Dietro l’exploit di Buttigieg la app dei “soliti sospetti”

Le teorie del complotto intorno al caos sui risultati delle primarie in Iowa mancano di prove per dimostrare che qualcuno ha imbrogliato (il sospettato: Pete Buttigieg). Ma sono comunque utili a spiegare in che condizioni è il Partito democratico oggi, quasi senza speranze contro Donald Trump. I sospetti cominciano già prima del voto di lunedì: il principale giornale dello Stato, il Des Moines Register, cancella il tradizionale sondaggio della vigilia. Uno degli intervistatori, forse per problemi di vista, aveva allargato la visuale sullo schermo del pc della pagina con la lista dei candidati da sottoporre agli intervistati: uno dei nomi finiva così nascosto, in basso. Visto che il computer rimescola l’ordine a ogni telefonata, l’errore era poco rilevante. Si potevano comunque rimuovere i dati raccolti da quell’intervistatore. Invece no, via tutto il sondaggio, dopo le proteste di un unico candidato: Pete Buttigieg.

Come faceva a sapere che i risultati penalizzavano proprio lui? Mistero.

Il 38enne ex sindaco di South Bend, cittadina di 100 mila abitanti nel conservatore Stato dell’Indiana, è anche quello che più si è sbilanciato nella notte di lunedì: mentre tutti gli sfidanti erano in attesa dei risultati (a ieri non ancora definitivi) e predicavano cauto ottimismo, Buttigieg ha annunciato di marciare “vittorioso verso il New Hampshire”. I primi dati ufficiali, diffusi tra la notte di lunedì e martedì, hanno confermato che Buttigieg ha ottenuto il 26,8 per cento dei consensi, davanti al “socialista” Bernie Sanders (25,2). Ma come faceva Buttigieg a sapere i risultati in anticipo? Sui social la sua etichetta di “major Pete”, sindaco Pete, è presto diventata “major Cheat”, sindaco imbroglione. Per certificare il voto in Iowa, complicato perché basato sugli spostamenti fisici dei militanti in gruppi affiliati a ciascun candidato e non su schede nell’urna, il Partito democratico si è affidato a una app dell’infelice nome di Shadow (ombra), controllata da un’organizzazione non profit dal brand ancora più opinabile, “Acronym”. È stato un disastro, i coordinatori dei voti locali – militanti del rurale Iowa, non programmatori della Silicon Valley – hanno dovuto usare una app difficile da scaricare, quasi impossibile da usare e mai davvero testata dall’azienda. I documenti della commissione elettorale rivelano che a luglio Buttigieg ha comprato da Shadow 42.500 dollari di servizi di messaggistica (verso potenziali elettori), come pure un altro degli sfidanti Democratici, l’ex vicepresidente Joe Biden. Per spiegare cosa sono Acronym e Shadow bisogna addentrarsi nel centro più opaco del Partito democratico: Acronym è un ente non profit che sembra servire soprattutto ad aggirare i limiti sulle donazioni elettorali delle aziende, ha promosso un SuperPac (i fondi che sostengono i candidati senza – ufficialmente – coordinarsi con le loro campagne) che ha raccolto 7 miliardi di dollari da gente come Steven Spielberg in vista delle Presidenziali 2020 per battere Trump. Acronym dovrebbe colmare il divario di competenze digitali tra i trumpiani, maestri delle pubblicità mirate via Facebook, e i Democratici, per evitare il bis del disastro del 2016. Al vertice di Acronym, per gestire un piano di inserzioni colossale da 75 milioni ci sono un team di ex ingegneri di Facebook, nel consiglio di amministrazione c’è David Plouffe, già stratega di Barack Obama poi diventato ricco come lobbista di Uber.

I dati sui finanziamenti – almeno la parte pubblica – confermano che Pete Buttigieg è l’uomo di riferimento tra i Democratici delle grandi aziende tecnologiche che temono la vittoria alle primarie di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren: Alphabet, cioè Google, è il primo sostenitore con 248.000 dollari, ma c’è pure Facebook con 60.000. Con il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, Buttigieg ha una lunga frequentazione che risale ai tempi in cui erano entrambi ad Harvard.

Che ci sia stato un complotto del vertice del partito e delle aziende di area contro i radicali Sanders e Warren a favore di Buttigieg o che il disastro dell’Iowa sia solo dovuto a incompetenza, l’unica certezza è che Trump è un po’ più sereno.

La terra promessa: noi e Hong Kong

Sono nato nel 1996, l’anno del Topo di fuoco, nove mesi prima che la sovranità di Hong Kong tornasse a Pechino. Secondo lo zodiaco cinese, che segue un ciclo di sessant’anni, il Topo di fuoco è avventuroso, ribelle e loquace.

