortesia” chiesta da B. nel luglio ’92 quando “voleva scendere” in politica e saltò in aria Borsellino. Mente negando l’incontro col suo killer Gaspare Spatuzza al bar Doney di Roma nel gennaio ’94, vigilia della fallita strage dell’Olimpico e della discesa in campo di B., ormai assodato. Mente per omissione su Dell’Utri, decisiva “cerniera” fra Cosa Nostra e B. Mente sul nonno “commerciante di ortofrutta” che investe 20 miliardi nei cantieri e nelle tv di B.. Non per gli investimenti: dei valigioni di contanti di Bontate&C. parlò già 30 anni fa Rapisarda, l’amico-nemico di Dell’Utri. Ma per il mestiere del nonno, impegnato in ben più lucrose attività. Gli elementi già accertati da sentenze irrevocabili (sulle stragi e su Dell’Utri) insegnano però che Graviano dice anche cose vere e verosimili. Pure quando usa abili accorgimenti, come lo schermo del defunto cugino Salvatore (un morto su cui scaricare qualcosa fa sempre comodo). Il fatto già accertato che B. versasse semestralmente centinaia di milioni a Cosa Nostra, dal 1974 al ’92 (sentenza definitiva Dell’Utri) o al dicembre ’94, quand’era già premier (sentenza Trattativa di primo grado), rende probabile che fosse socio in affari dei clan mafiosi. Il fatto che B. pensasse a Forza Italia già nel ’92, l’aveva già raccontato il testimone Ezio Cartotto.

Cioè il consulente ingaggiato da Dell’Utri dopo Capaci per studiare il progetto del partito Fininvest. Ora Graviano data il progetto politico addirittura a prima della strage di Capaci (23 maggio 1992): il che, se confermato, getterebbe una luce nuova sull’omicidio Falcone, ritenuto finora sganciato dalla trattativa e dai “mandanti esterni”. La cui esistenza, dopo le parole di Graviano, diventa ancor più probabile di quanto già non fosse sulla scorta di decine di mafiosi pentiti ed elementi fattuali, visti i rapporti personali e societari che il boss racconta (e solo in minima parte). Anche la seconda fase della trattativa Stato-mafia, quella gestita – secondo i giudici di primo grado – da Dell’Utri per agevolare a fine ’93 e poi ricattare nel ’94 il governo B. con la minaccia di riprendere le stragi interrotte, riceve una formidabile conferma: anche Graviano, dopo tanti pentiti, ribadisce la promessa berlusconiana di “modificare il Codice penale”, poi mantenuta solo in minima parte. Sull’ergastolo e il 41-bis, peraltro, il boss condivide la posizione di gran parte dei politici e opinionisti, oltreché della Consulta ultimo modello e della Corte di Strasburgo: “Sono state fatte leggi incostituzionali, perché la Corte costituzionale li sta dichiarando incostituzionali… Le leggi fatte per non farci uscire dal carcere…”. Parole che lo iscrivono d’ufficio nel fronte “garantista” in ottima compagnia. Su altri punti ricorda male: tipo quando dice che “Berlusconi fu un traditore, perché quando si parlò della riforma del Codice penale e di abolizione dell’ergastolo, un avvocato di Forza Italia mi disse che stavano cambiando il Codice penale e Berlusconi aveva detto di non inserire quelli coinvolti nelle stragi”. In realtà l’ergastolo lo abolì il centrosinistra, scavalcando B., nel 1999 estendendo il rito abbreviato (con relativi sconti di pena) anche ai reati di strage; e lo ripristinò solo due anni dopo, in seguito alle proteste dei pm antimafia e delle vittime delle bombe. Ora, tra le “tante altre cose” che Graviano potrebbe raccontare, potrebbe esserci l’indirizzo dell’appartamento a Milano 3 usato per gli incontri fra lui, il cugino e B.. E magari esibire la “carta privata”, cioè il presunto contratto societario fra i Graviano e B.: volete che non l’abbia conservata come arma di ricatto?

Noi molte di queste cose le abbiamo sempre scritte o sospettate. E una certezza l’abbiamo sempre avuta: che B. sia consapevolmente ricattato e ricattabile da Cosa Nostra da quasi mezzo secolo. Bastava leggere la sentenza Dell’Utri, la più rimossa da politici e giornalisti che hanno sempre finto di non vedere e non sapere, anche dopo la condanna a 7 anni per mafia, continuando a spacciare la verità per “teorema” e a buttare in politica una storia che è stata sempre e soltanto criminale. Ora, in attesa delle puntate successive, tocca alle Procure indagare sulle parole di Graviano: quella di Firenze che ha già riaperto l’indagine su B. e Dell’Utri per le stragi del ’93; e quella di Caltanissetta che dovrà farlo per quelle del ’92. L’unica inchiesta che non si può più riaprire è quella di Palermo su B. per concorso esterno. Sapete perché? Perché è caduta in prescrizione.

I gatti del Louvre: la vita segreta dei musei quando arriva la notte

Chi ama visitare i musei difficilmente ama anche i turisti che rendono l’esperienza fonte di stress assai piu che di piacere. Dopo aver fatto la fila per vedere la Gioconda al Louvre, chi vuole davvero ammirarla poi deve cercarla su Google. Ma provate a immaginare il Louvre senza turisti, di notte, non come sfondo di qualche avventura romantica alla Bertolucci, ma come una specie di essere vivente: tanta bellezza concentrata inevitabilmente trascende le vite limitate che l’hanno prodotta e la custodiscono.

