Nuove droghe. Il contrasto non basta: scuole e genitori devono informare

 

Caro Sherlock, leggo con molto interesse le vostre inchieste. Così anche per il viaggio nel “pianeta nuove droghe”. Per essere onesto, come genitore oltreché come lettore, molte delle cose che avete scritto su queste nuove sostanze le ignoravo del tutto. E mi sembra chiaro che bisogna attrezzarsi, perché abbiamo davanti un fenomeno estremamente preoccupante e incontrollato. Se basta acquistare online, e poi ricevere il tutto per posta, come è possibile contrastare queste nuove droghe? È un mercato che attrae soprattutto i giovani, che non sempre hanno la maturità per comprenderne la pericolosità. Che fare dunque?

Marco B., vostro lettore e padre preoccupato

 

Gentile Marco, dal punto di vista del suo essere genitore non vi è dubbio che informarsi e informare i propri figli sugli effetti dirompenti di queste sostanze è la prima cosa. In Italia sono in aumento i ricoveri per intossicazioni da droghe sintetiche. In molti casi l’età dei pazienti non supera i 16 anni. Questo vale per buona parte delle nuove droghe, dai cannabinoidi sintetici fino alla pericolosissima ketamina, sostanza medica che ha effetti dissociativi molto rischiosi. Di certo la battaglia non è semplice, visto che anche i sequestri di queste sostanze sono in netto aumento rispetto al solo 2018. Il che significa più droghe a disposizione, e più consumatori. Un fronte questo tenuto oggi in grande considerazione dalle nostre forze dell’ordine. Il primo baluardo è bloccare l’arrivo in Italia di queste droghe. Non è facile perché sono piccole e inodore. Per questo la Direzione centrale per i servizi antidroga ha da pochissimo iniziato la sperimentazione del progetto Hermas. Si tratta di un piano in due fasi. La prima è quella di costituire un grande database o centrale di rischio dove far confluire tutti i dati sensibili (nuove sostanze, paesi di origine, rotte) da mettere a disposizione delle forze dell’ordine. La seconda fase è quella di dotare chi deve controllare i pacchi in arrivo di speciali scanner con terminali digitali in grado di riconoscere la presenza della sostanza anche se contenuta in una busta e in dosi millesimali. È la nuova frontiera del contrasto che si giocherà nei prossimi mesi soprattutto negli aeroporti italiani. Il resto sta in un’opera di informazione nelle scuole per illustrare gli effetti devastanti di queste sostanze. Grande interprete di questa opera di divulgazione è certamente Carlo Locatelli, direttore del Centro nazionale di informazione tossicologica presso gli Istituti clinici scientifici Maugeri di Pavia.

Davide Milosa

La Prima lettera delle Sardine a Conte ci lascia due domande

Ricapitolando. “L’incontro fra generazioni è un fatto importantissimo”; “Non chiediamo riconoscimenti ma ascolto”; “Non siamo un partito e neanche un governo ma quella connessione che la politica va cercando da decenni”; “Siamo il ritorno alla partecipazione, ma non presentiamo conti da saldare”; “Nutriamo profondo rispetto verso le Istituzioni, e abbiamo un alto senso dello Stato”; “Vogliamo essere l’argine laddove una certa politica genera macerie”; “Ci entusiasma sentirci protagonisti e se siamo apparsi dormienti è forse perché siamo stati invitati nella maniera sbagliata”; “Siamo a disposizione della buona politica”; “Noi di reti ci riteniamo abbastanza esperti e ci piacerebbe trovare con Lei i fili giusti, per tessere percorsi e provare a sciogliere nodi”; “Le parole sono importanti”; “Non siamo esperti, né tuttologi, ma siamo a disposizione”; “Potremmo essere il popolo che avete sempre voluto, se riuscirete a dare corpo alla politica che abbiamo sempre sognato”; “Smettiamola di considerarci solo come elettori e politici”. Sì, si tratta effettivamente di stralci della Prima lettera delle Sardine a San Giuseppe (Conte) pubblicata venerdì da Repubblica: dacché l’abbiamo letta, non abbiamo mai smesso di pensarci. E ora, dopo lunga ponderazione, non senza qualche ultima titubanza, ma comunque sempre con profondo rispetto, peraltro non disgiunto da curiosità e disposizione al dialogo con tutti, ivi compreso Luciano Benetton, ci chiediamo: ma questi che cazzo vogliono? Qualcuno l’ha capito?