Da cristiano, non credo nell’astrologia, né occidentale né orientale, ma in queste previsioni sui tratti della personalità mi ritrovo abbastanza, soprattutto per quanto riguarda il parlare troppo. “Quando Joshua era ancora un neonato, anche con il biberon in bocca riusciva a produrre i suoni più diversi, come se stesse tenendo un comizio”. (…) Quando avevo sette anni i medici dissero che ero dislessico. (…) Ma il mio disturbo non ha avuto conseguenze sul linguaggio. Parlare con sicurezza era un modo per compensare la mia debolezza. Il microfono mi amava e io amavo lui ancora di più. Da bambino, raccontavo barzellette in chiesa e facevo domande che neanche i ragazzi più grandi di me osavano porre. Mi piaceva tartassare il prete e i membri più anziani della congregazione con interrogativi del tipo: “Ma se Dio è così pieno di bontà e gentilezza, perché lascia soffrire le persone povere in case simili a gabbie a Hong Kong?”. (…) A parte una minoranza di insegnanti e genitori che avrebbero voluto che quel piccolo saputello chiudesse la bocca, sia a scuola sia in chiesa tutti stravedevano per me. “Tuo figlio è speciale. Un giorno sarà un bravo avvocato!”, dicevano a mio padre a messa. In Occidente, la gente è portata a pensare che un bambino senza peli sulla lingua possa diventare un politico o un attivista. In una città come Hong Kong, dominata dal capitalismo, queste sono invece considerate due professioni dalle quali stare alla larga: molto meglio una laurea in Legge, Medicina o Economia.

Ma i miei genitori non la pensavano così e mi hanno allevato secondo altri principi. Sono entrambi devoti cristiani. Mio padre è stato un tecnico informatico, poi è andato in pensione anticipata per dedicarsi alle attività della chiesa e al volontariato. Mia madre lavora in un centro che offre servizi di counseling alle famiglie in difficoltà. Si sposarono nel 1989, poche settimane dopo che il governo cinese aveva inviato i carri armati contro gli studenti riuniti in protesta in piazza Tien an men. (…) Il mio nome cinese, Chi-fung, viene dalla Bibbia. Letteralmente significa “una cosa affilata”, riferendosi al Salmo 45, 6 dell’Antico Testamento che recita: “Le tue frecce sono acute – sotto di te cadono i popoli –, colpiscono al cuore i nemici del re”. I miei genitori non desideravano che io ferissi il cuore di nessuno, ma volevano che dessi voce alla verità e la usassi come una spada per falciare bugie e ingiustizie. (…)

Tutti quelli del mio anno erano nati dopo il trasferimento della sovranità di Hong Kong alla Cina, siamo la generazione venuta al mondo durante l’evento politico più importante della storia di Hong Kong. Il 1° luglio 1997, dopo 156 anni di dominio britannico, la città si lasciò alle spalle il passato da colonia e tornò alla Cina comunista. Il Passaggio in teoria avrebbe dovuto essere festeggiato (…), ma per la maggior parte degli abitanti di Hong Kong non c’era nulla per cui essere allegri. Molti dei nostri parenti e amici avevano lasciato la città anni prima di quella fatidica data per paura del governo comunista. Quando sono nato io, già mezzo milione di cittadini era emigrato verso Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Per loro “comunismo” era sinonimo di disordine politico come all’epoca del Grande balzo in avanti: il piano economico che, tra il 1958 e il 1962, si proponeva di industrializzare la Cina, ma che portò alla morte di circa 30 milioni di contadini per carestia. Oppure come la Rivoluzione culturale di Mao Tse Tung che, tra il 1966 e il 1976, mirava a eliminare tanto i rivali politici quanto il pensiero capitalista. Il comunismo era il principale motivo per cui quei cittadini si erano trasferiti a Hong Kong con le loro famiglie. L’idea di essere riconsegnati ai “ladri e assassini” – per usare le parole di mia nonna – da cui erano fuggiti era terrificante e inconcepibile.

Per chi, come me, era sempre vissuto sotto il governo cinese, quelle erano semplici favole e leggende metropolitane. (…) Se si escludono gli autobus a due piani simili a quelli di Londra e i nomi inglesi delle strade come Hennessy, Harcourt e Connaught, non avevo ricordi della Hong Kong coloniale né sentivo alcun legame con il governo britannico. Nonostante in molte scuole, come la mia, si continuasse a fare lezione in inglese, a noi studenti veniva insegnato l’orgoglio per le numerose conquiste economiche della Cina moderna, senza tralasciare il fatto che il Partito comunista cinese avesse tirato fuori centinaia di milioni di persone dalla miseria più totale. (…)

La mia prima esperienza del principio “un Paese, due sistemi” fu molto più viscerale rispetto ai vari trattati internazionali e accordi costituzionali. A cinque anni, i miei genitori mi portarono in vacanza a Guangzhou, la capitale della provincia del Guangdong di cui fa parte anche Hong Kong. Era il 2001, lo stesso anno in cui la Cina aderì all’Organizzazione mondiale del commercio dando inizio al suo miracolo economico. A quel tempo Guangzhou era ancora un’area isolata rispetto a Hong Kong. Internet non raggiungeva tutte le zone e molti siti web erano bloccati. Anche se la gente di Guangzhou parlava cantonese come noi, si comportava in modo completamente diverso. A Hong Kong non sputavamo per strada né ci accucciavamo per terra. Facevamo sempre la fila, aspettando il nostro turno alle casse o agli sportelli. In Cina non era così. In più, si guidava dall’altra parte della strada e la gente pagava con piccole banconote malridotte chiamate renminbi. I cartelli pubblici e i menu al ristorante erano scritti in caratteri semplificati dall’aria familiare, ma non proprio uguali a quelli che usavamo a Hong Kong. Anche la Coca-Cola aveva un sapore diverso, perché l’acqua che usavano aveva uno strano retrogusto. (…) Per certi aspetti, Hong Kong è come un bimbo che è stato affidato a una famiglia bianca e che poi, senza il suo consenso, è tornato dai suoi genitori biologici cinesi. La madre e il figlio hanno poco in comune, dalla lingua agli atteggiamenti fino alle opinioni sul governo. Più il figlio è costretto a mostrare affetto e gratitudine nei confronti di quella madre perduta e ritrovata, più le si oppone. (…)

