Giustizia, Conte vuol mediare Iv: “Verso l’appoggio esterno”

Fa le corna all’insù, Giuseppe Conte. Un gesto di scaramanzia, perché questo vertice sulla giustizia (“Non chiamatela sempre e solo prescrizione….”) potrebbe essere l’ultimo. Ultimo nel senso di “risolutivo”, sì. Ma pure ultimo nel senso che può segnare le battute finali dell’esperienza di governo giallorosa. Perché il presidente “ci proverà” a conciliare la riforma su cui il ministro Alfonso Bonafede è irremovibile con le esigenze del Pd e soprattutto di Italia Viva, altrettanto determinata a farla saltare. Ma la mediazione che Palazzo Chigi ha nel cassetto è la stessa da giorni.

Un lodo Conte 2, un escamotage che innova la prima mediazione che prevedeva che i tempi della prescrizione continuassero a correre nei casi in cui la sentenza di primo grado fosse di assoluzione: ora – secondo la proposta condivisa da M5S, Pd e Leu – i termini per l’estinzione del reato dovrebbero riprendere a camminare anche nel caso in cui, dopo una condanna in primo grado, arrivi un’assoluzione in appello.

Tanto cavillare rischia di essere inutile, perché non è questo che placherà i renziani. Ieri la delegazione di Italia Viva è arrivata a Palazzo Chigi determinata a farsi rispettare. Non solo a parole: non bastasse l’ostruzionismo matto e disperatissimo che stanno facendo in Parlamento sul decreto Milleproroghe – ieri hanno messo il veto persino su due emendamenti della ministra Pisano, tra cui uno sullo Spid concordato con mezzo esecutivo – di fronte a Giuseppe Conte hanno evocato perfino l’appoggio esterno al governo. Formula che è il preludio di smottamenti futuri imprevedibili. E che lo stesso Bonafede – annunciando per lunedì un consiglio dei ministri sulla riforma del processo penale – commenta così: “Si prenderanno le loro responsabilità”.

Le occasioni non mancano. Alcune sono già in calendario alla Camera – il lodo Annibali al voto dal 10 febbraio, la legge Costa che arriva il 24 – altre capiteranno al Senato dove la maggioranza può fare affidamento su numeri molto meno solidi. Lì, Italia Viva ha intenzione di presentare a nome di tutti i senatori, compreso Matteo Renzi, una proposta di legge per ripristinare la legge Orlando: “Entro sei mesi Bonafede dovrà cedere – è l’ultimatum dei renziani – Se non lo convincerà la politica, ci penserà la matematica”.

La situazione si è aggrovigliata parecchio e il premier sembra esserne più che consapevole. Tant’è che finge di credere che la piazza convocata dai 5 Stelle per sabato 15 febbraio sia solo contro lo stop al taglio del vitalizi, “una battaglia che M5S ha sempre fatto”. Il mantra, a Palazzo Chigi e dentro l’ala governista del Movimento, è ripetere che quella manifestazione è solo un momento “identitario” dei Cinque Stelle, che “avevano bisogno di tornare in piazza” per riannodare il filo con la base. E che hanno scelto i vitalizi perché credono sia “un buon tema” con cui provare a ridarsi la carica perduta. Tutto vero, per carità. Almeno fino a mercoledì, quando Luigi Di Maio – sorprendendo anche le truppe dei parlamentari – ha rilanciato il sit-in di piazza San Silvestro allargandolo però a molte altre questioni aperte sul tavolo dei giallorosa, dalla stessa prescrizione al reddito di cittadinanza. E infatti ieri sera, al reggente Vito Crimi è toccata la prima “sconfessione” dell’ex capo politico: sul Blog delle stelle ha lanciato la campagna in vista della manifestazione (tutta centrata su slogan del tipo: “Il lupo perde il pelo ma non il vitalizio”), senza fare alcun cenno alle “altre leggi che vogliono cancellare” anche quei partiti “che stanno al governo del Paese”, come invece aveva detto Di Maio. Una frase, quella del ministro degli Esteri, che ha non poco innervosito il segretario del Pd Nicola Zingaretti: “Chiedo un chiarimento al M5S, decidete cosa volete fare rispetto a questo governo, altrimenti nessun problema è risolvibile”.

Il chiarimento, per ora, glielo dà solo la ministra della Funzione Pubblica Fabiana Dadone: “Luigi scende in piazza come parlamentare”, butta lì provando a ridurre la portata dell’appello dell’ex capo politico. Non è ancora chiaro che faranno lei e gli altri colleghi di governo: “Non abbiamo ancora avuto tempo per pensarci”, è la replica a chi domanda se andranno in piazza. Del resto non c’è fretta: nove giorni, con l’aria che tira, sono un’eternità.

Cavilli di battaglia

Dicevamo delle tecniche e delle tattiche dilatorie per allungare i processi e mandarli in prescrizione. Quelle che molti avvocati di imputati eccellenti usano a piene mani, salvo poi negare di saperne niente. I processi a B. ne hanno offerto il catalogo più esaustivo, nel silenzio-assenso dell’avvocatura organizzata e altri improvvisati cultori della “ragionevole durata”.

