Non sarà l’Alta velocità a far decollare il nostro Pil

In un articolo pubblicato il 30 gennaio sul Sole 24 Ore che riprende i risultati di uno studio di Ennio Cascetta, già alla guida della Struttura tecnica di missione del Ministero dei Trasporti con il ministro Delrio, si rilancia con forza la tesi secondo la quale, per riprendere il sentiero della crescita, serve somministrare con urgenza all’Italia un’ulteriore dose di “cura del ferro”: se si dovesse perdere ancora tempo, si rischierebbe di arrivare troppo tardi con gravi conseguenze per il paziente. Servono più linee ad Alta velocità, più metropolitane e i valichi di base per attraversare le Alpi. Infatti, le Province il cui capoluogo è servito da collegamenti AV crescono molto di più di quelle che ne sono prive. Senza valichi rischiamo poi di vedere frenato il nostro export. Ma è davvero così? È realistico pensare che una migliore dotazione di ferrovie e metropolitane possa avere un effetto macroscopico sulla crescita del Paese? Se così fosse, avremmo già dovuto averne un riscontro.

Il salto di qualità della rete di lunga percorrenza è stato in larga misura completato dieci anni fa. E risalgono allo stesso periodo forti investimenti nella rete metropolitana e nei nodi ferroviari di Torino e di Napoli. Ahimé, dal completamento della AV a oggi di crescita ne abbiamo vista assai poca: dopo essere precipitati, i livelli di reddito non sono ancora risaliti al livello pre-recessione. Si può certo sostenere che senza Alta Velocità l’evoluzione sarebbe stata ancora peggiore ma è indubitabile che l’AV non abbia rappresentato, come ripetuto con insistenza da più parti, un “volano per l’economia”.

Tale conclusione non dovrebbe stupire più di tanto se si guarda al bacino di influenza della nuova infrastruttura. Non vi è dubbio che, anche grazie all’apertura al mercato, questo segmento dell’offerta di trasporto abbia avuto una crescita rapidissima ma non dovremmo dimenticare che esso soddisfa una piccola nicchia della mobilità. Si tratta di poco più di 150 mila viaggi al giorno. Su mille italiani ve ne sono meno di 2 che salgono su un Frecciarossa o Italo. Per quanto possa essere cresciuta la produttività di queste persone che prima si spostavano in aereo o in auto o che non effettuavano il viaggio, è davvero difficile pensare che questo effetto possa avere dei riflessi macroscopici sul Pil nazionale. E sono una piccola minoranza anche coloro che utilizzano i servizi ferroviari locali: Repubblica, due giorni fa, titolava così un articolo nel quale si dava conto del Rapporto annuale di Legambiente, “Pendolaria”: “Sempre più italiani in treno: cinque milioni e mezzo lo usano ogni giorno”. Un vero e proprio fake number. Il dato corretto, consultabile con un clic sul sito dell’Istat, è di poco superiore al milione. Un italiano su 60, dunque. In Lombardia, la Regione che dispone probabilmente della migliore offerta di trasporto, sono solo 5 su 100 gli spostamenti sui binari.

D’altra parte, se analizziamo l’evoluzione della ricchezza prodotta nelle Province il cui capoluogo è sede di una stazione sulla rete AV, emerge un quadro assai disomogeneo. Tra il 2008 e il 2016 il Pil è aumentato del 13,4% nella Provincia di Bologna, del 3,2% in quella di Roma ed è diminuito del 3,2% a Napoli che ha fatto peggio della Campania nel suo insieme. Appare dunque evidente come il disporre di un collegamento ferroviario veloce per gli spostamenti di lunga percorrenza e di un servizio di più alto livello qualitativo per quelli locali non è affatto condizione sufficiente per garantire la crescita. Possiamo altresì aggiungere che il trovarsi in prossimità di una linea AV non è condizione necessaria allo sviluppo: la performance migliore tra le Province italiane negli anni successivi al 2008 è quella di Bolzano il cui capoluogo dista 250 km dalla più vicina stazione AV e il cui Pil è cresciuto quasi il doppio rispetto a Milano e sei volte tanto quello di Roma.

Si può, dunque, crescere molto (almeno in termini relativi) senza binari veloci e decrescere avendone a disposizione in abbondanza. E, per tornare ai valichi alpini, si può banalmente constatare come la forte crescita dell’export degli scorsi anni non abbia trovato alcun ostacolo nella indisponibilità di linee ferroviarie più prestanti rispetto a quelle odierne. Ostacoli che, forse, verranno paradossalmente introdotti domani per indurre le imprese a utilizzare servizi di servizi ferroviari altrimenti non competitivi con quelli su gomma sebbene gravati da elevatissimi pedaggi e che dovrebbero essere ridotti.

Dobbiamo concludere che le infrastrutture non abbiano alcun impatto positivo sulle prospettive di sviluppo di un territorio? Certamente no, ma appare evidente che una miglior dotazione infrastrutturale non sia un elemento determinante. Occorre quindi valutare con attenzione i singoli progetti per comprendere se il costo da sopportare sia giustificato o meno e non buttare il cuore o, meglio, il portafoglio del contribuente oltre l’ostacolo prospettando inverosimili miracoli economici.

Sono dunque necessarie serie analisi costi-benefici. E, considerato che una parte significativa delle ricadute positive di cui si tiene conto in queste valutazioni non hanno impatti sulla produttività, si può ritenere che ben difficilmente un progetto che non superi questo esame possa contribuire positivamente alla crescita mentre è certo che, nel caso di ferrovie e metropolitane, vada ad accrescere la zavorra del debito.

