Eni, l’uomo del depistaggio non sarà sentito al processo

Il Tribunale che a Milano sta giudicando Eni, accusata di corruzione internazionale in Nigeria, ha detto l’ultimo no ai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Chiedevano di sentire in aula due avvocati: Piero Amara, per anni legale esterno dell’Eni, da cui ha ricevuto compensi per 13,5 milioni di euro e che poi, dopo essere stato arrestato nel 2018, ha patteggiato 3 anni di pena per altre vicende di corruzione; e Leopoldo Marchese, in grado di confermare le dichiarazioni di Amara. La testimonianza dei due legali è stata ritenuta superflua e non decisiva, ha risposto il presidente Marco Tremolada, che ha dichiarato la fine della fase processuale in cui si acquisiscono le prove. Il 25 marzo inizierà la requisitoria dell’accusa.

Per i pm le due testimonianze erano invece essenziali. Perché mentre alla luce del sole si svolgeva questo processo, sotterraneamente è successa una cosa mai vista: la più grande e strategica delle aziende italiane, l’Eni, ha messo in azione una gigantesca macchina per inquinare le prove, depistare le indagini, comprare i testimoni d’accusa, perfino dossierare, pedinare e intercettare i pm. Questa almeno è la convinzione della Procura di Milano, confermata dalle dichiarazioni di Amara, che dopo essere stato arrestato e poi “scaricato” dall’Eni ha deciso di raccontare il suo ruolo nella grande macchina dell’inquinamento probatorio del processo Eni Nigeria, attivata – dice – dai vertici della compagnia petrolifera: l’ad Claudio Descalzi e il suo numero due, Claudio Granata.

Le dichiarazioni di Amara non attengono a questo processo e alle accuse di corruzione internazionale, ma al processo che i pm Laura Pedio e Paolo Storari stanno preparando sul “complotto” Eni, hanno obiettato le difese guidate da Nerio Diodà (legale di Eni) e Paola Severino (legale di Descalzi). Non c’è stato del resto alcun inquinamento in questo processo – continuano le difese – perché il grande accusatore su cui sarebbero state fatte pressioni, Vincenzo Armanna, ha mantenuto in aula le sue accuse ai vertici Eni.

Secondo i pm, la compagnia avrebbe pagato nel 2011 una mega-tangente di 1 miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere in Nigeria, insieme a Shell, l’immenso campo petrolifero Opl 245. L’accusa aveva presentato 14 punti per sostenere la richiesta di sentire Amara, quattro per Marchese. Per dimostrare “la grave e continua interferenza” di Eni nel processo sulla presunta corruzione internazionale per far ritrattare al teste Armanna le accuse all’amministratore delegato Descalzi e per eliminare prove a carico dei vertici della compagnia.

Le dichiarazioni di Amara sono “assolutamente necessarie” in questo processo, secondo il pm De Pasquale, che chiede di acquisirle solo ora perché Amara ha cominciato a collaborare nel novembre 2019, con dichiarazioni che soltanto ora sono disponibili e che non potevano essere prodotte prima. In questo processo: perché è in questo processo che la società Eni è accusata, in forza della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle società, di non aver predisposto modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati come quello di corruzione internazionale. E perché è in questo processo che sono state tentate manovre d’inquinamento delle prove che dimostrano – se provate – che gli imputati avevano qualcosa da nascondere: l’imputato innocente non ha alcun interesse a inquinare il processo, comprare testimoni, pedinare i pm. I 14 punti presentati da De Pasquale e Spadaro per tentare di convincere – invano – il Tribunale a sentire Amara sono pesantissimi. Riguardano 14 fatti che riscrivono la storia dell’inchiesta su Olp 245. Tra questi: Granata nel 2014 fornì ad Amara un cellulare per le telefonate “riservate”, gli chiese di registrate il testimone Armanna “per ricattarlo” e “comprarlo”; e partirono “interferenze della difesa Eni e di taluni imputati nei confronti dei magistrati degli uffici giudiziari milanesi con riferimenti al processo Opl 245”.

“Il termoscanner non funziona: su cento potenziali malati ne individua solo otto”

Sono attivi al “Leonardo da Vinci” di Fiumicino, dove “sono già oltre 24mila le persone controllate”, ha spiegato ieri il commissario all’emergenza Angelo Borrelli dopo la riunione del Comitato operativo. Dalle 16 di mercoledì funzionano anche a Milano Malpensa e a Cagliari. Negli altri scali sono all’opera circa 800 volontari con il termometro a pistola. Con l’accensione dei “termoscanner” sono partiti i nuovi accertamenti disposti dal Ministero della Salute – la rilevazione della temperatura corporea – per “screenare” i passeggeri in arrivo e individuare i potenziali casi di coronavirus. Un tipo di misure, adottate in uscita anche dalla Cina, sulla cui efficacia la London School nof Hygiene and Tropical Medicine avanza dubbi. In uno studio pubblicato il 30 gennaio, il centro di ricerca dell’università di Londra e ente di riferimento in materia nel Regno Unito sostiene che solo 8 su 100 potenziali portatori del virus 2019-nCov partito dalla Cina vengono individuati attraverso lo scanning termico al momento dello sbarco.

