“I furbetti del Reddito avevano anche il Rei, ma nessuno vedeva”

“I furbetti del Reddito di cittadinanza? C’erano anche prima e percepivano il Reddito di inclusione, ma nessuno se ne accorgeva”. Il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, quasi non ci crede quando racconta i dati dei cittadini che hanno fatto domanda per il Reddito di cittadinanza, dichiarando falsi redditi – tra di loro è stato trovato anche il possessore di una Porsche da almeno 60 mila euro – e potendo così intascare l’assegno mensile.

“Abbiamo controllato 341 ‘furbetti’ del Reddito di cittadinanza – spiega il presidente dell’Inps – e tutti e 341 erano già beneficiari di Rei, ma non se n’era accorto nessuno. Il punto è che finché non si pagano le tasse si chiude un occhio, ma se si prende indebitamente il Reddito di cittadinanza si sparano i titoli sulle prime pagine”.

I casi finora scoperti sono in realtà poca cosa rispetto a 2,5 milioni di beneficiari. Ma come sono stati individuati? “La normativa ora è più rigorosa – dice Tridico – ed esiste una collaborazione molto operativa con la Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate, l’Anagrafica bancaria e l’Ispettorato. Con il Rei non c’era. Inoltre, prima la domanda avveniva attraverso i Comuni, seguiva procedure tradizionali più farraginose, con un intasamento enorme dei comuni, di persona, mentre oggi il meccanismo si snoda attraverso l’Inps in modalità telematica e si può fare domanda con un click”.

Chi non può o non vuole utilizzare la Rete può rivolgersi ai Caf o alle sedi territoriali. L’Inps va molto fiera della sua efficienza telematica e ora sottolinea la possibilità, dal 3 febbraio, di accedere via web alla pre-compilazione dell’Isee: “L’utente va sul nostro sito, e se accetta i dati che ci risultano, non deve fare altro, con un click fa domanda di Rdc o di tante altre prestazioni per le quali si fa la verifica dei redditi. Una grande innovazione simile al 730 precompilato”.

Così descritto sembra tutto bello e tutto buono. Eppure le polemiche sul Reddito di cittadinanza non finiscono mai e non sembra che la povertà sia stata ridotta. “I dati relativi al Rdc – spiega il presidente dell’Inps – ci mostrano che le risorse sono andate esattamente dove dovevano: alle famiglie in povertà e nelle aree con maggior disoccupazione. Il Reddito di cittadinanza raggiunge oltre 2,5 milioni di individui, ovvero 1,1 milioni di nuclei, ossia raggiunge quasi il 90% dei potenziali beneficiari. Il Rei nel periodo di massima espansione ha raggiunto circa 350 mila nuclei”: E poi: “L’introduzione del Rdc ha consentito una riduzione di circa 1 punto percentuale dell’indice di Gini e, quindi, della diseguaglianza di reddito, un trasferimento netto di circa 7,2 miliardi di euro ai due decimi più poveri della distribuzione”. Tridico su questo punto non si ferma: “Se prendiamo in considerazione il poverty gap, che misura in percentuale quanto al di sotto della soglia di povertà si trova il reddito medio dei soggetti poveri, vediamo che si è ridotto dal 39,2 al 31,7%, una riduzione di circa 8 punti”.

Ma l’obiezione principale al Reddito di cittadinanza è che non è stato in grado di avviare nuove persone al lavoro. Obiezione in parte strumentale, va detto, perché presuppone che per trovare lavoro sia sufficiente approntare uffici efficienti, come se l’occupazione fosse là fuori disponibile in attesa delle indicazioni giuste. Tridico lo sottolinea: “Senza investimenti produttivi volti a creare lavoro, nessun programma di politiche attive per il lavoro potrà fare miracoli. Perché le politiche attive per il lavoro funzionino, perché s’incontrino domanda e offerta di lavoro in altri termini, serve prima di tutto la materia prima: i posti di lavoro, la domanda di lavoro. E i posti di lavoro si creano solo con gli investimenti”.

Ma dunque per il futuro cosa sarà il Reddito di cittadinanza? E si può legare all’esigenza, condivisa da tutti, di una previdenza pubblica per i giovani soprattutto per quelli precari? Sulla prima questione, Tridico insiste ancora sugli “investimenti pubblici e privati e sulle opere infrastrutturali”. Mentre sul punto dei ‘buchi’ contributi per i più giovani “la pensione di cittadinanza è già un primo passo, ma è comunque legata all’Isee, mentre una vera pensione di garanzia dovrebbe essere individuale, anche se legata comunque ai contributi versati, e quindi integrata a fronte di un certo ammontare di contribuzione”. In ogni caso “serviranno altri due anni per poter trarre le prime conclusioni, ma a fine marzo organizzeremo un incontro pubblico per presentare le prime riflessioni dopo un anno di Rdc”.