 

Sussidiare aziende inefficienti è un regalo ai manager furbi

Le imprese non efficienti falliscono o chiudono. Ne siamo circondati: Alitalia, Ilva, Whirlpool, imprese della grande distribuzione ma anche piccoli negozi. Ci sono più di un centinaio di crisi aziendali maggiori.

Vediamone le cause più diffuse: concorrenza a di prodotti o di processi (imprese con costi minori perché più automatizzate), cambio di gusti degli utenti, costi del lavoro inferiori altrove. E qui leggiamo un primo scandalo grave: o si è sovranisti dichiarati (“prima gli italiani”), o come non rallegrarsi che dei lavoratori più poveri stiano meglio? Ma anche tasse inferiori: e anche qui, come possiamo lamentarci se un altro paese ha i conti più in ordine e può tenere le tasse più basse? Poi ci sono gli errori di gestione: figli incapaci di padri brillanti, scelte di manager ignoranti, ecc..
Poi condizioni naturali: costi dell’energia e della materia prima insostenibili.
Poi ci sono le fluttuazioni internazionali della produzione (per esempio l’acciaio). Infine ci sono le motivazioni criminose, che vanno duramente colpite: bancarotte fraudolente, chiusure “di comodo” per licenziare e poi riassumere a meno, fughe all’estero di chi ha ricevuto sussidi pubblici.

Ma le imprese falliscono o si spostano da due secoli e mezzo, cioè da quando c’è il capitalismo. Le economie sviluppate sono diventate tali anche perché le imprese sono state lasciate fallire.
La crescita dei redditi, dell’occupazione e del welfare, lo sviluppo di tecnologie innovative sono conseguenze di quel meccanismo. Il problema è proteggere i più deboli che di quel meccanismo sono vittime, e questa è una grande priorità sociale, forse la maggiore. Impedire che le imprese falliscano o emigrino è un aiuto pubblico a imprenditori che non lo meritano affatto. lo Stato spesso manca della cultura o delle informazioni per sostituirsi efficacemente. Molti nostalgici dimenticano che l’IRI è stata chiusa per il fiume di perdite che contribuivano a scassare i conti pubblici. Il tanto attaccato reddito di cittadinanza va nella giusta direzione, specie se si migliora il meccanismo che fa incontrare domanda e offerta di lavoro. Protegge le vittime di un progresso tecnico che di lavoro non ne crea a sufficienza.

Astaldi, creditori beffati: “Danno da 2,9 miliardi”

Se la proposta di concordato per Astaldi sarà approvata nell’attuale versione, i creditori del secondo gruppo italiano di costruzioni ci rimetteranno 2,9 miliardi di euro. L’acquirente (ed ex concorrente) Salini-Impregilo guadagnerà 1 miliardo, mentre la famiglia Astaldi registrerà una plusvalenza da 130 milioni. Ad essere maggiormente penalizzati saranno quindi gli obbligazionisti che hanno investito nella società 907 milioni. È, in estrema sintesi, quanto sostiene un’analisi dello studio Muneghina cui il “Comitato Bondholder Astaldi” ha affidato l’incarico di valutare la proposta concordataria depositata da Salini-Impregilo.

Cifre che hanno spinto l’associazione a scrivere alla società, ai commissari e al tribunale fallimentare chiedendo di ritirare la proposta e di riformulare l’offerta ai creditori. In caso contrario, il Comitato, che rappresenta obbligazioni per circa 150 milioni voterà contro la proposta nell’assemblea dei bondholder prevista martedì 25 febbraio (10 marzo in seconda convocazione e 24 in terza). Se così fosse, il no degli obbligazionisti potrebbe far saltare il salvataggio di Astaldi a opera di Salini-Impregilo e minare così anche Progetto Italia, il piano per la costruzione di un colosso nazionale delle costruzioni con il contributo di Cassa Depositi e Prestiti. Non un argomento da poco visto che, nei desiderata di Progetto Italia, dopo Astaldi dovrebbero confluire in Salini-Impregilo anche altre società in crisi come Pizzarotti, Trevi e Vianini Lavori (gruppo Caltagirone).

Gli interessi in gioco, insomma, sono alti in una procedura che, del resto, a fine 2019 ha registrato perfino l’indagine della procura di Roma su due commissari liquidatori su tre, Stefano Ambrosini e Francesco Rocchi (poi dimessisi) per corruzione in atti giudiziari. Ma gli obbligazionisti non sembrano intenzionati a cedere. “A fronte di una stima di soddisfazione ‘ottimistica’ dei creditori chirografari di euro 1,3 miliardi contenuta nel Piano, pari al 38% dei relativi crediti – spiega l’analisi del consulente – si ritiene che avrebbe dovuto essere prospettata ai creditori chirografari anche la possibilità che la medesima stima possa attestarsi a valori decisamente inferiori, quantificabili in euro 620 milioni circa, corrispondenti ad una percentuale di soddisfacimento di appena il 18% (vale a dire 20 punti in meno rispetto a quanto prospettato nella proposta concordataria)”

Inoltre, secondo il professionista interpellato dal “Comitato bondholder”, le banche creditrici e finanziatrici della nuova Astaldi sarebbero state favorite dal piano. Come? Gli obbligazionisti che aderiscono alla proposta riceveranno azioni della nuova Astaldi e strumenti partecipativi che consentiranno di concorrere al ricavo netto della liquidazione di alcuni asset. Tuttavia, secondo lo studio Muneghina, non è detto che la vendita delle attività riesca a fruttare le cifre previste nel piano. Specie per quelle in Turchia o Venezuela.

