M5S, Di Maio torna da capo: in piazza sulla prescrizione

Due settimane da ex gli sono bastate, il tempo di far notare che la sua assenza ha fatto rima con un discreto caos. Poi però un mercoledì mattina l’ex capo politico dei Cinque Stelle Luigi Di Maio si sveglia e parla da leader non ufficiale ma evidente. In un video su Facebook racconta che “il sistema sta provando a cancellare le leggi del Movimento”, quindi spiega che la piazza di sabato 15 febbraio a Roma non sarà solo a difesa dei tagli ai vitalizi, sarà anche e forse innanzitutto un evento per proteggere la riforma della prescrizione, quella del Guardasigilli Alfonso Bonafede.

E tutti i 5Stelle vanno in scia, anche il sodale ritrovato Bonafede, perché la nuova prescrizione vale l’identità e un bel pezzo di sopravvivenza per il M5S che teme di dissolversi a forza di piegare bandiere. Lo sanno tutti e per primo ovviamente Di Maio, che non poteva sbagliare il ritorno e infatti non lo sbaglia, e pazienza per chi mugugna fuori taccuino: “Luigi ha voluto rimettere il cappello sul Movimento”. La certezza è che si era concesso 15 giorni di silenzio sul governo e sul M5S, l’ex capo, dopo quel mercoledì in cui su un palco nel centro di Roma si era tolto la cravatta e pure tutti i sassolini, anzi i macigni, contro i nemici interni. Dopo le dimissioni, solo qualche intervento sulla politica estera, da titolare della Farnesina. Ma lì fuori c’è sempre tutto il resto, c’è la poco santa alleanza contro il taglio dei vitalizi in Senato e ci sono Matteo Renzi e tanto Pd che vogliono abbattere la riforma della prescrizione.

Così Di Maio, che non vuole tornare capo formale ma vuole restare il primo di fatto, riassume e tira la linea, quella del Movimento: sulla prescrizione non si cede proprio nulla. “Se Renzi vuole votare contro una legge può provarci già alla Camera ma non ha i numeri, e allora dovrà assumersi il peso di far cadere il governo in Senato” è il mantra che ripetono i 5Stelle di rango. Diversi big lo scrivono a Bonafede: “Alfonso, andiamo dritti a costo di andare a casa”. E Di Maio nel suo video è un megafono: “Il popolo italiano deve scendere pacificamente in piazza e manifestare contro questo osceno atto di restaurazione che inizia col riprendersi i vitalizi, ma vedrete, vorranno cancellare tutte le leggi che abbiamo fatto”. Ed è il proclama della diversità, il rivendicare lo stile del M5S vecchia maniera, quello del 2013. Sono le parole d’ordine su cui il ministro vuole impostare il suo progetto per gli Stati generali e quindi per il M5S del prossimo futuro: per cui (nonostante le solite smentite) continua a immaginare due capi, un uomo e una donna, cioè Chiara Appendino e Alessandro Di Battista, e una segreteria di maggiorenti.

Nell’attesa vuole ricompattare la base e possibilmente gli eletti, su qualche battaglia. Anche se alla Camera il clima è plumbeo. Così il tesoriere Francesco Silvestri, dimaiano di peso, la butta lì: “Io non ricordo che ai tavoli per formare il governo con il Pd sia mai stato sollevato il tema della prescrizione”. Bonafede invece va di clava: “Siamo in maggioranza, invece vedo toni di chi sembra all’opposizione. A volte sembra che i testi glieli scrivano Salvini o Berlusconi”. E comunque “il mio impegno è portare la riforma per abbreviare i tempi dei processi al Consiglio dei Ministri entro dieci giorni, lì ciascuno si assumerà le sue responsabilità”. Però non si possono lasciare varchi ampi a Renzi e imbarazzi per il Pd. Quindi da ambienti del ministero ripetono che “si lavora a un lodo Conte”, formula volutamente vaga. Ma la verità è che il Movimento non vede alternative alla “sua” prescrizione. E non può essere una sorpresa per Conte, che prende e cerca tempo.

Di Maio non gli ha fatto un favore con quel video da trincea. Ma d’altronde la pensano diversamente su parecchie cose, il ministro e il premier, a cominciare dalle alleanze tra Movimento e Pd.

Se ne dovrebbe discutere anche in quegli Stati generali che sono ancora una scatola vuota, senza sede e data ufficiale (ma saranno il 19 aprile). Martedì il facilitatore Danilo Toninelli ne ha parlato ai parlamentari in assemblea. Qualche slide, ma niente informazioni certe. “Non ci dicono niente, vogliono gestire tutto loro” sbuffano certi eletti. E “loro” sono i fedelissimi di Di Maio: l’ex capo che ex non sembra, per nulla.

Ragionevole porcata

Siccome non c’è più limite a nulla, neppure alla faccia tosta, tocca sentire gli avvocati difendere la “ragionevole durata dei processi”, come se molti di loro non facessero di tutto per renderla irragionevole: nelle aule di tribunale con ogni sorta di cavilli e pretesti; e nelle aule parlamentari con decine di leggi allunga-processi. L’intero repertorio delle tecniche e tattiche dilatorie avvocatesche è stato sperimentato nei processi a B. e ai suoi cari, grazie all’assenza (in Italia) dei reati di oltraggio alla Corte e ostruzione alla Giustizia, e alla beata indifferenza dell’Ordine forense sugli spudorati conflitti d’interessi degli onorevoli avvocati.

