Ritorna la Berlino di Bernie Gunther, un vero classico dell’hardboiled

Non è tanto difficile immaginare l’hardboiled trapiantato nella Germania nazista. Originale, ma non stravagante. Con tanto di citazione da parte di uno dei numeri due del regime nazista, Göring: “Ho sempre voluto conoscere un vero investigatore privato, disse. Mi dica ha mai letto i romanzi di Dashiell Hammett? È americano, ma secondo me è eccezionale”. L’interlocutore del gerarca di Hitler è Bernhard Gunther detto Bernie, ex poliziotto. Siamo nella Berlino del 1936, l’anno delle Olimpiadi, e Gunther indaga su un duplice omicidio: la figlia di un magnate teutonico dell’acciaio uccisa insieme al marito. La loro casa è stata incendiata e i corpi bruciati.

Ovviamente il detective è un irregolare cinico di cuore, un tipo solitario rimasto vedovo e che cede facilmente al fascino femminile. Il magnate, di nome Six, lo assolda per recuperare dei gioielli che erano nella cassaforte della coppia. Ben presto però Bernie scopre che l’affare è di vasta portata e investe la lotta al vertice del regime tra Goring e Himmler. Una storia piena di cadaveri, che evidenzia pure l’elevato tasso di corruzione del regime tedesco: “Il governo ha rivelato parecchi casi di corruzione in cui erano coinvolti vari partiti politici della Repubblica di Weimar, ma non erano niente a confronto di quel che succede ora. Agli alti livelli la corruzione prospera, e lo sanno tutti”. Gunther è antinazista e i suoi casi di solito sono la ricerca di ebrei scomparsi. Violette di marzo, cioè gli affiliati nazionalsocialisti dell’ultimo momento, è ormai un classico del genere (uscito nel 1989) e torna in libreria per Fazi . È il primo volume della trilogia berlinese di Bernie Gunther scritta da Philip Kerr, scomparso un anno fa.

 

 

Violette di marzo

Philip Kerr

Pagine: 317

Prezzo: 15

Editore: Fazi

La scrittura ci rende umani

La vera sfida è rimanere umani. E scrivere può aiutare ad affrontarla. Persino a vincerla, forse. È questo, in una riga, il senso tutt’altro che banale di Stringere la mano a Dio, imperdibile “conversazione sulla scrittura” con Kurt Vonnegut e Lee Stringer, appena pubblicata da Bompiani.

Due grandi. Conosciuto, giustamente, il primo – tra i giganti del Novecento; semisconosciuto, ingiustamente, il secondo, dotato di un’intensità espressiva che porta Vonnegut a paragonarlo a Jack London. Il suo Inverno alla Grand Central (Nottetempo, 2008) è un “libro stupendo”: parola di KV. Motore della scrittura? Il dolore, elemento qualificante la condizione umana. “Grazie a Dio – ricorda Vonnegut – ero a Dresda quando è stata rasa al suolo”. Altrimenti, confessa, “non so in che tipo di impresa mi sarei potuto lanciare”. Già il fatto di riuscire e restare umani è una sfida, gli fa eco Stringer, segnato dalla sua esperienza di homeless e dal crack. “Ci svegliamo ogni mattina – spiega – in un ambiente alieno”. Di certo non l’ambiente nel quale – né per il quale – l’uomo è stato creato: “Un caotico, palpitante, frenetico, ronzante, vorticoso, pazzo ambiente alieno”.

Scrivere è salvagente, bussola e terapia. Le “bizzarre combinazioni su righe orizzontali di 26 simboli fonetici, dieci numeri e circa otto segni di interpunzione”, come le definisce Vonnegut, sono le note blues alle quali gli esseri umani affidano il grido di dolore che deriva dall’essere consapevoli del fatto che di vita si muore. Il mattone che scagliano contro il vetro, pazzi per l’impossibilità di colmare la distanza che c’è tra l’infinito che sentono, e una realtà nella quale ogni cosa è finita. Ne deriva che, quando non è fine a se stessa, la scrittura è terapia. “Un modo per migliorare se stessi”. “Gli scrittori sono fortunati – sottolinea Vonnegut – perché possono curare le loro nevrosi ogni giorno, scrivendo”. E perché sanno – evidenzia Stringer – che “anche il peggio che ci può capitare è un’opportunità, contiene delle possibilità”.