All Iberian. B. e Craxi sono imputati dal 1996 per finanziamento illecito (23 miliardi di lire in Svizzera da Fininvest-All Iberian nel 1991, subito dopo la legge Mammì) e B. anche per i falsi in bilancio sulle centinaia di miliardi di fondi neri del sistema offshore All Iberian. Giugno ’98: dopo un anno e mezzo il processo, salta su un legale di B.: “La Procura non ha citato la Fininvest come parte lesa dei falsi in bilancio”: cioè come vittima dei reati del suo padrone e degli altri top manager Fininvest. Così la Fininvest non ha potuto costituirsi parte civile contro B., che non ha potuto chiedersi i danni da solo. Pare una barzelletta, invece è tutto vero. Il processo per tangenti prosegue, ma quello per falso in bilancio deve ripartire dall’udienza preliminare. Lì i pm citano come parte lesa la Fininvest, che ovviamente non si costituisce contro B., che intanto ha guadagnato 2 anni. Il processo-bis riparte nell’ottobre ’98, ma si riblocca subito: i difensori dicono che il capo d’imputazione è generico, non si capisce la differenza tra Fininvest Spa e gruppo Fininvest. I nuovi giudici annullano il rinvio a giudizio: terza udienza preliminare sulle stesse carte. B. finge di voler patteggiare e avvia trattative con i pm. Ma bluffa: pretende una condannina a 3 mesi, commutabile in multa. La Procura gli ride in faccia, ma intanto s’è perso altro tempo. Il terzo rinvio a giudizio arriva a fine 1999 e il secondo dibattimento parte a maggio 2000: tre anni e mezzo buttati. Gli avvocati ricusano la nuova presidente, che sarebbe prevenuta anche se ha dato loro ragione annullando il primo rinvio a giudizio. La Corte d’appello respinge l’istanza, ma la Cassazione l’accoglie: altri 9 mesi di udienze buttati. Il processo riparte per la terza volta il 27 marzo 2001. La difesa B. ricusa i due giudici a latere: respinta. Poi B. “riforma” il falso in bilancio: pene più basse, prescrizione più breve e niente più reato se la società è quotata e non è stata querelata da un socio. Siccome Fininvest è quotata e B. non si è querelato da solo, il reato è abolito. Nel 2005, dopo 9 anni di processo di primo grado, la sentenza: B. assolto perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Cioè perché l’imputato se l’è depenalizzato.

Scandalo Mills. Nel 2005 la Procura scopre che David Mills, consulente inglese di B. per le società estere All Iberian, è stato corrotto con 600 mila dollari nel 2000 per mentire nei processi GdF e All Iberian. B. e Mills sono indagati per corruzione giudiziaria. B. vara subito la legge ex Cirielli: la prescrizione per corruzione giudiziaria scende da 15 a 10 anni. Udienza preliminare: solita ricusazione del gup, respinta. Nel 2007 il processo: ennesima gimkana fra cavilli, impedimenti e trappole varie. Nel 2008 B. torna premier e si mette al riparo col lodo Alfano: verrà giudicato solo quando non sarà più premier. Mills invece è condannato a 4 anni in primo e secondo grado per essere stato corrotto da B. La Cassazione sentenzia il 25 febbraio 2010: siccome la tangente fu incassata il 29 febbraio 2000, restano 4 giorni prima della prescrizione. Ma la Corte va dietro agli avvocati e retrodata la tangente a tre mesi prima: non quando Mills la incassò, ma quando i soldi finirono su un fondo. Colpevole e infatti condannato a risarcire lo Stato, Mills si salva per prescrizione. Intanto B. è tornato imputato, perché la Consulta ha cancellato il lodo Alfano. Il processo di primo grado avanza a passo di lumaca, anche grazie al calendario al ralenty chiesto dai legali e generosamente concesso dal Tribunale (un’udienza ogni 15 giorni). E finisce il 27 gennaio 2012 con le arringhe. Detratti i tempi morti delle leggi ad personam, la prescrizione scatta il 15 febbraio: ci sono 19 giorni almeno per la prima sentenza. Ma gli avvocati bloccano i giudici sull’uscio della camera di consiglio con l’ennesima ricusazione. La Corte d’appello, per istanze così pretestuose, di solito impiega pochi giorni per respingerle. Ma stavolta dorme per un mese e respinge solo il 23 febbraio. La sentenza arriva il 25: tempo scaduto e “reato estinto per sopraggiunta prescrizione” (10 giorni prima).
Diritti Mediaset. B. è imputato per falso in bilancio, frode fiscale e appropriazione indebita per 368 milioni di dollari nascosti all’estero gonfiando il prezzo dei film Usa acquistati da Mediaset. Fatti commessi nel 1995-98 con effetti fiscali fino al 2003. Il primo grado dura dal 2006 al 2012: 6 anni di corsa a ostacoli, mentre si prescrivono tutti i falsi in bilancio, tutte le appropriazioni e le frodi più vecchie. B. è condannato a 4 anni in primo e secondo grado, dove la prescrizione si mangia tutti i reati superstiti, salvo le ultime due frodi sugli ammortamenti 2002 (4,9 milioni) e 2003 (2,4 milioni). La prescrizione scatta il 1° agosto 2013 e, per scongiurarla, la Cassazione tratta il caso con gli altri urgenti nella sezione feriale presieduta da Antonio Esposito. B. e i suoi strillano alla negazione del “diritto alla prescrizione”: il centrodestra impone al Parlamento un giorno di serrata in segno di lutto. La sentenza arriva il 1° agosto, ultimo giorno utile, e conferma la condanna. La prima e unica definitiva, sfuggita per puro caso alla regola ferrea dell’impunità. Tant’è che ancora se ne parla, a palazzo, con comprensibile orrore. Lo capite adesso perché tutti, a parte le persone oneste e le vittime dei reati, strillano contro la legge blocca-prescrizione?