Guardia di Finanza. B.&C. sono imputati per 4 tangenti a vari finanzieri in cambio di verifiche fiscali a tarallucci e vino. Il processo inizia nel 1996 con i difensori che ne chiedono la rimessione da Milano a Brescia. La Corte d’appello respinge. I legali reiterano l’istanza per due anni. Intanto ricusano infinite volte i 3 giudici: tutti prevenuti. Finché il presidente Crivelli, concordando il calendario delle udienze con pm e avvocati, dice che userà “bastone e carota”: cioè verrà incontro un po’ agli uni un po’ agli altri. Tv e giornali di B. lo linciano come “toga rossa”. La Corte respinge l’ennesima ricusazione, ma lui, sepolto di insulti, si fa da parte. Il processo riparte da zero: un anno di lavoro buttato. Quanto basta per mandare in prescrizione 3 tangenti prima della sentenza. Per la quarta arriverà l’assoluzione per insufficienza di prove in Cassazione.

Imi-Sir/Mondadori. Cesare Previti e altri due avvocati sono imputati di corruzione giudiziaria per aver comprato due sentenze miliardarie che han dato ragione a chi aveva torto (Rovelli e B.) e torto a chi aveva ragione (l’Imi e De Benedetti). C’è anche B., per Mondadori, ma verrà prescritto in udienza preliminare. Che parte nel ’98. I legali di Previti chiedono un rinvio di 7 anni, fino al 2005, per leggere gli atti. Il gip Alessandro Rossato respinge e la difesa lo ricusa per 6 volte, finché la ricusazione diventa legge, grazie al centrosinistra: chi fa il gip non potrà più fare il gup e ha 5 mesi per chiudere le udienze, poi sarà incompatibile. Rossato corre e Previti frena a botte di rinvii per “legittimi impedimenti” parlamentari. Finora assenteista al 76%, diventa uno stakanovista, votando e concionando su ogni tema dello scibile umano: dall’eterologa al Kosovo, dalle quote latte alla naja femminile, dalle minoranze slovena e ladina al Paraguay. Proteste sdegnate dei pm e delle parti civili (avvocati anche loro, ma eccezionalmente scandalizzati dalle porcate dei propri colleghi).

Dopo un anno e mezzo di udienza preliminare, il gip dichiara illegittimi alcuni impedimenti di Previti e finalmente rinvia a giudizio gli imputati. Subito, su richiesta di Previti, i presidenti delle Camere Violante e Mancino sollevano conflitto di attribuzioni alla Consulta contro il Tribunale di Milano per far annullare l’udienza (saranno respinti con perdite). Intanto parte il processo ed è la solita via crucis. I difensori di Previti &C. presentano in due anni ben 64 istanze, spesso le stesse reiterate all’infinito: ricusazioni dei giudici, richieste di astensione dei pm, vizi di forma, eccezioni di nullità, inutilizzabilità, mancata traduzione e omesso deposito di atti, incompetenze territoriali, rimessioni ad altra sede, illegittimità costituzionali ecc. Chiedono di sentire 4770 testimoni (contro i 136 dei pm): 361 soci del Circolo Canottieri Lazio, 2346 fra cancellieri e dipendenti del Tribunale di Roma e tutti i 1777 magistrati capitolini in servizio dal 1986 in poi, più mezza Confindustria, decine di giornalisti (alcuni inesistenti: sono pseudonimi). E pretendono di cestinare tutte le carte bancarie trasmesse per rogatoria dalla Svizzera perché manca il timbro o il numero di pagina, o perché sono in copia. Appena viene respinta, l’istanza diventa legge. Idem la richiesta di trasloco a Brescia per legittima suspicione: siccome non si può, arriva la legge Cirami che lo consente. Ma la Cassazione dice comunque no. Allora si ricomincia: altre 7 ricusazioni dei giudici, altra richiesta di rimessione, stavolta a Perugia. Invano: almeno lì le condanne definitive precederanno la prescrizione.

Sme-Ariosto. È l’altro processo “toghe sporche”, nato dalle rivelazioni di Stefania Ariosto: Previti &C. imputati con B. e alcuni magistrati per aver comprato la sentenza Sme (che annullò la vendita del colosso alimentare dall’Iri alla Buitoni di De Benedetti, sgradita a B. e a Craxi) e per aver corrotto il giudice Renato Squillante. Un’altra, tragicomica gimkana fra ostacoli e cavilli pretestuosi dei difensori. Ma anche quella, grazie alla prescrizione lunga della corruzione giudiziaria (15 anni, che scatteranno solo nel 2007), arriva faticosamente in fondo. Almeno per gli imputati che non si chiamano B. (lui, stralciato grazie al lodo Schifani che lo rende improcessabile, tornerà imputato dopo i fulmini della Consulta). E almeno fino alla Cassazione, che a fine 2006 deve giudicare le condanne d’appello. Ma stavolta i giudici si superano: dopo aver confermato più volte la competenza di Milano, la Corte cambia idea e stabilisce che era di Perugia. Il processo riparte di lì in udienza preliminare, come se quella di Milano e i dibattimenti di primo e secondo grado non fossero mai esistiti. Un anno dopo il gip di Perugia archivia uno dei più gravi casi di corruzione mai visti perché sono tutti colpevoli, ma è tutto prescritto. E non dal 2007, ma addirittura dal 2002, perché intanto gli onorevoli avvocati di B. hanno fabbricato la ex-Cirielli che taglia i termini di prescrizione della metà o di un terzo. Per regalare la ragionevole impunità all’illustre cliente nei processi rimasti.
(1-continua)

“Quali social, il rap è emozioni e matematica”

Capannelle avvicina un bambino: “Dimmi un po’, ragassuolo, conosci un certo Mario che abita qui intorno?”. Il ragazzino risponde: “Qui de Mario ce ne so’ cento”. Il vecchio furfante insiste: “Sì, va bene, ma questo l’è uno che ruba…”. La replica del pischello è una lapide: “Sempre cento so’!”. Scena-cult da I soliti ignoti. “La girarono davanti a casa mia!”, informa orgoglioso Rancore, il rapper del Tufello. “Ora è un quartiere ricco di luoghi di aggregazione, non più una borgata romana affollata da emarginati. Semmai ci sono cento trapper, alcuni famosi. Però rimpiango quando ero piccolo e i miei mi mandavano a giocare in quei cortili lunghi e insidiosi come labirinti, dove potevo nascondermi. Oggi non ci vedo più tanti ragazzini, e sento fare agli adulti discorsi allarmanti. Come accade ovunque, in questa Italia che barcolla”.