Terapia e persino salvezza. Individuale, però. “Sono stato a malapena in grado di salvare me stesso”, ricorda. “Salvarmi – aggiunge – è un lavoro che mi occuperà per tutta la vita, non so se arriverò mai ad avere il tempo o i mezzi necessari a aiutare qualcun altro”. La letteratura? “L’unica forma d’arte che esige un pubblico composto a sua volta di artisti”. Ma anche ricerca di qualcosa che dia “un minimo di soddisfazione oltre ai soldi”: qualcosa che faccia la differenza. Scrivere? È “come stringere la mano a Dio”, spiega Stringer. Anche se, chiosa Vonnegut, ogni scrittore “preferirebbe essere un musicista”, perché la musica “dà piacere in un modo al quale noi non arriveremo mai”: è “la prova dell’esistenza di Dio”.

Solo un punto desta perplessità: l’idea che i romanzieri non provino invidia l’uno per l’altro. “È come se fossimo veterani della stessa battaglia – spiega Vonnegut – e condividessimo il ricordo dell’inferno che è stata”. “Compagni d’armi”, conferma Stringer. Immagine bellissima. Con tutto quello che si sente e si legge, però, viene da pensare che o quella similitudine è pura poesia o “stringere la mano a Dio” è privilegio davvero rarissimo.

 

 

Stringere la mano a Dio

Kurt Vonnegut e Lee Stringer

Pagine: 80

Prezzo: 12

Editore Bompiani

“The Good Place”: quant’è cool la filosofia di Sartre e Kierkegaard

Far ridere parlando per quattro stagioni di filosofia e della vita dopo la morte. Dopo BoJack Horseman e prima di Homeland, un’altra delle serie tv più ambiziose degli ultimi anni giunge al suo capitolo finale: The Good Place (la quarta e ultima stagione da domani su Premium Stories; le prime due sono disponibili anche su Netflix).

La serie comincia con la morte di Eleanor, che dopo aver condotto una vita dissoluta finisce per errore nella Parte buona, una sorta di paradiso in cui ognuno vede i propri desideri esauditi. Eleanor viene assegnata alla sua anima gemella, Chidi, un professore universitario di etica e filosofia morale. I due non hanno nulla in comune, come nulla hanno in comune la ricca socialite Tahani e il silenzioso Jianyu, un finto monaco buddhista la cui vera identità è quella di un deejay e spacciatore di Jacksonville. Possibile che Michael, l’essere immortale che ha creato la Parte buona, abbia commesso tutti questi errori? No, infatti. Michael è in realtà un demone che proviene dalla Parte cattiva (l’inferno) e che ha progettato questo finto paradiso per punire i quattro protagonisti, scelti perché perfetti per torturarsi a vicenda per l’eternità.

Utilizzando i codici e il linguaggio della commedia – siccome nella Parte buona non si possono dire parolacce “fuck” diventa “fork”, “bitch” diventa “bench”, eccetera eccetera – lo showrunner Michael Schur ha dato vita a una serie impegnata che affronta i temi su cui si sono arrovellati i grandi filosofi. La prima stagione prende ispirazione dal dramma teatrale di Jean-Paul Sartre A porte chiuse, famoso per la frase “L’inferno sono gli altri”. Nella seconda c’è un episodio in cui si approfondisce il Problema del carrello ferroviario di Philippa Foot. Se il personaggio di Chidi diventa il pretesto per citare Kant, Kierkegaard e Aristotele, come ha ammesso lo stesso Schur la spina dorsale della serie è costituita dal libro What we owe to each other dell’americano T.M. Scanlon. È vero quello che ha scritto il Guardian: “The Good Place trasforma la filosofia in una cosa cool”.

