Sabato lavori, lunedì la fabbrica non c’è più

È lunedì mattina, ti svegli, raggiungi la fabbrica nella quale lavori da 25 anni e non trovi più nulla, né macchinari né attrezzature. Un capannone vuoto, come se ci fossero stati i ladri. Ma non si è trattato di un furto: l’azienda, senza preavviso, ha fatto piazza pulita per spostare la produzione.

È accaduto tre giorni fa a 40 operai dell’indotto Fiat Chrysler di Melfi, in Basilicata. Per la precisione, nella Sapa Plastiche Melfi, impresa che fa parte di un gruppo presieduto da Rosanna de Lucia, nominata a giugno 2019 “Cavaliere del Lavoro” da Sergio Mattarella. Ora questi addetti presidiano i cancelli: nessuno ancora nessuno gli ha spiegato cosa ne sarà di loro. “Abbiamo costruito noi questo stabilimento – spiega una lavoratrice –. Quando l’ho visto deserto è stato come se qualcuno fosse venuto a rubare in casa mia. Un atto di vandalismo”. Messo in piedi nel 1995 con la Zanini Spa, dopo un concordato preventivo nel 2014 l’impianto è finito nelle mani della Sapa, che ne ha ereditato la commessa Fca per la fornitura di componenti automobilistiche. In quel complesso industriale, il Lingotto produce i suv Jeep Compass e Renegade. “Ecco perché ora chiediamo che intervenga la Fiat, è anche una sua responsabilità”, aggiunge l’operaia, che ha più di 50 anni e una figlia che frequenta l’università.

I timori di un simile epilogo sono nati a gennaio 2019, quando l’azienda ha detto ai sindacati che c’era un problema di alti costi di produzione, e che si stava ipotizzando di spostare quelle linee in altri siti italiani o europei del gruppo. Tuttavia, nei mesi successivi non è arrivata alcuna comunicazione ufficiale. Il 18 agosto, poi, è scoppiato un incendio nei magazzini della fabbrica che ha distrutto le scorte approntate prima della pausa estiva. I lavoratori sono stati richiamati dalle ferie per rimettersi in pari con i pezzi da fornire a Fca. “Nel primo mese – racconta la donna – ho lavorato sette giorni su sette. Poi nei successivi diversi colleghi hanno fatto molti straordinari. Abbiamo respirato plastica bruciata”. Un sacrificio ben accetto pur di assicurare alla Sapa il mantenimento della commessa Fiat. Era infatti già previsto un periodo di stop per la messa in sicurezza dei luoghi interessati dall’incendio. I lavoratori erano però convinti che queste ristrutturazioni potessero essere realizzate senza spostare i macchinari ed erano stati rassicurati dai vertici aziendali. Si aspettavano quantomeno che il sindacato sarebbe stato informato.

Nel pomeriggio di domenica 2 febbraio hanno invece ricevuto tutti una telefonata: “Da domani siete in ferie”. E quando, lunedì, sono andati in fabbrica hanno scoperto che gli stampi erano stati spostati. “Non ci hanno avvisati perché sapevano che lo avremmo impedito” – dice un operaio 49enne – Ho una famiglia. Se Fiat non interviene, avremo grosse difficoltà”. L’età di queste persone va dai 45 ai 60 anni. Insieme a loro, lavorava una ventina di giovani inviati dalle agenzie interinali.

Sono scoraggiati, immaginano che dietro quella mossa ci sia la volontà di chiudere. Domani è previsto un incontro in cui finalmente la Sapa rivelerà le intenzioni sullo stabilimento. “La cosa grave – ha detto Giorgia Calamita della Fiom Basilicata – è che, mentre erano in corso delle relazioni sindacali, a un certo punto sono state interrotte con un’azione unilaterale di questo tipo”. Alla richiesta di speigazioni del Fatto Quotidiano, l’azienda non ha risposto.

Bollette a 28 giorni: rimborsi per tutti o arrivano le multe

I clienti del grande inganno della fatturazione a 28 giorni vanno rimborsati con una modalità automatica. E l’unica multa inflitta a dicembre 2017 dall’Agcom a Tim, Vodafone Wind tre e Fastweb per aver imposto la tredicesima mensilità in più all’anno, che ha causato un aggravio dei costi per i consumatori dell’8,6% e un guadagno di un miliardo per i gestori, resta fissata a poco meno di 500 mila euro a società, vale a dire la metà di quanto sancito inizialmente. Queste le decisioni del Consiglio di Stato che, prese lo scorso luglio, sono state pubblicate ieri (sentenza 00879/2020) in merito ai ricorsi sull’“eccentricità” delle bollette a 28 giorni presentati rispettivamente da Vodafone e dall’Agcom. Ma negli scorsi mesi Palazzo Spada ha già rigettato i ricorsi delle altre tre compagnie coinvolte.

La sentenza non si può però definire rivoluzionaria. La sua unica evidenza è dimostrare che i big delle telco, nonostante siano stati già multati, non si sono ancora adeguati al richiamo dell’Agcom rendendo i rimborsi automatici, vale a dire l’unico meccanismo che riuscirà a riequilibrare la tutela degli utenti che, loro malgrado, si sono ritrovati in una situazione alterata da un aumento dei prezzi non trasparente e che il Consiglio di Stato ha giudicato “sleale”.