Se gli citofonasse Salvini? “Chiuderei le orecchie. Rispondere a quel bombardamento violento significherebbe qualificarsi come nemici. Io voglio disinnescare l’energia negativa e allacciare nuove connessioni nel cervello, indurre gli altri a ribellarsi all’overdose estetica che ci ha resi passivi. Rivendichiamo il diritto di ascoltarci attraverso la musica, contro la guerra psicologica che qualcuno ha dichiarato. La musica è matematica emozionalizzata, trova libertà dentro limiti e regole. E quanto al rap, il suo fine è cercare infinite soluzioni”. Rancore, all’anagrafe Tarek Iurcich. Nonno rifugiato istriano, padre croato ma nato al Tufello, madre egiziana. “Papà era un viaggiatore. Mi portò con sè in India, avevo 8 anni”. Oggi, da trentenne, Tarek si muove ancora nei suoi labirinti interiori, sfidando gli altri a trovarlo. “Non mi svendo sui social. E nelle canzoni semino indizi, propongo codici, uso l’arma della metafora”.

Lo fa in modo illuminante nella tostissima Eden, che stasera lo riporterà all’Ariston, dopo il debutto del 2019 con Argentovivo di Daniele Silvestri. Il fil rouge della sua narrazione è la mela: che lo vede districarsi, giocando con le allusioni, tra l’11 settembre della Big Apple (“Cambiò la vita di tutti”) e il suicidio di Alan Turing con un frutto avvelenato; tra Newton e Magritte, i Beatles e Steve Jobs, il Giudizio di Paride e Biancaneve, e perfino la colonna sonora (“iconica” de Il tempo delle mele. Il tutto riporta al morso di Eva che ha innescato la cacciata dal Paradiso Terrestre. “È un gioco di rimandi verso l’eternità degli archetipi, e spero che tra dieci anni se ne scoprano di nuovi. Nel brano cito anche Iraq e Siria, che non fanno rima, ma in qualche modo sì”. La vertigine dell’attualità: Eden termina con una raffica che uccide simbolicamente Rancore sul palco. Chi è il killer? “L’altra parte di me stesso, che si avventura verso l’oscurità. La persona che temo di più sono proprio io”.

“Buddha, cabrón e mille baci”. Parole tante, ma idee poche

C’è chi dice “no”: Junior Cally lo ripete 97 volte, giusto per non essere frainteso – questa volta – e accusato di chissà che. Anzi, No grazie: ci infila pure un “grazie”, o meglio 17 “grazie”, giusto per essere in linea con questo Sanremo prodigo di parole, avaro di idee. Per una-idea-una, ma chiarissima, si segnala Ringo Starr – sottotesto: “Io sono Ringo Starr” – dei Pinguini Tattici Nucleari, mentre i testi più originali usano “le parole come armi”, da un’idea di Alessandro Baricco: Anastasio è Rosso di rabbia, mentre Bugo e Morgan firmano Sincero, il brano – sulla carta – più interessante. Da sobri: “Chiedi un parere anonimo e alcolista”.

Up & down: psiche ballerina. C’è chi non sta bene, e al Festival si sfoga, vedi Marco Masini che canta un “cuore diesel” nella prima strofa; poi ci ripensa e intona un “cuore killer”. Alla fine del Confronto si arrende, e ripete la lezioncina dello psicologo: “Mi son dato il permesso/ di parlarti davvero e accettare me stesso”. Pure le Vibrazioni reclamano attenzioni: “Chiedimi… se sono felice”, da un’idea di Aldo, Giovanni e Giacomo. Cadono, ma “in piedi” o alla peggio “sopra un’isola o un reality che qualche stronzo voterà”, Rita Pavone e Michele Zarrillo: la prima dà prova di Niente (Resilienza 74); il secondo è indeciso se soggiornare Nell’estasi o nel fango, un po’ Amleto, ma più Tafazzi. “Forse ho solo bisogno di tempo, forse è una moda/ quella di sentirsi un po’ sbagliati”: ha ragione Elodie, con la sua Andromeda, “una grande/ stronza che non ci sa fare”. Però schietta.

Reparto Kindergarten. Il nipote, la figlia, la madre: suonarsela e cantarsela in famiglia è un classico sanremese. Piero Pelù si intenerisce per il suo Gigante cucciolo, “il mio Gesù, la luce sul nulla, un piccolo Buddha”. Povero diablo. Paolo Jannacci, invece, dedica la sua canzone d’amore alla figlia: “Nessuno può da questo cielo in giù volerti bene più di me”. Ah beh, rima. Giordana Angi, infine, si sente Come mia madre, scusandosi per non averle mai detto quanto le volesse bene. Bene: “Di stazioni ce ne sono tante/ ma poi torniamo sempre a una sola”. Sòla.