“Sposo l’ambiguità: così rispondo ai violenti”

La quinta delle 28 scene del ciclo di affreschi della Basilica Superiore di Assisi. Dipinta alla fine del Duecento, si intitola “Rinuncia ai beni terreni”, è attribuita a Giotto, ma i critici ancora dibattono sulla mano del pittore, se il Maestro o i bottegai. Ritrae un uomo sul percorso della santità, nel momento in cui si spoglia delle ricchezze. È Achille Lauro. Una via francescana, con lo zampino di Gucci, gli indizi su Instagram, la didascalia “Dio sa che sono buono”, le foto con il vaticinio dei tarocchi: “Il futuro è nelle carte. Incontrerai quattro personaggi sulla tua strada”. Spiega Achille: “Abbiamo lavorato per un anno all’esibizione all’Ariston. In teatro non puoi sottrarti alla rappresentazione, e la mia è stata una prima performance a 360 gradi. Ma non sarà l’ultima del Festival”. La cappa impreziosita da ricami d’oro (e qui qualcuno ha evocato pure la Madonna degli Addolorati di San Severo) che cade di colpo dopo l’entrata in scena del punk-pop-rapper, rivelando un corpo non certo stremato dal fitness, un braghettone-body che farebbe tuffo nell’Aniene, se non fosse griffato.

“Mi metterò a nudo”, aveva minacciato alla vigilia, e nell’attimo rivelatorio l’illusione ottica risvegliava gli ardori di molte signore nelle ultime file, di età indefinibili, mentre a casa twitter veniva occupato militarmente dal giubilo della Generazione post-Z. Plauso unanime o quasi, tranne un’associazione dei consumatori che ha urlato alla “porcheria in diretta davanti ai bambini”. Ma quel che era fatto era fatto. Del resto o nasci Apollo o nasci Achille. L’imperfezione diventa sublimità in un fisico dalle linee più ironiche che iconiche, che diventa mitico e mistico a metà canzone. Niente conchiglione a proteggere le pudenda, maniglie dell’amore, per un déshabillé perversamente innocente. “Volevo sintetizzare in questa chance quel che faccio nei live. In pochi minuti il riassunto di quattro fasi: l’introspezione, poi lo stupore della rivelazione, quindi il nichilismo punk, infine l’accettazione di uno stato nuovo”. I personaggi annunciati dai chiromanti. “Tutto questo passaggio è accolto nel concept del brano, Me ne frego”, sottolinea Lauro.

La musica è la parte meno convincente del progetto, mentre l’idea è già nella storia del Festival. Me ne frego, ripete Achille, “ed è un buon viaggio per uno cresciuto al Tufello”, anche per lui l’orgoglio della borgata, come per Rancore. Me ne frego, e in questo hashtag naturale ci trovi Rugantino e Vasco, non il Duce. L’ambizione e l’eclettismo, nell’estasi achillea. “Voglio arrivare sempre più in alto. Dodici mesi fa presentavo qui Rolls Royce, c’era l’emozione del debutto, ora va meglio del 2019 ma sto facendo peggio del 2021”. L’ossessione delle date, i dischi siglati dall’anno della luna, 1969, e della nascita, 1990. “Ho pronti tre album. Ma mi dedico anche alla pittura, a nuovi libri, ai documentari. E metterò il mio corpo totalmente a disposizione dell’arte. Che è nei gesti di ognuno di noi, legittimata dal nostro fare”. Spiazzare è la missione di Achille: che obbliga anche i più riluttanti ad accostare le sue provocazioni a David Bowie e Lou Reed senza possederne il genio inarrivabile. O che ti costringe a parlare di San Francesco per una tutina trasparente che ricorda la Britney Spears di Toxic, o le acrobazie sexy di Jennifer Lopez al Superbowl. “Sposo l’ambiguità: siamo tutti nati dalle donne, e disinnescando la mia parte mascolina mi ribello alla violenza”, predica il santo della periferia rock and roll.

“Il coraggio di Rula per noi donne: siamo somme, non quote”

Non avevo mai incontrato Rula Jebreal fino a dieci giorni fa. Mi aveva telefonato, una volta, per ringraziarmi di un articolo sul Fatto in cui la difendevo dagli attacchi dei sovranisti livorosi, ed ero rimasta colpita da quella gentilezza inattesa. Tra l’altro, quel giorno, mi chiamò da un numero di New York e io ero pure indecisa se rispondere o no, “Con questa delocalizzazione gli operatori telefonici ora stanno esagerando”, mi ero detta.
Poi avevo realizzato che delocalizzare a New York anziché in Albania non pareva un grande affare, e quindi – per fortuna – avevo risposto. Perdonate l’incipit da provincialotta modello Amadeus quando dice che sognava fin da bambino di fare Sanremo, anche perché io non sognavo fin da bambina di ricevere una telefonata da Rula Jebreal e neanche di partecipare a Sanremo, cosa – quest’ultima – che ovviamente non è vera, ma visto che non è comunque avvenuta, fingo di essere superiore alle sirene del Festival così come agli sconti su Groupon.