Il meccanismo di come i gestori sono riusciti negli ultimi anni a tenersi in pancia , circa mezzo miliardo di euro, metà del bottino conquistato con le bollette a 28 giorni, lo abbiamo raccontato ieri sul Fatto. Ed ora la sentenza del Consiglio di Stato non fa altro che ribadire la necessità di far adottare alle compagnie la procedura dei rimborsi automatici che fino ad oggi sono stati disattesi grazie alla girandola di procedure intraprese dalle compagnie e dei relativi ricorsi al Consiglio di Stato. Tant’è che è assai esiguo il numero dei clienti che autonomamente ha già richiesto e ottenuto dal proprio operatore il maltolto, che va dai 15 ai 60 euro. Del resto, come scrive lo stesso Consiglio di Stato, è l’indole del “consumatore apatico” a spingerlo a non fare nulla per importi di modesto valore. Insomma, i consumatori preferiscono rinunciarvi piuttosto che inviare una messa in mora o un reclamo al gestore. Musica per le orecchie dei gestori.

Cosa succederà ora con la pubblicazione della sentenza del Consiglio di Stato? Tecnicamente nulla. La palla è in mano ai gestori che dovrebbero finalmente adeguarsi. Ma, come emerge da fonti interne alle autorità di settore, se le compagnia entro breve non renderanno gli indennizzi automatici sono già pronte altre sanzioni per la mancata inottemperenza, che si aggiungeranno così alla multa da 228 milioni di euro inflitta negli scorsi giorni dall’Antitrust ai gestori, accusati di aver fatto cartello e limitato la concorrenza aumentando tutti insieme le tariffe dell’8,6% quando sono state obbligate a tornare alla fatturazione mensile.

Tecnicamente, il rimborso interessa solo i contratti di telefonia fissa che sono stimati in circa 12 milioni con esclusione degli altri 60 milioni di clienti della telefonia mobile cui è stata negata la possibilità di ottenere l’indennizzo, sebbene tutti tra il 2016 e il 2018 si siano ritrovati a pagare circa un miliardo di euro in più all’anno. Insomma, la solita risposta commerciale sbagliata da parte dei big delle Tlc a un problema strutturale del settore: scaricare sui clienti le conseguenze di un mercato in profonda trasformazione. Inoltre, come ribadito dal Consiglio di Stato Vodafone, Tim, Wind Tre e Fastweb dovranno restituire i giorni erosi erogando gratuitamente il servizio per un numero di giorni pari a quelli erosi e quindi posticipando l’invio di una fattura. Fino ad oggi, invece, dopo negli scorsi mesi le associazioni dei consumatori hanno denunciato la difficoltà degli utenti a reperire le informazioni necessarie per capire come ottenere il rimborso, la procedura di rimborso si può ottenere facendo domanda direttamente sul sito della propria compagnia. Procedura ai più sconosciuta.

“I soldi per i disabili sul conto del leghista”

Sentito dai magistrati, Tony Rizzotto aveva giocato una carta decisamente particolare. Dove sono finiti i soldi pubblici per i corsi di formazione destinati a disabili e disadattati sociali? “È probabile che in parte siano stati utilizzati per pagare in nero la donna delle pulizie”. L’insolita tesi però non ha convinto i magistrati della Procura di Palermo.

Ieri mattina i militari del nucleo di Polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza hanno notificato all’ex deputato regionale ed ex presidente di un istituto di formazione accreditato dalla Regione (Is.For.d.d), un provvedimento di sequestro per equivalente del valore di 500 mila euro. Il politico, 67 anni, originario di Trapani, è indagato per peculato insieme al suo fidato collaboratore Alessandro Giammona.

Rizzotto è stato il primo deputato eletto dalla Lega al parlamento siciliano. Un primato che risale al 2017, arrivato dopo la militanza in Forza Italia e nel Movimento per le autonomie di Raffaele Lombardo. Ma a luglio scorso l’amore con il Carroccio si era interrotto a causa di alcuni dissidi. Nei giorni scorsi invece il clamoroso addio al parlamento regionale perché dichiarato ineleggibile dai giudici della corte d’Appello di Palermo. Rizzotto non si era dimesso in tempo dall’ente di formazione che presiedeva. Lo stesso che adesso lo ha fatto finire nei guai.

A fare scattare l’indagine dei magistrati Sergio Demontis e Claudia Ferrari è stata la denuncia di cinque ex dipendenti dell’Is.For.d.d., uniti nel lamentare presunte irregolarità nella gestione dei soldi dell’ente di formazione. I sospetti cominciano nel 2013. Anno in cui una responsabile amministrativa avrebbe notato i primi trasferimenti anomali di denaro. Bonifici che passavano dai conti dell’ente, aperti in una filiale di Banca Nuova a Palermo, a quelli personali intestati al duo Rizzotto-Giammona. Davanti alla richiesta di chiarimenti, anche in relazione al mancato versamento delle paghe ai dipendenti, l’impiegata avrebbe però ricevuto un demansionamento.

Secondi i militari, guidati dal comandante Gianluca Angelini, tra il 2012 e il 2016 Rizzotto avrebbe intascato senza avere alcun titolo 32 mila euro. Il grosso dei finanziamenti gestito dal suo ente, per oltre un milione e mezzo di euro, provenivano dal dipartimento regionale dell’Istruzione. Una montagna di euro destinati sulla carta alla creazione di percorsi formativi “per il rafforzamento dell’occupabilità della forza lavoro siciliana”.