Messa cantata. Santi in paradiso tanti: a cosa non ci si appella pur di vincere, finanche a Dio ché “anche se non ci credete, ditegli di sì, che gli fa tanto piacere” (© Paolo Poli). “Stasera se volesse Dio/ faccio pace coi tuoi occhi… Tu sei l’unica messa a cui io sono andata”; purtroppo non conosciamo le altre, resterà un segreto di Tosca. Altrettanto misterioso il brano di Rancore, ispirato all’Eden “prima del ‘ta ta ta’”. Boh. “Questo è un codice, codice”. Boh. “Chi si limita alla logica è vero che dopo libera la vipera alla base del melo”. Boh. “E per mia nonna ti giuro”. Chiaro. Come chiaro, almeno nella pia devozione, è il Tiki Bom Bom di Levante: “Fatti il segno della croce e poi/ rinuncia a Mefisto… Siamo chiese aperte a tarda sera, siamo noi./ Siamo l’amen di una preghiera, siamo noi”. Siamo solo noi: Vasco, con Gaetano Curreri e altri, firma il testo di Irene Grandi, Finalmente io. E finalmente Dio scomodato per qualcosa di sensato: “Gli amori miei buttati alla rinfusa/ non mi ricordo mai dove li metto./ Ma quando canto… sto da Dio”.

Amore e altri disastri. Persino il “maledetto” Achille Lauro cita Dio, “o mio Dio”, esibendosi poi in una canzone diversamente d’amore: ha perso la testa per un paio di “occhi ghiacciolo” – geniale –, salvo poi scoprire che era “panna montata al veleno”. Coi dolci è un attimo finire in overdose: “Ne voglio ancora”. Altra chicca è la canzone di Diodato, Fai rumore: sentimentale, ma non stucchevole, con quel “temporale/ che mi porta da te./ E lo so non dovrei farmi trovare/ senza un ombrello”. Viceversa, Francesco Gabbani preferisce i giochetti di parole, tipo “L’amore è cieco o siamo noi di sbieco?”, o il pensoso “Dittatori in testa e partigiani dentro al cuore”. Segue scivolone finale: “Ti amo!” col punto esclamativo. Quando Il sole è est “vola un pensiero”, chissà gli asini: morte le leggi della fisica, quelle della logica non si sentono granché bene. Meglio scappare, che tradotto da Alberto Urso suona: “Tra noi e il divenire/ è un lento fuggire”. Anche Riki ha le idee confuse con la fisica – “il vuoto è a pezzi… trattieni i respiri e li aggiusti in un fiato” –, mentre Elettra Lamborghini ha problemi con un “cabrón” di cui si è innamorata. Così le tocca “girare nuda per casa e nessuno mi guarda”. Ma il dramma vero è che “non bevo vino” e “la vita è corta per l’aperitivo”. Pure Raphael Gualazzi s’è invaghito di una con la “pelle carioca”. Sarà un nuovo colore degli omonimi pennarelli? Molto più esplicito il collega Enrico Nigiotti: Baciami adesso, un verso inedito, inaudito. Musica.

Don Fiorello benedice il Festival. Il resto è noia

Il Festival di Fiorello non poteva che cominciare con Fiorello. Lui che Sanremo l’ha rifiutato mille volte forse con qualche ragione, più che il badante, più che il mattatore, è l’X-Factor. Quello che dà sapore a un minestrone nazionalpopolare (il Festival lo è in sé) quest’anno più che mai senza identità, perché il vero passo indietro l’ha fatto Amadeus (e a forza di farsi da parte la sua firma su questa edizione numero settanta si annuncia già sbiadita). In abito talare Fiorello, non per nulla di nome Rosario, entra dalla platea invitando il pubblico a scambiarsi un segno di pace e il Santo padre a non disdire il canone. Visto che “questo è un Festival a rischio 15 per cento” si è vestito da don Matteo (“l’unico Matteo che funziona”). Prevedibile ma riuscita la presa in giro del Festival (a partire dalle defezioni: Salmo, Jovanotti, la Bellucci, “manco fossero elettori dei 5 Stelle”) e del conduttore (“io sarò il suo Rocco Casalino”), bellissima l’invocazione corale di Amadeus nella chiesa dell’Ariston. Alla benedizione segue una previsione sulle infauste sorti della carriera di Amadeus in caso di flop (e un po’ forse sono le sue paure messe in scena): “Al Festival si entra papi e si esce papeeti”. Memento.

Dopo l’esibizione dei quattro giovani in gara, arriva uno dei momenti più intensi della serata: Tiziano Ferro fa Volare il pubblico con’interpretazione swing di Nel blu dipinto di blu (più tardi farà Almeno tu nell’universo di Mia Martini e la sua Accetto miracoli). Da lassù Domenico Modugno avrà sorriso perché c’è modo e modo di omaggiare i grandi e c’è modo e modo di maneggiare la nostalgia, che da queste parti è sempre benvenuta. Altrimenti non avrebbero invitato la coppia del bicchiere di vino con un panino, dopo solo cinque anni dall’ultima volta che ci siamo beccati Felicità. E mica per niente Al Bano e Romina cantano Nostalgia canaglia. Intanto a Roma va in scena una stonatura in Commissione di Vigilanza: durante la seduta senatori e deputati del centrodestra hanno intonato, in assenza di cose più serie di cui occuparsi, la canzone della discordia di Junior Cally (non quella in gara), che quanto a strumentalizzazioni è il nuovo Achille Lauro. Che per non farsi mancare un po’ di pepe si presenta in tunica francescana (è una serata ecumenica). Siccome a Sanremo non si può parlare di politica (sic), la politica parla di Sanremo. Intanto le ricercatrici dello Spallanzani impegnate nell’emergenza Coronavirus danno una bella lezione di serietà, declinando l’invito (sollecitato da più esponenti politici) a salire sul palco: hanno cose più urgenti da fare.