Ilva, tregua per rinviare la causa e trattare

La trattativa è continuata fino a tarda notte ma, salvo stravolgimenti dell’ultim’ora, sull’Ilva di Taranto si arriverà a una tregua. Come previsto, si guadagna altro tempo per trovare un accordo, che però, al momento, sembra assai complesso da chiudere.

Stamattina i legali dei due contendenti – i commissari del governo italiano e Arcelor Mittal – chiederanno al Tribunale di Milano un rinvio del procedimento di almeno una decina di giorni. Il giudice Claudio Marangoni deve decidere sul ricorso d’urgenza presentato dai commissari contro il recesso con cui il colosso franco-indiano ha cercato di sbarazzarsi del siderurgico (di cui per ora è solo affittuaria). Dopo il rinvio di dicembre, dovranno presentarsi con una bozza di intesa, altrimenti Marangoni si pronuncerà. Le modifiche andranno poi inserite nel contratto di affitto e acquisizione degli stabilimenti attualmente in vigore.

In sostanza, l’accordo prevede che Mittal rimanga, almeno per un po’, e paghi parte del prezzo offerto nel 2017 per aggiudicarsi l’Ilva, cioè circa 1,8 miliardi. Di questi finora ha versato circa 180 milioni e adesso offre 1,2 miliardi per chiudere la partita. A conti fatti, uno sconto di quasi 400 milioni. Il nodo più rilevante restano però gli esuberi. Gli emissari di Mittal ne chiedevano 5mila (metà della forza lavoro), poi si è scesi a 3mila. Il governo è disposto a concederne meno di duemila, e non “strutturali”, ma da gestire con la cassa integrazione e con l’obiettivo di farli rientrare in fabbrica, così come i 1800 ancora in capo all’amministrazione straordinaria per le bonifiche.

Il vero kamasutra si raggiunge però nella struttura societaria che Ilva dovrebbe assumere nell’interazione tra il colosso e la mano pubblica. Mittal dovrebbe rimanere con il 51 per cento. Nel capitale entreranno soggetti statali, come Invitalia – la società per gli investimenti del ministero dello Sviluppo – e le banche creditritrici, che convertiranno parte dell’esposizione. La (parziale) ambientalizzazione del siderurgico passerà da una nuova società che gestira due forni elettrici alimentati da materiale preridotto per colare acciaio senza bruciare carbone da cui Mittal è esclusa e dove – oltre alla solita Invitalia – il governo sogna l’ingresso delle grandi partecipate pubbliche, come Snam e Fincantieri e spera si facciano vanti gli acciaieri italiani. L’obiettivo è produrre gli 8 milioni di tonnellate di acciaio senza le quali Ilva non sta in piedi.

Lo schema della doppia società nasconde il vero non detto della trattativa. Mittal, alla fine, se ne andrà. In sostanza si tratta di monetizzare la sua uscita e renderla meno traumatica possibile. Tutti si aspettano che alla fine il colosso ceda le sue quote alla newco, probabilmente a un prezzo simbolico e nel giro di un anno.

Detto dello schema, restano le difficoltà di tradurlo in pratica. Non è chiaro se Mittal cederà sugli esuberi, e non è escluso che – se alla fine di uscita si tratterà – il governo non alzi il prezzo, monetizzando anche la rinuncia a possibili cause per danni. A Palazzo Chigi, per dire, circolano cifre intorno ai due miliardi.

L’unica certezza, dopo due incontri tra il premier Giuseppe Conte e i Mittal e mesi di trattative, è che senza accordo alle parti non resterà che la pronuncia del Tribunale. Se fosse a favore di Mittal, per il governo la situazione si complicherebbe. Al contrario, la trattativa si sposterebbe solo sul prezzo d’uscita. Ipotesi che non dispiace a parte dell’esecutivo, a partire dal ministero dello Sviluppo.

Fiat sottostimò Chrysler: verserà al fisco 700 milioni

Italiana, americana od olandese. Con Fiat è sempre una questione di semantica. Come con il prestito convertendo Exor del 2005, gli Agnelli giocano con le parole. All’epoca non sapevano di manovre sul titolo Fiat che pure erano in corso. Oggi, invece, per Fca l’intesa raggiunta con l’Agenzia delle Entrate non è un’ammissione di colpa, ma un accordo con il fisco. Nei termini dell’intesa, la casa automobilistica riconoscerà 730 milioni all’amministrazione fiscale italiana per l’accertamento di 2,6 miliardi di asset aggiuntivi rispetto a quelli dichiarati dal gruppo nel 2014.