La misura, si legge nel documento firmato da un gruppo di ricercatori guidato da Billy Quilty, “viene spesso implementata per limitare la probabilità di ingresso di casi infetti” nei Paesi che la adottano “nonostante scarse evidenze circa la sua efficacia”. In particolare, nel caso del morbo partito dalla città cinese di Wuhan, a mettere in discussione l’utilizzo degli scanner termici è il lasso di tempo che intercorre tra l’infezione e la comparsa dei sintomi. “Un recente articolo del New England Journal of Medicine – si legge nella presentazione dello studio sul sito del dipartimento – mostra che la maggior parte delle persone infettate dal nuovo coronavirus mostrano i sintomi dopo poco più di cinque giorni”. Nella fattispecie – specifica la ricerca che ha analizzato “i primi 425 casi confermati” nella metropoli dello Hubei – “il periodo medio di incubazione è stato di 5,2 giorni”. Quindi, è il ragionamento, “i soggetti potrebbero anche presentare un’infezione asintomatica (subclinica) che non manifesta sintomi tali da essere rilevati dalla scansione termica o da indurre le persone a cercare assistenza medica, sebbene queste possano essere infettive”. “Lo screening in ingresso sembra una misura razionale – ribadisce Quilty – Tuttavia esso è in grado di rilevare solo i viaggiatori infetti che presentano sintomi, come la febbre”. Tradotto: un viaggiatore potrebbe avere il morbo ma non aver ancora neanche una linea di febbre e passare senza problemi il controllo al termoscanner.

Perché un malato sia individuato con il termomentro una volta sceso dall’aereo – prosegue il report che, specifica per completezza l’ente di ricerca, non è stato “peer-reviewed”, ovvero non è stato ancora sottoposto al parere della comunità scientifica, ma è pubblicato con tutti i crismi dell’ufficialità sul suo sito – devono verificarsi alcune condizioni: tra queste, che “l’infezione non sia asintomatica”, che “il periodo di incubazione termini dopo la partenza e prima dell’arrivo”, che i sintomi non siano stati individuati dallo screening effettuato alla partenza”. Una serie di presupposti che fa sì che il numero di casi individuati rischi di essere basso: secondo la simulazione realizzata dagli studiosi e aggiornata al 2 febbraio, su 100 passeggeri infettati dal virus solo 8 verrebbero individuati dagli strumenti approntati nel settore “Arrivi” degli aeroporti e 43 dagli strumenti approntati negli scali dei Paesi come la Cina che prevedono screening al momento della partenza: “L’efficacia degli entry screening – si legge ancora – è largamente dipendente da quella dei test fatti in uscita”. In totale 49 ammalati passerebbero il controllo.

Interpellati dal Fatto, gli uffici della Protezione civile fanno sapere di attenersi alle indicazioni dell’Oms, secondo cui senza sintomi non si è infettivi. Al momento in cui arriva, chi ha la febbre viene visitato da un medico e vengono vagliate due variabili: se il soggetto si è recato di recente in Cina e se è venuto in contatto con un malato. Se si verifica una di queste condizioni, la persona viene immessa nei protocolli previsti dal ministero della Salute.

“Auto-quarantena”. I cinesi di Prato più realisti del re

Nello specchio deformato della società ai tempi del coronavirus, Prato riflette l’immagine più assurda. Nella città abitata dalla più grande comunità cinese d’Italia, la sinofobia è interna alla popolazione asiatica: non sono i pratesi ad avere paura, ma i cinesi stessi. Tanto da inventarsi una soluzione grottesca: l’auto-quarantena. I rappresentanti della comunità si sono messi alla ricerca di una struttura da trasformare in un luogo di isolamento volontario dei connazionali tornati da poco in città. Si tratta di alcune centinaia di persone partite per celebrare in patria la Festa della Primavera e rientrate prima del blocco aereo adottato dall’Italia (ma qualcuno è pure riuscito ad aggirarlo, basta fare scalo in qualsiasi aeroporto internazionale che non sia sottoposto a vincoli).

L’auto-quarantena è stata vietata: “Le istituzioni ci hanno comunicato che non si può fare – spiega Luigi Yu, segretario dell’associazione Wencheng – e ora le persone se ne stanno chiuse in casa loro. Si sono isolate volontariamente per un paio di settimane”. Il timore è che ora la comunità cinese decida di fare da sé, magari con una soluzione informale e al di fuori dei controlli. Il sindaco Matteo Biffoni, rieletto a giugno con il Pd per il secondo mandato, è perentorio: “Al Comune non è arrivata nessuna richiesta ufficiale di accogliere gruppi di persone in auto-quarantena, ma comunque la legge lo impedisce. Non c’è possibilità e vigileremo, appena scopro che anche solo in 20 si mettono dentro un capannone, lo chiudo”.