Sul fronte contraddizioni, l’edizione accusata di sessismo per quello che passerà alla storia come l’infortunio del passo indietro (frase ormai mitologica pronunciata dall’incauto Amadeus) inizia con una serata tutta dedicata al tema (serissimo) della violenza sulle donne. C’è Gessica Notaro che nel 2017 fu sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato, qui per cantare un brano scritto da Ermal Metal dal titolo eloquente, La faccia e il cuore. Al mattino avevano fatto la loro prima apparizione insieme le due bellissime signore della prima serata: Diletta Leotta stivalata e scosciata, Rula Jabreal in tuta beige e giacca sulle spalle. La bionda conduttrice è naturalmente “emozionatissima” (anche le prove sono state “emozionanti”), dribbla tutte le polemiche e le domande diciamo difficili passando la palla alla più strutturata collega (ma se la cava molto bene quando le chiedono delle critiche di Paola Ferrari, invitandola a bere un caffè insieme). Per il resto non esce dalla metafora calcistica: “Questo è il mio San Siro”, finalmente siamo “al fischio d’inizio” e via dicendo.

Rula – altra età, altra classe – anticipa il suo intervento contro la violenza sulle donne: “È un’emergenza internazionale. Mentre vi parlo ci sono donne che vengono messe in prigione solo perché chiedono il diritto al voto o di poter guidare la macchina. È un tema apartitico, culturale. Sono felice di poter parlare stasera davanti a mia figlia, dirò cose che non ho mai detto nemmeno a me stessa. E non riguarda solo le donne. Io voglio parlare anche agli uomini”. Le chiedono del compenso, lei risponde che ne darà metà in beneficenza a Nadia Murad, l’attivista irachena che è stata rapita e stuprata dall’Isis.

E poi risponde più che a tono, non chiarendo l’entità del cachet: “Il vero tema è capire perché nel 2020 le donne vengono ancora pagate il 25 per cento in meno rispetto agli uomini che fanno il loro stesso lavoro”. Siccome sa rispondere, le chiedono che fine ha fatto l’idea di intervistare Michelle Obama. Non sono riusciti a organizzare, però la signora ha portato Roger Waters, che ha registrato un video saluto mandato in onda prima del suo ingresso. L’hanno criticata? E lei ringrazia i critici: “Le polemiche fanno parte di qualsiasi iniziativa culturale. Ringrazio i critici perché ci hanno costretto a fare uno sforzo in più. Lo dico con sincerità”.

Weinstein, l’accusatrice diventa “imputata”

Per le prime due settimane, il processo ad Harvey Weinstein è stato una storia di pressioni, abusi sessuali, ricatti di un potentissimo produttore nei confronti delle sue attrici. Poi, è arrivata la testimonianza di Jessica Mann.

La giovane, cresciuta nella casa mobile di una fattoria nello Stato di Washington, in una famiglia di religiosi evangelici, ha raccontato una relazione fondata sulla tortura e sulla violenza psicologica, oltre che fisica. Mann ha detto di aver incontrato Weinstein a un party, nel 2013. Il produttore la stuprò una prima volta in un DoubleTree di Manhattan, e ancora in un hotel di Beverly Hills. “Me lo devi, ancora una volta”, avrebbe detto Weinstein, nonostante la donna lo implorasse di fermarsi. Mann ha anche ammesso di aver avuto rapporti sessuali consenzienti con il produttore, incluso un rapporto a tre. Tutta la relazione sarebbe stata segnata da uno stato di pesante soggezione psicologica. Weinstein avrebbe voluto filmarla nel corso del rapporto sessuale, le avrebbe chiesto se amava il suo “grosso pene ebreo” e le urinò addosso. “Cominciò a urinarmi addosso… Mi misi in un angolo della doccia e girai la testa”. Il controinterrogatorio della difesa è stato particolarmente aggressivo. L’avvocato di Weinstein, Donna Rotunno, ha cercato di dipingere Mann come un’opportunista e una manipolatrice, che continuò a inviare mail al produttore anche dopo i – presunti, per la difesa – stupri. “L’ho fatto – ha risposto Mann – perché lui così era felice, e io mi sentivo al sicuro”. “Come sempre, sono felice di vederti sorridere – scriveva lei – e spero di incontrarti. Spero che qualcosa del tuo genio mi contagi”. “Le parole sono un problema nella sua testimonianza”, ha detto l’avvocato della difesa a Mann. “Lei mandava email dicendo ad Harvey Weinstein quanto fosse meraviglioso. Gli mandava email chiedendogli delle cose…”.

Poi, l’affondo finale. “Ha scelto lei di avere incontri sessuali con Harvey Weinstein, anche se lo considerava mostruoso. Lei amava le feste e amava il potere”. La teste ha cercato a quel punto di reagire: “Non avevo alcun progetto in testa se non le mie ferite”, ha detto, spiegando di aver cercato di salvare se stessa e la sua carriera dal disastro che la relazione con Weinstein le aveva provocato.

Poi, ancora pressata dalla difesa, Mann è scoppiata in lacrime: i singhiozzi hanno costretto il giudice a interrompere la seduta. Un momento terribile, che mostra il peso umano e psicologico cui una donna è sottoposta in un processo per violenza sessuale.