Mi era sembrata simpatica, Rula, quella volta. Meno algida e maestrina di come appare in tv e qui già inciampo nel primo pensiero scivoloso. Perché mai, una donna preparata, col piglio giusto e l’aria cazzuta, dovrebbe essere “maestrina”? Se fosse un uomo direi, diremmo “autorevole”. Insomma, mi sono resa conto che guardandola in tv, l’avevo giudicata quasi da maschio. Da maschio superficiale, di quelli che se una è brava e si sa fa valere in un dibattito tirando fuori le unghie, deve essere per forza anche un po’ rompicoglioni. Poi non l’ho più sentita fino a dieci giorni fa, quando mi ha chiesto di incontrarci a Milano: “Ti devo chiedere una cosa”.

Il giorno dopo io e lei eravamo nel bar di un hotel davanti a un bicchiere di vino rosso biologico di cui Rula ha fotografato l’etichetta perché ne era innamorata e io lì ho pensato che una donna che fotografa l’etichetta di un vino non può essere maestrina. Una mestrina controlla il livello di solfiti, mica si innamora di un vino. In realtà Rula mi stava fregando come quegli uomini che ti versano mezzo bicchiere di champagne in più in un ristorante scelto con cura, per poi chiederti la mano o un assegno circolare, insomma, quello per cui ti hanno invitato lì. Rula mi stava lentamente seducendo, tra una chiacchiera e una battuta, mi stava conquistando col talento della grazia e il suo affetto avvolgente, affetto che ogni tanto dispensava anche a vecchi amici incrociati per caso al bar. L’ho vista abbracciare un sacco di persone, quella sera. Donne, soprattutto, e io la osservavo fingendo di essere distratta dal cellulare, mentre mi chiedevo se ci fosse uno straccio di persona immune a quei suoi modi che Amadeus, in uno slancio letterario inatteso, definirebbe “belli”. E quindi alla fine pensavo che al terzo bicchiere saremmo finite in qualche balera in cui le avrei spiegato che a Milano i veri fighetti fanno gli antifighetti andando, appunto, in balera anziché nei locali fighetti, e invece Rula così, all’improvviso, ha appeso il suo sorriso da qualche parte e “A Sanremo vorrei raccontare un’altra parte di me, vorrei raccontare cosa è successo a mia madre”. A quel punto il vino si è messo a fare il mestiere che doveva fare, cioè abbassare ogni difesa, farmi ascoltare. Rula mi ha chiesto di darle una mano a parlare di violenza sulle donne, a Sanremo, partendo da lì, dalla sua storia, di aiutarla ad arrivare lontano e a tutti, perché Sanremo è circo e paillettes e scalinate e pagelle e Beppe Vessicchio, ma è anche la platea più vasta e attenta dell’anno, e in quei 5 o 10 minuti che stai sul palco puoi cantare una canzone brutta o tentare di dire qualcosa che Amadeus, in uno slancio lirico, definirebbe “di bello”. O qualcosa di potente, magari.

E la storia di Rula è una storia potente, di violenza, di guerra, d’amore e di rivalsa che passa attraverso la cultura, il bello, l’affermazione di sé. Sua madre è stata stuprata da “chi aveva le chiavi di casa” e non è mai riuscita ad affrancarsi da un dolore che non ha potuto gridare, perché nessuno l’avrebbe ascoltata. Si è suicidata dandosi fuoco, dopo aver provato ad avere una vita normale, “ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente”. Aiutarla a scrivere di questo, con i suoi autori del Festival, è stato un privilegio e una responsabilità, perché stavo maneggiando il suo dolore e non si può sbagliare quando qualcuno ti chiede di farlo con efficacia, senza dimenticare la delicatezza.

Ma abbiamo scelto, con Rula, di parlare anche di uomini e agli uomini. Di non raccontare solo i peggiori, di rivolgerci ai migliori, a quelli che abbiamo semplicemente chiamato “uomini perbene”. Perché si indignino, quando qualcuno ci dice cosa è etico, cosa è morale, cosa è opportuno. Perché siano al nostro fianco. Perché ci difendano da chi ci maltratta, da chi ci vuole sottomesse o, peggio, decorative. Perché noi donne non vogliamo essere quote, non vogliamo contare qualcosa per gentile concessione. Le donne non sono quote. Sono somme. Somme meravigliose di qualità uniche. E gli uomini non devono aiutarci a trovare un angolo, devono aiutarci a educare i nostri figli a dare per scontato che lo spazio, tutto, sia anche nostro. Questo abbiamo provato a dire con Rula. E lei, con il suo abito migliore, l’emozione giusta e la sua adorabile autorevolezza, è arrivata lontana. Del resto, io l’avevo capito già al bar, che ci avrebbe convinti tutti.