La fotografia dell’isolamento della comunità cinese è nella cartina fisica della città, nei confini dei quartieri-ghetto. Le Chinatown sono principalmente due: quella residenziale lungo Via Pistoiese, ai margini del centro storico, e quella produttiva, il Macrolotto industriale, gigantesco reticolato di strade occupate su ogni lato da negozi di abbigliamento all’ingrosso. In entrambi le insegne italiane sono praticamente assenti.

I pratesi – abituati da decenni a questa convivenza (per alcuni assedio) – non sono sfiorati dalla paranoia del coronavirus. Le uniche mascherine si incontrano proprio nelle Chinatown. Strade vivaci e brulicanti di attività, oggi intristite: molte serrande abbassate, ristoranti quasi vuoti, sguardi bassi sui marciapiede. Il ferramenta Signori è una delle rare enclave italiane del quartiere. Conferma: “Si lavora meno, certo, guardi fuori… c’è poca gente in giro, se ne stanno in casa”. Davanti al ristorante Xinchanlai c’è un ragazzo con gli occhi azzurri. Si chiama Giuseppe, è una somma di contraddizioni: napoletano, fa su e giù tra la sua città e Galciana (frazione di Prato), vende frutta in un quartiere dove non si parla quasi la sua lingua. “Hanno paura – dice – Tanti non escono nemmeno più. In questi giorni mi porto dietro casse di arance meno pesanti ma a fine giornata non erano mai state così piene”. Più avanti c’è la farmacia di Gennaro Brandi. È aperta dagli anni 70, prima che via Pistoiese fosse ingoiata da Chinatown. Il suo negozio sembra un esercizio di integrazione: con i farmacisti italiani lavorano 8 mediatori culturali cinesi di seconda generazione. “Sulle medicine non si scherza – dice Brandi – non possiamo permetterci incomprensioni ed errori di traduzione”. Nei giorni del coronavirus, la farmacia è stata presa d’assalto per le mascherine: “Ne stiamo razionando la vendita. Il negozio era diventato un accampamento di gente che veniva a chiederne anche tre o quattro per volta”.

A Prato i cinesi sono 21 mila “ufficiali” in una città di 192 mila, ma si stima – conferma Biffoni – la presenza di oltre 10 mila irregolari. In Europa comunità più grandi solo a Londra e Parigi. L’ondata è diventata impetuosa a partire dal 1992: i cinesi hanno divorato il settore tessile entrato in crisi alla fine degli Anni 80. Nonostante l’industria del pronto moda abbia prodotto benessere (il Pil pro capite è il 36º in Italia), altri indicatori suggeriscono che l’integrazione non sia di qualità: la provincia di Prato è al terzultimo posto per numero medio di laureati (dati Il Sole 24 Ore – Istat): appena 57 ogni mille abitanti, meglio solo di Olbia (45) e Bolzano (27). Il tasso di abbandono scolastico prima del diploma è più alto della media nazionale e regionale.

Che succede ora ai cinesi di Prato? La misura della paranoia, secondo Renzo Berti, direttore del dipartimento della prevenzione della Asl Toscana Centro, è puramente psicologica: “Sono più preoccupati di noi. Avvertono il rischio del contagio e temono per la loro reputazione. Molti di loro stanno faticosamente provando a integrarsi e vogliono evitare a ogni costo di essere stigmatizzati e discriminati”. L’auto-quarantena però sarebbe dannosa: “L’isolamento fa male. Non tanto quello sanitario ma sociale, perché poi il luogo scelto rischia diventare il ghetto. Le reazioni sarebbero imprevedibili”.

La Cina annuncia la cura, ma l’Oms smentisce tutto

Dieci dosi giornaliere di un cocktail di farmaci sperimentali per provare a debellare il virus. Sperando che la miscela non vada a causare effetti collaterali di altro tipo. Lottano ancora in terapia intensiva, agganciati a una macchina che li aiuta a respirare, i due coniugi di 65 e 66 anni provenienti da Wuhan, in Cina, ricoverati all’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma per aver contratto il virus 2019-nCoV. I coniugi da martedì sono affetti da una polmonite che gli provoca insufficienza respiratoria. Il loro quadro clinico è “compromesso ma stazionario”, sarebbero coscienti anche se le condizioni dell’uomo, di professione ingegnere, sarebbero piuttosto critiche. Ieri sera i due hanno ricevuto la visita della figlia, arrivata in aereo da Los Angeles. Allo Spallanzani al momento ci sono altri quattro casi sospetti, tutti pazienti cinesi che hanno mostrato i sintomi dell’infezione e provengono, a quanto riferisce il bollettino medico di ieri, dalle zone dell’epidemia: per ora le fonti sanitarie minimizzano, ma le risultanze dei test saranno rese note solo nella giornata di domani.