Ma l’aspetto discriminatorio fra i creditori chirografari starebbe, secondo il professionista, nel fatto che, oltre a ricevere le stesse compensazioni degli obbligazionisti, le banche finanziatrici avranno anche delle opzioni in premio (warrant premiali). “Il tutto, con l’effetto di abbassare ulteriormente la percentuale a favore dei chirografari”, conclude lo studio.

Dal canto suo Astaldi in una nota ribadisce la correttezza di stime, offerta e procedure, precisando che la proposta “non contempla percentuali minime di soddisfacimento del credito per le quali è stata indicata nell’attestazione una valutazione, a titolo di esempio, al solo fine di fornire ai propri creditori un parametro di riferimento”. E minaccia azioni legali verso il comitato.

Il bluff delle Regioni del Nord: ora ridanno le strade allo Stato

È la doppia faccia del federalismo: in televisione si chiedono nuove competenze – rivendicando la maggiore efficienza della gestione regionale – e contemporaneamente, e senza troppa pubblicità, si restituiscono quelle considerate scomode. E così solo leggendo la Gazzetta Ufficiale si è scoperto che proprio le regioni che ambiscono più accanitamente al federalismo e all’autonomia differenziata (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte) hanno chiesto e ottenuto la restituzione all’Anas, la società pubblica delle strade, di 3.200 km di strade regionali oramai disastrate e piene di buche. È la fine di un percorso di confronto che è durato anni in Conferenza unificata tra Stato e Regioni e dove, nel novembre 2018, si è trovato l’accordo sull’estesa rete da ri-trasferire di fatto di nuovo allo Stato. Anche il Piemonte e il Lazio hanno appena concluso un analogo accordo.

L’operatività del trasferimento dei vari tratti di strade, che saranno riclassificate come statali, è ora subordinata ai verbali di consegna che quantificheranno i costi necessari per la loro gestione e che a sua volta verranno riconosciuti come corrispettivi che il Ministero delle Infrastrutture verserà all’Anas. Solo vent’anni fa – in Lombardia si era nel cuore dell’epoca segnata dalla gestione di Roberto Formigoni – le regioni avevano preteso e ottenuto di gestire le strade statali, a livello locale, certe che lo avrebbero fatto meglio della cocnessionaria statale. Le scelte di gestione sono state diverse, la Lombardia passò le strade alle Province mentre in Veneto si costituì una specie di Anas regionale.

Il risultato è stato però lo stesso: a vent’anni di distanza la manutenzione è crollata, l’asfalto è una groviera e ogni viaggio è diventato un pericolo. Ora, invece di investire di più e gestire meglio le strade, si rinuncia a qualsiasi sforzo e si richiama in aiuto lo Stato. E tutto mentre si pretendono dallo Stato centrale nuove competenze su p quasi tutte le materie.

In mano alle Regioni restano i monumenti al fallimento del federalismo stradale: le autostrade regionali (dannosissime e per fortuna mai partite in Lombardia, come Broni-Mortara, Cremona-Mantova, Treviglio- Bergamo e Valtrompia) e la gestione delle fallimentari e/o incomplete nuove autostrade (le Pedemontane Lombarda, Veneta e Piemontese e le inutili e fallimentari BreBeMi e Tem).

E proprio queste ultime infrastrutture mostrano il fallimento delle Regioni: quelle del nord in questi anni hanno puntato solo sulla costruzione di nuove tratte autostradali, a scapito della rete secondaria già esistente che è rimasta abbandonata a se stessa.

Tra i 3.200 km di rete trasferiti spicca la Strada statale 294 della valle di Scalve, una sessantina di km in alta montagna dove l’11 gennaio scorso al confine tra le provincie di Bergamo e Brescia si sono staccate parti di calcestruzzo dalla volta di una galleria della via Mala provocando un incidente che ha coinvolto tre autovetture, una delle quali è stata colpita dai calcinacci.

In Lombardia si sono spesi quasi 4 miliardi di euro per tre autostrade sottoutilizzate: la Brebemi (la nuova Brescia-Berbamo-Milano), la Pedemontana lombarda (ferma a un terzo dei lavori) e Tem (la nuova tangenziale di Milano). In Veneto si è già speso mezzo miliardo di euro per sette km sui 97 ancora da realizzare della Pedemontana Veneta. Anche in Emilia-Romagna è prevista una spesa di 1,3 miliardi per un’altra autostrada regionale, la Cispadana (Reggio-Modena-Ferrara). Ma, come dimostra anche il caso Trenord, società al collasso praticamente fin dalla sua nascita, dieci anni fa, il federalismo dei trasporti non ha mai portato bene alle Regioni del Nord.

Invece d’invocare sempre più competenze, i loro presidenti dovrebbero gestire meglio quelle che hanno.