Più Ricchi che Poveri. Ama & Fiore battono il Festival di Baglioni

Il Festival è l’unico miracolo della televisione italiana che riesce sempre a battere il se stesso dell’anno prima. Alla fine, dopo settimane di attese tremebonde, è arrivato il verdetto del pubblico: volano gli ascolti della prima serata dell’edizione targata Amadeus che batte il predecessore Claudio Baglioni, con 52,2 di share contro il 49,5%. Un risultato così non si vedeva dal 2005 con Bonolis. Sarà stato il vestito amuleto di Don Matteo? Chissà. È ancora presto, ma almeno per ora possiamo dire che la coppia formata da Amadeus conduttore e Fiorello disturbatore funziona. Uno ha tenuto benissimo il palco e gestito con disinvoltura una scaletta disumana (bravissimo a recuperare il momento di commozione di Tiziano Ferro dopo l’errore su Almeno tu nell’universo di Mia Martini), l’altro ha dosato bene le sue incursioni, senza esagerare con i protagonismi. Uno senza l’altro non potevano stare: ad Amadeus manca la personalità, a Fiorello la voglia di prendersi la responsabilità di questo complicato carrozzone. Ma a lui si perdona tutto. Ieri si è presentato vestito da Maria de Filippi, con straordinario coraggio (stacco di gambe niente male, tacco 12, 45 di piede), look davvero azzardato (“sembro Boris Johnson piastrato”) e un memorabile abbraccio all’imbarazzatissimo direttore di RaiUno Stefano Coletta, ormai parte del cast effettivo del Festival. Maria Rosario Fiorello ci sa fare. Poi è la signora di Mediaset, di persona personalmente, che telefona in diretta sul cellulare di Fiore. Lei parla, lui la doppia: “Buonasera e benvenuti al settantesimo Festival di Sanremo”. Cosa vuol dire avere un’idea.

Più tardi Fiorello, che sa fare tutto, balla Stayin’ alive canta una Classica canzone di Sanremo (da programma) e s’infila nel grande momento di questa seconda serata: la reunion degli zii d’Italia, i Ricchi e Poveri, per la prima volta dal 1981 nella formazione originale con Marina Occhiena. Se m’innamoro, Sarà perché ti amo, Mamma Maria: ecco cos’è rimasto degli anni Ottanta! E naturalmente anche Solo un sana e consapevole libidine di Zucchero, uno dei superospiti della seconda serata, insieme a Gigi D’Alessio e Sabrina Salerno. Ma c’è anche Massimo Ranieri e non poteva mancare il duetto con Tiziano Ferro con Perdere l’amore. Commosso il tributo dell’Ariston a Fabrizio Frizzi.

Ama&Fiore, i due del Sanremo 70, fanno tornare in mente Pippo Baudo, il principe dei presentatori, e i suoi guitti: da Beppe Grillo (insieme qui presentarono i Queen nel 1984) a Roberto Benigni, il cui monologo è attesissimo per oggi. Certo Sanremo è Sanremo ed è tante cose. Un carnevale kitsch pieno di banalità inaudite (la gag calcistica della Leotta) e insieme di momenti alti, emozionanti, profondi (come il monologo di Rula Jebreal). Sanremo resta sempre un palco incandescente (anche se a Grillo, nell’1987, fu fatale quello di Fantastico 7 per la famosa battuta sui socialisti). Vedremo se Benigni si presenterà nella scatenata versione 2002 (memorabile la declinazione politica del Giudizio universale, condita con battute sulle pudenda del Baudo nazionale) o in quella più istituzionale del 2011. Un po’ di sale non guasterebbe.

A proposito di polemiche, ieri si è riaccesa quella mai davvero spenta su Junior Cally (che a questo punto forse verrà spedito direttamente nelle colonie via mare, malgrado il tentativo di presentarsi come un bravo ragazzo). Contestazioni a parte (anche i sindacati di polizia lo hanno criticato), ieri l’attacco più significativo al rapper l’ha fatto Gessica Notaro, la coraggiosa donna sfregiata dall’ex fidanzato, sul palco martedì sera. Ieri davanti ai giornalisti ha due foto affiancate: Junior Cally con la maschera, e lei stessa con la maschera che le protegge il viso ustionato. “Lui la usa per idolatrare la violenza, io per difendermi dalla violenza che ho subìto”.

Il Watersgate della Rai: chi ha paura di Roger?

Un muro invalicabile ha separato la Rai da Roger Waters. Ma eccolo lì, il video che il fondatore dei Pink Floyd aveva inviato come “regalo” all’ex fidanzata Rula Jebreal come opening del suo debutto all’Ariston, in vista del vibrante monologo contro la violenza.

In quei tre minuti di contributo dapprima annunciato e poi mai andato in onda, Waters sottolineava che i diritti delle donne sono diritti umani, e che la battaglia contro gli abusi va sostenuta in ogni modo. Poi ribadiva che lui ama l’Italia, che il nostro è un popolo coraggioso e si complimentava con Sanremo che tanto spazio aveva scelto di dare al mondo femminile. Infine citava una delle sue canzoni più recenti (Waiting for her, contenuta nell’album Is this the life we really want?) ispirata a una poesia dell’intellettuale palestinese Mahmoud Darwish. “Da quella poesia”, spiegava il leggendario rocker, “ho imparato che le donne non basta amarle ma bisogna saperle ascoltare”.

Niente, a quanto pare, di così scomodo e ingombrante da indurre i vertici di Viale Mazzini a gettare nel cestino un intervento tanto breve quanto condivisibile. Waters non citava Salvini (come aveva fatto nella sua irata prolusione al Festival del Cinema di Venezia), non si lanciava in un attacco a Israele per la politica definita “nazista” contro i palestinesi; nessuna intemerata neppure contro Trump, che nei concerti diventa per il bassista una sorta di maiale micropenico. E allora a chi ha fatto paura l’autore di The Wall? Perché silenziarne la prestigiosa voce?