Ieri, Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, ha confermato che ai due pazienti vengono somministrati i farmaci Lopinavir/Ritonavir e Remdesevir, che “sono approvati dall’Organizzazione mondiale della sanità” e non i due farmaci di cui ha parlato la tv cinese, Umifenovir e Darunavir, utilizzati il primo per l’influenza in Russia e in Cina e il secondo per l’infezione da Hiv e Aids, “ma non approvato dai Paesi occidentali” per questa specifica patologia. Diversamente il Remdesevir, prodotto dalla multinazionale del farmaco Gilead Sciences, ha ricevuto il via libera dell’Oms. Come scrive l’agenzia di stampa statunitense Bloomberg, quest’ultimo farmaco – che non ha ancora superato tutti i trial clinici e per questo è stato definito “sperimentale” – è stato già spedito nella Repubblica Popolare per provare a curare 500 pazienti “e sta aumentando la produzione nel caso le cure funzionino”; anche lo Spallanzani avrebbe ricevuto una fornitura in gergo definita a “uso compassionevole”. Sempre Bloomberg riferisce che il medicinale “è già stato utilizzato sul primo paziente coronavirus americano, che è migliorato dopo aver ricevuto il farmaco”. Insomma, da una parte la cura dei malati, dall’altra la caccia al farmaco che debelli il virus. Il commissario per l’emergenza sanitaria, Angelo Borrelli, ha nominato proprio il professor Ippolito membro del nuovo comitato tecnico scientifico sul Coronavirus, di cui faranno parte anche il segretario generale del ministero della Salute, Giuseppe Ruocco, e il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro.

I coniugi ricoverati allo Spallanzani per ora restano gli unici due casi presenti in Italia. Ieri è stata anche certificata la negatività al virus degli esami sulla cameriera dell’hotel di Verona dove la coppia, in vacanza, aveva soggiornato pochi giorni prima di spostarsi nella Capitale. Infine, ieri il commissario Borrelli ha annunciato una stretta sui porti, dopo che qualche giorno fa la compagnia Msc aveva lasciato sbarcare un migliaio di passeggeri a Civitavecchia e altrettanti a Palermo senza attendere i test (poi risultati negativi) su un cittadino irlandese, presente a bordo, che presentava i sintomi del virus. “Nei porti – ha detto Borrelli dopo essere stato a colloquio col sindaco di Civitavecchia, Ernesto Tedesco – è stata estesa la libera pratica sanitaria anche alle navi in arrivo dall’Europa, così come si faceva già per quelle che venivano dagli altri continenti”.

Scioperi a scuola: i sindacati alzano il tiro

La riunione delle segreterie unitarie dei sindacati non ha portato ai più miti consigli in cui si sperava nei giorni scorsi: la mobilitazione del mondo della scuola riparte ufficialmente il 17 marzo con uno sciopero del personale precario. Le contestazioni sono iniziate la settimana scorsa dopo il confronto al ministero dell’Istruzione con la ministra Lucia Azzolina. Dopo il tavolo e la presentazione delle loro proposte, le sigle hanno diffuso una nota in cui annunciavano che si sarebbero riunite per decidere sul da farsi. Alla base, dicevano, il tradimento di quanto era stato loro assicurato dagli ultimi due ministri, Bussetti e Fioramonti.

Il punto nevralgico, però, riguarda i concorsi: i sindacati spingono per avere quante più tutele possibili per i precari della scuola, ovvero quella fascia di docenti che ancora non è rientrata in nessuna delle sanatorie po degli iter concorsuali avviati negli ultimi anni.

“Sono venute a cadere le ragioni per cui sono state a suo tempo sospese le iniziative di mobilitazione – hanno spiegato i segretari generali di Flc Cgil, Francesco Sinopoli; Cisl Scuola, Maddalena Gissi; Uil Scuola, Pino Turi; Snals Confsal Elvira Serafini e Gilda Rino Di Meglio –. Il confronto dei giorni scorsi al ministero ha evidenziato una sostanziale indisponibilità al negoziato di questa amministrazione, che ha respinto in larga parte le proposte avanzate dai sindacati sui provvedimenti relativi alle procedure concorsuali”. Si attende, ora, una conferenza stampa in cui si spieghi nel dettaglio le rivendicazioni dei confederali. Di sicuro, sul tavolo c’è la richiesta per chi parteciperà al concorso straordinario riservato proprio ai docenti precari che abbiano prestato almeno tre anni di servizio, di poter consultare una batteria di test e domande di preparazione al concorso. Una richiesta che se da un lato renderebbe più semplice ai precari il concorso e che dall’altro viene considerato un aiuto eccessivo che rischia di minare la parità di trattamento con tutti coloro che, pur precari da anni, sono stati assunti con uno dei concorsi indetti dal 2016 a oggi.

Passa la legge su libri e lettura: intenzioni buone, effetti incerti

Alla fine è legge e, per una volta, addirittura all’unanimità. Si parla delle “Disposizioni per la promozione e il sostegno della lettura”, approvate ieri pomeriggio definitivamente dal Senato e dette dagli amici “legge per il libro”. Oggetto fondamentale, quest’ultimo, che in Italia, e specie nel Mezzogiorno, trova – lo dice l’Istat – pochi estimatori.