Questo riassume a grandi linee ciò che provano quelli della mia generazione, i primi a essere cresciuti dopo la fine del mandato britannico, ma prima che Hong Kong finisse in mano alla Cina. L’ambivalenza che la mia generazione avverte nei confronti di questa presunta madrepatria ci spinge a cercare modi per colmare un vuoto emotivo. Ci sforziamo di ritagliarci il nostro posto nel mondo e di trovare un’identità che ci rappresenti davvero. Un’identità che sempre più vediamo rispecchiata dalla nostra cultura pop, dalla nostra lingua, dal nostro cibo e dal nostro stile di vita. (…) Quando avevo dieci anni, la notizia che fece più scalpore a Hong Kong erano le proteste per impedire la demolizione di due moli di traghetti di grande importanza storica, gli amati Star Ferry Pier e Queen’s Pier. Le manifestazioni di dissenso andavano ben oltre la semplice resistenza contro la fredda riqualificazione urbana e la gentrificazione. Riguardavano la difesa dei primi germogli della nostra identità. (…) La nascita della nuova Hong Kong era appena iniziata.

 

Restaurazione Sanremo, il vero regista è Metternich

Questo non è il festival di Amadeus. Questo è il festival presentato da Forrest Gump Amadeus, che di fronte all’emergenza ha chiesto aiuto al migliore amico (cosa non si fa in nome dell’amicizia!).

Ma allora, chi è il regista di questo Sanremo? Don Matteo? O forse il principe Klemens von Metternich, arrivato direttamente dal Congresso di Vienna? Deve essere lui, perché questo è il festival della doppia restaurazione. Restaurazione televisiva, con i cantanti che cercano in tutti i modi di bucare il video (e non solo quello), le belle donne costrette a dimostrare che non sono solo belle, Tiziano Ferro promosso a tour operator dei monumenti del passato. Ma soprattutto restaurazione di contenuti, con il momento marchetta dedicato al film di Muccino, il momento Carramba! di Al Bano, Romina e Ylenia, il momento C’è posta per te con la letterina di Diletta Leotta alla nonna. Fiorello fa quello che può – visti i testi degli autori, improvvisa –, ma perfino per lui non è facile nuotare nell’oceano di alchermes. A questo punto non osiamo immaginare cosa saranno i 40 minuti di predica di Padre Benigni. Ci si interroga sull’intramontabilità del Festival di Sanremo. Perché è lo specchio dell’Italia, dicono. Forse quando è nato, 70 anni fa. Oggi, ogni anno di più, è lo specchio di una certa Italia, quella di 70 anni fa, l’Italia ipocrita, turibolare e conformista dove vige la dittatura della Sacra Famiglia, la sola cosa in questo Paese a non cadere mai in prescrizione.

Jebreal, “Sally” di Vasco e le lacrime per la poesia

Le lacrime inattese sono quelle che aprono voragini nell’animo, creano interrogativi, ti obbligano alle risposte. Quando ho sentito Rula Jebreal citare alcuni passaggi di Sally, e in quel contesto straordinario, ho pianto. Perché ricordo alla perfezione il momento in cui Vasco ha scritto la poesia (è una poesia, senza dubbio alcuno): eravamo negli studi di mio marito, di sera, anzi notte, e lui piegato su un tavolino avvolto dalla magia creativa, zitto, il foglio davanti a sé, sigaretta in bocca, un sorso di whiskey nel bicchiere. Poi lo abbiamo ascoltato recitare la sua magia, e capito. Così l’altra sera Rula ha centrato il cuore delle persone, ha portato l’Ariston altrove, ci ha traghettato verso la consapevolezza comune, e io con loro, anche se ero in albergo, insieme al mio gruppo di ascolto. Che poi sono amici. Quindi Elisabetta Ferracini, vicine da sempre, solidali da sempre, complici da prima, e Valerio Scanu, un fratello più giovane: tutti e tre in stanza, circondati dalle telecamere, perché Sanremo è Sanremo, e ho deciso di non perdere neanche una briciola di ciò che accade. Per questo tutto finirà in un docufilm. Ah, mentre scrivo, inizio a prepararmi: finalmente salgo sul palco.