Facciamo un passo indietro: è martedì mattina, nel bel mezzo della conferenza istituzionale nella sala stampa, con la Jebreal al suo fianco, Amadeus tira fuori il coniglio dal cappello. Alla giornalista chiedono che fine ha fatto la vagheggiata intervista a Michelle Obama. Non sono riusciti a organizzarla, ma lei ha qualcosa nel suo Whatsapp privato: però questo lo sapremo 24 ore dopo. Con un sorriso radioso, il direttore artistico annuncia: “Un regalo Rula l’ha fatto a tutti noi che amiamo molto la musica. Questa sera prima del suo ingresso, manderemo il video di un signore che ha venduto 50 milioni di dischi, e con un solo album. L’album è The dark side of the moon e lui è Roger Waters”. Boom! Poco ci manca che venga proiettato in anteprima per i cronisti un frammento del clippino, ma si opta per non rovinare l’effetto sorpresa. La notizia rimbalza su tutti i siti, è un punto a favore del buon nome del Festival.

Alle otto di sera, regolarmente, nella scaletta distribuita dalla Rai agli addetti ai lavori il video di Waters è previsto dopo l’esibizione di Rita Pavone e prima della comparsa di Rula. Ma niente, al momento cruciale non c’è più traccia di Roger. Gli uomini di Viale Mazzini dapprima si giustificano con una “decisione provvisoria, si vedrà più tardi”, poi quei tre minuti scottanti spariscono definitivamente dal racconto del Festival. Rula commuove con il monologo ricco di accenni autobiografici, ma senza potersi appoggiare al “dono” filmato dell’ex partner. “Decisione legata alla scaletta”, come se quattro ore di show inzeppate di risibili leggiadrie potessero incepparsi per il mini-discorso di Waters.

Passa la notte senza spiegazioni: i muri tacciono, ma i corridoi sussurrano che la scaletta non c’entri. E allora chiediamo al direttore di Rai1 Stefano Coletta: di cosa parlava Roger? Sarà mica censura? Coletta si lascia ammirevolmente martirizzare accollandosi la responsabilità di una decisione nata, con ogni probabilità e nel rispetto delle gerarchie, a un piano più alto del suo a Viale Mazzini. La versione ufficiale: “Amadeus ha gestito una diretta di per sé complicata”, ci ha risposto il neo-comandante della rete ammiraglia. “Le scalette consegnate ammettono sempre possibilità di variazione, non c’è stata alcuna censura. Quando abbiamo rivisto quella di ieri sera, come direttore ho pensato che il preludio di Waters al monologo di Rula Jebreal fosse uno start davvero ritardante rispetto a un quadro che bastava da sé. Penso non avesse bisogno d’altro”.

Ma c’è chi intravede in quel colpo di forbici la manina del presidente Rai Marcello Foa, uno al quale Waters starà sicuramente sul gozzo, come tutti quelli che si mettono di traverso al Citofonatore; quel Waters che quando parla di Israele va a urlare sotto il Muro dalla parte di Gaza, e che progetta show anti-Trump al confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Chissà, magari Foa non ha neppure visto il video: in certi casi, basta la parola. Anzi, il nome.

 

Drogarsi a 12 anni: sindrome da zombie, Alzheimer e coma

“Il passaggio dalle droghe leggere alle nuove sostanze lo si registra a 16 anni”, spiega Carlo Locatelli, direttore del Centro nazionale di informazione tossicologica presso gli Istituti clinici scientifici Maugeri di Pavia. “Abbiamo studiato circa 1.700 casi di intossicazioni acute da droghe sintetiche – spiega Locatelli – e, di questi, il 3% riguarda ragazzi di 11-15 anni”.