La spaccatura. Le lodevoli intenzioni (e alcune cose positive) del testo, nonostante il coro commosso di tutti i gruppi politici e del ministro della Cultura Dario Franceschini, non riescono a far velo alla spaccatura del mondo dell’editoria su questa legge: l’hanno voluta fortemente le librerie indipendenti e un pezzo importante dei piccoli editori; i grandi editori riuniti nell’Aie (che poi, come Feltrinelli o Mondadori, sono anche proprietari di grandi catene di librerie) sono in genere contrari. Va detto che entrambi i fronti hanno alcune buone ragioni, ma non si può nascondere che questo testo – pensato anche e soprattutto per attenuare “l’effetto Amazon” sul mercato librario – rischia di essere poco utile alla causa.

I contenuti. Intanto ecco cosa prevede questa legge: c’è il “piano nazionale per la lettura” a cui vengono destinati 4,35 milioni l’anno; la nomina, anch’essa annuale, della “capitale italiana del libro”; incentivi per le biblioteche scolastiche, un aumento del tax credit per le librerie e altro ancora. Norme meritorie, ma il cuore del provvedimento riguarda gli sconti: la legge che porta il nome di Ricardo Franco Levi (oggi peraltro a capo proprio dell’associazione dei grandi editori Aie) nel 2011 fissò il tetto massimo al 15% per contenere le capacità di manovra sui prezzi di Amazon; la legge approvata ieri abbassa il tetto al 5% sull’editoria cosiddetta “varia”, lo stesso livello della Francia, mentre in Germania gli sconti sul prezzo di copertina dei libri sono vietati (per i testi scolastici e i professionali il tetto di sconto resta invece al 15%). Questo si tradurrà in una maggiore spesa dei clienti per 70 milioni di euro l’anno: sempre che, ovviamente, la domanda totale non risenta degli aumenti.

L’idea è che le grandi catene e in particolar modo Amazon – talmente forte da poter lavorare in perdita in alcuni paesi e/o settori pur di sbarazzarsi della concorrenza – non potranno più fare concorrenza “sleale” ai piccoli con la scontistica: quei ribassi, infatti, finiscono per erodere il “margine” dei librai e se i “grandi” possono recuperare con le economie di scala, i piccoli muoiono. Di sicuro la cosiddetta “integrazione verticale della filiera” (editori che hanno anche catene di librerie e/o società di distribuzione) è un temibile – e potente – concorrente delle librerie indipendenti, ma la moria di esercizi di questi anni coincide con la crisi economica prima e con la forte crescita sull’asfittico mercato italiano del colosso di Jeff Bezos poi.

I numeri. L’industria editoriale in Italia nel 2019 valeva circa 3,1 miliardi di euro (dati Aie-Nielsen): la cosiddetta “varia” (romanzi e saggi ad esempio) era responsabile di un fatturato di quasi un miliardo e mezzo, tornato finalmente, anche se di poco, sopra il dato del 2011. Quanta di questa torta finisce ad Amazon? È una sorta di mistero non troppo buffo perché la multinazionale americana degli acquisti online non fornisce dati di alcun genere. L’Aie, con numeri incompleti, nel 2018 stimava per la società di Bezos una fetta del 13% del mercato della “varia”. Molti addetti ai lavori, però, fanno una stima, pur spannometrica, più lusinghiera per Amazon: un po’ sopra il 20% (gli acquisti di libri online nel 2019 erano il 26,7% del totale). Il 20% di quota di mercato sarebbe peraltro un dato in linea con quelli – si tratta sempre di stime – registrati in Francia (18%) e Germania (24%), che però hanno mercati editoriali assai più ricchi (rispettivamente 4,1 e 9,1 miliardi in valore l’anno scorso).

Il problema. È quello dell’utilità del nuovo tetto agli sconti. L’effetto sulle tasche dei clienti è evidente, mentre quella sulla composizione del mercato lo è meno: in questi anni, vigente il limite del 15% agli sconti, il colosso statunitense in Italia s’è ritagliato una fetta di torta poco più grande di quella che ha in Francia (sconto massimo al 5%) e inferiore a quella che ha in Germania (sconti vietati). In realtà la forza di Amazon sta nell’aver convinto i clienti che troveranno il prezzo più basso possibile con la comodità della consegna a casa.

In attesa di capire se questa legge consentirà alle librerie, e soprattutto a quelle indipendenti, di sopravvivere e magari prosperare, va ricordato il problema più grosso del mercato editoriale italiano: al netto della “pirateria” (che varrebbe mezzo miliardo l’anno), mancano i lettori. Secondo i numeri Istat del 2018, ad esempio, solo il 40,6% degli italiani aveva letto almeno un libro nell’anno precedente (il 23% al Sud): basta mettere questo numero a confronto col 90% della Svezia, l’80% del Regno Unito e il 79% della Germania.