Uomo, natura, libertà: la sinistra riparta da qui

Tomaso Montanari lo abbiamo visto affacciarsi alla politica attiva tra il giugno e il novembre del 2017 con il progetto lanciato al teatro Brancaccio di Roma per la costruzione di “una vasta alleanza civica, fuori dei confini dei partiti tradizionali”, che avrebbe dovuto unire le sinistre in “un quarto polo” alternativo tanto alle destre, quanto al M5S e al Pd di Renzi. L’inizio fu entusiasmante, ma il tentativo fallì e l’esito elettorale è quello che ancora ci portiamo dietro. Ora Montanari richiama la nostra attenzione con un libro, Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è, che è un grido di battaglia contro la rassegnazione, una appassionata chiamata all’impegno politico di ciascuno e ciascuna a difesa dei principi costituzionali di giustizia sociale e libertà democratiche. L’autore ci invita a ricordare l’escalation del turboliberismo, i suoi effetti devastanti, tanto nello sfibramento del tessuto dei legami sociali solidali, quanto per la salvaguardia dell’ambiente naturale, storico e artistico. Ma soprattutto ciò che più deve preoccuparci è la “egemonia culturale di destra” che si è affermata, con il seguito di imbarbarimento dei comportamenti politici e individuali xenofobi, razzisti, maschilisti, classisti, persecutori contro i più poveri dei poveri. Montanari accompagna la ricostruzione delle principali scelte di governo che hanno stravolto l’impianto costituzionale con riflessioni tratte dai maestri della sua formazione politica: Rosa Luxemburg, Simon Weil, Emilio Lusso, George Orwell, Pietro Calamandrei, Carlo Levi, Hannah Arendt, Giorgio La Pira, Pier Paolo Pasolini e molti altri. Tra i contemporanei, i pensatori con cui più si trova in sintonia sono Tony Judt, Judith Bulter, Jorge Mario Bergoglio.

La tesi fondamentale di Montanari è che ad aprire il vaso di Pandora è stata proprio la “sinistra”. Un vero suicidio, tanto da “rendere quasi impronunciabile la parola stessa”. Montanari ricorda che ad aver aperto la strada alle più spietate politiche securitarie sono stati Napolitano e Turco, Minniti e Orlando. Chi ha avviato la controriforma della scuola è stato il ministro Luigi Berlinguer. Chi ha destrutturato i rapporti di lavoro sono stati Treu e poi Renzi. Chi ha fatto entrare l’Italia in guerra è stato il governo D’Alema. Chi ha liberalizzato e privatizzato ogni cosa sono stati Bersani e Bassanini. Chi ha inserito in Costituzione il Fiscal Compact (pareggio di bilancio obbligatorio) è stato il governo Monti. Potremmo continuare. Un vero tradimento dei principi e del sistema di valori della sinistra, compiuto per inseguire il vento delle destre, sperando di catturare qualche voto. Peggio, una “mutazione antropologica”. Con Tony Blair e i Clinton, vi è stato uno sfondamento delle teorie neoliberali nelle menti dei partiti della sinistra. Le ragioni del mercato si sono impadronite della società. Alla crescita economica tutto è sacrificato. Che fare? Montanari non dispera. Ripartire dal “progetto della Costituzione”. Dalla centralità della persona umana, della natura, della libertà. Ma come fare a rimettere in campo una “sinistra popolare”? La proposta di Montanari è coerente, inevitabile e condivisibile: “La battaglia per una sinistra vera oggi si gioca più sulle lotte sociali e nella rifondazione di un senso comune giusto che non nell’immediato tentativo di riarticolare una sinistra elettorale” (p. 89). Liberarci dall’“ossessione di andare al governo… (dalla) visibilità mediatica, il successo, la vittoria. Il potere del capo” (p. 136). Fino a “mettere in discussione il concetto stesso di comando” (p. 34). Mi viene in mente una frase bellissima di Vittorio Foa: “La politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, (…) la politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé” (La Gerusalemme rimandata).

Renzi infanga perfino la bellezza

La vera ragione per cui bisognerebbe studiare bene la Storia a scuola è che il metodo critico della storia è il miglior antidoto “alle tossine della propaganda e della menzogna” (Marc Bloch). Uno strumento prezioso per decostruire, smontare, confutare il linguaggio degli imbonitori: che ti vogliano vendere il 5G, la purezza dei capi delle Sardine, un fustino di detersivo, la riabilitazione di Craxi o un nuovo partito. Ogni piazzista ha il suo repertorio, e i suoi tic. Per esempio, la “bellezza” e in particolare “la bellezza che salverà il mondo”, ha nel codice di Matteo Renzi lo stesso ruolo che hanno i gattini e i bacioni in quello di Matteo Salvini. E quel ruolo è dire esattamente il contrario della verità: depistare, convincere, avvincere.