Non solo giovani adulti, anche giovanissimi, quindi, tra i consumatori delle “Nuove sostanze psicoattive”…Ci è capitato un caso in cui sono arrivati, in un pronto soccorso italiano, tre ragazzi: uno di 12 anni, uno di 14 e un altro maggiorenne. I più piccoli sono finiti in reparti pediatrici con convulsioni, tachicardia, agitazione. Il maggiorenne invece presentava una forte cardiotossicità e clonie, ovvero movimenti ripetuti degli arti che non si possono bloccare, oltre a gravi difficoltà respiratorie. Tutti e tre avevano assunto cannabinoidi.Che sostanze sono?Sono le più diffuse: circa 450 molecole combinate in 14 famiglie differenti che si rinnovano aumentando la potenza. Mettono insieme gli effetti di marijuana e cocaina. La loro assunzione porta a importanti cardiotossicità che provocano in molti casi infarti o ictus, anche in consumatori giovanissimi.Come si riconosce un’intossicazione da cannabinoidi?Ci si trova di fronte a due fasi. Quella acuta, caratterizzata da grave agitazione, la si rileva all’ingresso in pronto soccorso. E quella post-acuta o cronica: violenti attacchi di panico, schizofrenie… In via generale ci si trova di fronte a un soggetto non contattabile, a volte perfino violento. Le persone in questa fase non rispondono alle domande, non reagiscono agli stimoli, e questo è un problema dal punto di vista della prassi sanitaria, perché per noi medici è necessario poter interagire. Questo effetto negli Stati uniti lo chiamano “sindrome da zombie”.Gli effetti possono modularsi a seconda dell’età dell’assuntore?Tutto dipende dal singolo individuo, da come reagisce alla sostanza, dal tipo di dipendenza. I recettori cambiano da persona a persona. Per questo, tra i gruppi di ragazzi che vanno a sballarsi a Ibiza, qualcuno torna vivo e qualcun altro no.Nell’elenco delle sostanze sintetiche stupefacenti c’è anche la Ketamina che però è un anestetico…Oggi questa sostanza fa registrare il doppio degli accessi in pronto soccorso per intossicazione, rispetto alle altre. Si tratta di una sostanza usata in chirurgia. Il problema arriva quando la si usa per altro. Può avere un effetto terribile: è dissociativa. Nel sistema nervoso crea molte alterazioni, fino a precipitare in uno stato di quasi morte. Il comportamento è violento, la dissociazione è terrificante: ci si vede dentro a un altro corpo, si vede il nostro corpo scomposto in più parti. Mettendo insieme i tanti casi di pazienti analizzati in uno stato acuto si arriva addirittura a tentare di accoltellare altre persone.Quali sono i danni che provoca?Gravi insufficienze renali, deficit motori e psichici, lesioni definitive dei neuroni. Tanto che, dopo assunzioni massicce, ci si può ritrovare a vent’anni con un cervello in stato di Alzheimer. Ma le sostanze sono tante. Ci sono ad esempio i catinoni, o anche droga del cannibale. Chi l’assume mostra accessi di violenza inaudita. C’è stato il caso della “donna-lupo”, che camminava a quattro zampe, saltava a quattro zampe, e in quanto lupo, sentendosi in pericolo davanti alle persone, mordeva e graffiava. I catinoni sono una vera bufera nel sistema nervoso centrale. Ci si trova in uno stato di eccitazione tale da compiere movimenti fisici non sostenibili dal nostro organismo provocando, al termine dell’effetto, danni muscolari importanti o addirittura irreversibili. E le amfetamine?Certi tipi di amfetamine provocano ipertermie letali. Sono eccitanti, e dunque aumentano la temperatura del corpo. Il corpo può arrivare fino a 42,5 gradi il che equivale a un decesso quasi certo per il collasso di tutti gli organi. Ecco perché molti assuntori vengono trovati nudi nei boschi, dove notoriamente fa freddo: per riuscire ad abbassare la temperatura corporea.Quindi in alcuni casi tra gli effetti vi è anche la morte?Non vi è dubbio. In questo senso i killer più letali sono i derivati dei fentanili usati in medicina. L’effetto è quello dell’eroina, ma cento volte più forte. Un minimo errore nel dosaggio e la pupilla si assottiglia, annunciando coma e morte, in rapidissima successione.

Padre Georg in monastero a curare Benedetto

Forse è troppo tardi. Forse è troppo presto. Monsignor Georg Ganswein, il segretario particolare di Joseph Ratzinger, non appare in pubblico da tre settimane, non accoglie i capi di Stato in visita ufficiale, non accompagna papa Francesco in udienza, viene sempre sostituto dal reggente Leonardo Sapienza, ma rimane il prefetto della Casa Pontificia. Colui che cura la vita del pontefice.

Questa visibile assenza, secondo i media, tedeschi come Ratzinger e Ganswein, è una punizione al vescovo che serve “due papi”, ma più volte non ha garantito una serena convivenza tra Benedetto e Francesco. Per esempio, di recente, con l’adesione di Ratzinger – un testo e la firma, poi tolta, anzi no – al libro del cardinale Robert Sarah che invoca il rispetto del celibato per il sacerdozio, come se Jorge Mario Bergoglio volesse ordinare ovunque preti sposati, nient’altro che l’ennesima contestazione al pontificato di Francesco e picconata all’integrità della Chiesa.

Il Vaticano ha smentito un “congedo” di Ganswein, ma ha menzionato con termini vaghi una “ridistribuzione dei compiti” con un maggiore impegno del prefetto accanto a Ratzinger, nel monastero in cui s’è rinchiuso il papa emerito sette anni fa, dopo le dimissioni annunciate in latino e dopo la ristrutturazione dello stabile avviata in gran segreto.

Ganswein non ha impedito che la figura di Ratzinger, magistrale per le questioni teologiche e dottrinali, nutrisse la fazione degli oppositori a Bergoglio; si dice impedire perché Ratzinger ha quasi 93 anni, si esprime con un tono di voce impercettibile, si muove in sedia a rotelle e ogni suo pensiero e ogni sua parola passano attraverso padre Georg, l’unico uomo che abita nel monastero assieme a quattro Memores Domini, suore consacrate laiche.

Complice l’assenza di una normativa per regolare l’esistenza di un ex papa, a cui Ratzinger non ha posto rimedio durante il periodo di transizione, Ganswein è diventato un riferimento dei critici di Bergoglio, i vescovi e i cardinali che già lavorano al prossimo conclave. Finché Ratzinger è in vita, però, non sarà degradato o rimosso. Questa era la sua immunità. Questa era la sua condanna. Valide col dubbio fino a oggi. Altrimenti da tempo Francesco l’avrebbe spedito in una diocesi in Germania. “Se la conferenza episcopale tedesca lo accetta”, precisano astiosi i bergogliani.

Allora la sparizione di Ganswein non va soltanto legata al libro di Sarah, ma pure alle condizioni di salute di Ratzinger, che da prima di Natale ha ridotto le visite e le attività quotidiane. Il Vaticano è un luogo di decisioni ponderate e non di ritorsioni immediate, ragion per cui la Chiesa solca secoli e secoli, dunque il “congedo” di Ganswein non ha una logica – non è lo stile di Francesco – se non abbinato all’esigenza di assistere Benedetto. È la sensazione che più angoscia il clero, più di un eventuale allontanamento o licenziamento di padre Georg. Si prega per Ratzinger.