Sono 80 le donne che accusano Weinstein di abusi. Il produttore respinge tutto. Nelle intenzioni dell’accusa, la testimonianza di Mann – insieme a quella di Mimi Haleyi, un’assistente alla produzione che accusa Weinstein di averla stuprata per ben due volte – dovrebbe servire a sostanziare le accuse di ripetute violenze sessuali. Un’altra attrice, Annabella Sciorra, nella sua testimonianza ha detto di essere stata stuprata dopo una festa. Una prova, secondo l’accusa, del comportamento violento, rapace, casuale che per Weinstein era diventato normalità. Altre tre donne, Dawn Dunning, Tarale Wulff e Lauren Young, hanno invece parlato dei ricatti sessuali a cui Weinstein le sottoponeva. Con offerte di lavoro, da parte del produttore, subordinate alla loro disponibilità sessuale.

Caos dem, Trump pensa ai prossimi quattro anni

Donald Trump pare re Mida: quel che fa diventa oro – politicamente parlando, voti – anche quando sulla carta gli eventi dovrebbe essere avversi. L’inizio di febbraio pareva un percorso minato: l’avvio con i caucuses nello Iowa delle primarie democratiche, un trampolino di lancio potenziale per i suoi rivali; il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato, la scorsa notte, mentre gli pende sulla testa la spada di Damocle dell’impeachment; e, appunto, il verdetto del Senato nel processo d’impeachment previsto oggi, nel pomeriggio a Washington.

Invece, tutto gli fila liscio: i caucus dello Iowa diventano un incubo per i democratici, causa problemi organizzativi e informatici – per avere i risultati, ci vorranno oltre 20 ore dalla chiusura dei seggi – l’impeachment si rivela una bolla di sapone perché la rimozione appare sproporzionata rispetto alle accuse formulate – meglio sarebbe forse stato giocare la carta della censura – e il discorso sullo Stato dell’Unione diventa un mega spot elettorale a reti tv unificate.

Trump fa un bilancio dei risultati conseguiti e traccia un programma non solo per il 2020, ma anche per il suo secondo quadriennio alla Casa Bianca.

Dopo tre anni di presidenza Trump, viene da chiedersi se la sua sia solo fortuna sfacciata o se, invece, il magnate presidente abbia un ‘sesto senso’ per cui gli girano bene pure le cose sbagliate: come l’assassinio del generale Soleimani, ‘cancellato’ nei suoi potenziali effetti nefasti dall’abbattimento, da parte dell’Iran, di un aereo di linea ucraino. Un sondaggio mostra che il sostegno degli americani al magnate presidente è arrivato al 49%: mai così alto da quanto Trump s’è insediato alla Casa Bianca. Un dato che rispecchia il buon andamento dell’economia e le recenti intese commerciali con Cina e Messico e Canada.

L’unica certezza che sembra emergere dallo Iowa è il successo di Bernie Sanders, il ‘socialista’: fa piacere a Trump e terrorizza l’establishment democratico, che, oggi come quattro anni or sono, ritiene il senatore del Vermont troppo di sinistra per vincere le elezioni presidenziali il 3 novembre.

Lo Iowa, che di solito premia fra i democratici chi poi otterrà la nomination, ha dunque parlato. I caucus sembrano lanciare Sanders e suonare sirena d’allarme per Joe Biden. Tengono bene Pete Buttigieg e Elizabeth Warren e fa meglio del previsto Amy Klobuchar. Gli altri cinque candidati in lizza si confermano irrilevanti. Mike Bloomberg è fuori dalla mischia perché scenderà in campo solo nel Super Martedì, il 3 marzo. Tutti dati al momento labili. Sanders canta vittoria dove, nel 2016, Hillary lo battè d’un soffio. Rispetto ad allora, sono cambiate le regole dei conteggi, proprio per le proteste di Sanders, e c’è un’app nuova, forse non adeguatamente testata. Tra disguidi organizzativi e informatici, bisogna ricorrere ai conteggi manuali.

I candidati democratici alla Casa Bianca, o almeno quelli che sopravviveranno allo Iowa, che spesso falcidia i ranghi degli aspiranti alla nomination, guardano già al New Hampshire, dove si voterà martedì 11 febbraio.

I senatori del lotto, la Klobuchar, Sanders, la Warren e Michael Bennett devono, però, fare i conti coi loro impegni istituzionali. Oggi si chiude in Senato il processo sull’impeachment a Trump: l’assoluzione è scontata, il voto avverrà lungo linee partitiche, per la condanna ci vogliono 67 voti e i democratici ne hanno solo 47.

Una buona notizia per i democratici, in questa giornata ‘nera’, almeno c’è e viene dal sondaggio nazionale Wall Street Journal-Nbc: i candidati democratici sono tutti in vantaggio su Trump. Biden di 6 punti (50% contro 44%), Sanders di 4 (49% a 45%), la Warren di 3 (48% contro 45%) e Buttigieg di uno solo (46% a 45%).

Il villaggio Potemkin del plagio

Uno ogni nove deputati che siedono nella Duma, Parlamento russo, fino al capo staff del Cremlino. Poi giudici della Corte, membri d’alto rango delle forze dell’ordine, burocrati. Addirittura undici rettori universitari della Federazione. Uomini al vertice del ministero dei Trasporti. Perfino l’ex ministro della Cultura. L’Accademia russa si ribella contro i copioni al potere che hanno rubato, plagiato o falsificato tesi, articoli e dissertazioni universitarie, ottenendo lauree e titoli di prestigio che non meritavano, mentre sorridevano, mentivano e copiavano.