Lunedì, per esempio, Renzi ha twittato: “La sfida di Italia Viva è restituire bellezza alla politica. Noi ci proveremo con tutto il nostro entusiasmo”. Questa memorabile dichiarazione di intenti politici introduceva un video dove l’ex presidente del Consiglio (con un evocativo maglioncino: chissà cosa direbbe Lucia Annunziata…) predicava alle (ristrette) folle del suo partito: “Quello su cui sto riflettendo in queste settimane, in questi mesi: è sì, la bellezza salverà il mondo, ma chi salverà la bellezza? Che non è soltanto preservare un bene artistico, il patrimonio culturale. Sì, certo, se hai un capolavoro gli devi mettere la teca. Se hai un libro prezioso devi metterlo in biblioteca, tutto vero. Ma salvare la bellezza è qualcosa di più, è ricordare a noi stessi che siamo fatti davvero per qualcosa di grande, per l’infinito e non semplicemente per assecondare le beghe di ogni giorno… Noi siamo chiamati a qualcosa di straordinariamente difficile e complicato, l’idea che si possa restituire bellezza a questo Paese”. Non si contano le volte (letteralmente decine, come dimostra l’implacabile Google) che Renzi ha usato negli ultimi anni l’usuratissima e travisatissima citazione dall’Idiota (romanzo scritto in parte a Firenze…) di Dostoevskij sulla bellezza che salverà il mondo. Ma questa volta ha sfiorato il capolavoro.

Esattamente come Salvini manda bacioni mentre semina l’odio, Renzi dice di pensare da mesi alla bellezza: e te lo vedi, chino e pensoso sulla scrivania. O a Boboli: a cogliere fiori. In realtà, è ovvio, fa quotidianamente tutt’altro, razzolando abilmente nella politica definita (da Rino Formica) come “sangue e merda” (pochissimo il sangue, parafrasando un titolo fortunato di Aldo Busi). Verrebbe da pensare alla figura retorica dell’antifrasi: cioè alla volontaria autoironia di chi, avendo fondato un partito personale per gestire un piccolo potere di interdizione attraverso la messa a frutto delle “beghe di ogni giorno”, afferma solennemente che chi pensasse di iscriversi a quel partito per assecondare le beghe di ogni giorno sbaglierebbe di grosso. Ma non c’è una punta di ironia: è invece una consumata tecnica alla Wanna Marchi, basata sulla capacità (che unisce magnificamente i due Mattei) di dire l’esatto contrario della verità rimanendo seri, anzi commuovendosi perfino.

Poi, certo, ci sono i tic linguistici e culturali. Per Renzi tutelare il patrimonio culturale (cioè il territorio, il paesaggio, l’arte diffusa) vuol dire ibernarlo sotto una teca, e i libri preziosi si portano in biblioteca (lo dice come dire: chiudiamo i gioielli in cassetta di sicurezza): è l’idea della cultura, morta e mortifera, dell’autore dello Sblocca Italia e delle riforme che hanno azzerato in Italia la tutela dei Beni Culturali (ricordiamolo ancora una volta: “Soprintendente è la parola più brutta del vocabolario”, scrisse Renzi). Perché Renzi non ha la più pallida idea di cosa sia il patrimonio culturale, una biblioteca, un libro. Ma questa è la sua vera forza: ignorare cosa sia la bellezza rende molto, molto più facile trascinarla continuamente nel fango delle “beghe di ogni giorno”.

Prescrizione, le bugie degli alti magistrati

Èproprio la classe politica alla quale i cittadini si rivolgono per eliminare le disfunzioni del sistema giudiziario che non vuole che la Giustizia funzioni perché una giustizia rapida ed efficiente porrebbe in serio pericolo parte degli esponenti politici e, soprattutto, i lobbisti, gli imprenditori collusi, i frodatori fiscali, i burocrati corrotti, i faccendieri (spesso legati a settori massonici e clericali) di cui sono soliti circondarsi; ed è in questo contesto di voluta inefficienza che si colloca la “guerra” per non modificare il meccanismo della prescrizione che ha finora preservato il descritto sistema di corruttela, se è vero che, ancora nel 2019, si sono prescritti altri 130.000 processi, così pervenendosi, in 14 anni, alla scandalosa cifra di circa 2.000.000 di processi prescritti (ivi compresi i grandi scandali di corruzione e i gravissimi disastri colposi, con centinaia di vittime, venendo in tal modo assicurata l’impunità per politici, alti burocrati e potenti imprenditori).

Ciò spiega perché abbia suscitato scomposte e rabbiose reazioni da più parti la circostanza che il 1° gennaio 2020, sia entrata in vigore la nuova normativa in forza della quale la prescrizione cessa di decorrere con la sentenza di I grado. Tutte le forze politiche (anche di maggioranza), con esclusione naturalmente del M5S che ha voluto tale riforma, sono insorte – forse temendo di perdere un prezioso salvacondotto – tacciando la nuova normativa come “un’infamia”, come una “barbarie”, come una “vergogna”. Sono insorti, con veemenza, anche gli avvocati penalisti resisi protagonisti di sceneggiate quali l’ammanettarsi durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario di Napoli e protestare platealmente, durante l’inaugurazione di Milano, nei confronti del valoroso magistrato che è Piercamillo Davigo. Non potevano mancare alcuni “alti” magistrati che, forse, non volevano perdere l’occasione di “pontificare” nel corso dello stucchevole e inutile rituale dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Ecco, allora, insorgere il Pg di Milano, Roberto Alfonso, che illustra alla platea come “non si possa sottacere che la riforma della prescrizione viola l’art. 111 della Costituzione con il quale confligge incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo”. Ecco farsi avanti il presidente della Corte di Appello di Roma, Luciano Panzani, secondo il quale “il processo senza più prescrizione rappresenta una palese violazione delle garanzie processuali poste dalla Costituzione a favore dell’imputato”. E, infine, il Pg reggente di Roma, tale Federico De Siervo, il quale, con discutibile ironia, preconizza: “Alle sentenze di estinzione dei processi per prescrizione del reato si sostituiranno quelle per morte del reo”.