Bollette a 28 giorni, come sfilare mezzo miliardo a ignari clienti e farla franca

Chi ha pensato che il più grande inganno nel mercato della telefonia dei tempi recenti, la fatturazione a 28 giorni, sia stato archiviato con la multa da 228 milioni che l’Antitrust ha inflitto a Tim, Vodafone, Wind Tre e Fastweb, si dovrà ricredere. I clienti sono ancora lontani dall’aver ottenuto giustizia, dal momento che i rimborsi previsti per i soli contratti di telefonia fissa – tra 15 e 60 euro – non sono automatici. E, soprattutto, il meccanismo sanzionatorio e risarcitorio previsto per compensare quanto sborsato dai clienti tra il 2016 e il 2018, quando Tim, Vodafone, Wind Tre e Fastweb si sono inventati una mensilità in più l’anno e un annesso aggravio dei costi per i consumatori nell’ordine dell’8,6% medio, risulta inferiore rispetto a quanto i gestori sono riusciti a guadagnare. È stato stimato che la fatturazione a 28 giorni abbia riguardato 72 milioni di clienti tra telefonia fissa e mobile (rispettivamente 12 milioni e 60) e garantito ricavi in più per oltre un miliardo l’anno. Un malloppo che si va ad aggiungere agli altri ricavi arrivati nel corso degli anni attraverso politiche di violazione dei diritti del consumatore, come il telemarketing selvaggio (del resto sul mercato i dati personali dei clienti si comprano a 5 centesimi a nominativo) o i costi nascosti applicati nel corso degli anni, tra contenuti a sovrapprezzo rispetto al servizio base come il “Chi ti ha cercato”, la segreteria telefonica, l’esaurimento dei giga e i più recenti costi per la ricarica in ritardo.

Ma che le compagnie non restituiranno centesimo dopo centesimo è abbastanza chiaro, ritrovandosi ancora in pancia circa mezzo miliardo di euro. E questo al netto delle sanzioni irrogate, i rimborsi e i costi che hanno dovuto sostenere per riprogrammare i software di fatturazione delle bollette, così come emerge da fonti interne alle autorità di settore. Il ragionamento è chiaro: non essendoci traccia di quanto sia stato rimborsato dalle compagnie (i bilanci verranno pubblicati nei prossimi mesi), è ipotizzabile che i clienti interessati non abbiano ottenuto il maltolto non essendo previsto un meccanismo automatico. Colpa della girandola di procedure intraprese dalle compagnie e dei relativi ricorsi a Tar e Consiglio di Stato. Solo alla fine della scorsa estate Tim, Vodafone, Wind Tre e Fastweb si sono adeguate pubblicando il modulo sulle aree riservate dei clienti. Oggi la procedura non è complicata, anche se molto poco pubblicizzata. “L’unico modo per arginare queste pratiche scorrette è consentire all’Antitrust di imporre, oltre alla sanzione, anche gli indennizzi automatici”, spiega Luigi Gabriele dell’Adiconsum.

Così, nella bilancia tra il dare e l’avere, per le compagnie è il secondo piatto che pesa di più. Anche perché la multa da 228 milioni di euro dell’Antitrust (anche in questo caso gli operatori presenteranno ricorso al Tar) non si riferisce tecnicamente alla pratica dei 28 giorni, ma all’intesa anticoncorrenziale che hanno attuato i gestori: quando sono stati costretti per legge a ritornare alle 12 mensilità, lo hanno fatto mantenendo quei rincari medi dell’8,6%. E per farlo, ha scoperto l’Antitrust, “hanno coordinato le proprie strategie commerciali” appunto con l’obiettivo di “mantenere il prezzo incrementato, vanificando il confronto commerciale e la mobilità dei clienti”. Mentre l’unica sanzione diretta che ha condannato la pratica del tredicesimo mese è stata comminata dall’Agcom nel dicembre 2017: 1,16 milioni di euro a gestore, poi tra l’altro dimezzata. Insomma, quisquilie in un settore dove si fa ancora fatica a parlare di trasparenza e prevedibilità delle sanzione, soprattutto perché uno zero virgola in più o in meno può significare milioni di euro.

I gestori giudicano pesantissima la multa dell’Agcom lamentando numerose difficoltà, tra la guerra di prezzi al ribasso, il forte investimento nelle aste per l’assegnazione delle frequenze 5G e il problema occupazionale. Eppure, nonostante la riduzione dei ricavi di settore degli ultimi anni, secondo il Paper I-Com “I benefici della concorrenza” pubblicato negli scorsi giorni, il margine di redditività degli operatori – calcolato come rapporto tra l’Ebitda (il margine operativo lordo) e i ricavi – risulta in crescita: è passato dal 30,5% del 2015 al 34% del 2018, con un aumento dello 0,3% solo nell’ultimo anno.

Del resto le perdite registrate dagli operatori fino a oggi sono state recuperate con scelte commerciali non proprio favorevoli ai clienti: alla risoluzione dei problemi strutturali, i big delle tlc hanno preferito spingere sempre sulla leva dei rincari. E in un mercato saturo, con i clienti già cannibalizzati, questo equivale alle sirene di nuove promozioni, tariffe scontate e tanti giga spacciati per gratuiti – tutto nel nome della sacra concorrenza che ha comunque portato a prezzi tra i più bassi d’Europa – che però si sono trasformati in una mannaia per i clienti. Tutta colpa delle modifiche delle condizioni contrattuali unilaterali che concedono al gestore la possibilità di apportare, a proprio vantaggio, dei cambiamenti alle condizioni iniziali. Mentre il cliente ha solo 30 giorni di tempo per accettare o disdire gratuitamente. Un abuso di queste modifiche che ha un effetto a catena: si adegua un gestore e gli vanno dietro tutti gli altri, proprio come successo con le bollette a 28 giorni. L’impatto delle rimodulazioni tariffarie è assai rilevante: nel 2019 sono cresciute del 7,5%, rispetto al 2018. Tanto che, secondo il report SosTariffe.it dello scorso novembre, il costo di un’offerta mobile è cresciuto, in media, di oltre 43 euro dal 2017. Dalle parole ai fatti. Tim ha da poco comunicato l’arrivo di una nuova rimodulazione che colpirà alcuni clienti con piani base a consumo. Gli utenti degli altri gestori sono avvertiti.