La mossa del cavallo di Matteo Renzi, il politico palindromo

Spiazzante, sorprendente, imprevedibile. La mossa del cavallo, con quel suo balzo irregolare a forma di L, la possibilità di saltare gli avversari è, negli scacchi, a saperlo giocare, un vero colpo gobbo. Sarà anche il titolo del prossimo libro di Matteo Renzi, che presenterà entrambi (sia il libro che la mossa) durante un tour di cento tappe, in camper, che batterà le regioni in campagna elettorale. Come dire: siete avvertiti, poi non venite a lamentarvi.

Renzi non ci dice in cosa consista ‘sta famosa mossa a sorpresa, che, come ci tiene a precisare, “non è quella di agosto, ma la prossima”, quindi si capisce la popolazione mondiale con il fiato sospeso, i primi segnali di panico, la tensione, le mascherine a 300 euro il pacco.

Devo dire la verità: mi aspetto di tutto, da Renzi, perché è l’unico politico italiano veramente palindromo, cioè leggibile sia da sinistra a destra che al contrario. Non c’è cosa che Renzi abbia detto negli ultimi due anni di cui non abbia detto l’esatto contrario prima. La prescrizione (che voleva abolire), la Brexit (che non ci sarebbe stata, fidatevi), il potere di veto dei “partitini”, contro cui oggi non tuona più, essendo partitino lui stesso, ed esercitando il suo potere di veto e di ricatto, fino all’annuncio di votare con l’opposizione contro la sua maggioranza.

Ora in attesa di vedere questa mossa annunciata che mischierà promozione editoriale, propaganda politica, comizi, camper e tutto il circo che si sa, siamo nel campo delle ipotesi, e una l’ha già fatta Brunetta: perché non immaginare una maggioranza di volenterosi con Salvini, Meloni, Silvio Buonanima e gli italiavivaisti? Sarebbe una buona mossa del cavallo (naturalmente smentita con sdegno, ma coi palindromi non si sa mai). In attesa che si disveli il mistero, portiamoci avanti col lavoro, e suggeriamo le prossime mosse a sorpresa dell’imprevedibile statista.

La mossa dell’opossum. Felicemente sperimentata in Emilia-Romagna, consiste nel fingersi morti durante la battaglia, poi alzarsi come se niente fosse e gioire della vittoria (oppure criticare i vinti per la sconfitta col ditino alzato). Potrebbe tornare di moda alle elezioni in Toscana, dove la popolazione, vedendo Renzi sulla scheda, potrebbe avere reazioni imprevedibili.

La mossa Xylella. Sganciare Teresa Bellanova sulla Puglia con un attacco diretto al governatore Emiliano, come già annunciato, è una mossa dirompente. Riassumendo, avremmo una ministra che ha giurato da ministra col Pd, è passata a un altro partito dopo due minuti, e nemmeno un anno dopo contribuisce alla sconfitta di un candidato del Pd, suo alleato di governo. Consigliato: xamamina compresse.

La mossa di Macron. Dimenticata e abbandonata da tempo, era una mossa interessante di quando Macron andava di moda e faceva fico sentirsi dire “Macron italiano”. Ora che il Macron vero sta messo maluccio con i suoi cittadini, la sua polizia che mena parecchio, anche i pompieri, e la stella pare offuscata, la mossa Macron non va più di moda, ma anche qui, non si sa mai.

La mossa di Saturno. Ci sono momenti in cui, annoiato dal dibattito corrente, Matteo Renzi si lancia verso le stelle. Dice che qui ci si annoia, mentre tutto il mondo parla di intelligenza artificiale, futuro, ricerca ecc. ecc. Una mossa davvero dirompente per la politica italiana sarebbe l’intuizione che su Saturno Italia Viva sarebbe senza dubbio il primo partito, e dunque l’annuncio che si prepara una spedizione sarebbe politicamente coerente.