Il meccanismo dell’accordo, risulta al Fatto , permetterà a al colosso di evitare il pagamento di interessi e sanzioni (calcolati in 670 milioni). Il resto dei soldi, peraltro, non sarà pagato tutto e subito, ma verrà restituito attraverso la compensazione di perdite fiscali. In sostanza, per dirla con le parole del direttore finanziario del gruppo, Richard Palmer, non ci sarà alcun “impatto sul conto economico e sul bilancio a parte la riduzione delle imposte differite attive non rilevate”. Una buona notizia, visto che intanto le vendite del gruppo rallentano e la cosa si riflette sui conti 2019 del gruppo, diffusi ieri: i ricavi scendono del 2% (a 108,2 miliardi ) e l’utile è in brusco calo (-19% a 2,7 miliardi).

La vicenda è complessa e risale al 2014, quando Fiat acquistò il restante 41,5% di Chrysler per 4,35 miliardi, sulla base di una valutazione complessiva di circa 6,95 miliardi per l’intera compagnia automobilistica americana. Il trasferimento all’estero della sede (Fca ha base legale in Olanda e fiscale a Londra) fece scattare l’imposta che l’Italia riscuote sulle plusvalenze realizzate quando le società trasferiscono le proprie attività oltreconfine. Ma per l’Agenzia delle Entrate la quota di imponibile era sottovalutata per circa 5 miliardi, effetto della sottostima del valore di Chrysler compiuta allora dal Lingotto guidato da Sergio Marchionne. La differenza di valutazioni è gigantesca. Secondo il fisco italiano l’azienda Usa valeva 12,5 miliardi, per quella italiana solo 7,5 miliardi. A dicembre scorso, l’agenzia Bloomberg ha svelato che Fca ammetteva nel suo bilancio di aver subito un accertamento dall’Agenzia delle Entrate, che chiedeva al gruppo 1,3 miliardi di tasse non pagate. Per Fca, la contestazione però non stava in piedi. “Siamo fortemente in disaccordo con questa relazione preliminare e siamo certi che riusciremo a sostenere con successo una riduzione sostanziale della valutazione”, riferirono all’epoca dei fatti fonti ufficiali dell’azienda all’agenzia di stampa statunitense.

E, alla fine, l’ammissione di aver sottostimato i dati c’è stata, seppure indirettamente, nello stesso mese. Il 20 dicembre scorso, infatti, è arrivato l’accordo con il fisco. Le cifre sono state ridotte dopo un accertamento con adesione. È stato concordato che l’imponibile sottratto al fisco è stato di 2,5 miliardi e su questo andranno pagate imposte per 730 milioni. L’esborso, come detto, non sarà immediato: “Sarà completamente compensato da 400 milioni di perdite fiscali, incamerate in precedenza e da 2,1 miliardi di perdite fiscali italiane che non sono state rilevate nel bilancio”, ha spiegato Palmer. Nel 2014 Fca registrò forti perdite, che possono essere compensate in parte scontandole dalle imposte da pagare nei dieci anni successivi. Ora il gruppo ridurrà l’ammontare di quelle perdite, con l’effetto che già dal 2020 pagherà più tasse (fino ad arrivare alla cifra concordata). Così facendo non dovrà sborsare i soldi subito e, soprattutto, eviterà sanzioni e interessi per 670 milioni visto che l’utilizzo delle perdite parte dal 2014 e, quindi, per le norme italiane è come se Fca avesse pagato il dovuto tutto dall’inizio.

Pace fatta col fisco, insomma. Ma non con i lavoratori italiani che, come ricorda la Fiom, stanno cercando una nuova intesa con un’azienda in forte rallentamento in Europa (-10% i ricavi). “Il 2020 è un’incognita nei primi mesi dell’anno continuiamo a registrare l’uso di ammortizzatori sociali”.

Regeni, i pm: “Il silenzio del Cairo continua”

A quattro anni dalla morte di Giulio Regeni, il ricercatore torturato e trovato senza vita al Cairo il 3 febbraio 2016, l’Egitto continua a non collaborare con gli investigatori italiani. E la situazione non è mutata neanche dopo che, a settembre scorso, vi è stato il cambio del procuratore generale egiziano.

Dal Cairo, infatti, non è arrivata ancora alcuna risposta alla rogatoria inviata ormai dieci mesi fa dai magistrati romani, che nel dicembre 2018 hanno iscritto nel registro degli indagati cinque agenti della National Security Agency (l’intelligence egiziana) accusati di sequestro di persona in concorso.