Inchiesta rifiuti in Campania, indagato il vice di De Luca

Ci sono anche il vicepresidente della Regione Campania con delega all’Ambiente Fulvio Bonavitacola e l’assessore all’Ambiente (già vicesindaco) del Comune di Napoli Raffaele Del Giudice tra i 23 indagati per omissione di atti d’ufficio di un’inchiesta della Procura partenopea guidata da Giovanni Melillo. Il fascicolo del pm Francesca De Renzis affronta alla radice i motivi della eterna crisi dei rifiuti campana (nelle ultime settimane le periferie di Napoli hanno annaspato tra cumuli di monnezza), che si fonderebbe su scelte amministrative e gestionali semifallimentari. Politiche errate e ritardi vari che avrebbero impedito di modernizzare l’impiantistica e di normalizzare un ciclo dei rifiuti che ha sì scongiurato le clamorose emergenze dell’era Bassolino, quando i sacchetti neri arrivavano al secondo piano dei condomini, ma che si regge sul filo di siti antiquati, insufficienti, e di continui trasporti di spazzatura all’estero. Una filiera debole.

Ieri il pm ha notificato una serie di inviti a comparire, successivi alle perquisizioni della Finanza e dei carabinieri del Noe presso le sedi di Asìa e Sapna, le società dei rifiuti del Comune di Napoli e della Città Metropolitana. Risultano indagati l’ex amministratore di Asìa Francesco Iacotucci, il direttore generale di Asìa Francesco Mascolo, l’amministratore unico di Sapna Gabriele Gargano. Si lavora su quattro distinti filoni investigativi: il mancato raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata fissati dall’Unione europea, la mancata rimozione dei 6 milioni di ecoballe dimenticate nel napoletano, la mancata realizzazione dei siti di compostaggio e il cattivo funzionamento degli Stir gestiti dalla Città Metropolitana. Il cocktail di problemi che è costato all’Italia 190 milioni di sanzioni da parte dell’Ue.

Toscani, cioè l’arte che sposa il cinismo dei suoi padroni

Nel Rinascimento gli artisti erano pagati dai Papi; nell’Olanda del ’600 i pittori erano stipendiati dai banchieri; negli anni ’80 i fotografi italiani erano sovvenzionati dai Benetton. Ma Oliviero Toscani, il Michelangelo del click, il Tiziano del diaframma, il Raffello Sanzio del bromuro d’argento, è diventato famoso grazie ai Benetton, o i Benetton sono diventati ricchi grazie alle pubblicità di Toscani?

Toscani nasce figlio di fotografo (è di papà Fedele lo scatto di Montanelli sulla Lettera 22) e diventa fotografo di moda, in tutti i sensi di quest’espressione. Elle, Vogue, GQ, Harper’s Bazaar, Esquire, Stern. Dove c’è patina, c’è Toscani. Dove c’è il corpo in tutta la sua madida, ambigua, parlante anniottantità, c’è Toscani. Dove (quando) l’arte diventa comunicazione, e i temi sociali sostituiscono il mito e il Vangelo, lì c’è pronto Toscani, col dito sul pulsante. Anche se ha fotografato Picasso e mangiava il panettone con Warhol (c’è un’intervista in cui non l’abbia detto?), a un certo punto il suo destino d’artista ha finito per coincidere col destino imprenditoriale dei Benetton, i fratelli trevigiani dei maglioncini (e di tante altre cose, tutte a 9 zeri).

(Maglioncini di lana pregiatissima: dal 1991, la multinazionale famigliare Benetton controlla 900.000 ettari in Patagonia per l’allevamento di pecore da lana. La popolazione indigena dei Mapuche ha denunciato lo sfruttamento di manodopera infantile e l’espropriazione illegittima dei territori, appartenenti per millenni ai Mapuche e poi a Luciano, il fratello Benetton deputato al ramo maglioni. Negli anni 2000, i Padroni hanno acconsentito a ricevere dei delegati Mapuche, a cui hanno concesso un po’ di terra in cambio di lavoro. Il sottotesto di tanta grazia, corroborato dalla pubblicità scioccante/provocatoria di Toscani, era: posti di lavoro gratis, col privilegio di contribuire alla vestizione di milioni di giovani metropolitani a caccia del loro futuro, che volete di più?).

La biografia di Toscani si sovrappone con l’opera come la mappa col territorio: il bacio tra prete e suora nel 1991, il culo nudo marchiato “Hiv positive” nel 1993 (associazioni di malati di Aids fecero causa alla Benetton; Toscani disse: “Non accusateci di sensazionalismo, noi siamo in un certo senso benefattori dell’umanità”, e i suoi committenti sancirono: “Questa campagna non è intesa ad incrementare le vendite. Noi ci limitiamo a sottolineare la coscienza sociale della Benetton e la sua sensibilità ai problemi del giorno d’ oggi”); nel 1996 i tre cuori White/Black/Yellow (tre organi umani estratti da cadaveri con scritta a-razziale stampigliata), la modella anoressica nel 2007. Meticciato, malattia, sesso, morte, sangue, latte, preservativi usati, cordoni ombelicali, corpi scheletriti: tutto bello, stante l’ineliminabile aporia che il corpo esposto per scandalizzare i borghesi serviva in realtà ad arricchire i borghesi.