Il fisico Andrey Zayatkin nel 2013 ha fondato insieme ad altri scienziati e ricercatori “Dissernet, il gruppo che combatte la falsa scienza e il plagio”, una comunità di studiosi volontari che lavora “per ripulire la scienza russa” e pone sotto il microscopio dei controlli incrociati tesi di dottorato o abilitazioni, articoli e lauree, copiate, inventate o comprate. È stato il virus della corruzione scientifica dilagante a sviluppare l’anticorpo etico nel ventre dello stesso sistema universitario, divenuto “teatro dei peggiori vizi umani, vanità e ipocrisia e metodi disonesti”. Alcuni cattedratici, invece di intonare il de profundis tra banchi e libri polverosi, hanno cominciato a unirsi per analizzare lavori e denunciare, uno per uno, i plagiatori. In seguito a un lavoro di ricognizione e indagine scientifica colossale, hanno scoperto che i falsificatori occupavano spesso poltrone di potere nel Paese.

Esempi e paradossi. Igor Igoshin, che occupa uno scranno alla Duma, ha trasformato la sua tesi di dottorato sul commercio alimentare sostituendo la parola “carne” alla parola “cioccolata” di un’altra tesi, che ha lasciato invariata in testo, numeri e virgole. Nella lista dei testi falsificati appaiono tra i nomi degli autori Andrey Andriyanov, membro noto del partito di Putin, Russia Unita; Pavel Astakhov, nominato commissario dei diritti per l’infanzia dal governo, onnipresente nei canali tv; la deputata Olga Batalina; Dimitry Gordeyuk, giudice della Corte di Mosca, che ha denunciato “per danni all’immagine” il quotidiano Novaya Gazeta per aver pubblicato la notizia dal titolo “Vostro il plagio, vostro onore?”. Poi è stato il turno del potente Sergey Naryshkin, direttore dell’intelligence e capo staff al Cremlino. Metà delle pagine della sua tesi di dottorato risulta identica a quelle di altre tesi, ma per i critici nemmeno lui lo sa perché “non ha nemmeno letto il lavoro che ha consegnato”.

Errori analitici o pure invenzioni sono stati contestati dalla Vak, commissione per le alte attestazioni, al candidato Vladimir Medinsky, dottore in Scienze storiche. Risultato: Michail Gelfand, membro Dissernet, che aveva notato i copia-incolla, è stato bandito dalla commissione. Medinsky, ex ministro della Cultura, non ha subito ripercussioni proprio come il presidente del suo governo: Putin è stato accusato di plagio della sua tesi d’economia nel 2006.

Nel mirino degli arbitri imparziali di Dissernet ci sono lavori impuri e “disonesti”, copiati integralmente o parzialmente, datati ma ripubblicati come nuove scoperte, ricerche rubate ad altri o figlie della penna di autori fantasma. Nella faglia universitaria slava che sarà difficile chiudere brulicano venditori e compratori da mercato nero delle tesi stilate in cirillico. “Tesi di dottorato vengono comprate e vendute da anni” e viaggiano senza tenere conto di dogane, conflitti e confini tra Russia e Ucraina. In tutta la Federazione, secondo dati ancora grezzi, le frodi interesserebbero il 4% delle tesi prodotte, pubblicazioni che costituiscono “un villaggio Potemkin, non vengono lette da nessuno”, ha detto Anna Kuleshova, associazione degli Editori scientifici russi. E per il basso salario dei professori corrompere i membri di una commissione che dovrà approvare una tesi fasulla è facilissimo.

La Ran, Accademia delle Scienze russa, ha annunciato di aver revocato 869 articoli scientifici, “il più grande ritiro della storia scientifica russa” secondo la Ras, commissione controllo falsificazione della ricerca scientifica. L’algoritmo digitale creato da Dissernet ha appena trovato nuove 7251 opere dubbie e per gli addetti ai lavori ci sono ricerche ritenute pericolose più delle altre se diffuse: quelle mediche. Tra i casi studiati c’è quello speciale dell’oncologo Yuri Tsarapkin. Il medico ha “adattato” il suo articolo sul cancro al seno ciclostilando i dati di un articolo sul cancro allo stomaco, che si è rivelato plagiato a sua volta da uno studio sul cancro nei ratti.

Droghe sintetiche: oramai è la Cina la nuova Colombia

Dimenticatevi la geografia della droga come la conoscete. La coca dalla Colombia, con boss iconici alla Pablo Escobar. L’oppio in Afghanistan e nel Triangolo d’oro fra Thailandia, Laos, Myanmar. Il fumo “marocchino” o “pachistano”. Dimenticatevi pure le classiche rotte del traffico e annessi escamotage per sfuggire ai controlli, dai sottomarini agli imboschi fra merci insospettabili. Perché, entrando nel mondo delle droghe sintetiche e delle “nuove sostanze psicoattive”, cambia tutto. Amfetamine, metamfetamine, Mdma, per restare sul classico. Fentanyl, cannabinoidi sintetici, medicinali contraffatti e centinaia di molecole dai potenti effetti allucinogeni e dissociativi. In questo nuovo mondo, l’Europa è per la prima volta nella sua storia una produttrice, e persino esportatrice, di sostanze da sballo. A fare da protagoniste, nazioni che non siamo abituati a definire “canaglia”: soprattutto Paesi Bassi e Belgio. E la Cina, e l’India, a cui di solito pensiamo per altre brillanti performance nell’economia globale.