Lo ha ribadito anche il procuratore capo facente funzioni di Roma, Michele Prestipino, sentito ieri in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni: “Per noi – ha detto – il punto centrale è quello della rogatoria dell’aprile del 2019 in cui chiediamo tre cose e sulla quale siamo in attesa di risposte”.

In quel documento si chiedono all’autorità giudiziaria del Cairo conferme in merito alla presenza a Nairobi, nell’agosto del 2017, di uno dei cinque indagati a Roma, il maggiore Sharif, che secondo un testimone avrebbe raccontato delle “modalità del sequestro di Giulio” nel corso di un pranzo. I pm hanno inoltre sollecitato agli omologhi egiziani l’elezione di domicilio degli indagati (tutti appartenenti agli apparati di sicurezza) e infine i dati sui tabulati telefonici.

L’ultimo incontro con i colleghi del Cairo, quindi, è avvenuto solo poco tempo fa: “Il mese scorso (durante la riunione tra investigatori che si è tenuta al Cairo il 14 e 15 gennaio, ndr) – ha aggiunto ieri Prestipino – il procuratore generale egiziano ha preso l’impegno di rispondere e ci sono stati chiesti dei documenti che abbiamo già inviato”.

In quell’occasione gli investigatori del Cairo hanno chiesto i tabulati di un’amica di Giulio Regeni. Atti che sono stati inviati pochi giorni dopo. Secondo quanto ricostruito dai magistrati capitolini, non vi è stata la stessa collaborazione da parte dei colleghi egiziani.

Tuttavia Prestipino ha ribadito che la Procura di Roma ha in mano indizi di reato sufficienti alle iscrizioni dei cinque agenti dell’intelligence egiziana e che quindi, al di là delle risposte che arriveranno, le indagini proseguiranno.

In Commissione parlamentare ieri è stato sentito anche il pm titolare del fascicolo aperto a Roma Sergio Colaiocco: “Non è certo che volessero far ritrovare il corpo di Giulio Regeni – ha spiegato –. La strada dove è stato trovato, è costeggiata da muraglioni alti 3 metri, per chilometri, e solo il fatto che un camioncino abbia forato in quel tratto di strada ha reso possibile individuare il corpo. È stato un fatto fortuito”.

Poca chiarezza secondo Colaiocco c’è stata anche da parte della professoressa inglese, tutor del giovane ricercatore. “Rimane un mistero – ha detto il magistrato – il motivo per cui la professoressa Maha Abdel Rahaman, insegnante di Giulio Regeni a Cambridge, non abbia mai voluto collaborare, a differenza di quanto fatto dall’Università e dalle autorità britanniche”.

Sul sequestro, Colaiocco invece spiega: “C’è stata di certo una premeditazione nel sequestro di Giulio – ha concluso –, ma ancora non abbiamo certezza del perché i fatti finora accertati siano andati in quel modo”.

“Violenza ingiustificabile Stefano Cucchi stava bene”

Stefano Cucchi sarebbe ancora vivo se la notte del suo arresto, il 15 ottobre 2009, non avesse subito un pestaggio brutale, “una violenza ingiustificabile” da parte di due dei tre carabinieri che lo avevano condotto in caserma per droga. Ormai è chiaro da tempo, ma adesso c’è il suggello della prima verità giudiziaria scritta nero su bianco nelle motivazioni della Corte d’assise presieduta da Vincenzo Capozza, che il 14 novembre ha condannato in primo grado quattro carabinieri, a vario titolo, per omicidio preterintenzionale e falso ideologico.

I giudici definiscono il verbale di arresto di Cucchi “un concentrato di errori, anomalie e inesattezze”. Il giovane “viene indicato con luogo e data di nascita a lui non pertinenti” e soprattutto non ci sono le firme dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale: “L’assenza dei due è funzionale alla cancellazione di qualsiasi traccia della drammatica vicenda avvenuta all’interno della caserma”.

Un passaggio forte delle motivazioni riguarda proprio la condotta di D’Alessandro e Di Bernardo: “È indiscutibile che la reazione tenuta” dai due carabinieri “sia stata illecita e ingiustificabile. Una azione violenta nel corso dello svolgimento del servizio d’istituto, per un verso facendo un uso distorto dei poteri di coercizione inerenti il loro servizio, per altro aspetto violando il dovere di tutelare l’incolumità fisica della persona sottoposta al loro controllo”. Con l’aggravante che “il fatto si è svolto in un locale della caserma ove nessuno estraneo poteva avvedersi di quanto stava accadendo, in piena notte, ai danni di una persona decisamente minuta e di compressioni fisica molto meno prestante rispetto a quella dei due militari”.

