Mario Di Cuonzo, 59 anni, a un passo dalla pensione. Viveva a Pioltello, il teatro della sciagura del 2018

Un fratello, Maurizio, macchinista come lui, e una pensione vicina, vicinissima, mancava quasi un anno, l’agognata Quota 100 maturata in quasi 40 anni di lavoro tra i treni, una passione di famiglia. Una passione che ora è diventata un incubo per i congiunti di Mario Di Cuonzo, la vita di tutti si è fermata sul Frecciarossa deragliato all’alba a Lodi.

Un altro fratello, Mimmo, lavora come dirigente dello sportello attività produttive del Comune di Capua, il paese del Casertano dal quale proveniva Mario, morto sul lavoro a 59 anni. Mimmo è scappato via dal palazzo appena ha capito, “so che ha lasciato il suo ufficio immediatamente per recarsi sul luogo dell’incidente”, ha detto il sindaco di Capua Luca Branco, portavoce del lutto della comunità che sta studiando come commemorare il suo concittadino.

La storia di Mario non è dissimile a quella delle scelte di migliaia di meridionali che nelle Ferrovie dello Stato hanno trovato un’opportunità di lavoro e di carriera, purché disposti a fare le valigie e trasferirsi lontano, al Nord. Il fratello Maurizio è andato a vivere a Piacenza, dove nel 1997 si verificò il primo incidente dell’allora nuova linea Av, e conduce i treni del trasporto regionale Milano-Bologna. Mario Di Cuonzo era invece andato a vivere a Pioltello, che per un’amara coincidenza della storia è la cittadina a est del capoluogo lombardo dove due anni fa morirono tre persone in un altro tragico incidente ferroviario, il deragliamento di un treno regionale. E così il sindaco Ivonne Cosciotti, ancora una volta, ha disposto le bandiere a mezz’asta e proclamato il lutto cittadino “per fatti che superano ogni possibile giustificazione”.

A Pioltello, Mario Di Cuonzo – che aveva una moglie, Chiara, e un figlio, Federico – era diventato uno dei macchinisti più esperti di Italia. Uno dei primissimi a ottenere l’abilitazione alla guida dei treni dell’Alta velocità. Si era iscritto alla Filt-Cigl, era un attivista, e un collega ne ricorda “il carattere e la professionalità, era un macchinista molto capace – ha sottolineato – e aveva contribuito a formare altri macchinisti nella guida dei Frecciarossa. Tutti gli volevano bene, allegro, mai superficiale. Aveva sempre una parola buona per i colleghi”. Che ora lo piangono anche loro come un fratello.

Il disastro al km 166: “Quello scambio era in posizione sbagliata”

Alle 4,45 di ieri il fonogramma recitava: “Deviatoio n. 05 disalimentato e confermato in posizione normale come da fonogramma n. 78/81fino a nuovo avviso”. Il treno Frecciarossa Av 9595 ha il via libera per partire dalla stazione di Milano centrale. Il semaforo però non è del tutto verde: quel termine “disalimentato” indica già un alert, ovvero lo scambio funziona solo se dritto. Questo viene veicolato alla cabina centrale e il macchinista che non ha colpe parte. Il convoglio si mette in marcia e deraglia a causa di quel “deviatioio” o scambio che non era affatto in “posizione normale”. Perché c’è stato un errore umano. Che, secondo i magistrati, non è solo dell’operaio ma di tutta la catena di comando. Il punto zero si trova al chilometro 166. Qui ieri il treno Frecciarossa è deragliato provocando due morti e 31 feriti. Il fonogramma pubblicato dal ilfattoquotidiano.it spiega due elementi consequenziali: la manutenzione è stata fatta dagli operai di Rfi, dopodiché il via libera a Milano è stato certificato e inviato con un alert. Di chi la responsabilità? Di certo quello scambio stava “in deviata”, ovvero era aperto e non dritto portando così il treno verso sinistra.

Quello scambio, ci viene spiegato, era guidato anche da alcuni morsetti che ne controllavano l’apertura. Hanno ceduto? O sono stati lasciati aperti? La Procura di Lodi ha aperto un fascicolo contro ignoti e con tre ipotesi di reato: omicidio colposo, disastro colposo e lesioni colpose. Sono stati già nominati due consulenti tecnici, gli stessi che si sono occupati del treno deragliato a Pioltello il 25 gennaio 2018 e che ha provocato tre morti. A poche ore dal disastro, dubbi e domande restano sul tavolo. Iniziamo dalle poche certezze. A provocare il deragliamento del locomotore del treno è stato certamente uno scambio rimasto aperto. Lo scambio si trova subito dopo un ponte e accanto alla palazzina dei manutentori. La sua non chiusura o il suo mal funzionamento ha provocato lo svio del treno su un binario morto posto a sinistra nel senso di marcia verso sud. Il resto è stata una carambola terrificante terminata circa mezzo chilometro oltre. Di certo a indicare la strada delle cause resta quel fonogramma decisivo. Il procuratore di Lodi Domenico Chiaro ha escluso “un atto volontario” e ha legato le ipotesi più concrete “a uno scambio che doveva essere posto in una certa posizione e così non era”.