L’Europa, sulle droghe sintetiche classiche, è largamente autosufficiente. I Paesi Bassi sono il maggiore produttore di Mdma e metanfetamine, sotto il controllo di gruppi della criminalità organizzata olandese e belga – sancisce un recente rapporto di Europol – insieme a bande di motociclisti (fenomeno tutt’altro che folcloristico in Nord Europa). Gli olandesi, inoltre, scambiano Mdma con organizzazioni turche in cambio di eroina e morfina. Per una volta, insomma, non sono le mafie italiane a farla da padrone. Il cliente finale – lo abbiamo raccontato anche nelle puntate precedenti di Sherlock – si serve spesso sul dark web: tre marketplace fanno il 99% dell’offerta online di Mdma (uno di questi si chiama “Berlusconi Market”). La mecca delle metanfetamine è invece la Repubblica Ceca, dove si è ritagliata un ruolo crescente la criminalità organizzata vietnamita. In questo mondo alla rovescia, siamo diventati persino esportatori di droga verso il Medio Oriente. È il caso del Captagon, uno stimolante che prende il nome da un farmaco ufficiale. Prodotto principalmente in Bulgaria, prende la via della penisola arabica e in alcuni casi è stato utilizzato da jihadisti suicidi.

E la Cina? Fornisce i precursori, sostanze necessarie a sintetizzare le amfetamine. Ma è nel ramo delle nuove sostanze psicoattive che assume un ruolo paragonabile a quello della Colombia per la cocaina. “La Cina resta l’origine principale di questo tipo di droghe – scrive Europol – vendute ed esportate alla luce del sole da aziende farmaceutiche locali in grado di produrre su scala industriale”, anche se piccoli laboratori sono stati individuati in Europa (Paesi Bassi e Polonia). Le sostanze, confezionate in buste che vanno dai pochi milligrammi a centinaia di chili, sono commercializzate via internet e inviate via aereo o nave tramite i comuni corrieri e servizi postali, magari etichettate come alimenti, cosmetici, integratori.

L’India ha un ruolo meno pesante, ma con una particolarità: fornisce prodotti finiti, sotto forma di farmaci. Magari ammessi dalla legislazione locale e non dalla nostra. Oppure falsificati. Difficile fermare questa industria, in cui fanno profitti sia aziende chimiche regolari sia piccoli laboratori nascosti nelle zone rurali. “Da noi l’industria chimica è strettamente regolata e composta da pochi grandi gruppi”, chiarisce a Sherlock Andrew Cunningham, responsabile del settore Mercato, crimine e offerta dell’European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction. “In Cina e in India le maglie sono molto più larghe, con una miriade di piccoli produttori indipendenti”. È difficile persino sapere se e quanto le forze dell’ordine locali facciano il loro lavoro. “Con la Cina non abbiamo alcun canale di comunicazione aperto, nessun interlocutore. L’India afferma ufficialmente di contrastare il fenomeno, ma non abbiamo i mezzi per verificare”, continua Cunningham. “Eppure l’unica possibilità che abbiamo è lo scambio di informazioni investigative”.

Intanto il mercato vola. Secondo Europol, i consumatori di amfetamine nel nostro continente sono 1,7 milioni (di cui 1,25 milioni giovani fino ai 34 anni), mentre assumono Mdma ben 2,6 milioni (oltre due milioni di giovani). Il fatturato: un miliardo e mezzo di euro l’anno.

Manital, l’azienda è insolvente. Ora sono a rischio 10 mila lavoratori

La Manital, colosso delle pulizie e dei servizi alle imprese, è stata dichiarata insolvente dal Tribunale di Torino, che ieri ha deciso di ammetterla all’amministrazione straordinaria. Con questa sentenza i giudici scrivono nero su bianco quello che ormai era chiaro da tempo: il piano industriale presentato da Giuseppe Incarnato, proprietario che aveva acquisito l’azienda solo a ottobre 2019 con la promessa di risanarla e rilanciarla, non dava garanzie e non era credibile. Si apre quindi un nuovo capitolo per i 10 mila lavoratori che da mesi non ricevono gli stipendi e sono in presidio permanente. Dopo una lunga agonia, la situazione si è sbloccata, ma il cammino ora è tutto in salita. I creditori avevano presentato istanza di fallimento. Tuttavia l’impresa che ha ancora molti appalti, per buona parte commesse della pubblica amministrazione: ministeri, sedi locali dell’Agenzia delle Entrate e di Poste Italiane per citarne alcune.

Ecco perché i magistrati hanno deciso – piuttosto che sancirne la morte – di toglierla dalle mani della I.G.I. Investimenti. Questo gruppo l’ha comprata dal precedente titolare, Graziano Cimadom, in un momento di grande difficoltà, con la Manital in preda a una grave crisi di liquidità e con i dipendenti a secco. L’operazione ha da subito destato dubbi. La società di Incarnato, in precedenza imputato nel crac dell’Istituto dermatologico vaticano, aveva fatturato solo 77 mila euro nell’anno precedente e non sembrava avere quella forza necessaria. Il suo piano, tra l’altro, prevedeva di abbandonare la committenza degli enti pubblici e riposizionarsi sulle grandi aziende private, anche all’estero. Un’idea che è sembrata a tutti curiosa, poiché finora – come detto – la Manital doveva buona parte delle sue fortune allo Stato. Nel frattempo, si è assistito a uno smembramento dell’azienda: la perdita graduale di appalti, le sedi vuote, il personale privo persino dei mezzi per lavorare e dei furgoni. Uno scenario che ha portato gli addetti e i sindacati a chiedersi quali fossero le reali intenzioni della nuova proprietà. All’inizio di gennaio è anche scattata unindagine per truffa che ha portato al sequestro delle azioni Manital.

Adesso, dunque, la palla passa ai commissari giudiziali, che avranno l’arduo compito di rimetterla in piedi e pagare le spettanze dei lavoratori (14,5 milioni di euro). Nei prossimi giorni, incontreranno i sindacati Filcams Cgil, Fisascat Cisl e UilTrasporti. Non sarà semplice trovare il modo di mettere in regola tutti i salari, ma quantomeno da adesso in poi gli addetti non saranno più vittime di manovre ambigue.