Oggi si sa che non c’è niente di più scontato della provocazione; ma allora gli scatti terremotarono le coscienze, e mica solo da noi: nel 1995 la Corte di Francoforte sentenziò: Toscani usa la sofferenza delle persone per fare schockvertising, un tipo di pubblicità atta a “destare nel pubblico un sentimento di solidarietà nei confronti dell’impresa committente, la Benetton” (da Wikipedia). Moralismo borghese, conformismo, e lui continuò: la donna nera e nuda che allatta il bimbo bianco, i condannati alla pena di morte…

Poi è stato tutto uno smottare, un franare alla ricerca del sensazionale di un uomo intelligente. Nel 2013 ha detto: “Le donne devono essere più sobrie, non si devono truccare, mettersi il rossetto, solo così si possono evitare altri casi di femminicidio” (funziona così, coi geni della comunicazione: condividono le opinioni dei posteggiatori abusivi, senza offesa per quest’ultima categoria).

Forse per questo nel 2018 ha ritratto per Maxim, rivista famosa per i calendari di nudo, la ex ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, struccata, sdraiata in un lettone di campagna tra lenzuola di flanella, coi capelli scarmigliati e un camicione di percalle, col risultato di trasformare una piacente donna in carriera in una contadinozza estone del 1950 appena rientrata in cascina dopo aver munto il latte. Poi si iscrive al Pd (come detto, ama il sangue, il disfacimento, la decomposizione). Dirà di essere comunista dissidente, alla Majakovskij, e ostile a Renzi (ecco spiegate le foto atroci alla Boschi), e sulla destra emetterà l’elaborata analisi: “Giorgia Meloni? Poveretta, lei è una ritardata. È brutta e volgare”. Di lui Vittorio Sgarbi, che s’è l’è preso come assessore alla Creatività al Comune di Salemi, dice: “È il genio dell’inganno. Ci fa vedere quello che non c’è”.

Da ultimo, giorni fa: riunitosi commercialmente ai Benetton, per difenderli dal sospetto che le lanciatissime Sardine abbiano avuto la reputazione ammaccata dall’incontro col Padrone dei Maglioni (delle concessioni autostradali), ha detto: “Ma a chi volete che interessi se casca un ponte?”, s’intende il ponte Morandi, che crollando ha fatto 43 morti.

Per non annoiare, non staremo qui a fare la differenza tra il moralismo e l’essere morali, ma da un sensibile benefattore dell’umanità ci si aspettava di meglio. È il dilemma dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità commerciale, il doppio vincolo psicologico del committente schizoide, direbbero gli antropologi: se un esploratore di valore finisce per incarnare il cinismo e le intenzioni di chi gli ha dato i soldi per la spedizione, può anche succedere che un artista talentuoso, partito per fregare il Capitale, ne rimane fregato.

Guerra delle “noisette”: così il sistema al ribasso ammazza i più piccoli

Il Nutella day è stato un giorno amaro per i produttori di nocciole italiane. Mentre Ferrero celebrava il successo della crema inventata nel 1964, oltre 32mila aziende nazionali di nocciole facevano i conti con una situazione paradossale. Quest’anno la resa è scivolata a causa della cimice asiatica, ma i prezzi non sono aumentati per via dell’offerta turca a buon mercato. Così, spesso e volentieri, il ricavato dalla vendita del raccolto italiano non è riuscito a coprire i costi di produzione.

Secondola Coldiretti, Ferrero ha importato più nocciole dalla Turchia, che soddisfa circa l’80% della domanda a meno di 2,7 euro al chilo. Lo stesso prezzo cui si sono dovuti allineare anche i produttori italiani. Così, in un mondo in cui la domanda di nocciole cresce, le quotazioni internazionali sono rimaste basse, ancorate al prezzo di un Paese dove i piccoli coltivatori sono sotto la soglia di povertà. Secondo una recente inchiesta del giornale francese Mediapart, in Turchia una famiglia di 8 lavoratori stagionali guadagna in media 730 dollari (650 euro). Con i produttori che, per la Fair Labor Association, “non sono in grado di pagare un salario decente a causa del prezzo della nocciola e del reddito che ne traggono”.

Per le imprese italiane è impossibile competere in queste condizioni. Tanto più che la nocciola nostrana non è sempre riconosciuta sulle etichette. Di conseguenza il suo prezzo è uguale a quello di qualsiasi nocciola nel mondo. “Se il prodotto non è identificato nell’etichetta con la sua origine ed è usato in una crema, diventa un ingrediente di secondaria importanza che può essere realizzato ovunque” spiega Lorenzo Bazzana, responsabile nazionale economia Coldiretti. Così, il compratore, soprattutto quello di grandi dimensioni come il gruppo di Alba, può acquistare le nocciole sul mercato più conveniente. Per i produttori italiani è impossibile contrastare questa dinamica: nel nostro Paese l’offerta è frammentata, con pochi piccoli consorzi e aziende di dimensioni mediamente inferiori ai due ettari.