Ancora più gravi le anomalie, secondo i pm, nei confronti di Giammona. Il collaboratore si sarebbe autoliquidato 456 mila euro nel periodo 2013-2017. Pure questi soldi sarebbero transitati dai conti dell’ente, a cui Giammona aveva accesso, a quelli personali. Il tutto “con il consapevole concorso di Rizzotto, sul quale gravano degli obblighi di controllo”, si legge negli atti dell’inchiesta. Il collaboratore, inoltre, per dare una parvenza di giustificazione contabile avrebbe “emesso fatture per importi rilevanti, senza aver alcun titolo per l’emissione né, tanto meno, per la liquidazione delle stesse”.

Ma con che inquadramento Giammona lavorava nell’ente di formazione? L’uomo, si legge nel provvedimento di sequestro, “non è stato mai contrattualizzato, non compare nell’elenco dei dipendenti e per lui non è mai stato stabilito un compenso”. In realtà avrebbe lavorato come una sorta di consulente.

Nei confronti dell’ex leghista di Sicilia Rizzotto i magistrati evidenziano anche una sorta di gestione “familiaristica” dell’ente. Quando l’ex deputato si è dimesso per saltare in sella al Carroccio, al suo posto è stata nominata la moglie (non indagata). Prima del deputato invece Is.For.d.d. era guidato da un cugino ingegnere. In famiglia pure la scelta di Giammona: marito di una cugina considerato “con competenze approfondite in materia informatica”.

Vitalizi, Caliendo ammette il suo conflitto d’interessi

Alle cinque della sera a Palazzo Madama l’aria è vagamente soporifera. Ma c’è qualcuno che è sui carboni ardenti da giorni e freme per parlare in aula. Giacomo Caliendo è cereo ma combattivo: sente di poter giocare l’ultima carta prima che la situazione sfugga di mano e travolga l’istituzione che rappresenta non solo come senatore, ma soprattutto come presidente della Commissione chiamata a decidere sui vitalizi. Per questo prende la parola per mettere sul piatto il suo passo di lato dopo che anche Luigi Di Maio, in silenzio da quando ha dismesso le vesti di capo politico dei M5S, chiama la piazza contro la sentenza che cancella il taglio agli assegni anticipata dal Fatto. Una decisione preconfezionata e in odore di conflitto di interessi.

“Intervengo a difesa del Parlamento, di quest’aula: vi è un coacervo di iniziative per distruggere l’immagine del Senato. Si è ricorso a un falso, dicendo che la decisione era già assunta: non è così, era una proposta” dice Caliendo arrangiando una difesa che non spiega la sentenza già scritta e meno che mai il comunicato ufficiale pronto per essere dato alle stampe, anche questo anticipato dal Fatto. Insomma minimizza, ma poi la butta lì: “Pur non avendo alcun problema di conflitto di interessi ho raggiunto la decisione di astenermi da quel processo per difendere il Senato e i principi della autodichia (la giustizia interna dell’amministrazione, ndr), che sarebbero messi in forse da iniziative che man mano vanno a salire, per impedire che sia assunta una decisione corretta”. E in effetti la questione monta. Di Maio alza il livello dello scontro ricordando che la protesta del 15 febbraio a Roma è stata organizzata contro una decisione che premierà chi “pur essendo stato pochi giorni in parlamento vuole tornare a prendere un assegno da 3 o 4 mila euro al mese: un osceno atto di restaurazione”. Ma sul banco degli imputati è soprattutto Caliendo chiamato a decidere sui vitalizi di cui godrà “quando smetterà di fare il senatore: una persona in totale conflitto di interessi”.

Il forzista prova a resistere ma è ormai nel tritacarne: sa che l’astensione non basta ai 5 Stelle che vogliono le sue dimissioni. Le chiede esplicitamente Paola Taverna che parla subito dopo Caliendo che può contare in aula solo sulla difesa d’ufficio dell’eterno Pier Ferdinando Casini. Taverna usa la clava: “Sa quanto ci vuole per un cittadino italiano per andare in pensione? Minimo quarant’anni di contributi; sa quant’è servito ad alcuni dei suoi colleghi per vedersi riconosciuto il privilegio del vitalizio? Anche un solo giorno di Parlamento” dice la vicepresidente del Senato pentastellata che non solo conferma la manifestazione del 15 “contro un privilegio che noi non consentiremo che venga reintrodotto”. Ma dà pure l’avviso di sfratto al forzista: “Le chiedo per il bene di questo Parlamento, di ritirare la sua presenza all’interno di quell’organo, per consentire che qualunque sentenza venga prodotta non abbia quel velo di opacità”.

I 5 Stelle chiedono che la commissione nominata dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati venga azzerata. E rispondono a muso duro anche ad Antonello Falomi, presidente dell’associazione degli ex parlamentari in attesa di rientrare in possesso dei vitalizi così com’erano prima del taglio di un anno fa. “Troviamo senza precedenti e preoccupante che si vogliano mettere in piedi manifestazioni contro una sentenza che ancora non esiste per condizionare e delegittimare i giudici interni con accuse ridicole e inconsistenti di conflitto di interesse e per impedire che venga emessa una sentenza”. Netta la replica pentastellata: “Siete senza vergogna: l’unica cosa veramente preoccupante è che si attacchi in questo modo la libera espressione di tanti cittadini che vogliono dirvi cosa pensano dei vitalizi”.