In quel tratto il convoglio viaggiava a 300 km all’ora. E in quel tratto fino alle 4,45 di ieri ci sono stati dei lavori di manutenzione. “Stiamo cercando di capire – ha proseguito Chiaro – quali attività sono state svolte e che tipo di nesso ci sia tra questa attività e il verificarsi del disastro”. Di certo secondo la Procura che ieri aveva già ricevuto le prime informazioni dalla Polfer “lo scambio sembrerebbe avere una qualche connessione con il verificarsi del fatto”. Gli operai che ieri hanno lavorato sul posto sono tutti interni a Rfi e sono stati interrogati in serata. Non è al momento coinvolta alcuna azienda che stava operando in subappalto. Detto questo c’è da capire a quale tipo di errore siamo di fronte. L’intera tratta, infatti, è completamente informatizzata e quindi apertura e chiusura dello scambio o deviata è gestita in modo elettronico. E dunque le ipotesi sono due: o la manutenzione era sulla centralina oppure era diretta sui binari. Su questo ancora ieri il Procuratore non ha dato risposta certa, anche se il fonogramma indirizzerebbe verso un errore meccanico e umano. “Il treno – spiega un investigatore – si è trovato a dover fare una curva che doveva essere presa a cento all’ora e invece viaggiava a quasi trecento”. Ha spiegato il Procuratore: “La motrice era lanciatissima”. I lavori non pare fossero poi di ordinaria amministrazione. “I lavori di manutenzione – ha spiegato Chiaro – vengono fatti perché qualcosa si è rotto. Se lo scambio fosse stato dritto il treno non sarebbe deragliato. Non era nella posizione che doveva garantire la libera percorrenza del treno”. È però solo questione di tempo. Le attività dei lavori in corso sono annotate in modo dettagliato.

Storia di Giuseppe Cicciù, macchinista ferroviere. Da Reggio Calabria a Milano sempre alla guida

Viveva da anni a Cologno Monzese Giuseppe Cicciù, uno dei due macchinisti morti ieri a bordo del Frecciarossa Milano-Salerno. Ciucciù però era originario di Reggio Calabria, cresciuto nel quartiere San Giorgo Extra dove tornava spesso con la madre che, da tempo, si era trasferita in Lombardia. Anche le due sorelle, ormai, erano lontane dalla Calabria. Giuseppe aveva 52 anni e lascia la moglie milanese e un figlio di 14 anni.

Come molti calabresi, per lavorare si era trasferito nel Nord. La famiglia Ciucciù i treni li aveva nel sangue. Una vita sulle rotaie sacrificando orari e famiglia: Giuseppe Cicciù ha lavorato nel trasporto merci prima di diventare macchinista. Lo era anche suo padre morto una trentina di anni fa.

In tanti a San Giorgio Extra, periferia sud di Reggio, lo ricordano con affetto. Tifoso della Reggina e appassionato dell’Inter, amava il suo lavoro. Per anni è stato iscritto alla Fit-Cisl. Con il sindacato ha lottato spesso per la sicurezza sul lavoro. Appena 4 mesi fa, inoltre, sul suo profilo facebook aveva scritto: “La prevenzione è da sempre l’arma migliore!”.

Appresa la notizia della sua morte nell’incidente nel Lodigiano, amici e colleghi hanno invaso la sua pagina facebook.

“Mi sento come se fossi morto anch’io. – scrive un collega reggino –. La tragedia coinvolge le vittime e le famiglie, ma chi come noi passa la vita sulle rotaie si immedesima totalmente. Cambiano solo i nomi, oggi tutti noi macchinisti ci siamo schiantati insieme. Guidava da 30 anni, prima i merci, poi i Frecciarossa. Era orgoglioso e contento di fare questo mestiere, era solare e scherzava sempre su tutto”. Giovanni Abimelech, segretario lombardo della Fit-Cisl, lo ricorda come “uno dei primi sui nuovi treni Av. Era una persona con grande esperienza, non certo un ragazzino”.