Nel 2019 a complicare la situazione è arrivata poi anche la cimice asiatica. “In Irpinia abbiamo registrato una flessione della produzione dell’80 per cento. Sarebbe stato logico attendersi anche un aumento del prezzo, ma non è accaduto. Anzi c’è stato anche un leggero calo per via del fatto che la Ferrero ha comprato nocciole all’estero – spiega Francesco Acampora, il presidente della Coldiretti Avellino, seconda area di produzione del Paese dopo la provincia di Viterbo. – Non solo. Il gruppo ha anche avviato una politica di grandi investimenti all’estero facendo impianti in Australia con una varietà avellinese. Quasi a voler dire che non interessa la produzione irpina perché si può fare la stessa cosa altrove”.

Dal canto suo, Ferrero ricorda di aver lanciato Progetto Nocciola Italia con l’intento di incentivare la produzione nazionale. Al momento del contratto con il fornitore, Ferrero s’impegna ad acquistare il 75% del raccolto. Il diavolo sta però nei dettagli: il prezzo di acquisto tiene conto di costi di produzione standard più una remunerazione calcolata sulla qualità delle nocciole, ma resta ponderato al prezzo del prodotto turco. “Come Coldiretti nazionale stiamo lavorando con Ferrero al Progetto Italia – riprende Acampora -. Proprio per questo, ci saremmo aspettati un comportamento diverso per venire incontro ai produttori in una situazione delicata come quella di quest’anno. E invece le cose sono andate diversamente. L’importazione ha creato problemi alle aziende ed è venuta meno la fiducia degli agricoltori nei confronti di Ferrero”. Una soluzione per aiutare le imprese italiane c’è. “Da anni chiediamo una etichettatura europea di origine anche nei trasformati, nelle creme e nei biscotti – conclude Bazzana -. Al momento è la giungla più totale: alcuni dichiarano da dove vengono le nocciole, altri no pur vantando l’uso di prodotto italiano. C’è una nebulosa totale”. Che conviene a chi compra grandi quantità. Ma non ai piccoli produttori.

C’è chi dice no alla Ferrero. “In Calabria ci colonizzano”

La Ferrero “sbarca” in Calabria ed è già polemica sul progetto “Nocciola Italia”. C’è chi nei mesi scorsi ha firmato l’accordo, come ha fatto nel Cosentino la rete “Calabria in guscio”, e c’è chi invece non ci sta e attacca la multinazionale accusandola di voler trasformare gli agricoltori calabresi in “coloni”.

“La nostra produzione di nocciole è incompatibile con una logica globalizzata. La Ferrero vuole trasformare un prodotto di nicchia, come la nocciola calabrese, in uno di massa”. Il presidente del “Consorzio di valorizzazione e tutela della Nocciola di Calabria” Giuseppe Rotiroti rappresenta i proprietari dei noccioleti storici della regione che si trovano nei Comuni di Cardinale, Torre di Ruggiero e Simbario.

La storia è iniziata tre anni fa quando la Ferrero ha proposto ai produttori calabresi un accordo. “In sostanza – spiega Rotiroti – Ferrero dice ‘voi fate nuovi impianti e noi vi assicuriamo l’acquisto del prodotto’”. L’investimento iniziale per i nuovi noccioleti (10-12 mila euro a ettaro) è a carico dei produttori, così come i costi annuali per portare il terreno a produzione (circa 7-8 anni). “L’unica cosa che garantisce la Ferrero – aggiunge Rotiroti – è che per 15-20 anni comprerà le nocciole ‘a prezzo di mercato’”.

Il mercato, però, lo fa la Turchia, che vanta più del 70% della produzione mondiale. E “il 65% degli approvvigionamenti Ferrero arrivano dalla Turchia” dove nel 2014 la multinazionale ha acquistato la Oltan Gida, uno dei tre maggiori esportatori di nocciole.

Per Rotiroti, “la Ferrero voleva comandare anche in Turchia, ma le cose stanno cambiando e quindi adesso puntano al made in Italy. Chi ha noccioleti non ha problemi di vendita ma di prezzi, che dipendono dalla produzione turca. Se la Turchia produce 800 mila tonnellate di nocciole, il prezzo scende pure per noi. Se invece dimezza la produzione, il prezzo arriva alle stelle. Quindi che sia Ferrero o un’altra azienda, loro pagano sulla base del prezzo mondiale”. Sarebbe stato diverso, secondo Rotiroti, se Ferrero oltre a comprare “le nostre nocciole decidesse di investire in Calabria per creare una fabbrica con qualche linea di prodotti Ferrero. Ci sarebbe più lavoro sia per gli agricoltori che per i giovani disoccupati che verrebbero impiegati nell’industria Ferrero”.

La pensa diversamente Mario Caligiuri, amministratore della Kalnut s.r.l, la società capofila di “Calabria in guscio”, il consorzio del Cosentino che ha firmato il contratto con Ferrero. “Ma quale colonizzazione? – dice – Noi siamo liberi. Con Ferrero abbiamo più di un contratto di vendita… un accordo di filiera. Abbiamo sottoscritto un contratto ventennale con un prezzo minimo garantito”. E allora perché questa polemica proprio il giorno del “Nutella Day”? “C’è sempre dell’invidia – conclude Caligiuri – È un progetto lungimirante e Ferrero è un partner molto affidabile”.