Non pagate gli ospiti di Sanremo

Ogni anno arrivano inevitabili le polemiche sui cachet dei super-ospiti del Festival di Sanremo. C’è un modo semplice per risolvere il problema: smettere di pagarli.

Vi sembra un po’ estremo?
I tempi sono cambiati: nell’equivalente americano di Sanremo, la finale del Superbowl di football, Shakira e Jennifer Lopez si sono esibite gratis. Tutta l’America – incluso il presidente Doanald Trump – ha guardato i loro ancheggiamenti latini nell’intervallo del match a Miami tra Kansas City Chiefs e San Francisco 49ers. Tutto gratis, anche se Jennifer Lopez di solito prende 2,2 milioni di euro a concerto e Shakira 1,6. Non era certo un problema di budget per Fox, che vendeva gli spot di 30 secondi nel Superbowl a 5,6 milioni di dollari l’uno.

Eppure Shakira e Jennifer Lopez si sono esibite senza chiedere un dollaro. Perché il mondo è cambiato e la visibilità di quei quindici minuti di Superbowl per loro vale più di qualunque gettone di presenza. Secondo i calcoli del sito MarketWatch, le vendite online delle canzoni delle due artiste sono schizzate del 1.013 per cento in un giorno. Le richieste ad Alexa, l’assistente vocale di Amazon, di cercare su Amazon Music Jenny on the Block di Jennifer Lopez sono aumentate del 426 per cento nella domenica del Superbowl rispetto alla settimana prima.
Già nel 2017 Lady Gaga aveva venduto 24.075 album il giorno della sua esibizione al Bowl Sunday e 14.364 il giorno dopo.

Sembra paradossale, ma azzerare il cachet permette agli organizzatori di selezionare soltanto gli artisti più popolari e di richiamo: chi ha un’audience abbastanza vasta, accetterà comunque di esibirsi (gente come Jovanotti, Laura Pausini, Eros Ramazzotti), altri che conquistano il palco di Sanremo soltanto grazie all’agente giusto che li impone alla Rai verranno sacrificati, ma non sarà una gran perdita. Nell’era dello streaming e di Instagram, continuare a pagare gli ospiti di Sanremo è soltanto l’ennesimo spreco in stile Rai.

Eataly, gli Usa tengono su i ricavi, ma la Borsa resta un miraggio

Lo scivolone nei conti è stato superato, ma nel contempo è svanito, ancora una volta, il sogno della Borsa. Si chiude così il 2019 di Eataly la creatura di Oscar Farinetti, gestita negli ultimi 4 anni dal super-manager Andrea Guerra che è prossimo a lasciare le redini del gruppo. L’altroieri il Cda di Eataly ha approvato il bilancio dell’anno appena chiuso. Secondo quanto risulta al Fatto, il fatturato consolidato è cresciuto ancora e si aggirerebbe intorno ai 550 milioni; il margine operativo lordo sarebbe intorno ai 25 milioni e sarebbe tornato un piccolo utile, tra i 5 e i 10 milioni.

Un cambio di passo che archivia un 2018 a passo di gambero. L’anno prima, infatti, la società aveva chiuso i conti con una perdita consolidata di 17 milioni. Ora il 2020 si apre con l’addio di Guerra, l’ex potente manager per un decennio in Luxottica e per una stagione consigliere economico di Matteo Renzi, prima di imbarcarsi nel 2016 nella gestione del gruppo del Made in Italy del cibo di qualità. Guerra approderà a marzo alla corte di Bernard Arnault patrono di Lmvh per il quale gestirà il settore dell’hotellerie di lusso. Con l’uscita di Guerra e il passaggio del testimone operativo al figlio di Farinetti, Nicola, tramonta per l’ennesima volta il sogno dello sbarco in Borsa. Annunciato a più riprese negli ultimi 2 anni non si è mai concretizzato, ed è difficile che possa accadere quest’anno. Un continuo rinvio che ha a che fare proprio con i conti del gruppo.

Non che manchi la spinta della crescita del fatturato: i ricavi sono aumentati a doppia cifra negli ultimi anni. Nel 2017 erano 470 milioni, saliti a 532 milioni nel 2018 e ora superano i 550 milioni. In fondo la strategia è quella di aprire negozi e store Eataly in tutto il mondo, forte del marchio di qualità dell’agroalimentare italiano. E ogni nuovo punto vendita porta ricavi aggiuntivi. Gli store con le insegne Eataly sono ormai 33 in tutto il mondo. Ma ovviamente ogni strategia di crescita sconta investimenti e un carico di costi aggiuntivi.