Italia Viva, la corsa dei riciclati di destra a fare i coordinatori

Democristiani, berlusconiani, ex finiani e persino qualche leghista. L’eterna illusione del grande centro consente a Matteo Renzi e alla sua Italia Viva di raggranellare adesioni da più parti, destra compresa, rinunciando a ogni imbarazzo in nome del sogno moderato pronto ad accogliere chiunque non gridi e sappia stare composto a tavola, come vuole la retorica opposta ai barbari politici di oggi. Ecco che allora l’elenco dei coordinatori provinciali del nuovo partito, appena pubblicato online, contiene parecchi nomi con una storia politica ben diversa dal centrosinistra.

Quasi nessuna Regione fa eccezione. In Lombardia, per esempio, c’è spazio per due ex forzisti. A Pavia è referente Gianpietro Pacinotti, la cui biografia sul sito di Italia Viva si premura di far sapere che è “appassionato di musica e ciclismo su strada”, ma soprattutto che fino al 2015 è stato consigliere comunale a Vigevano con Forza Italia restando anche assessore al bilancio per dieci anni. A Varese c’è poi Annalisa Renoldi: l’ultima sua casacca era stata quella di +Europa, ma in precedenza aveva militato pure in Scelta Civica e in Forza Italia.

Anche in Toscana il fu Giglio Magico deve abbracciare il sostegno del centrodestra. A fare da regista c’è lo storico deputato forzista Gabriele Toccafondi, a cui si sono uniti diversi democristiani – su tutti Francesco Grazzini, il cui padre Graziano è stato conosciutissimo esponente locale di FI e Comunione e Liberazione – e qualche civico di destra. Antonio Longo, coordinatore a Prato, viene dall’Udc e da Energie per l’Italia, il movimento fondato da Stefano Parisi. A Massa, Italia Viva sarà invece guidata da Eleonora Lama, per un anno assessore alla Cultura della giunta leghista di Francesca Persiani e silurata per una controversa mostra a Palazzo Ducale che conteneva un’opera con un Cristo in versione Lgbt.

In Sicilia, invece, la pesca è soprattutto tra gli ex Alleanza Nazionale. A Catania, Renzi si affiderà a Puccio La Rosa: a lungo fedelissimo di Gianfranco Fini, fu consigliere comunale in città per il Pdl per poi essere candidato in Regione e alla Camera con Futuro e Libertà, il tentativo scissionista dell’ex presidente della Camera dopo la rottura con Berlusconi. Con La Rosa ci sarà Serafina Perra, assessore alla provincia catanese durante l’amministrazione di Raffaele Lombardo e già commissaria locale dell’Udc. Un’altra finiana era invece Maria Rita Picone, coordinatrice di Italia Viva a Palermo e a lungo consigliera nel Comune di Carini per Alleanza Nazionale.

Col centrodestra ha amministrato anche Maurizio Cerniglia, esponente centrista e riferimento renziano a Carbonia Iglesias, in Sardegna, dove è stato anche vicesindaco e membro dell’ufficio di gabinetto dell’assessorato all’Industria durante la presidenza di Ugo Cappellacci.

Acqua passata. E il discorso vale anche per Francesco Viapiana, responsabile del partito a Catanzaro. La sua biografia online passa quasi inosservata: “In passato ha fondato un Circolo della libertà e ne è stato coordinatore provinciale”. Detta così sembra un qualsiasi dopolavoro, invece si tratta di una delle articolazioni territoriali dell’associazione nata nel 2006 e gestita dalla forzista Michela Vittoria Brambilla in sostegno di Silvio Berlusconi.

Vicino al centrodestra è stato anche Luciano Marinucci, riferimento di Italia Viva a Chieti: nel 2016 ha vinto le elezioni per il Comune di San Giovanni Teatino correndo con una civica avversaria di Pd e Movimento 5 Stelle. Ancor più esplicito il passato di Cinzia Mastantuono, oggi coordinatrice renziana a Benevento: basta una rapida ricerca su Google per trovare i suoi manifesti elettorali in sostegno di Stefano Caldoro, ex presidente della Regione Campania in quota centrodestra. Correva l’anno 2010.

A Isernia c’è poi Giulia Di Silvestro, che della vicinanza a Forza Italia ha fatto per qualche tempo un mestiere: “Ha collaborato – si legge sul suo profilo – con Forza Italia Molise per la comunicazione istituzionale”. La storia del coordinatore di Trento Roberto Sani si intreccia invece con quella dell’onorevole Donatella Conzatti. Insieme hanno militato a lungo nell’Unione per il Trentino, partito autonomista riconducibile al centrosinistra; poi, due anni fa, il passaggio al centrodestra e l’elezione in Senato della Conzatti nel gruppo di Forza Italia. Fino alla nuova folgorazione renziana, valida naturalmente per entrambi in fede alla storica simbiosi politica.

Ma il vero manifesto di Italia Viva arriva piuttosto dal Veneto. A Rovigo la responsabile scelta da Renzi si chiama Arianna Corroppoli, imprenditrice con un passato da leader di Forza Italia nel Comune di Adria. Con suo grande rammarico, in queste settimane la Corroppoli ha dovuto prendere atto che la separazione renziana dal Partito democratico non avrebbe significato l’agognata fusione con il partito azzurro: “Ho sperato che Silvio Berlusconi in primis, insieme all’elettorato di Forza Italia, si spostasse in Italia Viva il giorno successivo alla scissione, abbandonando la condizione di rimanere all’ombra della Lega”.