Asserzioni del tutto infondate perché la prescrizione non ha alcuna relazione con la ragionevole durata del processo che esprime un diverso valore giuridico e perché in nessuna parte della Costituzione e del codice di rito è scritto che la prescrizione rappresenta una delle “garanzie processuali poste dalla Costituzione a favore dell’imputato”. Il principio della durata ragionevole del processo non ha nulla a che vedere con la prescrizione poiché sia la Convenzione europea, sia la giurisprudenza di Strasburgo, sia il precetto sancito dall’art. 111 della Costituzione esigono che, in tempi ragionevoli, si pervenga a una pronuncia nel merito della controversia (che assolva o condanni) non a una pronuncia di mero rito, come quella che consegue anche alla dichiarazione di estinzione del reato che si risolve in un meccanismo che ostacola l’accertamento sul merito della questione dedotta in giudizio (e, quindi, anche la possibile assoluzione dell’imputato). Invero, il diritto consacrato dall’art. 6 della Convenzione, e prima di esso dagli articoli 24 e 111 della nostra Carta, è che ci sia un processo che si concluda con una decisione di merito. Con lo stabilire, all’art. 111, il principio della ragionevole durata del processo, il legislatore costituzionale ha inteso invitare categoricamente il legislatore ordinario a trovare gli strumenti per accelerare lo svolgimento dei processi facilitando l’accertamento giudiziario, e, quindi, intervenire drasticamente su un sistema processuale sempre più incapace di gestire in tempi ragionevoli il proprio imponente carico di lavoro, e non certo di favorire l’espunzione dei reati prima ancora che ci sia una decisione nel merito. La ratio dell’istituto della prescrizione non ha nulla a che vedere con la ragionevole durata del processo. Essa è, viceversa, ancorata all’esercizio dell’azione penale nel senso che scaturisce dall’inerzia o dalla rinuncia dello Stato ad esercitare la pretesa punitiva nei confronti di colui che si ritiene essere l’autore di un reato. Del resto, il codice penale francese del 1791, che per primo introdusse l’istituto della prescrizione moderna, al titolo VI prevedeva la prescrizione di tutti i delitti se, nell’arco di tre anni dal fatto, non si fosse iniziata l’azione penale. Ne consegue che quando lo Stato, attraverso il P.M., ha esercitato tale azione – e la sentenza di I grado ne è la concreta estrinsecazione (ma lo è già la richiesta del P.M. rivolta al giudice di procedere penalmente) – la prescrizione del processo non ha più ragione di essere.

La verità è che la riforma “Bonafede” finisce per scardinare un sistema che favorisce impunità fondamentali per imputati “eccellenti” che, in molti casi, sono tornati, dopo il proscioglimento per prescrizione, a ricoprire importanti incarichi sia in politica che nella P.A.. La inaudita, violenta reazione a una giusta riforma, al punto da mettere addirittura in forse la vita stessa del governo, dimostra che l’Italia è davvero il Paese della vergogna.

Mail box

 

Panico da legge Bonafede: peggio del Coronavirus

Caro Marco, per prima cosa un grazie infinito per come si sta spendendo con editoriali, articoli puntuali, rigorosi, argomentativi oltre ogni limite, a difesa della legge Bonafede che blocca la prescrizione: è la battaglia delle battaglie. Non è certo questo un Paese per stare sereni, tanto più quando certi personaggi dalla faccia di bronzo fanno il giro delle sette chiese, oggi radio e tv, per perorare cause pro domo sua: Meb e dintorni e oltre. Il panico che si sta diffondendo tra politici e avvocati di una certa diffusa specie è di misura superiore a quello intorno al Coronavirus, e la mia intuizione, vista la martellante campagna in corso, è che costoro hanno visto nel blocco della prescrizione un equivalente della “scure” di Tangentopoli, come dire che gli strumenti efficaci di legalità, ieri come oggi, decimerebbero gran parte dell’attuale classe politica, a eccezione del M5S, sia per i ferrei principi, sia perché è il primo a far pulizia al suo interno, sia perchè è quello che per meno tempo è stato nel Palazzo. Insomma ogni volta che le forze della legalità cercano di far voltare pagina, o scoppiano bombe o tramano le “carbonerie” interne ed estere o si delegittimano e marginalizzano i resistenti o altre varianti, insomma davvero non so come ci salveremo. Quando poi ancora si sente Stefania Craxi – che come M. Elena parla in nome del padre – dire che sono inconciliabili le sentenze con la definizione di “statista” riconosciutagli dal lì presente D’Alema, e ancora riproporre allo stesso la domanda “dove prendeva i soldi il Pci?” e lui a ribadire “dagli iscritti” e giù polemiche, ecco ci sono sempre due Italie incompatibili, quella in malafede o malinformata e quella di Bonafede. Insomma sotto mentita spoglia è come un referendum questo, Sì o No all’aria pulita (eco di mani pulite): connettere indagini a reati e colpevoli, anziché nullificarli; in Emilia Romagna un angelo è disceso in volo, le Sardine – che ora però paiono già su altri lidi – ma ora? Di sicuro il Fatto è diventato un cenacolo attorno al quale si saldano persone e spiriti affini e di buona volontà e che s’irradia all’opinione pubblica, c’è una società civile che dovrebbe mobilitarsi e soprattutto delle forze in parlamento che decideranno: ci vorrebbe anche per loro uno “Spirito Santo” a illuminare. Quasi un sogno, ma forse no.