La prossima settimana esce per JPop il primo di due volumi di Taiyo Matsumoto – I gatti del Louvre – che raccontano il museo più famoso del mondo con uno sguardo sorprendente: gli artisti giapponesi di manga (vedi Jiro Taniguchi) ci insegnano a osservare la nostra arte senza il filtro dell’abitudine, la scrostano dei residui scolastici che ci fanno sembrare tutto già visto, usurato. Matsumoto costruisce un’opera ampia e articolata difficile da riassumere, che si snoda su vari livelli: ci sono gatti che di notte prendono possesso del museo, umani invisibili – una guida, alcuni custodi – che riescono a entrare in comunicazione con loro. Alcuni – felini e umani – hanno addirittura la capacità di entrare nei quadri, di viverli come se fossero squarci su altri mondi, invece che rappresentazioni statiche e bidimensionali. I colori pastello, le atmosfere oniriche, le occasionali fughe nel giardino delle Tuileries confondono il lettore, che vede gli stessi personaggi cambiare, a seconda della prospettiva (a volte i gatti sono antropomorfi e parlanti, a volte no). Gli altri, i turisti, le persone normali – noi lettori – siamo semplici passanti, incapaci di vivere davvero l’arte perché condannati a frequentare i musei soltanto di giorno.

 

 

I gatti del Louvre vol. 1

Taiyo Matsumoto

Pagine: 200

Prezzo: 20

Editore: JPop

 

Da Dylan ai Rem, non sono solo canzonette ma pura poesia

Ogni generazione ha avuto i suoi idoli, da Elvis ai Beatles a Bowie agli U2; oggi tocca a Sfera Ebbasta e ad altri epigoni della trap. A Song For You, scritto a quattro mani dallo psicoterapeuta Alberto Pellai (autore di L’età dello tsunami) e Barbara Tamborini – psicopedagogista –, analizza cinquanta brani e la loro forza dirompente: canzoni poetiche diventate manifesti di libertà e di pace, colonne sonora di una piccola evoluzione interiore.

Il libro è uno strumento per stimolare i ragazzi – senza essere didascalici – a esplorare i dettagli della parte più profonda della musica pop. L’impresa è capire che la canzone non è solo puro entertainment – in tempi di hit globali e preparate a tavolino –, ma creazione artigianale e, in alcuni casi, potente detonatore per risvegliare le coscienze. Everybody Hurts dei R.e.m. è l’apice della potenza del conforto, di un abbraccio; People Have The Power di Patti Smith invita ciascuno a fare la sua parte per la conquista dei diritti, Father And Son di Cat Stevens indaga sul rapporto travagliato tra un padre e un figlio, Blowin’ In The Wind di Bob Dylan insegna a leggere tra le righe e far proprio un seme di libertà.

Un atto di amore verso chi ha creduto e ancora crede nella complessità di una apparente semplice canzone.

 

 

A Song For You

A. Pellai e B. Tamborini

Pagine: 224

Prezzo: 16,90

Editore: DeAgostini

Quel marmo sensuale di Bernini

Percorrendo tutta la navata principale della Chiesa di San Francesco a Ripa in Trastevere, nel costeggiare l’altare e spostandosi verso la parete di fondo del transetto sinistro, si scopre quello spettacolo per gli occhi e l’anima che è la bianchissima statua della beata Ludovica Albertoni (all’interno della Cappella Paluzzi Albertoni), che emerge abbagliante da una brumosa penombra in modo quasi improvviso come l’autentico centro d’attrazione della stessa chiesa (che ospita inoltre le spoglie mortali di Giorgio de Chirico).

Oggi, quella cappella ideata e portata a termine nel 1674 da Gian Lorenzo Bernini nel pieno della maturità a 76 anni (si dice gratuitamente, per ingraziarsi Papa Clemente X affinché acconsentisse al ritorno nei territori pontifici del fratello dell’artista, esiliato in seguito a un’accusa di stupro) è rinata di nuova luce grazie a un fine restauro di sei mesi operato dalla Soprintendenza Speciale di Roma.

In niveo marmo di Carrara, la statua della beata presenta il volto con la bocca dischiusa e gli occhi in su – come è d’uopo nelle figure che rappresentino misticismo e trascendenza –, e le membra candide colte in un attimo di spasmo per l’estasi. Insieme alle vesti e ai pizzi cesellati del cuscino su cui poggia il capo, tutto ha ricuperato lucentezza. Sotto, il drappo scolpito nel diaspro rosso con frange di bronzo dorato realizzato più tardi ma su disegno di Bernini ricopre il giaciglio (il sepolcro in sé). Completa la scenografia architettonica della cappella una pala d’altare che ritrae Sant’Anna commissionata da Bernini a Giovan Battista Gaulli (detto il Baciccio) ancora in buono stato, e una ricca decorazione in stucco dorato dalla quale si staccano dieci puttini bianchi in volo che, entrambi gli elementi testé restaurati, attorniano e sottolineano la centralità evocativa della statua su cui si possono leggere i tipici segnali della mano di Bernini.

Le operazioni di pulitura di questo marmo – chiarissimo esempio della fusione di sensuale e mistico propria del Barocco – hanno portato in evidenza la modalità di lavoro del maestro, che agiva sul marmo delle sue statue con finiture diversificate, dal lucido al grezzo, in modo da permettere alla luce di rendere evidenti i chiaroscuri, come se usasse un pennello. In più, levigava al massimo le parti visibili, lasciando quasi intatto il retro di un’opera. Si è scoperto, infine, che per eternare la vita della religiosissima Ludovica Albertoni, Bernini creò questa statua a partire da un blocco di marmo unico.

 

 

Restauro Cappella Albertoni

Roma, Chiesa di San Francesco a Ripa