Per il momento il sogno è sfumato, ma dando un’occhiata alla compagnia, la Corroppoli potrebbe comunque sentirsi a casa.

“Con la ragionevole durata del processo la prescrizione non c’entra proprio nulla”

Davvero la prescrizione afferma il principio della “ragionevole durata dei processo”? A leggere il fiume di inchiostro versato contro la legge Bonafede sembra non possa esserci dubbio. Eppure, solo fino a qualche anno fa, anche l’Unione delle camere penali ammetteva che “la prescrizione è inidonea a garantire la durata ragionevole del processo”.

Sono passaggi molto istruttivi quelli che si possono rintracciare nell’indagine conoscitiva sulla prescrizione avviata dalla Camera dei deputati nel 2014 quando il Parlamento, al tempo del governo Renzi, discuteva alcuni provvedimenti, non solo M5S ma anche del Pd, che puntavano a riformare la ex-Cirielli.

Tra le personalità audite vale la pena ricordare due autorevoli giuristi, l’ex Csm, impegnato più volte con diversi governi nella riscrittura del Codice penale, Glauco Giostra, e Tullio Padovani professore di Diritto penale al Sant’Anna di Pisa.

Giostra, in quell’audizione, introduce una distinzione rigorosa tra il “il tempo della prescrizione” e il “tempo del processo”. Il primo è “il tempo dell’inerzia”, un tempo vuoto che corrisponde al “diritto all’oblio” di un reato consumato. Mentre il processo è il “tempo della memoria”, “è un tempo giuridico con interruzione, sospensione e calcoli che vanno fatti e calati sulla singola fattispecie”. Per cui, aggiungeva, si assiste a un “maldestro tentativo” che da un lato “vuole tutelare il bene classico della prescrizione del reato, cioè l’oblio sociale”, dall’altro, “il meccanismo è anfibio perché si dice che è anche un modo per tutelare il diritto dell’imputato a essere giudicato entro un termine giusto”. “Notate quanto questi due elementi siano tra loro eterogenei e non amalgamabili” concludeva.

Tullio Padovani seguiva lo stesso ragionamento tanto da dichiarare che “rare volte posso dire di essermi trovato tanto compiutamente d’accordo con un relatore che mi ha preceduto come in questo caso”. Il punto, spiegava, è che “nella prescrizione convivono due anime contraddittorie: l’anima del trionfo dell’oblio e l’anima del rito della memoria”. È quindi “irragionevole” cercare di scaricare sulla prescrizione “i problemi legati alla ragionevole durata del processo facendo finta di credere che la prescrizione possa fornire una risposta, quando è esattamente il contrario”.

Per capirsi: “Se stiamo ricordando che Tizio è stato ucciso da Caio, dichiariamo la prescrizione nel bel mezzo di un dibattimento d’appello ? Ma dove? In quale scombiccherato ordinamento si può concepire una simile ridicola, assurda e paradossale commistione?” Le due anime non possono convivere tanto da definire la prescrizione “un istituto psichiatrico e noi siamo gli psichiatri che si sforzano di somministrare psicofarmaci, ma che non curano”

Qui si inserisce la testimonianza di Beniamino Migliucci, allora presidente dell’Unione camere penali e i cui interventi sono ampiamente rintracciabili su Radio Radicale. Il quale non mostra dubbi: “Il primo aspetto che vorrei sottolineare è che hanno ragione sia il professor Padovani, sia il professor Giostra quando dicono, nella sostanza, che la prescrizione è inidonea a garantire la durata ragionevole del processo. Diciamo che non c’entra nulla. Diciamo, anzi, che allungare i tempi della prescrizione può portare a un allungamento dei tempi del procedimento”. Il problema, spiegava, è più complesso: “Dobbiamo parlare di quanti sono i reati per cui si fanno i processi. Bisogna considerare che ci sono troppi reati inutili per i quali si fanno processi inutili?”: “Non si può incidere sulla durata ragionevole del processo se non si incide sul sistema penale sostanziale”.

Un approccio più complesso e meno banalizzato di quanto non si legga oggi. Ma allora la prescrizione significava ancora rivedere le aberrazioni introdotte nel 2005 dal governo Berlusconi. Oggi sembra che quell’epoca sia dimenticata.

Iowa, Sardine e Renzi: la sinistra fa autogol nell’universo mondo

Stanco di soffrire a causa delle molteplici delusioni cagionategli dalla sinistra, l’autore di questo diario prova a lenire le pene ricorrendo all’atarassia che (trascrivo da Wikipedia) è il termine già usato da Democrito che designa “la perfetta pace dell’anima che nasce dalla liberazione dalle passioni”.

Gli autogol delle Sardine. Soltanto pochi giorni fa avevo (avevamo) gioito all’annuncio della vittoria dell’alleanza sinistra più Sardine in Emilia-Romagna (e goduto come ricci per la sconfitta di Matteo Salvini): oh giornate del nostro riscatto! Ma, tutti assorti nel novo destino, non potevamo presagire che di lì a poco ci saremmo ritrovati con le photo opportunity dai Benetton, con le successive, dolenti prese di distanza (Jasmine Cristallo), con le velenose autoespulsioni (Stephan Ogongo). E, più in generale, con una sindrome troppo banale per essere vera: il successo di quattro ragazzi che dà loro alla testa. Infatti il saggio dice: ci sono soltanto due uomini perfetti, uno è morto e l’altro non è mai nato. E dunque se le imperfezioni dei piccoli leader saranno perdonate, le prossime piazze saranno ancora piene. Altrimenti, resteranno desolatamente vuote. In tal caso ai ragazzi diremo grazie per quanto fatto. Poi, con qualche rimpianto, ce ne faremo una ragione.