Cordoglio anche dal sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà: “Mi ricorda un altro nostro concittadino, Nino Candido, il vigile del fuoco morto nella terribile esplosione di Alessandria. Anche lui qualche giorno prima sui social aveva scritto “quanto vale la vita di un vigilie del fuoco”. E così come per Nino Candido, anche per Giuseppe troveremo il modo per onorare la memoria di un altro figlio della nostra terra costretto ad andare fuori per lavorare e realizzarsi”.

Ore 5:34, l’inferno sui binari “Poteva essere un massacro”

Era in marcia da 24 minuti, poi alle 5:34 di ieri mattina lo schianto pauroso. Il treno Freccia rossa Av 9595 diretto a Salerno è deragliato a quell’ora all’altezza dei comuni di Ospedaletto Lodigiano e Livraga. L’incidente ha provocato la morte dei due macchinisti e il ferimento di 31 persone, di queste solo due ricoverati in codice giallo, tutti gli altri se la sono cavata con ferite di lieve entità e sono stati trasferiti negli ospedali lombardi in codice verde.

Eppure, come ha spiegato ieri all’alba il prefetto di Lodi Marcello Cardona “poteva essere una carneficina”. Così non è stato per un solo motivo: quello partito dalla stazione Centrale di Milano alle 5:10 era il primo convoglio della giornata e per questo risultava pressoché vuoto con solo 35 persone a bordo. Di più: le carrozze appena dietro la locomotrice erano occupate da tre persone. Le vittime, entrambe dipendenti di Fs, sono Giuseppe Cicciù, 51 anni di Reggio Calabria e Mario Di Cuonzo, 59 anni, nato a Capua. I corpi si trovano all’ospedale di Lodi. Qui c’è anche il capotreno e un addetto alle pulizie ricoverato con un femore rotto. L’incidente è avvenuto dopo il chilometro 166 della tratta ad alta velocità.

In quel momento il treno stava viaggiando a 300 chilometri orari. Superato il ponte, il convoglio avrebbe dovuto proseguire la sua corsa in linea, invece ha curvato bruscamente sulla sua sinistra cosa che non avrebbe dovuto fare. La virata ha provocato il deragliamento del locomotore che pochi secondi dopo si è staccato e ha proseguito da solo andando a schiantarsi contro un grosso carrello posto sua una linea chiusa e usata solo per i lavori. Il carrello per la spinta è andato contro una palazzina delle ferrovie, dopodiché il locomotore si è girato di 180 gradi andando a concludere la sua corsa accanto alla stessa palazzina. Tutto il resto del convoglio è rimasto dritto se pur completamente deragliato. Solo la carrozza numero due, quella dietro al locomotore, si è inclinata di novanta gradi.

La Procura di Lodi ha aperto un fascicolo con tre ipotesi di reato: omicidio colposo, lesioni e disastro colposo. I soccorsi sono stati subito allertati e già nelle prime ore della mattina di ieri la dinamica appariva chiara. A causare l’incidente infatti è stato uno scambio non chiuso. Qui gli investigatori della Polfer guidati da Marco Napoli collocano il punto zero dell’incidente, che sta a circa 500 metri da dove poi si è fermato il locomotore. Il luogo dello scambio che si trova al chilometro 166,7 è la “deviata numero cinque”, poco prima c’è la palazzina dei manutentori. Sul posto, oltre al Prefetto di Lodi, è arrivato anche il pm e in tarda mattinata il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Terribili le prime testimonianze dei sopravvissuti. “Siamo stati fortunati, miracolati, sembrava di stare sulle montagne russe”. Sono state le prime parole di Chiara, 30 anni, psicologa di Milano che per una trasferta di lavoro ieri era a bordo del Frecciarossa. La donna ha parlato all’uscita del pronto soccorso dell’ospedale di Lodi, dove le è stata diagnosticata una contrattura cervicale. “Nei momenti poco prima dello schianto – ha proseguito Chiara – non ci sono state scene di panico, siamo rimasti tutti molto composti. Io stavo dormendo. C’è stato un botto poi il treno si è mosso molto e ci siamo fermati, poi diversi sballottamenti. Mi sono svegliata, sono cadute le valigie dalle cappelliere ma io sono rimasta aggrappata al mio posto con tutte le mie forze. Non abbiamo capito subito cosa stava succedendo, sembrava di stare sulle montagne russe, saranno stati 40 secondi ma sono sembrati 10 minuti”.