 

Poco orgasmo, molto pregiudizio

Più che lo spettacolo conviene recensire il pubblico: mai visto tanto entusiasmo e ilarità mentre si parla di peli, di gemiti e di sederi, in poche parole di sesso. Orgasmo e Pregiudizio – scritto e interpretato da Fiona Bettanini e Diego Ruiz, con la regia di Pino Ammendola e Nicola Pistoia – è un piccolo fenomeno della scena teatrale, in replica da vent’anni, in tour ancora oggi ed esportato anche all’estero (al momento a Londra).

La trama è pretestuosa, ma efficace: per colpa di un piccolo intoppo – lo smarrimento delle chiavi dell’auto – due amici di vecchia data, entrambi fidanzati, si ritrovano nella stessa stanza in un pacchiano motel sull’autostrada. Mezzi nudi e per nulla assonnati, Fiona e Diego condividono, oltre il letto, le chiacchiere a tarda notte: gli argomenti – pensosi, ma più penosi – vanno dal punto G al clitoride, dalle dimensioni dei genitali maschili ai luoghi insoliti dell’amplesso (ad esempio l’esotico tavolo della cucina), dalle fantasie condivise (orge) a quelle solitarie (onanismo).

Equivoci triviali, facili doppisensi, battute innocue, se non parrocchiali; ciononostante le signore in platea ridono di gusto, ma è tutto di dubbio gusto, anche in senso letterale: chi ha deciso, per esempio, che il petto glabro e i muscoli ipertrofici piacciano alle donne? Perché i gay – o gli slip tigrati per uomo – suscitano sghignazzi? Perché “se noi donne a letto fossimo sincere creeremmo un esercito di complessati”?

In quasi due ore di recita, orgasmo poco, pregiudizio molto. E l’allestimento non aiuta di certo, con quel letto kitch in proscenio, le lenzuola rosse, il telefono a forma di mano, le abat-jour con i cuori, le pose sgraziate, le mutande buffe. Ma bisogna pur far ridere; tra tutte, le gag più esilaranti sono quelle sui film porno o su 9 settimane e ½: momenti di comicità pura, genuina, priva di pruderie o malizia stucchevoli. La parodia deve per forza essere divertente, il sesso non necessariamente, soprattutto se – come qui – è giocato sui luoghi comuni: il finale è fin sgradevole, scadendo proprio nello stereotipo dello stereotipo sui ruoli in commedia, ovvero gli uomini e le donne (gli eterosessuali?) a letto. A salvare il pastiche ci pensano comunque i due interpreti, dall’indubbio talento comico e affiatamento scenico.

Che dire? Molto rumore per nulla, laddove quel nulla sta per le pudenda femminili: Shakespeare l’aveva già detto.

 

 

Orgasmo e Pregiudizio

Pino Ammendola e Nicola Pistoia

Fauglia (Pi), Teatro Comunale, stasera; Bologna, Teatro Dehon, domani; Campiglia Marittima (Li), Teatro dei Concordi, domenica; Albenga (Sv), Teatro Ambra, lunedì; Predazzo (Tn), Teatro Comunale, 14 febbraio; Sant’Agata di Militello (Me), Teatro Aurora, 20 febbraio; Alcamo (Tp), Teatro Cielo, 21 febbraio; Caltanissetta, Teatro Margherita, 23 febbraio; Sinnai (Ca), Teatro Civico, 28 febbraio; Montopoli in Sabina (Ri), Teatro San Michele Arcangelo, 1° Marzo

 

Addio a Kirk, uno “Spartacus” di 103 anni da oscar “gelato”

La fossetta, gli occhi penetranti, il fisico atletico: nell’immaginario collettivo è fissato così, mentre ispeziona le trincee di Orizzonti di gloria o capeggia la rivolta di Spartacus davanti alla macchina da presa di Stanley Kubrick. Se n’è andato a 103 anni Kirk Douglas, che – ha detto il figlio Michael – “per il mondo era una leggenda, ma per me, i miei fratelli Joel e Peter era semplicemente papà”.