Suicidi assistiti. Matteo Renzi che minaccia di affondare lo stop alla prescrizione (un tempo da lui auspicato) insieme al governo Conte è lo scorpione che nella favola di Esopo punge a morte la rana che lo sta portando in salvo (“È la mia natura!”). Pensavamo di averla fatta franca, che fallita la spallata salviniana in Emilia il governo si fosse messo al riparo, almeno per il tempo necessario a programmare qualcosa di utile per il Paese e a salvarci dall’uomo del mojito. Non è così. Ma se la “natura” renziana dovesse provocare un demenziale omicidio-suicidio (stando ai sondaggi alle successive elezioni Italia Viva partorirebbe Italia Morta) cosa mai potremmo farci noi persone di elementare buon senso? Nulla. Infatti il saggio dice: se c’è un rimedio perché te la prendi? E se non c’è un rimedio, perché te la prendi?

Disastro in Iowa. La figuraccia delle primarie dem negli Stati Uniti conferma che grande è la confusione sotto il cielo liberal dove troppi candidati si contendono la nomination, tutti però al momento troppo deboli per spuntarla su Donald Trump. Il quale prospera allegramente sugli errori dei rivali, soprattutto la sconsiderata procedura di impeachment che bocciata dal Senato accresce la fama del presidente invincibile. E amen.

Infatti dice il saggio: non sono le stelle troppo lontane, sono le scale per raggiungerle troppo corte.

E Brexit fu. Il nostro amore per l’Europa unita ci aveva fatto sperare che alla fine un rimedio sarebbe stato trovato per impedire che l’uscita della Gran Bretagna non desse un duro colpo alla solidità dell’Unione. Eravamo convinti che al momento opportuno Jeremy Corbyn avrebbe schierato il Partito laburista armi e bagagli a difesa del Remain. Purtroppo, davanti alla cinica determinazione di Boris “boria” Johnson, quella un tempo gloriosa sinistra ha dato di sé una grigia immagine di latitanza e inconcludenza. Infatti dice il saggio: colui che chiede è sciocco per cinque minuti, ma colui che non chiede rimane sciocco per sempre.

Vergogniamoci per lui. Di Oliviero Toscani abbiamo sempre apprezzato la genialità e la passione con cui ha sposato le cause dei più deboli e dei più discriminati. Ma la sua frase: “A chi interessa se casca un ponte?”, pronunciata a proposito della visita delle Sardine da Benetton, fa ribollire il sangue. Per i 43 morti di Genova e per la disumanità, speriamo involontaria, che esprime. In questo caso un rimedio esiste: chiedere scusa.

Con questi sommari esempi, il diario ha cercato di rendere il senso di inadeguatezza che troppo spesso promana da quella bandiera politica convinta di rappresentare, per definizione, la parte buona e giusta dell’universo mondo. Esauriti, tuttavia, fatalismo e rassegnazione per chi alle virtù della sinistra ci ha creduto e ci crede ancora, non resterebbe che il “metodo Ninetta”. Quella barzelletta cioè dove all’esame di casellante ferroviario si chiede al candidato cosa fare per evitare l’impatto tra due treni lanciati a folle velocità sullo stesso binario. Poiché ogni possibile rimedio viene bocciato dai commissari, il nostro chiama in causa Ninetta. E alla domanda chi sia risponde serafico: è mia moglie, la chiamo e le dico amore vieni a vedere che botto.

Il manuale del prescrittore: ecco come ti allungo i tempi

C’è un video su Youtube in cui un avvocato di Napoli, Arturo Buongiovanni, racconta che cosa fa lui e tanti suoi colleghi per puntare diritto non alla dichiarazione d’innocenza dei loro assistiti, ma alla prescrizione. Approfittare delle falle del sistema giudiziario per arrivare al “game over”, alla fine dei giochi: per tempo scaduto. “Prima ancora di capire se il mio cliente è colpevole o innocente, io guardo la data del fascicolo”, spiega Buongiovanni, “ma lo fanno tutti: perché si crea la possibilità di un paracadute, se si riesce a guadagnare del tempo. Perché le notifiche spesso si perdono”.

Come “vincere” un processo per prescrizione, lezione uno: mai far eleggere domicilio legale al proprio cliente presso lo studio dell’avvocato difensore. “Da me la notifica arriva subito, non si scappa”, dice Buongiovanni al microfono di Franz Baraggino del fattoquotidiano.it, “perché devo favorire questo sistema?”. Se invece il domicilio è altrove, si crea la possibilità che le notifiche vaghino per l’Italia, non arrivino, si perdano. Tempo perso, cioè guadagnato per la prescrizione.

Lezione due: i testimoni. “Riesco a far passare una lista di testi che non risulti sovrabbondante, una ventina. E poi se un testimone non si presenta in aula, non è colpa mia. O magari si presenta in ritardo. Solitamente non c’è interruzione dei termini di prescrizione e così si guadagna tempo. Non sono mezzucci”, giura l’avvocato, “sono falle del sistema. E io ho l’obbligo di usare questi mezzi, me lo dice la Corte costituzionale, la Costituzione stessa: devo difendere come meglio posso il mio cliente”.