Il tema chiave, infatti che manca tuttora al gruppo per poter accedere alla Borsa non sono i ricavi, ma la redditività. Eataly si è stabilizzata con margini operativi lordi intorno al 4-5% dei ricavi. Tutto sommato in linea con una normale redditività del settore alimentare, mentre l’azienda si “vende” o vorrebbe vendersi come marchio del lusso del settore con un premio sulle normali valutazioni. E anche attribuendo valutazioni generose in virtù della forza del marchio, quella marginalità di poco più di 20 milioni porterebbe a un valore, debito compreso, nella migliore delle ipotesi di 400-500 milioni. Di fatto poco meno del fatturato. In ogni caso un valore decisamente inferiore alle attese di qualche anno fa. Giovanni Tamburi, con la sua Tamburi investment partners, entrò nel capitale di Eataly nel 2014 acquisendo il 20% per un valore di 120 milioni, che valorizzava il gruppo allora 600 milioni. Anni dopo, pur con ricavi in forte crescita, il valore che il mercato potrebbe attribuire oggi sarebbe comunque inferiore a quanto pagato 5 anni fa dal finanziere milanese. È questo il nodo gordiano di quell’Eataly che vorrebbe fare il grande balzo nell’empireo dei marchi del lusso gastronomico e finora non ha i numeri per farlo.

Fonti vicine al gruppo fanno invece notare che i numeri ci sono. Eataly avrebbe ricevuto valutazioni da banche d’affari che collocano il valore dell’intero gruppo tra 800 milioni e un miliardo, ma che la Borsa non è ritenuta un totem. Eataly è in grado di autofinanziare la crescita e sul mercato Usa il marchio è particolarmente apprezzato, tanto che i proprietari dei locali dove Eataly vorrebbe sbarcare nella costa Ovest degli Usa sono disposti a finanziare oltre la metà dei costi di apertura dei negozi. Sarà. Sta di fatto che qualche inciampo pur piccolo Eataly l’ha subito, e non solo per la perdita da 17 milioni nel 2018.

La società, visti i risultati non brillanti, ha dovuto svalutare a zero il valore della controllata Eataly Net (commercio online); così come ha portato a zero il valore di Eataly Romagna, la società che controllava il negozio di Forlì. E poi la chiusura a Copenaghen e la liquidazione di Eataly design e Eataly vin. Nel 2018 c’è stata la fusione inversa tra Eataly srl e Eataly distribuzione. Quanto alle partecipate a livello di capogruppo, la controllata di Stoccolma ha chiuso il 2018 con una perdita di 47 milioni di corone svedesi. Male nel 2018 anche la controllata tedesca che ha perso nel 2018, un milione di euro. Mentre è andata bene sia la consociata Usa che la partecipata Acque Minerali. Eataly si è anche sbarazzata della Scuola Holden venduta nel 2018 alla Feltrinelli. Quanto a Fico, il parco agroalimentare di Bologna aperto a fine 2017, il primo utile di 19 mila euro è già arrivato alla fine del 2018.

Come si vede un andamento delle varie società partecipate in giro per il mondo a macchia di leopardo. Con il mercato americano, che ormai porta più di 200 milioni di fatturato, a dare le maggiori soddisfazioni. A guardare da vicino le evoluzioni di Eataly, ci sono le banche creditrici. A livello consolidato, i debiti bancari ammontano a 96 milioni su 238 milioni di debiti complessivi. Con UniCredit la più esposta, soprattutto nel finanziare lo sviluppo sul mercato Usa. In cassa c’è liquidità disponibile per oltre 40 milioni. Fieno in cascina per ora ce n’è. Aspettando come Godot la tanto agognata Borsa oppure, chissà, nuovi investitori privati.

Roma, guerra dell’Imu. Suore e preti evadono e fanno pure ricorso

“Non gestiamo un albergo, diamo solo riparo ai pellegrini bisognosi”. Negli ultimi 3 anni, il Campidoglio ha elevato sanzioni ai bed and breakfast mascherati da strutture religiose per circa 100 milioni di euro. Ma nel 75% dei casi, preti e suore hanno impugnato le multe facendo ricorso, permettendo a Roma Capitale di incassare appena 17 dei 75 milioni di euro sanzionati, per competenza, dal 2005 e fino al 2018. È quanto emerge da un report in possesso del Fatto e finito sulla scrivania dei magistrati della Corte dei Conti di Roma. Il tema, annoso e dibattuto, è quello dell’evasione fiscale delle tasse sugli immobili che fanno capo all’universo della Chiesa cattolica. E che nella città di Roma, evidentemente, ha il suo clou. Fenomeno che a sua volta si mescola con il boom delle strutture ricettive private, seguito al proliferare di piattaforme online come Airbnb o Booking.com.

Dopo l’istituzione dell’Imu, nel 2011, il decreto legge 01/2012 ha fatto rientrare in vigore il principio introdotto con la legge 504/1992, secondo cui potevano essere esentati gli immobili destinati “esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”, con la precisazione, subentrata proprio nel 2012, che le attività dovessero essere svolte “con modalità non commerciali”. Un’occasione d’oro per il Comune di Roma, che con l’arrivo in Campidoglio di Virginia Raggi ha messo su una task-force che ha permesso di scovare, nel solo 2019, oltre 1.500 posizioni irregolari rispetto ai pagamenti di Imu, Ici arretrata, Tari e Tasi. A essere stati pizzicati, secondo la documentazione in possesso dei pm contabili, sono immobili di proprietà del Vicariato, della Cei, mentre l’Apsa (una sorta di agenzia del demanio della Santa Sede) e la Basilica di Santa Maria in Maggiore, pagherebbero addirittura più del dovuto.