Alessandro Savini

 

Asini e somari sono molto meglio del genere umano

Caro Direttore, ho sempre trovato comprensibile e inaccettabile il suo linguaggio giornalistico, sia scritto sia parlato, e, nonostante la complessità degli argomenti a volte trattati, altamente divulgativo. Tuttavia devo farle un appunto e chiederle una cortesia, non accomuni più asini, somari e ciucci ad alcuno del genere umano, non lo meritano, i primi.

Motore dell’umanità nel divenire civiltà, mezzi di trasporto per millenni (ed oggi ancora) e sempre ecologici, assoggettati a olocausto invece che ricompensati nel valore (nel ventennio 1950/70 l’abbandono della ruralità in Italia ne permise la scomparsa di milioni di capi e perfino razze), utili anche da ibridi (muli da guerra), ed ancora efficaci terapeuti (onoterapia). Potrei elencarle ancora molte loro altre qualità che li fanno stagliare per intelligenza e “umanità” al confronto di coloro ai quali lei li “osa” solo accostare/paragonare, per favore non insulti asini, somari e ciucci che dir si voglia, grazie.

Stefano Salvatore

 

Stile beffardo, ironico e colto: brava Daniela Ranieri!

I miei supercomplimenti a Daniela Ranieri per l’articolo sul giornale di oggi! Che io sia un suo fan, l’ho già manifestato da tempo. E ripetutamente, al punto da annoiarvi. E che fosse un pilastro della redazione, beh, non è cosa nuova. Ma lei ci ha abituato a quel suo stile beffardo ed ironico, sempre colto, anzi, ammirevolmente colto, che mai si compiace di se stesso, mai sopra le righe, e, per giunta, così acuto e stringente. Ma che sapesse, smesso l’abito usuale, menar fendenti che…via! Neanche un taglialegna con accetta affilata, e con tale magistrale chirurgica precisione, sì da incutere quasi timore, beh, non me lo aspettavo proprio.

Natale Ghinassi

 

Una via per Craxi a Milano, tempo di una nuova petizione

Caro Travaglio, visto che il Consiglio comunale della cosiddetta “capitale morale”, il cui sindaco ha sul groppone una condanna per falso in atto pubblico, si accinge a discutere la proposta di dedicare una via al “cinghialone”, non sarebbe il caso di proporre una raccolta di firme contro questa oscenità, così come è stata fatta per intestare una via al Pg Borrelli?

Giancarlo Ferrari

 

Raccolta differenziata, basterebbe più chiarezza

È vero che le problematiche ambientali più serie vanno affrontate a livello globale, però ci sono provvedimenti migliorativi che l’Italia può adottare. Vorrei invitare il ministro Costa a far approvare una norma che favorisca la raccolta differenziata dei rifiuti domestici e semplifichi la vita alla gente.

Basterebbe imporre di stampare in modo chiaro e visibile sui vari involucri e prodotti di scarto di uso comune a quale categoria appartengono e dove vadano cestinati: se nel contenitore della carta, plastica, compostabili, vetro e assimilati, oppure, nell’indifferenziato.

Mario Frattarelli

M5S in Campania. Giusto tenere l’identità. Ma andare a vedere le carte è doveroso

A proposito dell’articolo di Marco Travaglio, che ha definito “intransigenti o coglioni” i militanti del M5S che si oppongono all’accordo con il Pd in Campania, vogliamo precisare quanto segue. Il M5S nasce come forza totalmente alternativa ai partiti tradizionali, e dunque sarebbe assurdo che costruisse un’alleanza elettorale proprio con tali partiti.
L’unico alleato del Movimento sono i cittadini e la Campania può essere una grande opportunità di credere in ciò che siamo e rilanciare la nostra azione politica. Il vero candidato del M5S è il programma e l’obiettivo non è vincere a tutti i costi ma creare vera partecipazione e inserire nelle istituzioni dei “portavoce”. Il M5S non è né di destra né di sinistra, ma è per le buone idee. Accostarci sulla scheda elettorale a un polo o a un altro farebbe venire meno la nostra naturale diversità.