Ecco la ricostruzione della Corte: “Stefano Cucchi vivendo sino alla sera del 15 ottobre del 2009 in una condizione di sostanziale benessere, se non avesse subito un evento traumatico, nella sala adibita a fotosegnalamento nella caserma Casilina, non avrebbe sofferto di molteplici e gravi lesioni, con l’instaurarsi di accertate patologie che hanno portato al suo ricovero e da lì a quel progressivo aggravarsi delle sue condizioni che lo hanno condotto alla morte”.

I giudici si soffermano, inoltre, su un elemento fondamentale per motivare le condanne per omicidio preterintenzionale: la morte di Cucchi “fu originata dalla lesione in S4 (una vertebra, ndr) tale da determinare un’aritmia letale”. Bollano come “inconsistente” la tesi difensiva della morte per epilessia improvvisa, ipotesi pure “smentita” dagli esami clinici. La Corte, invece, parla di “indubitabili certezze” su come Cucchi sia morto, cioè per le conseguenze del pestaggio, ed esclude “che fossero intervenute cause sopravvenute da sole sufficienti a cagionare l’evento morte” come il rifiuto di assunzione dei farmaci da parte del giovane o cure mediche scarse.

Per falso, sono stati condannati, inoltre, a 3 anni e 8 mesi il maresciallo Roberto Mandolini e a 2 anni e mezzo Francesco Tedesco. Quest’ultimo è il carabiniere che dopo quasi 10 anni ha raccontato del pestaggio dei colleghi. È ritenuto “credibile” dai giudici che trovano pure “comprensibile e ragionevole” la spiegazione fornita sul suo lungo silenzio: “Ha sottolineato il muro che aveva avuto la certezza gli si fosse parato dinnanzi, costituito dalle iniziative dei suoi superiori, dirette a non far emergere l’azione perpetrata ai danni di Cucchi, e a non perseguire la volontà di verificare che cosa fosse realmente accaduto” la sera in cui fu arrestato.

Infatti, per arrivare a questa sentenza ci sono voluti 10 anni, la tenacia del pm Giovanni Musarò e soprattutto della famiglia Cucchi. La sorella Ilaria in testa e l’avvocato di parte civile Fabio Anselmo. Sui depistaggi per la morte di Cucchi è cominciato un altro processo con l’Arma finalmente parte civile: sono imputati otto ufficiali e semplici carabinieri. Fra loro il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti il comandante del Gruppo Roma ed ex capo dei corazzieri del Quirinale.

Un caso sospetto tra gli italiani in quarantena

Potrebbe essere positivo al Coronavirus l’italiano, lombardo, sui 30 anni ricoverato da ieri pomeriggio all’ospedale “Lazzaro Spallanzani” di Roma. Saranno gli ultimi accertamenti “in corso” a dare il responso definitivo. L’uomo era uno dei 56 cittadini italiani rimpatriati il 3 febbraio dalla zona di Wuhan con un volo militare, messi poi in quarantena nella “città militare” della Cecchignola, sempre nella Capitale. Il serio rischio, come si apprende da fonti della Protezione civile, è che ora gli altri 55 connazionali possano essere costretti a ricominciare il periodo di isolamento, facendo partire da oggi i 15 giorni, cosa che avrebbe creato non pochi malumori nella giornata di ieri a tutta la task-force agli ordini del commissario Angelo Borrelli.

Il soggetto, asintomatico, ieri mattina presentava “un modesto rialzo termico”. La sospetta positività è arrivata grazie a un esame a tampone svolto da tutti gli ospiti della struttura. Il ragazzo è stato quindi trasportato, intorno alle 14, allo Spallanzani, per gli ulteriori accertamenti. A quanto risulta da fonti non ufficiali, gli ulteriori test avrebbero confermato la positività al virus 2019-nCoV, ma alle ore 20 di ieri mancava ancora l’ultima verifica per poter autorizzare la diffusione della notizia. È probabile, qualora l’ultimo test confermi la diagnosi, che il comunicato della direzione sanitaria arrivi in mattinata, anche se allo stato attuale esiste ancora un margine d’errore che potrebbe concludere la vicenda in un “falso allarme”

Come detto, la giornata di ieri è stata febbrile dal punto di vista organizzativo. Pur trovandosi in isolamento con l’esterno, gli ospiti vivono all’interno della struttura militare in una certa promiscuità. Condizione che potrebbe costringerli ad allungare i tempi della loro quarantena: alcuni addetti hanno calcolato che, diagnosticando una positività ogni 14 giorni, l’ultimo ospite potrebbe uscire dalla Cecchignola fra due anni. Non solo. In caso di conferma dei test positivi effettuati al ragazzo ricoverato allo Spallanzani, bisognerà capire come comportarsi con coloro che erano a bordo dell’aereo militare arrivato da Wuhan tre giorni fa, tra questi l’equipaggio militare e il sottosegretario alla Salute Pier Paolo Sileri. “Non sono preoccupato e nemmeno mia moglie – ha rassicurato il viceministro – Abbiamo anche un bambino di sei mesi. È stato fatto tutto con la massima capacità del nostro Stato: il volo è stato impeccabile così come i controlli a bordo”.