Alla faccia della Ue: Varsavia mette il bavaglio ai giudici

Già approvata in precedenza al Sejm, la Camera bassa del Parlamento di Varsavia, con 233 voti a favore, 205 contro e il giubilo compiaciuto della maggioranza del Pis, partito Diritto e Giustizia, è stata firmata la nuova riforma della giustizia dal presidente polacco Andrey Duda. Da oggi comincia l’era del bavaglio ai giudici in Polonia. Nuovi imperativi per i magistrati: saranno puniti se entrano in politica, allontanati se criticano le sentenze dei colleghi, privati di ogni forma di rivendicazione, autonomia o indipendenza. Le pene previste per i togati che si ribellano alla nuova legge: taglio dei salari, multe, retrocessioni, sospensioni, licenziamento.

Verranno puniti se le loro azioni o sentenze saranno dannose per il governo che promuove l’emendamento come “trionfo della democrazia, fine della dittatura dei giudici” e come cambiamento necessario per “prevenire l’anarchia, mettere fine alla corruzione, rinnovare il sistema giudiziario di epoca sovietica”. Fenomenologia dell’ingiustizia polacca. Per l’accigliata e bionda Malgorzata Gersdorf, fiera presidente della Corte suprema, si torna esattamente ai giorni della legge marziale comunista: “Chiedo che si fermi l’odio verso giudici e corti, che si smetta di usarli come arma nella lotta per il potere, questa repressione, come quella del 1981, è una triste espressione di impotenza più che di forza”. Inequivocabile sarà d’ora in poi il controllo esercitato sui togati polacchi da parte del potere politico che potrà procedere indisturbato dopo l’approvazione di un emendamento che l’Unione europea, con la stampa indipendente polacca, chiama da mesi “legge museruola”. Nel “giorno triste della Polonia, che comincia a lasciare il sistema legale Ue” per la candidata dell’opposizione Malgorzata Kidawa-Blonska “il presidente ha sigillato un attacco al sistema giudiziario indipendente”. Duda però intanto continua a imperversare in vetta ai sondaggi delle elezioni presidenziali che si terranno a maggio prossimo. Solo terzo, secondo le previsioni, arriverebbe Robert Biedron, candidato delle tre sinistre, timida testa d’ariete di un’opposizione che ha visto trionfare il Pis alle ultime elezioni alla Camera ma non al Senato. Assieme alle parole di sdegno c’è il simbolo che i cittadini hanno scelto come icona della loro protesta.

Una benda nera, fascia di lutto della libertà perduta, sulla costituzione bianca e rossa del loro Paese, esposta tra le mani di migliaia che nelle ultime settimane sono scesi per strada a manifestare invano. Le marce di Varsavia, Cracovia e le maggiori città del Paese non hanno fermato l’avanzata del progetto dettato dalla volontà carnivora del leader Pis, Jaroslaw Kaczynski, che ha cominciato a riformare a favore dell’esecutivo il sistema giudiziario sin dalla vittoria del partito nel 2015.

Sulla sua pelle e sulla stoffa nera della sua toga ha già pagato le sue critiche il giudice Pawel Juszczyszyn, che ha alzato la voce contro alcuni provvedimenti e gli ultimi incarichi giudiziari. L’unica risposta ottenuta è stata una multa che lo ha privato del 40% del suo salario.

Romney: “Voto contro”. Però Trump è assolto per due volte

Assolto, sia per l’accusa di abuso di potere che per quella di ostruzione al Congresso. Donald Trump incassa il voto del Senato che rappresenta un’altra pietra tombale per la strategia democratica. Ma l’impeachment ieri ha riservato un’ultima sorpresa: Mitt Romney, ex candidato repubblicano alla Casa Bianca, ha votato contro The Donald. Il senatore dello Utah, che diventa così il primo repubblicano a sostenere la rimozione del presidente per il Kievgate, ha detto di ritenere Trump “colpevole di un terribile abuso della fiducia pubblica”. Valutazione che ieri però è stata bocciata.

Ma la vera batosta è stata ovviamente per i Dem, apparsi sempre più nervosi sia per l’impeachment che per i caucuses nello Iowa, dove ancora si contano i voti. A dimostrarlo il clima e i siparietti del discorso sullo Stato dell’Unione, l’altra sera, nell’aula della Camera, con il Congresso riunito in sessione comune. I repubblicani applaudono quasi ogni frase del magnate presidente e scandiscono “Altri quattro anni”. I democratici sono gelidi: Nancy Pelosi, la speaker della Camera, cui Trump, arrivando, non stringe la mano con gesto brusco, strappa ostentatamente il discorso del presidente. Chi s’aspettava in questa occasione da Trump un programma articolato è rimasto deluso. L’ultimo discorso sullo stato dell’Unione del mandato del magnate è stato celebrativo: dell’America e di se medesimo. Il presidente parla d’un “Great American Comeback” e dice: “Sarà nostra la prima bandiera su Marte”. Trump ha di che gongolare: il “disastro” dei dem nello Iowa; l’assoluzione dall’impeachment; e un maxi-spot elettorale, a reti tv unificate. Nello Iowa, con quasi i tre quarti delle schede contate, Pete Buttigieg è avanti con il 26,8% dei voti, tallonato da Bernie Sanders al 25,2%. Terza è Elizabeth Warren al 18,4% e solo quarto Joe Biden al 15,4%.