Il M5S ha rigide regole per i propri candidati, e ancor più per i propri eletti: no agli impresentabili, taglio degli stipendi, vincolo dei due mandati, trasparenza, confronto con gli attivisti. Il M5S è nato su dei No importanti (alla corruzione, alla partitocrazia, all’inquinamento, al profitto a ogni costo, alla disinformazione, ecc.) e su altrettanti Sì (all’acqua pubblica, alla mobilità sostenibile, alle energie rinnovabili, ecc.), tutti più o meno incompatibili con la visione dei partiti. In particolare, il Pd campano e napoletano si è dimostrato negli ultimi 25 anni totalmente inadeguato. Basti pensare al disastro dei trasporti. Infine, non ha senso scindere De Luca dal Pd: De Luca è il Pd e non esiste un Pd “buono”, al di là di ogni nome. La nostra posizione è quindi chiarissima. Auspichiamo che questo grido sia ascoltato, e che si faccia la cosa giusta per il Movimento e per la Campania.
52 attivisti e attiviste del Meetup Bagnoli-Fuorigrotta

 

Non c’è dubbio che le cose che scrivete costituiscano la sostanza del M5S. Ma va anche compreso che i 5Stelle non sono più nella fase dello “stato nascente”. Andando al governo il M5S si è fatto “normale”, governa e soprattutto, dopo la rottura con Salvini, è stato sospinto in una parte del campo. Con cui governa. A livello nazionale, con una legge proporzionale, l’obiettivo di presentarsi autonomamente senza commistioni con il centrosinistra, ha senz’altro spazio. Ma nelle Regionali dove vige il sistema maggioritario secco, quella posizione condannerebbe alla marginalità. Esito che può essere messo tranquillamente nel conto. Ma senza aver prima avviato una vera discussione sul programma? E come giustificare quella scelta se il candidato alla presidenza fosse un esponente, peraltro apprezzato, dello stesso M5S?
Salvatore Cannavò

Mafia, abbiamo solo vinto la battaglia “di classe”

Pubblichiamo un’anticipazione di “Cosa Nostra Spa” (PaperFirst) del consigliere del Csm ed ex membro della Direzione distrettuale antimafia di Catania Sebastiano Ardita, da oggi in libreria

Dopo le stragi del 1992, al dominio della mafia militare – violenta e presenzialista – Cosa Nostra ha preferito un “governo” diverso, che potesse far dimenticare la stagione del sangue e dell’attacco allo Stato. E così ha riorganizzato le proprie file dietro il modello “catanese”, nel quale mafia e Stato andavano a braccetto: niente più omicidi e ricerca di nuove relazioni. Mentre si sono ridotti i fenomeni mafiosi visibili, si sono invece moltiplicate e fatte più aggressive le espressioni antimafiose. Ma non sempre è venuta alla luce la vera novità: la nascita di una Cosa Nostra SpA, che incrocia il suo enorme fatturato con gli interessi dei colletti bianchi che governano multinazionali, enti e istituzioni politiche. Cosa Nostra ha iniziato ad avvalersi in modo ordinario della corruzione e della collusione, che un tempo erano rare e sintomatiche dell’imprendibile “concorso esterno”. Ma per contrastare questo nuovo agire gli strumenti processuali iniziano a rivelarsi insufficienti. E così, tra mimesi e infiltrazione, la nuova mafia scompare e l’unico suo tessuto visibile rimane quello dei quartieri, dove le squadre continuano a delinquere per garantirsi una sopravvivenza.

Su quel fronte la repressione funziona: soldati, capi e decine in armi finiscono in galera. E in molti – politici e industriali, riuniti in nuovi centri di potere con targhetta “antimafia”– celebrano la sconfitta di una mafia relegata dietro il 41-bis e gridano che lo Stato ha vinto. Altra è la musica se si scopre che pezzi di istituzioni e di economia da sempre hanno tenuto in piedi Cosa Nostra e le sue ambizioni di potere: lì si tace. E vien fatto calare il silenzio anche sulla sentenza che accerta che la mafia trattò con lo Stato. “Lo Stato ha vinto”, si insiste. Ma ne siamo davvero sicuri? Raccontando Catania cercheremo di spiegare che non è così semplice proclamare la vittoria. Se la mafia militare ha perso, non sono perdenti i metodi insidiosi della mafia nascosta. Per questo occorre ricercare il filo sottile che segna l’alleanza tra poteri che vorrebbero dare la scalata pure all’antimafia, dopo essersi appropriati di ogni ricchezza a danno dei cittadini.

Discutere in modo superficiale di mafia e antimafia, come se fossero immutabili, ha rappresentato un comodo riparo per impostori. Discuterne laicamente – senza la pretesa di possedere delle verità ma mettendo in dubbio le troppe certezze di un’antimafia di regime – è una operazione un po’ eretica, ma alla quale non possiamo sottrarci. Lo dobbiamo a quanti hanno vissuto questo impegno fino a perdere la vita e che non potrebbero tollerare – se fossero vivi e potessero guardarci – che persone e poteri che gli furono ostili, si ritrovino uniti nel loro nome per dire che lo Stato ha vinto. Ma lo dobbiamo anche a quanti – vivendo in povertà nei quartieri senza speranza – sono condannati senza appello a essere serbatoio o esercito della mafia, in nome di una antimafia di classe che si rifiuta di vedere altrove il male da combattere e di portare la propria attenzione sulle classi dirigenti.

Lo faremo parlando di un problema che riguarda oramai l’intera nazione, partendo da Catania: dalla sua contraddittoria bellezza e dalla sua crudeltà verso gli ultimi.