La donna che era diretta ad Arezzo ha proseguito: “Il terrore è arrivato dopo qualche ora, all’inizio era solo adrenalina. Il convoglio ha fatto un salto, poi la locomotiva si è staccata ed è andata dall’altra parte rispetto al senso di marcia. Abbiamo spaccato il vetro ma poi siamo scesi dalla porta. Solo allora ci siamo accorti che la testa del treno si era staccata ed era dall’altra parte della casetta. Abbiamo pensato che siamo stati fortunati, miracolati. Nel mio vagone eravamo in tre e stiamo tutti bene. Adesso voglio solo tornare a casa”.

Si tratta del primo incidente mortale sui treni ad alta velocità. E proprio ieri Rfi che gestisce la tratta ha annunciata che sarà aperta una commissione d’inchiesta.

“La mia vita straziata è la sola che non si prescriverà mai”

Oltre trenta interventi chirurgici fino al 2015, tutti in anestesia totale, per riabilitare un corpo ustionato sul 90 per cento della pelle. Marco Piagentini quel 29 giugno 2009 ha anche perso sua moglie Stefania e i figli Lorenzo e Luca, di 2 e 4 anni. Luca muore carbonizzato nell’auto dove suo padre l’ha lasciato sperando di dargli un riparo. Ma non c’è riparo per la sua famiglia, quella notte, a Viareggio. Neanche in casa.

Un treno merci deraglia, alcuni vagoni trasportano gpl, il gas esce dalle carrozze, poi l’incendio, lo scoppio, il rumore dell’acciaio che si contorce, le fiamme che arrivano fin dentro le case. È la strage ferroviaria di Viareggio: 32 vittime. Tra gli imputati l’ex ad di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, Michele Mario Elia (ex ad di Rfi) e Vincenzo Soprano (ex ad Trenitalia). In appello, la procura generale sostiene che se “società e manager avessero osservato le procedure ci sarebbe stata una prevedibilità piena delle criticità dei materiali e si sarebbero anche accorti del degrado dell’assile che cedendo innescò il deragliamento del carro merci”.

È il giugno dello scorso anno: per la prima volta la parola “prescrizione” fa ingresso nel processo, non si può più procedere per i reati di incendio e lesioni colpose gravi e gravissime. In realtà, oggi risulterebbe già estinto anche l’omicidio colposo se non fosse stato agganciato all’aggravante dell’incidente sul lavoro, che ha spostato i termini al 2026. Moretti rinuncia alla prescrizione – parliamo in totale di sei mesi di pena – e ricorre in Cassazione dopo che la Corte d’appello lo condanna a 7 anni per disastro e omicidio plurimo colposo.

Signor Piagentini, i reati di incendio colposo e lesioni sono andati prescritti: non c’è un colpevole per il suo corpo ustionato.

Eppure le assicuro che quella notte, a Viareggio, non è arrivata una meteora dallo spazio.

Le accade mai di non pensare a quel giorno?

Mai. È impossibile. Ogni giorno devo guardarmi allo specchio. E le mie cicatrici mi parlano. Quelle visibili e quelle invisibili: ho perso una moglie e due figli. Non è stato forse l’incendio a ucciderli? Per il momento però l’unico recluso ai domiciliari sono io.

Ci spieghi perché.

Non ho più la pelle di prima. La mia non è una pelle normale. È rigida. Ho bisogno di fare stretching ogni giorno. Se non lo faccio, ho un occhio che non si chiude, dormo con un occhio aperto. E la mattina mi sveglio come se fosse pieno di sabbia. Da maggio a settembre non posso uscire di casa prima delle sette di pomeriggio. E sempre con la protezione totale, perché la mia pelle non protegge più se stessa in modo naturale: se la espongo al sole, al di là del dolore, rischio un tumore.

Per tutto questo però non esiste alcun colpevole: nessuno paga per averle causato le sofferenze che ha appena descritto. Non perché non sia stato individuato, ma perché il reato è prescritto. Questa notizia ha cambiato ulteriormente la sua vita?

Cos’è cambiato? Nella mia vita s’è aggiunta una domanda: la giustizia ha un senso? Perché si fanno i processi? E s’è aggiunta una profonda frustrazione, una sensazione d’impotenza. Io educo mio figlio Leonardo ad assumere la responsabilità dei suoi comportamenti: perché dovrebbe seguire i miei insegnamenti se, con i suoi stessi occhi, ogni giorno, può verificare che i responsabili delle mie sofferenze non sono stati richiamati alle loro responsabilità? Come posso essere credibile se questo accade grazie alle stesse istituzioni? Persino il mio ruolo di padre, di educatore, è stato toccato da questa storia.