Tre candidature e un Oscar alla carriera nel 1995, sul set era dispotico e fumantino, politicamente si provò tosto progressista, tanto da sfidare apertamente il maccartismo facendo lavorare il proscritto Dalton Trumbo: la famigerata Black List fu lui a stracciarla, in fondo.

Bravo, bello e iconico, è stato la quintessenza dell’età dell’oro hollywoodiana e del sogno americano stesso, cui approdò da “figlio di un venditore di stracci” (l’ebreo bielorusso Herschel Danielovitch emigrato ad Amsterdam, New York), come recita l’autobiografia. Asso nella manica di Billy Wilder, pugile in Champion, bruto (e la bella) e Van Gogh (Lust for Life) per Minnelli, è stato Ulisse per il nostro Camerini – in Italia anche Un uomo da rispettare di Michele Lupo e Holocaust 2000 di Alberto De Martino – e ha accettato la Sfida all’O.K. Corral di John Sturges.

Da Spielberg alla cognata Catherine Zeta-Jones, oggi lo piange mezza Hollywood, la stessa che per la Statuetta, onoraria, lo fece aspettare ottant’anni. Ma lui l’Academy Award l’aveva già vinto: “Volevo diventare un attore fin da quando ero bambino. Mia madre mi diede un grembiule nero e io interpretai un calzolaio. Dopo lo spettacolo, papà mi regalò il mio primo Oscar: un cono gelato”.

L’opale nero e la tragedia dell’uomo ridicolo

Un viaggio psichedelico che parte attraversando le trasparenze di un opale e prosegue nel colon di uno spregiudicato gioielliere ebreo newyorchese, sottoposto a endoscopia prima che l’isteria della metropoli lo inglobi in un labirinto senza uscite. Benvenuti nel cinema puro di Uncut Gems (in italiano Diamanti grezzi) dei fratelli Josh & Benny Safdie, dal 31 gennaio su Netflix, peccaminosamente mai uscito nelle sale italiane, osannato dal mondo critico e boicottato dai premi istituzionali.

Perché scoprire il gioiello equivale a denunciare lo scandalo. Surreale infatti risulta l’esclusione del quarto lungometraggio dei Safdie Bros da ogni categoria degli imminenti Oscar e dei precedenti Golden Globe. E non si tratta di un accanimento vs Neflix, bensì di una presa di posizione “accademica” (ma anche della Foreign press a Hollywood) nei confronti di soggetti evidentemente “scomodi” all’establishment benpensante, a partire da quell’Adam Sandler (superlativo protagonista) ritenuto ancora troppo low profile, “recita in commediacce” lamentano i più paludati membri dell’Academy. Eppure. Non solo la Mostra veneziana aveva accolto i fratelli newyorchesi in concorso (dove furono acclamati) col precedente Good Time (2017) ma è un fatto che Uncut Gems sia stato osannato al Telluride lo scorso agosto sbancando ai contest più cinephile del circuito (i vari Critics’ circles, Satellite, Reviews awards…) ma “limitato” da un’uscita “selettiva” americana a Natale: è chiaro che i giovani bros (classe ’84 e ’86) siano recepiti come “troppo indie”. Ben venga, allora, l’oltre 90% delle critiche positive aggregate sui vari Rotten Tomatoes e Metacritic, preziosi filtri di sostanza a qualità.