La vera giungla riguarda gli immobili formalmente non appartenenti agli enti ecclesiastici, ma gestiti da ordini di preti e, soprattutto, suore. La municipalizzata AequaRoma, che si occupa della riscossione per conto del Campidoglio, li ha addirittura classificati per codici: francescani, carmelitani, oblati, domenicani, divina provvidenza e preziosissimo sangue. La lista fin qui compilata è di 263 strutture, ma potrebbero essercene altre “sfuggite” ai controlli.

Gli 007 capitolini le rintracciano attraverso le recensioni su TripAdvisor e su Google, ma anche grazie alla lista presente sul sito www.istituti-religiosi.org, che fa capo a un tour operator specializzato nel settore. Il problema, come detto, è che poi queste strutture fanno ricorso. Perché bisogna dimostrarne la “destinazione commerciale”, che non contempla il riparo per i pellegrini. In alcuni casi, che conventi o scuole cattoliche vengano destinati in alberghi è facilmente dimostrabile: servizi e prezzi da hotel a 5 stelle, soddisfazione dei clienti, accessori degni di resort di lusso. In altri casi, la differenza con i classici “ostelli del pellegrino” è minima. Fatto sta che a tutto il 2018, il Campidoglio si è visto annullare dai giudici tributari circa 15 milioni di euro di sanzioni. Solo 82 strutture su 263 fra gli “enti non commerciali a carattere religioso”, ad oggi si sono “adeguate” e uniformate al regime dei pagamenti.

All’inizio del mandato di Virginia Raggi in Campidoglio, l’argomento aveva creato parecchie frizioni con il Vaticano. La sindaca e Papa Francesco ne avevano anche parlato in maniera riservata durante un incontro svoltosi il 5 dicembre 2016. Il 9 febbraio 2017, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Pontefice, aveva poi inviato una lettera alla sindaca, dandole di fatto il benestare a “esigere” le “imposte dovute” da parte degli quegli “immobili degli istituti religiosi, che sono persone giuridiche distinte dalla Santa Sede”, oggetto di quel “fenomeno di evasione fiscale” che il Vaticano è “ben lungi dal voler avallare e proteggere”. Nei mesi successivi a questo episodio, la strategia comunicativa del Campidoglio – per motivi di opportunità e di rapporti – ha quindi spostato l’obiettivo dalla definizione di “Vaticano evasore” e tenuto toni più “concilianti”.

I 57 milioni di euro che gli istituti religiosi contestano al Comune di Roma rappresentano una minima parte rispetto agli 1,3 miliardi di euro che i romani pagano ogni anno di Imu (l’evasione generale stimata è del 12-15%) ma si tratta comunque di una cifra cospicua, considerando che il Campidoglio ha chiuso il rendiconto del bilancio 2018 con un passivo di circa 42 milioni.

Atenei, sì a 1600 ricercatori. I fondi dall’agenzia di Conte

L’università sotto-finanziata aveva spinto l’ex ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, a dimettersi per l’assenza di un miliardo in più e aveva spinto il premier Conte a decidere per una separazione dei settori con la nomina di un ministro ad hoc. Ora, con un emendamento del governo al Milleproroghe (oggi dovranno essere depositati i 15 previsti) , si prova a mandare un segnale stanziando però circa cento milioni l’anno per assumere 1.600 ricercatori.

I dettagli sono in una prima bozza della norma circolata nella serata di ieri: il testo prevede che nel 2020 ci sarà l’assunzione di 1.607 ricercatori a partire dal 15 novembre, quindi con uno stanziamento che per quest’anno varrà 12,4 milioni di euro. Nel 2020 lo stanziamento salirebbe a 96,5 milioni a copertura delle dodici mensilità. Dal 2022, poi, si prevede la progressione di carriera, probabilmente con concorso riservato, dei ricercatori a tempo indeterminato che abbiano ottenuto l’abilitazione nazionale per le posizioni di professori associati. Per questa voce vengono stanziati 15 milioni l’anno (la differenza tra il costo medio annuo dei ricercatori e quello dei professori associati).

L’aspetto più interessante riguarda la provenienza delle risorse: se i 12,4 milioni per il 2020 e i 15 milioni dal 2022 arrivano dal Fondo Esigenze Indifferibili inserito nella legge di Stabilità, la parte più corposa – i 96,5 milioni di euro – saranno sottratti allo stanziamento che sempre nella legge di Bilancio erano stati destinati all’Agenzia Nazionale della Ricerca (nello specifico 200 milioni nel 2021), la struttura voluta dal presidente del Consiglio che dovrebbe coordinare tutto il settore della ricerca italiana e contro cui si era scagliato il mondo accademico per il rischio – in parte attenuato nella sua ultima versione – di politicizzazione delle nomine.

Tra gli emendamenti del Governo è interessante anche quello che riguarda l’inserimento della ministra per l’innovazione, Paola Pisano, nella struttura del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica “per consentire al Ministro per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione di partecipare quale componente permanente al Comitato”, si legge. Alla ministra, dopo le assegnazioni in legge di Bilancio per il potenziamento del dipartimento per la trasformazione digitale, vengono delegate le funzioni del presidente del Consiglio “in materia di infrastrutture digitali, tecnologie e servizi di rete”. In sostanza, rafforza la sua posizione nella partita della programmazione economica. Un passaggio obbligato, di adeguamento del Cipe alla struttura di governo, ma comunque indispensabile.