L’omicidio colposo e il disastro però non potranno prescriversi.

Se non fosse stato aggravato dall’incidente sul lavoro, l’omicidio colposo si sarebbe già prescritto. Dobbiamo solo sperare che la Cassazione non ritenga caduta l’aggravante. Altrimenti anche questo reato rischia di non avere colpevoli.

Quanto è importante per lei una condanna dei colpevoli? Quale cambiamento può portare nella sua vita?

Qualsiasi cosa avvenga, che si tratti di un ergastolo o di un’assoluzione, nulla potrà cambiare la vita che conduco dal 29 giugno 2009. Non è questo che cerco.

E cosa cerca?

Ho bisogno di verità e giustizia. La verità ormai ce l’ho. Il processo l’ha stabilita. Ora ho bisogno della giustizia. Ho bisogno che chi ha commesso questi reati paghi per le sue responsabilità. Ne ho bisogno per tanti motivi. Ne ho bisogno per me, per sentire che una giustizia c’è stata, ne ho bisogno perché devo poterlo dire a mio figlio, che ora ha 18 anni e all’epoca ne aveva soltanto 8. Il resto, il dolore, non si prescriverà mai.

Lei e altre vittime di stragi avete fondato il comitato nazionale familiari delle vittime “Noi non dimentichiamo” e avete preso una posizione chiara nel dibattito sulla riforma della prescrizione.

Per noi è inaccettabile che l’ombra della prescrizione aleggi come una “beffa” in processi per disastri colposi e reati ambientali: chiediamo che la prescrizione per questi reati non operi. Che si giunga sempre a una pronuncia di merito qualsiasi essa sia, nell’interesse delle vittime, della società e degli stessi imputati.

Un maxi-bavaglio da 9.500 querele l’anno

Tra il 2011 e il 2017 le querele contro i giornalisti sono più che raddoppiate arrivando a sfiorare quota 9500 casi all’anno e il più delle volte hanno finalità intimidatoria. Secondo la fotografia scattata da Ossigeno per l’informazione sulla base di dati Istat infatti il 70 per cento delle querele per diffamazione a mezzo stampa finiscono con l’archiviazione per irrilevanza penale, tenuità del fatto, fatto non previsto come reato, infondatezza, assenza di condizioni per procedere in giudizio.

Negli ultimi sei anni censiti si nota insomma una tendenza alla querela facile cresciuta in maniera esponenziale, mentre finora sono andati tutti a vuoto i tentativi di approvare una legge che sanzioni le liti temerarie che in questo settore hanno l’effetto di mettere il bavaglio ai giornalisti. Nel 2017 i giudici per le indagini preliminari hanno valutato 9479 querele per diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di fatto determinato, archiviandone il 67 per cento: nel 2011 erano state 4524 con la stessa percentuale di archiviazioni.

La stessa tendenza si ravvisa nelle condanne definitive: dalle 182 del 2014 alle 435 del 2017. Come anche per le sentenze definitive al carcere: dalle 35 (sei donne) del 2014 alle 64 (26 donne) del 2017 (in tutti i casi, con pena sospesa). Situazione identica per le condanne alla pena della multa: dalle 136 (28 donne) del 2014 alle 336 (99 donne) del 2017.

Sono numeri che descrivono una condizione di attacco alla professione, denuncia da tempo Ossigeno per l’informazione che sottolinea anche un altro dato che riguarda sempre le condizioni di chi opera in questo settore: un altissimo tasso di impunità in Italia per gli autori di intimidazioni, minacce e abusi contro i giornalisti e pari al 96,7% nel 2019.

Già qualche tempo fa il dossier di Ossigeno “Taci o ti querelo” ha cercato di mappare il fenomeno nel suo complesso analizzandone anche la portata economica: secondo il ministero della Giustizia nel solo 2015 i giornalisti hanno subito 911 citazioni per risarcimento con richieste danni per 45,6 milioni di euro. Cosa che ha spinto l’Associazione ad attivare un servizio di assistenza legale gratuita per contrastare il rischio dell’autocensura da parte dei giornalisti sotto processo. Un servizio rivolto a freelance, che per definizione non hanno un editore pronto a proteggerli anche legalmente e i giornalisti “orfani” dell’editore, cioè che originariamente avevano un editore con il quale ripartire le responsabilità penali e civili, ma lo hanno perso, perché ha cessato l’attività, in genere a causa della grave crisi che l’editoria sta attraversando a ogni livello. “Chi agisce anche nel modo più temerario non rischia assolutamente nulla nel nostro sistema penale, a meno che non gli venga contestato il reato di calunnia” si legge nel bilancio dei primi 5 anni di attività dell’Ufficio di assistenza legale gratuita di Ossigeno. “Tale forma di impunità, sebbene non sia illegale, non risulta meno odiosa e vessatoria rispetto ad altre manifestazioni di ingerenza nel libero esercizio del diritto di cronaca e di critica. Può senz’altro essere definita una forma lecita di impunità”.