“La prescrizione è usata come forma (dissennata) per reagire alla lunghezza dei processi”, ripete il magistrato Piercamillo Davigo, “che in Italia sono troppi e vengono fatti morire in gran numero con la prescrizione”. L’avvocato Leopoldo Perone, con studio a Napoli, spiega che ormai molte delle manovre dilatorie messe in atto dagli avvocati sono disinnescate. “Dopo la pronuncia delle sezioni unite della Cassazione, quando il processo s’interrompe per intervento della difesa, si interrompono anche i termini di prescrizione. Succede anche gli scioperi degli avvocati”. Non sono più possibili i giochetti fatti, per esempio, dalle difese di Silvio Berlusconi, che ha guadagnato la prescrizione in ben sette processi con imputazioni gravi come corruzione giudiziaria, falso in bilancio, appropriazione indebita, finanziamenti illeciti a Bettino Craxi, rivelazione di informazioni coperte da segreto istruttorio. Reiterate ricusazioni dei suoi giudici, infinite riproposizioni di legittimi impedimenti, processi cominciati da capo per trasferimento dei giudici, trucchi e trucchetti per tirare in lungo. “Oggi un imputato normale non può usare tecniche dilatorie”, sottolinea Perone. Può però allungare il brodo chiedendo di essere interrogato, o nuove indagini, o l’interrogatorio di nuovi testimoni. Le notifiche sono un punto debole del sistema. O un punto forte del perfetto esperto in prescrizione. Una notifica omessa, o sbagliata, può far chiedere al difensore la nullità della richiesta di rinvio a giudizio o del processo. E il gioco riparte dal via. La prescrizione corre se si perdono udienze a causa di testimoni che non si presentano in aula, anche con giustificazioni ineccepibili.

Fa perdere tempo e avvicinare la prescrizione anche il giudice malato. Se poi viene trasferito, il processo deve ricominciare da capo, perché la prova deve formarsi nel processo e il giudice che emette la sentenza deve essere lo stesso che ha assistito alla formazione della prova. “Anche se è stata videoregistrata”, chiosa Davigo. Non basta acquisire la videoregistrazione, si deve rifare tutto dall’inizio.

Gli impedimenti professionali, sia del difensore, sia dell’imputato, fanno sospendere il dibattimento e correre la prescrizione. Come pure quello che Davigo chiama “effetto libretto d’assegni”. Lo racconta così. Se a una persona viene rubato un libretto d’assegni e i venti assegni del carnet sono spesi, con firma falsa, in venti diverse città, il proprietario di quel libretto viene chiamato a testimoniare in venti processi in venti città diverse. È umano che dopo tre o quattro volte si stufi e non si presenti. Ebbene, la sua assenza prolungherà i processi e farà avvicinare la prescrizione del reato per chi l’ha commesso. “Impossibile acquisire la denuncia dello smarrimento o del furto del libretto”, spiega Davigo, “e presentarla nei venti processi come prova dell’avvenuto furto o smarrimento”. Così i dibattimenti si allungano, il tempo corre, la prescrizione si avvicina.

La trattativa si è arenata: Orlando va dal premier

Il voto in Commissione Bilancio e Affari costituzionali sul lodo Annibali (che rinvia di un anno l’entrata in vigore della norma Bonafede che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio) è stato rimandato a lunedì o forse addirittura a martedì. Il vertice sulla giustizia annunciato come imminente dal premier, Giuseppe Conte, non ci sarà forse neanche entro fine settimana. Insomma, la trattativa sulla prescrizione si è arenata. Anche perché a cercare la mediazione sono solo lo stesso Conte e il Pd. Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, continua infatti a escludere ritocchi sostanziali alla sua riforma. Mentre Italia Viva accetta solo un rinvio dell’entrata in vigore del blocco della prescrizione.

Sul tavolo della trattativa resta l’estensione del lodo Conte. In origine prevedeva una doppia corsia per assolti e condannati in primo grado: per i primi, la prescrizione valeva ancora, per i secondi no. Su questo piano si era quasi arrivati a un accordo. Per il Pd era una buona base di partenza, ma Renzi si è tirato fuori. Ora si ragiona per un’ulteriore annacquamento della norma Bonafede. Il cosiddetto lodo Conte bis: sostanzialmente l’idea è di estendere la prescrizione anche ai condannati in primo grado e assolti in appello. In questo caso, alla persona in questione verrebbe conteggiato per la prescrizione anche tutto il tempo trascorso tra il primo e il secondo grado di giudizio. In pratica, l’interruzione della prescrizione varrebbe solo per i condannati in primo e in secondo grado. “Non un granché”, ammettono fonti dem. Ma comunque, la possibilità di arrivare a una soluzione. Possibilità che però per ora non c’è.

Se pure Conte dovesse convincere l’ala dura rappresentata dal ministro della Giustizia, resta il no di Renzi. “Rinviare di un anno la riforma Bonafede della prescrizione e intanto discutere del tema nell’ambito della riforma del processo penale che il ministro Bonafede porterà in Consiglio dei ministri”, Italia Viva affida a una nota ufficiale la sua posizione. E fa filtrare l’intenzione di presentare una mozione di sfiducia contro il Guardasigilli, dopo le Regionali.