Intanto, restano stazionarie le condizioni dei due coniugi cinesi di 65 e 66 anni ricoverati nella terapia intensiva allo Spallanzani. Alla coppia viene somministrato un cocktail di farmaci antivirali composto da Lopinavir/Ritonavir e Remdesivir, utilizzati anche nelle terapie per l’Hiv e l’Ebola. Ancora non si conoscono i risultati sugli altri 4 cinesi, provenienti sempre dalle zone di Wuhan, che già mercoledì risultavano “casi sospetti”.

E mentre prosegue il lavoro di ricerca del comitato tecnico scientifico guidato da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, ieri dall’Università di Bologna sono arrivate buone notizie: uno studio, pubblicato sul Journal fo Medical Virology e guidato dal ricercatore Federico Giorgi, ha dimostrato che “il virus è poco mutabile” e dunque “potrebbe essere più facile trovare un vaccino”.

L’influenza spagnola oggi avrebbe altro nome

Anche i nomi delle malattie devono rispettare dei criteri politcally correct. Le linee guida le hanno stabilite l’Organizzazione mondiale della sanità e la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni unite che si occupa della fame nel mondo e che ha sede a Roma. I criteri sono molto semplici, bisogna evitare nomi che caratterizzino la malattia con luoghi specifici, ma sono “proibiti” anche nomi di animali o nomi propri di persona.

Gli esempi di denominazioni che oggi sarebbero proibite nella scheda di Oms e Fao sono sciagure del passato:

1) Mers, sindrome respiratoria mediorientale: un coronavirus individuato nel 2012 in Arabia Saudita. Al 31 maggio 2015 l’Oms ha registrato 1180 casi umani di infezione, 483 decessi e mortalità del 40%.

2) L’influenza spagnola, tra il 1918 e il 1920 uccise centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

3) La febbre della Rift Valley (una fossa tettonica che si estende tra la Siria e il Mozambico) è stata identificata per la prima volta in Kenya nel 1931: colpisce soprattutto gli animali ma può anche infettare gli uomini causando una malattia anche grave. La stragrande maggioranza delle infezioni umane deriva da contatto diretto o indiretto con sangue o organi di animali infetti. Nel 2015 è stata registrata una diffusione tra Arabia Saudita e Yemen.

4) La malattia di Lyme è trasmessa dalle zecche: molto rara è stata registrata per la prima volta a Lyme, cittadina del Connecticut negli Stati Uniti.

5) La febbre emorragica Congo-Crimea, anche questa trasmessa dalle zecche: nel 1969 si scoprì che il patogeno che causò la febbre emorragica in Crimea nel 1944 era lo stesso virus che colpì un bambino in Congo nel 1956.

6) L’encefalite giapponese: gli esseri umani vengono infettati dalla puntura di una zanzara. Il primo caso documentato è nel 1871 in Giappone.

L’odissea oceanica dei marittimi italiani: porti chiusi per sei navi in Estremo Oriente

Isanitari hanno portato a bordo oltre 4 mila termometri e 7.200 mascherine. Sono per i 3.711 passeggeri della Diamond Princess, bloccata a Yokohama. Venti di loro sono stati colpiti dal morbo. Trentacinque gli italiani, 25 sono membri dell’equipaggio. La World Dream, invece, è in quarantena al Kai Tak Cruise Terminal di Hong Kong con 3.600 tra viaggiatori e crew. Ma ci sono anche 4 navi di Costa, che “per precauzione” vagano nei mari dell’Estremo oriente senza passeggeri ma carichi di oltre 3.500 marittimi, molti dei quali connazionali, che da giorni non mettono piede a terra. Sei storie diverse, sei cartine al tornasole del caos causato nel mondo del turismo da crociera dal virus 2019-nCoV.

In principio fu lo sbarco di un contagiato a Hong Kong, il 25 gennaio. Ieri al telefono Marianna si domandava il motivo “di questo interessamento della stampa”. È la moglie di Gennaro Arma, comandante italiano del gigante della Carnival Japan bloccato nella baia di Yokohama al termine dei test condotti su oltre 200 passeggeri con i sintomi del morbo. “Siamo tutti un po’ in ansia, ma sereni”, racconta la signora mentre dal governo arrivano dichiarazioni rassicuranti. “L’Unità di crisi e la nostra Ambasciata in Giappone stanno monitorando con grande attenzione il caso”, ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Anche sulla World Dream sono state le autorità di Hong Kong ad accendere l’allarme: Chuang Shuk-kwan, funzionaria del “Centro per la protezione della salute”, ha reso noto che otto persone sono risultate positive al virus, dopo essere state a bordo dal 19 al 24 gennaio.