Giornalisti, Renzi blocca la legge anti-intimidazioni

Sulle liti temerarie, ovvero le azioni civili con richiesta di risarcimento danni nei confronti dei giornalisti, tutto di nuovo si blocca. La legge, si sa, dà fastidio a molti, soprattutto alle forze politiche, visto che con le nuove norme si limiterebbe assai il potere intimidatorio nei confronti della stampa.

L’ultimo stop ha visto l’ok di quasi tutte le forze politiche, ma specialmente di Italia Viva, che ha chiesto, insieme ad altri, di agganciare la legge sulle liti temerarie a quella sulla diffamazione, entrambe in discussione in Senato. La legge sulle cause civili, proposta dal pentastellato Primo Di Nicola, è formata da un solo articolo: chi procede in sede civile contro un giornalista, se perde la causa può essere condannato a un risarcimento a partire dal 25% (fino al 100%) della somma richiesta. L’obiettivo è disincentivare tutti coloro che procedono per motivi pretestuosi, magari per puntare ai soldi. Cosa che negli ultimi anni è diventata un’abitudine da parte di molti.

Il ddl Di Nicola, già approvato in commissione Giustizia, era pronto per essere votato, tanto che era stato calendarizzato per l’Aula il 16 gennaio scorso. Poi, come per magia, la legge è sparita. Provocando anche un piccolo giallo. Perché una norma su cui ufficialmente c’è l’accordo di tutti, pronta per essere approvata, è stata rinviata? La decisione è stata presa durante una riunione di capigruppo e giustificata col fatto che sarebbe meglio far viaggiare il ddl Di Nicola insieme alla legge sulla diffamazione del forzista Giacomo Caliendo, in questi giorni nell’occhio del ciclone per la questione dei vitalizi degli ex parlamentari.

Le due leggi, in realtà, secondo un patto iniziale tra Pd e Forza Italia, all’inizio viaggiavano già insieme, poi, dato che la norma sulla diffamazione ha incontrato diverse difficoltà mentre l’altra procedeva spedita, si è decisa la separazione. Ora però, secondo diverse fonti per le insistenze di Italia Viva, i due procedimenti sono stati rimessi nello stesso calderone. Se non si sblocca l’una, non va avanti nemmeno l’altra. Il problema è che, così facendo, si rallenta il percorso del ddl di Primo Di Nicola, che si dice “contrariato e preoccupato”.

Il problema è che la legge sulla diffamazione è ancora in alto mare per via delle molte criticità sottolineate di recente dai rappresentanti dei giornalisti e degli editori, per una volta insieme in una battaglia comune. Perché, se da una parte viene tolto il carcere per i giornalisti, dall’altra vengono inseriti tutta una serie di lacci e lacciuoli – non ultimo l’aumento delle sanzioni anche pecuniarie – che limitano parecchio il lavoro dei cronisti e di chi fa inchieste. “La Caliendo così com’è non va”, hanno sottolineato insieme Fnsi e Fieg.

E sul testo ci sarà parecchio da lavorare, tanto più che dovrà andare alla Camera. Per questo agganciare le cause civili alla diffamazione equivale a gettare la palla in tribuna e a rallentare parecchio una norma che potrebbe essere già approvata. “È chiaro che a molti la legge sulle liti temerarie non piace, ma essa non deve diventare una merce di scambio con la Caliendo: io ti concedo qualcosa qui, tu mi dai qualcos’altro là. Anche se la materia è la stessa, sono due leggi diverse che possono, e a questo punto devono, viaggiare separate. Altrimenti c’è la sensazione che si voglia rallentare tutto”, afferma Raffaele Lorusso, segretario della Fnsi. Nel frattempo il ddl Di Nicola è sparito dal calendario del Senato. E per ora, tra il decreto sulle intercettazioni e lo scontro sulla prescrizione, non ricomparirà.

Gli ex parlamentari a Caliendo: “Devi votare”

La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati è tra due fuochi. Perché sulla storiaccia dei vitalizi non solo il M5S la incalza perché venga azzerata la Commissione contenziosa che, in odore di conflitto di interessi, si preparava il prossimo 20 febbraio a cancellare il taglio con una sentenza preconfezionata.