In questo senso si capisce la dichiarazione di Andrea Orlando a metà pomeriggio. Rispondendo a una domanda, dice: “Non siamo contrari all’ipotesi di un rinvio. Se Bonafede lo accetta è la cosa migliore del mondo perché abbiamo il tempo di fare una buona riforma del processo penale. Noi l’avevamo anche proposto”. Un modo per far capire a via Arenula che la situazione è complicata. La data da cerchiare in rosso è il 24 febbraio: in quell’occasione Montecitorio vota la proposta di legge Costa per l’abolizione della norma Bonafede. Italia Viva ha già detto che vota con il centrodestra, parte del Pd – in presenza di voto segreto – potrebbe fare lo stesso. Ma se anche il testo venisse bocciato, il problema non sarebbe risolto. I forzisti stanno già pensando di presentare un emendamento al Milleproroghe in Senato e al testo sulle intercettazioni per il rinvio dell’entrata in vigore della Bonafede. E a Palazzo Madama Italia viva è più forte. Senza i suoi 17 senatori, la maggioranza va sotto. Senza contare che lì una parte del Pd fa capo ad Andrea Marcucci, su un territorio di confine tra i due partiti. Sentire lo stesso capogruppo Pd al Senato: “Bene il vicesegretario dem Orlando. Rinviare la prescrizione almeno fino alla riforma del processo penale, sarebbe una cosa di buon senso da fare”.

Che Renzi voglia far cadere davvero il governo su questo, non ci crede nessuno. Ma di certo la mediazione si fa sempre più complicata. Ieri Orlando è andato a Palazzo Chigi dal premier. Ufficialmente si è trattato di un incontro già programmato e i due hanno parlato di Green new deal e non di Giustizia.

Ma il vicesegretario dem è stato di fatto ambasciatore della posizione del Nazareno. Che suona più o meno così: il Pd è fedele al premier, lo appoggia, gli fa muro in tutti i modi. Sta a lui però sminare le questioni più spinose per il governo giallorosso, come Autostrade, Ilva e prescrizione. Altrimenti, i piccoli partiti entrano negli spazi lasciati aperti e li coprono, rompendo gli equilibri.

Per Italia Viva scorpacciata di nomine

“Mi ha appena fermato un funzionario del Senato dicendomi: complimenti per il successo del suo partito sulle nomine. Il mio partito. Sì, Italia Viva. Ma io sono del Pd. Ah scusi”. Così scriveva Tommaso Nannicini ieri in una delle chat dei senatori del Pd. Uno degli ex consiglieri economici a Palazzo Chigi di Matteo Renzi dà così inizio a uno sfogo, dopo essere stato fatto fuori dalla presidenza della Commissione Lavoro del Senato. A non volerlo sono stati proprio gli ex amici renziani, che lo considerano un traditore per essersi avvicinato a Nicola Zingaretti.

Dopo mesi dalla nascita del governo gialloverde, a Palazzo Madama sono stati eletti i tre presidenti delle Commissioni vacanti: alla guida della Difesa, Laura Garavini di Italia Viva che prende il posto della leghista Donatella Tesei eletta governatrice dell’Umbria. A capo della commissione Lavoro, Susy Matrisciano del M5S che sostituisce il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, anche lei 5S. Mentre a capo della Commissione Salute andrà Stefano Collina al posto di Pierpaolo Sileri (M5S).

Ora, la Garavini è ufficialmente renziana. Ma Collina, oltre ad essere anche il tesoriere del gruppo dem, è legatissimo al gruppo di Andrea Marcucci, il capogruppo Pd in Senato, che ormai si pone su un territorio di confine tra Pd e Italia Viva. Insieme a un manipolo di altri senatori. Come Dario Stefàno, che non a caso ha avuto la vicepresidenza della Bilancio. Tornando a Nannicini. Così definisce il funzionario che con lui si è complimentato: “Un funzionario poco preparato sulla composizione dei gruppi, ma attento alle dinamiche parlamentari”. Ancora: “Credo sarebbe utile, a questo punto, un’assemblea per un’analisi ex post tra di noi e, soprattutto, per evitare di ritrovarci nella stessa situazione tra qualche mese”.

L’episodio illumina una situazione: ovvero i renziani e i loro amici nel Pd sono in grado di condizionare l’andamento del Senato. Non un dettaglio, visto che lì la maggioranza è sul filo. E che il Pd non è lo stesso partito di Montecitorio. E poi, c’è un’altra questione. Base Riformista, la corrente fondata da Luca Lotti e Lorenzo Guerini e maggioritaria in Parlamento, è ormai dilaniata al suo interno. Se Guerini è ormai uno dei ministri più contiani del governo, Lotti si gioca la sua partita. In chiaro antagonismo con l’ex migliore amico, Matteo Renzi, come si vede dalla guerra per le presentazione delle liste in Toscana. Marcucci, un tempo fedelissimo di Lotti, in questa fase sembra più vicino a Renzi.

La partita delle nomine parlamentari non finisce qui. Oggi si elegge il segretario d’Aula: sarà Nadia Ginetti di Italia Viva. E poi la presidente della Commissione bicamerale sulle banche: fino a ieri sera, in pole position c’era Carla Ruocco (M5S). Il 18 poi si costituiranno l’Agcom (il presidente viene nominato dal Cdm e i 4 commissari da Camera e Senato) e la Privacy (4 commissari di nomina parlamentare che eleggeranno il presidente). Sulla prima c’è un caso tutto interno al M5S: Emilio Carelli, ex direttore Sky Tg 24, punta alla presidenza. Ma dentro il Movimento c’è chi fa notare il conflitto d’interessi. Per la Privacy sgomita Ignazio La Russa.