Al centro è la tragedia di un uomo ridicolo o la commedia di un uomo tragico che mutar si voglia, vittima e carnefice nel circolo losco dei preziosi, gioielliere joker che contiene ogni contraddizione, incapace di evitare i guai o sfigato al momento giusto. Il suo ebraismo è croce e delizia, la famiglia come potente gabbia dorata, l’amante/commessa come via di fuga, l’attrazione fatale per le scommesse ma soprattutto per le gemme, specie se arrivano da miniere etiopi (estratte da “minatori africani ebrei”!) e hanno la forma di un gigantesco opale nero, bello da far girare la testa a un campione dell’Nba suo cliente, Kevin Garnett nei panni di se stesso. Sandler sembra fatto della stessa materia di questo film così organico, palpitante di adrenalina che alimenta un circolo vizioso e spietato: anche l’attenzione dello spettatore diventa complice, ansimando dietro alle corse paranoiche di un protagonista respingente, un codardo e cinico azzeccagarbugli seppur dotato di irresistibile fragilità. Ci sono voluti 10 anni, e Scorsese con Scott Rubin a co-produrre, ai Safdies per costruire quest’opera mirabolante, illuminata in 35mm da Darius Khondji e ipnotizzata dalla musica del sodale elettro-sperimentatore Daniel Lopatin, in arte Oneohtrix Point Never. Insomma, Uncut Gems è uno dei film dell’anno.

Ariston? Per Morgan è Carnevale

Che Morgan fosse particolarmente agitato si è capito da un collegamento di inizio settimana con la trasmissione di Caterina Balivo. L’ex frontman dei Bluvertigo ha messo in scena una sottospecie di imitazione di Junior Cally presentandosi a volto coperto: “Io le donne le violenterei tutte”. Visibilmente contrariata, l’incolpevole Balivo ha interrotto quella che secondo Morgan era una “provocazione”.

Ora, di questa cosa incredibilmente non si è parlato, mentre per una vecchia canzone di Junior Cally sono stati spesi fiumi d’inchiostro con tanto di petizioni di parlamentari che chiedevano la sua esclusione da Sanremo. Nei corridoi si narra di telefonate agli autori alle quattro del mattino e scene di ogni tipo alle prove (le malelingue sussurrano che si voglia far cacciare). In un crescendo rossiniano ieri mattina alle 6:20 ai giornalisti è arrivata una “lettera alla Rai” firmata dall’avvocato di Morgan. Nella missiva si parlava di “un calvario creato da ostacoli concretizzati in continue azioni di sabotaggio”, che gli avrebbero impedito di provare adeguatamente il suo brano per la serata di ieri. Il busillis è l’esecuzione di Canzone per te di Sergio Endrigo. Morgan ha posto alla Rai diverse condizioni: poter “recuperare” due sessioni di prove e che fossero solo Amadeus e il Cda Rai (ma che davero?) ad approvare il tutto. Come si è arrivati a questo Carnevale? Pare che Morgan, all’inizio dell’avventura sanremese, volesse il duetto con Raffaella Carrà, ipotesi non concretizzata. Poi con Sergio Cammariere, che aveva accettato ma è sorto un problema sulla tastiera. L’altra scelta era Vittorio Sgarbi, che oltre a non essere un cantante è un parlamentare. Enfin, la scelta è caduta sulla band perugina dei Fast Animals and the Slow Kids, che in effetti sono arrivati qui ma non hanno trovato l’accordo sull’arrangiamento. La Rai, nella persona di Stefano Coletta, ha dato la massima disponibilità. Facendo presente che a un certo punto, però, si deve andare in onda…

Il Festival di Amadeus: da sessista a femminista

Il Festival è delle donne, senza nessun dubbio. Dopo Rula, sul palco della terza sera arrivano le regine della musica: Elisa, Gianna Nannini, Fiorella Mannoia, Laura Pausini, Giorgia, Emma, Alessandra Amoroso insieme per lanciare un grande concerto settembrino di beneficenza a favore dei centri antiviolenza. E così il Sanremo sessista diventa, senza dubbio, il più femminista di sempre. Ma il Festival di Ama (ormai tutti lo chiamano così) è anche la festa dell’Amicizia (come ai bei tempi della Diccì), dell’Amore (come il “potente monologo” di Benigni, annunciato sin dal mattino) e dei parenti (mai serpenti). C’è la mamma di Giordana Angi, il figlio di cui canta Paolo Jannacci, il nipotino di nonno Pelù. C’è Georgina, fidanzata di Cristiano Ronaldo (amorevolmente in prima fila). E le figlie di Laura Chimenti a cui la giornalista del Tg1 ha regalato una lettera: “Amori miei, se questo fosse un tema da svolgere in classe il titolo sarebbe ‘La nostra famiglia’. Cosa c’è di più rassicurante di quel nido accogliente dove non vediamo l’ora di tornare la sera?”.