In seguito, la nave ha effettuato altri quattro viaggi. Le crociere, ha detto Chuang, hanno coinvolto circa 5 mila persone, poi tornate a Hong Kong e che ora vengono considerate a rischio. Di loro, 206 hanno viaggiato con gli otto infetti. Lo spettro corre a pelo d’acqua su tutto lo specchio di oceano che va dal Vietnam alla Corea del Sud. Costa Crociere tiene nell’area quattro navi che dal 25 gennaio hanno sbarcato tutti i passeggeri e non imbarcheranno più fino a fine febbraio. Dopo alcuni giorni in mare tra il porto coreano Busan, quello giapponese di Sasebo e lo scalo cinese di Tianjin, dove sono stati fatti scendere tutti i crocieristi, la Serena è attesa a Nagasaki, dove resterà ferma per almeno tre settimane. A bordo ci sono 933 membri dell’equipaggio, in gran parte italiani, che non toccano terra da 9 giorni: l’ultima volta che l’imbarcazione è arrivata in un porto, nella città coreana di Busan, nessuno dei marittimi ha messo piede sulla banchina. “Alla Cina non possiamo neanche avvicinarci – è il racconto di un dipendente che ha chiesto di mantenere l’anonimato – In Corea l’altro ieri tutti quelli che erano soggetti a visto non venivano fatti sbarcare. La nave della Royal Caribbean che era in porto in quel momento veniva dal Giappone e la sua agenzia era cinese: non hanno lasciato scendere nessun crew member. Sta diventando una paranoia tra i Paesi. È un’esasperazione totale”. “Anche a Taiwan e Hong Kong stanno chiudendo i porti perché non vogliono più le navi da crociera – prosegue – Ma in Europa nessuno racconta quello che sta succedendo”.

Nella stessa situazione versano le altre imbarcazioni della compagnia, che nelle prossime settimane faranno la spola tra diversi porti dell’Asia: la Venezia, circa 1.200 membri di crew, ieri era data dal sito specializzato in localizzazioni marittime Vesselfinder nei pressi di Yeosu, in Sud Corea; la Atlantica, 800, data a Nagasaki; e la Neoromantica, 600, individuata a Da Nang, in Vietnam. Il problema con un periodo di ferma di questo tipo, spiegano fonti interne all’azienda, che batte bandiera tricolore ma nel 2015 ha spostato quattro dipartimenti da Genova ad Amburgo – è quello di trovare scali che abbiano banchine disponibili così a lungo. Intanto le famiglie dei marittimi aspettano di sapere quando potranno rivederli.

Rischio “scuole chiuse” per chi è stato a Wuhan

Non una scelta politica, ma il prodotto dei confronti e delle riflessioni nati da tavoli tecnici tra ministero della Salute, Protezione civile e Istituto Superiore della Sanità: per chi sta affrontando l’emergenza sul Coronavirus questa precisazione è molto importante perché altrimenti si rischia che il testo su cui si sta lavorando in queste ore possa sembrare una risposta alla richiesta avanzate dai governatori leghisti di Lombardia, Veneto, Friuli e Trento che nei giorni scorsi hanno chiesto di precludere la scuola ai bambini che sono stati in Cina e non una decisione presa guidati dal lume della scienza.

L’idea, nata durante i diversi confronti, è evitare l’ingresso a scuola dei bambini che sono stati a Wuhan o comunque nella provincia di Hubei negli ultimi quindici giorni (la durata massima dell’incubazione) e valutare se sottoporli a controlli specifici se non a quarantena. Una possibilità da valutare, che è sul tavolo e che, per essere efficace, dovrebbe però essere operativa in tempi brevi. Finora, la circolare ufficiale diffusa nelle scuole prevede misure speciali solo nel caso in cui gli studenti siano stati a contatto con qualcuno infetto nei precedenti 15 giorni. Il resto del testo dà basilari consigli su come prevenire il contagio. Ora, potrebbe invece essere introdotta una precauzione con paletti molto più stringenti anche se non è chiaro quanti studenti riguarderebbe qualora fosse approvata, probabilmente non molti. In tutta Italia, gli studenti cinesi sono circa 53mila. Il ministero dell’istruzione, nell’ultimo report sugli alunni con cittadinanza non italiana ha specificato che l’82 per cento è nato in Italia e che la possibilità che ne siano usciti è molto bassa. Due su tre, poi, frequentano la scuola dell’infanzia o la primaria, con una concentrazione maggiore nei comuni toscani, poli dell’industria manifatturiera.