Mail Box

 

Dai piani alti nessuna misura per il cambiamento climatico

Ora è evidente a tutti (o quasi), che le denunce fatte sin dagli anni 70 erano più che fondate. Abbiamo cambiato il mondo in cui viviamo per avidità, ignoranza e cinismo suicida. Il riscaldamento globale aumenta in maniera ancor più rapida e incontrollabile di quanto previsto, e gli equilibri climatici che conoscevamo sono saltati. Come in Australia, al caldo sahariano può seguire un alluvione da diluvio universale. In Italia non piove da mesi e la siccità sta mettendo in crisi le colture. Nei prossimi giorni sono previsti 20 gradi e niente pioggia. Se dovesse seguire una gelata improvvisa, distruggerà tutto. Eppure, a livello globale, nessuno fa niente. A Madrid Trump, Bolsonaro e compagnia, hanno impedito qualunque intesa. Per Trump l’unico metro di giudizio sono i soldi, non l’apocalisse che si profila e, quindi, per lui è tutto a posto. Sono gli ambientalisti a essere “profeti di sventura”! Come dire che le colpe dei crimini non sono dei delinquenti che li commettono, ma di chi li denuncia. Alla fine, saranno gli stessi speculatori globali, che stanno contribuendo a provocare il disastro, ad accumulare altri miliardi nel tentativo di salvare il salvabile. Solo che a quel punto, è probabile, che non sarà più possibile farlo.

Mario Frattarelli

 

Una strada di Milano per onorare il giudice Borrelli

Cari amici del Fatto e se tutti i vostri lettori che hanno già firmato la petizione per intitolare una strada di Milano a Borrelli, inviassero anche una cartolina illustrata dalle loro città, proprio alla sede del Comune di Milano? Io che abito ad Adria scriverò: “Chiedo, cortesemente, una via di Milano per Borrelli”. Lo so, può sembrare anacronistico e démodé, ma che effetto vi farebbero 20 mila cartoline da tutta Italia nella vostra cassetta della posta? Di sicuro non passerebbero inosservate! “Viviamo in un mondo di memoria usa-e-getta. Niente è fatto per durare neanche la memoria”. Questa considerazione l’ho letta stamattina in un libro di Dennis Lehane e ho pensato che calzava a pennello con quanto stiamo vivendo in questo momento nel nostro Paese.

Monica Ganzarolli

 

Tortora contro Travaglio, il bersaglio sbagliato

Vorrei portare la mia solidarietà al Fatto e al suo direttore. Marco Travaglio, bersaglio preferito di tv e giornaloni, l’altra settimana è stato attaccato anche da Gaia Tortora, figlia di una vittima innocente in un caso plateale di malagiustizia che ha ritenuto di usare un epiteto di discutibile gusto. Come abbia potuto intendere che il direttore volesse giustificare la carcerazione del padre, sfugge alle mie capacità di comprensione, così come che si schieri con certi politici e giornalisti che nella vicenda di suo padre ebbero parecchie reticenze, salvo poi gridare al giustizialismo.

Franco Novembrini

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo “Accusa l’Azzolina: arruolato ai convegni leghisti” apparso sul Fatto di lunedì, vorremmo ribattere che il Comitato “Trasparenza è Partecipazione” è autonomo, apartitico, aconfessionale e senza scopi di lucro.

Il nostro scopo è, nel rispetto dei principi costituzionali, impegnarci affinché nel concorso per Dirigenti Scolastici 2017 e nei futuri concorsi della Pa sia garantita la giustizia procedurale e distributiva per far crescere la fiducia nelle istituzioni. La forza del Comitato è nella sua pluralità ed eterogeneità. Quest’articolo è emblema di disinformazione strumentalizzante che tenta di affermare ciò che non è. Il Comitato persegue una sola battaglia, quella di far emergere le storture di una procedura concorsuale che ha mostrato numerosi ed evidenti irregolarità. Né il Comitato, né Massimo Arcangeli sono l’apostrofo di un partito, gli interventi documentali parlano chiaro. I contenuti del convegno vanno oltre il colore politico, gli stessi ospiti politici lo hanno esplicitato.

Ci aspettiamo dal Fatto Quotidiano una smentita di quanto letto nell’articolo odierno invitandolo, invece, a interessarsi in maniera più concreta di quanto emerso da una procedura concorsuale annullata dal Tar Lazio. Se il Fatto è un informatore imparziale alla ricerca della verità solleciti il Miur alla pubblicazione della documentazione (compiti candidati, griglie di valutazione e verbali della commissione) riguardante il concorso Dirigenti Scolastici 2017.

Il Comitato “Trasparenza è partecipazione”

 

Non è stata mai messa in dubbio la natura apartitica del comitato tanto che lo si spiega anche nell’articolo. Il convegno è stato però pubblicizzato dall’onorevole Sasso sotto lo stemma della Lega. Inoltre, gli unici due rappresentanti politici intervenuti fanno capo alla Lega. Segnaliamo poi che il Fatto ha seguito dall’inizio la questione della procedura concorsuale e ne ha presidiato gli sviluppi.

Fq

 

Gentile Direttore, in merito all’articolo pubblicato sul vostro quotidiano ieri, dal titolo “Il Movimento deve diventare partito e andare a sinistra” a firma Domenico De Masi, si precisa che i parlamentari del Movimento 5 Stelle non versano alcun contributo alla Casaleggio Associati come erroneamente è stato scritto parlando di “parcelle alla Casaleggio Associati”.

Ufficio Stampa Casaleggio Associati