Probabilmente, data l’ora in cui è andata in onda (1.30 di ieri) loro erano già a letto, e la missiva poteva tranquillamente essere riservata al più intimo contesto del nido accogliente, essendo quanto a dolcezza troppo hard per il pubblico adulto ancora in stato di veglia. Come ninna nanna avrà funzionato per i pochi che eroicamente avevano resistito a quella prova di sopravvivenza che è stata la seconda serata del Festival, durata dalle 20.30 fin quasi fino all’1.45 (praticamente in daytime). Amadeus, che ha dimostrato umiltà e una notevole padronanza dell’insidioso palco dell’Ariston (del resto, le cazzate le ha dette tutte prima) ha pubblicamente fatto mea culpa per la lunghezza della puntata, promettendo di correre ai ripari (ma ieri la chiusura della serata prevista alle 2). Anche perché da ora le canzoni sono 24 (domani addirittura 28, ci sono anche i giovani) e si rischia l’effetto cappuccino. O l’incriminazione per sequestro di persona. Però questa lunga messa, autocelebrativa e infantile, con pochi sprazzi di ironia e intelligenza (Fiorello, grazie) continua a funzionare: 9.692.000 spettatori, con uno share del 53,3%, una seconda serata record che si piazza al primo posto della storia dal 1995. Del resto la reunion dei Ricchi e poveri ha fatto il 63 per cento. A proposito di ricchezza: l’ad Fabrizio Salini ha spiegato che questa edizione “sul piano del fatturato pubblicitario è la più redditizia della storia”. Record su record. E dire che nei mesi scorsi si sosteneva che Ama non poteva battere il Festival autarchico di Baglioni. Ma di Baglioni si diceva che mai avrebbe fatto meglio del tris delle meraviglie di Carlo Conti… Sull’edizione 2021 Salini non si è sbilanciato: “Non ci abbiamo ancora pensato”. Fiorello però ha chiarito che passata questa buriana, lui di Sanremo non ne farà più. E dunque, in un eventuale Ama bis, mancherebbe un pezzo significativo. Il rischio delle puntate sterminate era quello di stancare, eppure le persone non si stancano. Non si stancano spiaggiate sul divano di casa, né per le vie di Sanremo stracolme di residenti e turisti che si affollano con stupefacente pazienza e ardore dietro le transenne disseminate per tutto il centro. Ci sono più varchi, posti blocco e metal detector che al Pentagono (ci sono le vie pedonali a senso unico!). Perché il Festival quest’anno è una maratona così faticosa? A forza di dire che Amadeus non reggeva le cinque serate ha vinto il tutti dentro, con il risultato che c’è più contorno che arrosto. “Volevo fare bella figura”, ha ammesso il conduttore, “un po’ come mia nonna quando ci invitava a pranzo a casa”. Per la maratona però bisogna essere allenati e martedì uno sfiatato Tiziano Ferro ha stonato una battuta poco felice su Fiorello, lanciando dal palco l’hashtag #fiorellostattezitto. Rosario, a cui si può imputare solo la grande generosità verso il Festival, pare non aver gradito affatto. Tiziano era stanco, ha spiegato un costernatissimo Amadeus: “Le battute all’una di notte possono anche non risultare brillanti”. Cosa ha irritato Ferro? Probabilmente il fatto di aver cantato troppo tardi, circostanza non imputabile a Fiorello (e comunque i cabbasisi è meglio non farseli girare in mondovisione). Insomma, gli amici dell’amico Ama sono ai ferri corti, tanto che pare siano volate parole grossissime e financo lacrime. Basteranno le lusinghe dei vertici Rai a blandire il giamburrasca siciliano? Per non rischiare, Tiziano si è scusato: “Caro Fiorello ti chiedo scusa se ti ho provocato un dispiacere. Torno a fare il cantante #tizianostattezitto”.