Certo, il tema è delicato. Tanto che ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha deciso di fare una visita a sorpresa alla scuola “Di Donato”, il simbolo degli istituti multietnici di Roma e con una elevata percentuale di bambini cinesi. L’Esquilino è un quartiere con una grande presenza di cittadini cinesi dove sono concentrate molte delle loro attività commerciali (da negozi a ristoranti) che in questo periodo stanno registrando perdite e un forte calo di clienti. Ciononostante, dalla scuola fanno sapere che non c’è alcuna psicosi e che anche i genitori sono tranquilli perché l’ultimo transito dalla Cina risalirebbe a novembre.

Ci sono insomma i monitoraggi. Il Fatto ne ha visionato uno che arriva da una scuola privata e in cui si chiede ai genitori di indicare “la storia dei recenti viaggi” di tutti i membri della famiglia, scritti in inglese e in cinese e accompagnati da un messaggio che spiega la possibilità di organizzare “i corsi online” per coloro che dovessero avere bisogno di stare a casa per la quarantena.

Un monitoraggio è stato richiesto anche dal ministero dell’istruzione. Ieri, la presidente regionale dell’Associazione nazionale presidi (Anp) del Friuli Venezia Giulia ha fatto sapere di aver risposto, insieme a tutti i dirigenti scolastici della Regione, alla nota ricevuta dall’Ufficio regionale che, per conto del ministero, chiedeva di segnalare se ci fossero alunni cinesi rientranti dal Paese o se ci fossero alunni della scuola in stage in Cina. “Si tratta di un controllo per fare il punto della situazione – ha spiegato – in tutte le regioni. Abbiamo una rete di presidi che funziona rispetto a tutte le problematiche che si possono presentare. Se c’è un problema facciamo rete”.

Tutte le tragedie, da Balvano a Andria e Viareggio

Nella storia delle ferrovie italiane, il deragliamento del Milano-Bologna, Frecciarossa, nei pressi di Ospedaletto Lodigiano è il primo incidente mortale dell’Alta velocità in tre lustri. Tante sono state le sciagure ferroviarie sui binari però. Il più grave, quello di Balvano, avvenuto il 3 marzo 1944 nel Potentino, che causò 517 morti e oltre 90 feriti. Si tratta dell’ottavo incidente ferroviario più grave al mondo. L’ultimo, in ordine di tempo, quello avvenuto a Pioltello il 25 gennaio 2018, che causò la morte di 3 persone e il ferimento di 46. Ecco l’elenco dei maggiori incidenti ferroviari in Italia da Balvano a oggi. Balvano (Potenza), 3 marzo 1944: 517 morti accertati e oltre 90 feriti; Baschi (Terni), 13 giugno 1945: 70 morti e decine di feriti; Benevento, 15 febbraio 1953: 22 morti e 70 feriti; Fiumarella (Catanzaro), 23 dicembre 1961: 71 morti e 28 feriti; Voghera (Pavia), 31 maggio 1962: 63 morti e 70 feriti; Murazze di Vado (Bologna), 15 aprile 1978: 42 morti e 120 feriti; Curinga (Catanzaro), 21 novembre 1980: 28 morti e 100 feriti; Coronella (Ferrara), 22 dicembre 1985: 10 morti e11 feriti; Piacenza, 12 gennaio 1997: 8 morti e 30 feriti; Crevalcore (Bologna), 7 gennaio 2005: 17 morti e 80 feriti; Viareggio (Lucca), 29 giugno 2009: 33 morti (la prima foto); Andria, 12 luglio 2016: 23 morti e 57 feriti; Pioltello (Milano), 25 gennaio 2018: 3 morti e 46 feriti (la seconda foto). L’incidente di ieri a Lodi è il primo, appunto (purtroppo mortale, due dipendenti di Fs) avvenuto sulla linea Alta velocità, che appena due mesi fa festeggiava i dieci anni dell’attività commerciale sull’intero sistema da Torino a Salerno (ma la prima linea commerciale è stata aperta tra Roma e Napoli nel dicembre 2005). Dal 2009 su questa rete veloce le Frecce di Ferrovie dello Stato hanno trasportato 350 milioni di viaggiatori e percorso 380 milioni di chilometri. A cui si aggiungono i circa 85 milioni di passeggeri trasportati sui 45 treni di Italo dal 2012 al 2019. Ieri, in seguito all’incidente, sono stati 22 i treni cancellati sulla Av Milano Bologna. Altri nove sono stati parzialmente cancellati.