Casellati (che ha nominato l’organismo che oggi è nella bufera), viene chiamata in causa anche dall’Associazione degli ex parlamentari che avevano fatto ricorso e che ora sono “fortemente preoccupati” per l’intenzione del presidente della Commissione contenziosa Giacomo Caliendo di astenersi nel tentativo di mettere un freno alle polemiche. Una mossa tattica che però non piace né convince nessuno.

Ai 5 Stelle che hanno convocato una manifestazione di protesta per il 15 febbraio, il gesto non basta nemmeno lontanamente. E non hanno gradito neppure gli ex senatori che ora tuonano contro il passo indietro di Caliendo seguito a quella che considerano “una campagna di minacce e di intimidazioni”: hanno chiesto dunque un incontro urgente per richiamare Casellati ai suoi doveri denunciando “il tentativo in corso di impedire agli organi giurisdizionali competenti di pronunciarsi sulla questione dei vitalizi. Un attacco contro gli organi del Parlamento e contro il sistema giurisdizionale dell’autodichia (la ‘giustizia’ interna di Palazzo Madama, ndr). Nel ricordare che il M5S aveva già una volta bloccato l’attesa decisione sui ricorsi con le pretestuose dimissioni di una componente della Commissione contenziosa aderente al M5S” ha scritto l’Associazione degli ex presieduta da Antonello Falomi, che rivendicano “il loro diritto di cittadini ad avere un giudice e un giudizio nel caso che li riguarda ed esprimono la loro volontà di reagire con ogni mezzo lecito contro la discriminazione e la campagna di odio”.

“Quella piazza sarà sui vitalizi e i nostri ministri ci saranno”

In quella piazza Paola Taverna ci crede, e a occhio ci punta: “La manifestazione del 15 febbraio ce l’ha chiesta la gente, c’è una grandissima voglia di partecipare”. Seduta nel suo ufficio a Palazzo Madama, la vicepresidente del Senato parla dell’evento che sta organizzando in prima persona e di molto altro. E scandisce: “Comunque vadano le cose, io lavoro perché a questo Paese rimanga un Movimento solido. Però per tanto tempo abbiamo goduto di un voto di opinione: ora dobbiamo impegnarci per ottenere un voto di consapevolezza, proponendo nuove idee”.

Ha ancora senso ritrovarsi in piazza?

In piazza San Silvestro di fatto ci porterà la gente, lo ripeto. C’era una esigenza diffusa e l’abbiamo ascoltata.

Voi volete che la presidente del Senato Casellati azzeri la commissione contenziosi che giudica sui ricorsi, perché a vostro avviso è gravata da un conflitto di interessi. Ma la presidente non pare volervi ascoltare.

Continueremo a chiederlo: chi ha orecchie per intendere intenda. E comunque quelli che si oppongono al taglio dei vitalizi sono gli stessi che vorrebbero cancellare il Reddito di cittadinanza.

Luigi Di Maio ha detto che la piazza servirà anche per difendere la riforma della prescrizione e le altri leggi a 5Stelle “contro la restaurazione”. Concorda?

La piazza sarà contro i vitalizi e per il sì nel referendum sul taglio dei parlamentari. Per il resto ci sono i tavoli a palazzo Chigi.

In quel video Di Maio sembrava parlare ancora da capo.

Di Maio ha parlato da Di Maio.

Per Nicola Zingaretti la vostra piazza è “un errore” e la “fibrillazione logora il governo”.

Il governo non c’entra nulla, si parla di un altro tema. Non vedo l’attinenza.

I vostri ministri ci saranno?

I nostri ministri sono innanzitutto portavoce del M5S. Mi aspetto che vengano, numerosi.

Domenica oltre 400 attivisti si sono riuniti in un albergo a Napoli e il 90 per cento ha detto no a un accordo in Campania con il Pd. Che ne pensa?

Penso che c’è una grande voglia di identità nel Movimento. Gli attivisti vogliono parlare dei nostri temi, confrontarsi.

Quel 90 per cento di no la stupisce?

No.

Perché la distanza tra attivisti, iscritti ed eletti si sta allargando?

Sono le tre anime che provano l’eterogeneità del Movimento. Dopodiché, c’è stato un po’ di scollamento tra noi e gli attivisti nello scambio di informazioni sul lavoro fatto in Parlamento. E non sono stati ascoltati abbastanza coloro che lavorano sui territori.

Come si rimedia?

Credo che si debba rimodulare l’informazione sulle nostre piattaforme e migliorare la partecipazione.

