Le teorie del complotto intorno al caos sui risultati delle primarie in Iowa mancano di prove per dimostrare che qualcuno ha imbrogliato (il sospettato: Pete Buttigieg). Ma sono comunque utili a spiegare in che condizioni è il Partito democratico oggi, quasi senza speranze contro Donald Trump. I sospetti cominciano già prima del voto di lunedì: il principale giornale dello Stato, il Des Moines Register, cancella il tradizionale sondaggio della vigilia. Uno degli intervistatori, forse per problemi di vista, aveva allargato la visuale sullo schermo del pc della pagina con la lista dei candidati da sottoporre agli intervistati: uno dei nomi finiva così nascosto, in basso. Visto che il computer rimescola l’ordine a ogni telefonata, l’errore era poco rilevante. Si potevano comunque rimuovere i dati raccolti da quell’intervistatore. Invece no, via tutto il sondaggio, dopo le proteste di un unico candidato: Pete Buttigieg.
Come faceva a sapere che i risultati penalizzavano proprio lui? Mistero.
Il 38enne ex sindaco di South Bend, cittadina di 100 mila abitanti nel conservatore Stato dell’Indiana, è anche quello che più si è sbilanciato nella notte di lunedì: mentre tutti gli sfidanti erano in attesa dei risultati (a ieri non ancora definitivi) e predicavano cauto ottimismo, Buttigieg ha annunciato di marciare “vittorioso verso il New Hampshire”. I primi dati ufficiali, diffusi tra la notte di lunedì e martedì, hanno confermato che Buttigieg ha ottenuto il 26,8 per cento dei consensi, davanti al “socialista” Bernie Sanders (25,2). Ma come faceva Buttigieg a sapere i risultati in anticipo? Sui social la sua etichetta di “major Pete”, sindaco Pete, è presto diventata “major Cheat”, sindaco imbroglione. Per certificare il voto in Iowa, complicato perché basato sugli spostamenti fisici dei militanti in gruppi affiliati a ciascun candidato e non su schede nell’urna, il Partito democratico si è affidato a una app dell’infelice nome di Shadow (ombra), controllata da un’organizzazione non profit dal brand ancora più opinabile, “Acronym”. È stato un disastro, i coordinatori dei voti locali – militanti del rurale Iowa, non programmatori della Silicon Valley – hanno dovuto usare una app difficile da scaricare, quasi impossibile da usare e mai davvero testata dall’azienda. I documenti della commissione elettorale rivelano che a luglio Buttigieg ha comprato da Shadow 42.500 dollari di servizi di messaggistica (verso potenziali elettori), come pure un altro degli sfidanti Democratici, l’ex vicepresidente Joe Biden. Per spiegare cosa sono Acronym e Shadow bisogna addentrarsi nel centro più opaco del Partito democratico: Acronym è un ente non profit che sembra servire soprattutto ad aggirare i limiti sulle donazioni elettorali delle aziende, ha promosso un SuperPac (i fondi che sostengono i candidati senza – ufficialmente – coordinarsi con le loro campagne) che ha raccolto 7 miliardi di dollari da gente come Steven Spielberg in vista delle Presidenziali 2020 per battere Trump. Acronym dovrebbe colmare il divario di competenze digitali tra i trumpiani, maestri delle pubblicità mirate via Facebook, e i Democratici, per evitare il bis del disastro del 2016. Al vertice di Acronym, per gestire un piano di inserzioni colossale da 75 milioni ci sono un team di ex ingegneri di Facebook, nel consiglio di amministrazione c’è David Plouffe, già stratega di Barack Obama poi diventato ricco come lobbista di Uber.
I dati sui finanziamenti – almeno la parte pubblica – confermano che Pete Buttigieg è l’uomo di riferimento tra i Democratici delle grandi aziende tecnologiche che temono la vittoria alle primarie di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren: Alphabet, cioè Google, è il primo sostenitore con 248.000 dollari, ma c’è pure Facebook con 60.000. Con il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, Buttigieg ha una lunga frequentazione che risale ai tempi in cui erano entrambi ad Harvard.
Che ci sia stato un complotto del vertice del partito e delle aziende di area contro i radicali Sanders e Warren a favore di Buttigieg o che il disastro dell’Iowa sia solo dovuto a incompetenza, l’unica certezza è che Trump è un po’ più sereno.