Iowa, che botta! I voti sono da ricontare

Il giorno dopo l’assoluzione da parte del Senato, Donald Trump ne ha per tutti: per i democratici (“Politici corrotti hanno fatto di tutto per distruggerci, la mia famiglia, il presidente, il Paese”) e, soprattutto per Nancy Pelosi, la speaker della Camera (“È una persona orribile”), per Adam Schiff, il presidente del collegio d’accusa (“Una persona cattiva”) e per Mitt Romney, l’unico senatore repubblicano che gli ha votato contro (“Non mi piacciono quelli”, come lui e la Pelosi. che “usano la fede per coprire le proprie cattive azioni”).

Per i Dem poi c’è la tegola Iowa: il capo del comitato nazionale democratico, Tom Perez, ha chiesto ai funzionari del partito di “cominciare immediatamente un riconteggio” dei voti ai caucus che si sono tenuti lunedì nello stato del Midwest, dopo giorni di ritardi e incongruenze. L’offensiva verbale di Trump si svolge in due tempi: di buon mattino, quando partecipa al National Prayer Breakfast, e poi alle 12, quando si rivolge alla nazione in diretta tv dalla Casa Bianca. Dei democratici, l’unica reattiva è Pelosi: il discorso sullo stato dell’Unione del presidente era “un manifesto di bugie”, e, a chi le contesta di averlo platealmente stracciato, replica: “Lui ha stracciato la nostra Costituzione”.

Gli altri leader democratici tacciono, impegnati a leccarsi le ferite del boomerang dell’impeachment e del disastro dei caucuses dello Iowa, dove la conta dei voti, da lunedì, non è finita e dove ancora non si sa chi ha vinto. Quando sono stati scrutinati il 97% dei suffragi, il distacco è veramente minimo tra Pete Buttigieg al 26,2% e Bernie Sanders al 26,1%. Seguono Elizabeth Warren 18,2%, Joe Biden 15,8%, Amy Klobuchar sopra il 12%.

Il New York Times e altri media s’interrogano, a questo punto, sull’attendibilità dei risultati, che sono “zeppi di contraddizioni”. Intanto, i candidati alla nomination si preparano al dibattito di questa notte nel New Hampshire: martedì 11, le primarie. Parlando alla nazione, Trump ripete concetti più volte espressi, ma ora legittimati dall’assoluzione: l’impeachment è stata una vergogna nazionale, lui non ha fatto nulla di male. “Non so se un altro presidente sarebbe riuscito a superare questa situazione, una grande ingiustizia portata avanti da gente bugiarda … Sapevano che ero innocente, ma volevano arrecarmi un danno politico”.

Il magnate presidente ha anche rinvangato la “caccia alle streghe” del Russiagate, affermando che “Hillary Clinton e il partito democratico raccolsero milioni di dollari per danneggiarmi”.

La campagna per la rielezione di Trump s’è subito messa in moto per capitalizzare la vittoria sull’impeachment. I democratici s’impegnano a tenere sotto scacco il presidente, ma sanno che il voto di mercoledì segna ‘game over’. L’impeachment è sfumato, ammesso che sia mai stato qualcosa più di un pio desiderio democratico: il voto del Senato è una pietra tombale. Adesso, è facile dire che la mozione di censura sarebbe stata una scelta più saggia, perché una maggioranza di senatori disposti a dire che Trump nel Kievgate s’è comportato male, senza pretendere d’arrivare alla rimozione, si poteva trovare. Gli analisti notano un paradosso: “Il presidente che voleva condurre a temine le guerre senza fine oltremare resta al centro di una guerra senza fine in patria, una guerra che d’ora in poi si combatterà sui sentieri della campagna e che si risolverà solo nell’Election Day il 3 novembre”. Ma i campioni di cui i democratici dispongono hanno le fattezze di tanti Ettore di fronte all’Achille repubblicano.