Come?

Serve un percorso più articolato sui temi che comporranno la nostra futura agenda, con contributi da personalità esterne al M5S. E va spiegato meglio cosa facciamo al governo.

Di Rousseau bisognerà discutere negli Stati generali?

Perché no?

Il Pd si offre per accordi nelle Regioni, ma non può aspettare il vostro congresso che avverà dopo Pasqua. E allora chi decide per il M5S, e come?

Noi dovremo discutere delle nostre regole negli Stati generali, e nell’attesa dobbiamo rispettare quelle che abbiamo, senza rinnegarle. Perciò la consultazione online degli iscritti rimane il metodo che più ci rappresenta.

Ma a livello nazionale o con voti per gli iscritti di ogni regione?

Devono votare gli iscritti regionali. È ciò che ci stanno chiedendo anche gli attivisti sui territori.

La maggior parte della base pare comunque contraria al Pd. Lei però vuole il dialogo con i dem.

Non è il giusto modo di porre la questione. Noi abbiamo un’identità da preservare e oggi dobbiamo parlare con il Pd, con cui governiamo, per portarlo sui nostri temi e attuarli.

I dem non sembrano così propensi. Guardi sulla prescrizione…

Il luogo d’incontro con i dem sarà la nuova agenda di governo. Invece la prescrizione è già legge, ed è già assurdo che se ne parli. E comunque se il problema è la durata dei processi, perché non si lavora solo sulla riforma per ridurre i tempi senza rimettere in discussione una legge già approvata?

Matteo Renzi minaccia di votare contro assieme alle opposizioni.

Io non parlo di Renzi.

Come lo immagina il M5S del futuro, con un capo o un organo collegiale?

La nostra identità è pluralista, quindi meglio un organo collegiale, un board.

Con dentro Paola Taverna.

Io ho sempre lavorato per il Movimento, e continuerò a farlo.

L’ultimo sgarbo di Renzi: fa come Craxi e usa il caso Tortora contro i giudici

Una giornata nazionale per le vittime degli errori giudiziari: Italia viva continua nel tentativo di trasformare quella sulla prescrizione in una battaglia identitaria. Mercoledì il partito di Renzi ha presentato una proposta di legge per istituirla il 17 giugno, giorno dell’arresto di Enzo Tortora (correva l’anno 1983). Nella proposta di legge si fa esplicitamente riferimento alla “barbarie della giustizia di piazza” e “al giusto processo”.

La giornata dovrebbe coinvolgere le scuole, che sono tenute a promuovere iniziative volte alla sensibilizzazione “sul valore della libertà, della dignità personale, della presunzione d’innocenza, quale regola di giudizio, oltreché quale regola di trattamento di coloro che sono ristretti in custodia cautelare prima e durante lo svolgimento del processo e quale presidio Costituzionale contrapposto alla barbarie della giustizia di piazza”. E poi, sul “giusto processo quale unico strumento volto a garantire, entro tempi ragionevoli, l’accertamento della responsabilità penale”. Per “una memoria storica condivisa” in difesa delle istituzioni democratiche, “impegnate a garantire la riduzione al minimo degli errori giudiziari” si prevedono “manifestazioni pubbliche, cerimonie, incontri, momenti di ricordo dei fatti e di riflessione”. A presentare il testo è stato il capogruppo in Senato, Davide Faraone: “Bonafede dovrebbe capire che stare in maggioranza non significa votare una riforma che ha scritto a quattro mani con Salvini. Prima delle ideologie manettare viene lo stato di diritto e il rispetto della Costituzione”.

In realtà, neanche Gaia Tortora (alla quale durante l’Assemblea nazionale di Iv lo scorso sabato hanno espresso solidarietà un po’ tutti per la diatriba con Marco Travaglio su queste questioni) è sembrata entusiasta. Così ha twittato: “Apprendo via agenzia intenzione di istituire una giornata in memoria delle vittime di errori giudiziari in nome di mio padre. Non serve una giornata in memoria di o dei. Serve riforma seria che non venga mischiata con il dibattito sulla prescrizione. E cmq grazie di averci avvisato”. Ma i renziani sembrano intenzionati ad andare avanti comunque. Perché, spiegano, hanno fatto una pdl, accogliendo una vecchia proposta dei Radicali e della fondazione Tortora. Va ricordato che già Bettino Craxi, usando il caso Tortora, si unì alla campagna dei radicali che poi sfociò nel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati nell’87. Erano appena scoppiati i primi casi di corruzione. L’anteprima di Tangentopoli.