Presidente per un giorno solo, via il “traditore” amico dell’Afd

In pochi conoscevano il suo nome e in pochi, forse, lo ricorderanno tra qualche giorno: lui è Thomas Kemmerich, 55 anni, ministro-presidente per un giorno del Land della Turingia. Il primo governatore di un Land eletto con i voti determinanti di un partito di estrema destra come Alternative fuer Deutschland dal dopo guerra ad oggi in Germania. Un solo giorno è durato il suo mandato prima che le onde telluriche scatenate dalla sua elezione gli si ritorcessero contro, costringendolo al passo indietro. “Lo scioglimento del Landtag è inevitabile e le dimissioni del presidente sono inevitabili”: ha detto il deputato di Aquisgrana del partito liberal-democratico, annunciando la richiesta di scioglimento del consiglio del Land e nuove elezioni, dopo un confronto faccia a faccia con il leader nazionale del suo partito Christian Lindner.

Troppo forte si era levato lo sdegno al livello nazionale per la spregiudicatezza della mossa dei liberali che avevano scelto un patto con il diavolo, pur di tornare al governo.

“Come si è potuto arrivare a tanto? A farsi eleggere con i voti dei fascisti?” si è chiesto ieri il presidente federale della Linke Bernd Riexinger. Per capirlo bisogna fare due passi indietro. Il primo risale al 27 ottobre scorso, data delle ultime elezioni in Turingia. In quell’occasione i liberali ottengono 5 deputati sui 90 rappresentati al parlamentino del Land, il Landtag. L’Fdp riesce a stento a raggiungere la soglia minima del 5%. Un destino in caduta libera che i liberali della Turingia condividono con i colleghi degli altri due Laender dell’Est al voto d’autunno, Sassonia e Brandeburgo. Il secondo passo indietro risale a due anni fa, al periodo della formazione dell’ultimo governo Merkel. Dopo mesi di trattative i liberali rifiutarono di entrare al governo di coalizione con i conservatori della Cdu-Csu e con i Verdi. Rimase storica l’affermazione con la quale Lindner decise di sfilarsi: “meglio non governare affatto, che governare male”.

Da allora i consensi dei liberali si sono dimezzati passando dal 10,7% delle elezioni federali del 2017 al 5,4% delle europee del 2019. Il desiderio di riscatto era quindi sicuramente forte. Tanto che il numero due del partito, il padre nobile dei liberali Wolfgang Kubicki ha esultato a botta calda per l’elezione in Turingia: “È un grandioso risultato per Kemmerich, un candidato del centro democratico”.

Il leader dei liberali, Lindner, invece nelle prime dichiarazioni è parso imbarazzato dal voto che ha portato a convogliare i voti dell’Afd sul candidato liberale. Quello che è accaduto “non è stato in mio potere” ha spiegato ma “si è trattato di una manovra tattica” dell’Afd. Quasi fosse un beffardo scherzo del destino. Non ci crede però Bodo Ramelow , l’uomo che ha ottenuto il 31% dei voti alle ultime elezioni, il ministro-presidente uscente della Linke: “Quella votazione è stata chiaramente preparata”, ha detto ieri a Der Spiegel. “Sono profondamente e umanamente deluso” ha continuato Ramelow perché gli esponenti della Cdu locale Mike Mohring e del Fdp Thomas Kemmerich “hanno preferito governare con i fascisti che non governare affatto”, ha dichiarato parafrasando con voluta ironia la celebre frase di Lindner. A Berlino il passo indietro dello sconosciuto Kemmerich è accolto con un sospiro di sollievo dai partner di coalizione. Il problema non era solo dei liberali, anche la Cdu era dentro fino al collo nella partita in Turingia, essendosi prestati al gioco di sostenere il candidato liberale, consapevoli di giocare “con il fuoco”.

C’è voluta la dichiarazione della cancelliera Angela Merkel in visita di Stato in Sud-Africa per riportare la barra dritta su un tema tanto scottante. Quello che è successo “è imperdonabile, la Cdu non può fare parte di un governo che ha l’appoggio esterno dell’Afd”