La mossa Tony Blair. Un sempreverde. Quando festeggia per la sconfitta di qualche sinistra in giro per il mondo, ecco Renzi tessere le lodi di Tony Blair, che è un po’ come su uno si ostinasse a portare come esempio un re merovingio, o un antico condottiero delle fiabe nordiche. Un “se c’era lui…” che fa un po’ tenerezza, perché suona come un “Ci sarei anch’io”.

Anche a Sanremo un format vale più della libera stampa

Le cronache dalla Sala stampa di Sanremo sono – dato che il Festival è lo specchio del Paese – una buona cartina di tornasole dello stato di salute della nostra disgraziata professione. I fatti: al mattino – ogni giorno, per tutta la durata del Festival – i giornalisti incontrano gli organizzatori e i conduttori per fare il punto. Fino a ieri questo “punto” era una banale conferenza stampa, in cui noi facevamo le domande e loro rispondevano. Da ieri è diventato un format in onda su Raiplay con una conduttrice che è Giorgia Cardinaletti, una brava collega del Tg1 che ieri ha condotto con disinvoltura e professionalità. Il punto del punto stampa però è che essendo formattizzato (ma ’ndo vai se il format non ce l’hai) ha delle regole d’ingaggio per i protagonisti dello show. Cioè i giornalisti, a cui è stato chiesto di firmare una ulteriore liberatoria. Ulteriore perché va detto che già alla richiesta dell’accredito per accedere all’ambita Sala stampa abbiamo detto che sì, la Rai poteva eventualmente diffondere immagini girate qui al roof. L’ulteriore liberatoria prevede alcuni bizzarri impegni. Come la dichiarazione di essere in “buone condizioni psico-fisiche, idonee a garantire la partecipazione al programma”. E se questa fa sorridere in tempi di allarme pandemia, le altre un po’ meno. Si dovrebbe dichiarare di rispettare tutte le indicazioni fornite prima e durante il programma dal responsabile di produzione. E ancor prima di “asternersi dal trattare o esprimere opinioni in relazione a temi di evidente rilevanza politica ed elettorale o riguardanti vicende o fatti personali di personaggi politici, rispettando le indicazioni della conduzione del programma e, più in generale, degli incaricati Rai”. Che tradotto in parole povere significa che se un politico a caso (succede ogni anno, è già successo anche a questo giro prima dell’inizio) commenta o attacca il Festival, i giornalisti non possono fare domande in proposito. Le condizioni d’ingaggio erano come ben si capisce inaccettabili, così ieri quasi nessuno ha firmato e in pochi hanno fatto domande (nessuno dei maggiori giornali). Ma a telecamere spente (perché l’educazione è sempre quel che distingue il torto dalla ragione) il problema è stato posto e rapidamente risolto. Da oggi ci sarà una parte di conferenza stampa formattizzata e una libera.

Senza voler fare dietrologie su eventuali tentativi di imbavagliamento (che tendenzialmente escludiamo: le censure trovano sempre i loro antidoti), il pasticcio sembra figlio della complicata situazione romana dalle parti del cavallo. Ci è stato spiegato che la liberatoria è quella standard che si fa firmare per i vox populi o alle comparse dei programmi (qualunque giornalista frequenti la tv sa che non è quel che viene sottoposto di norma, com’è ovvio). E qui torniamo alla sostanziale abdicazione della funzione sociale del nostro lavoro. Non si fa che straparlare di fake news, debunking e poi si accetta che la funzione dei media sia ridotta a quella di comparse di un reality show. In cui i giornalisti interpretano una versione di sé e del proprio mestiere verosimile ma non vera, comunque taroccata. Se è vero che la decisione di dividere in due parti la conferenza stampa conferma la salomonica vocazione di Mamma Rai e la capacità di navigare in qualunque tempesta, sarebbe bello che oggi ci sottoponessero un foglio meno offensivo. Per noi e per gli spettatori di un format che assomiglia a una conferenza stampa ma non lo è. Sarà un dettaglio, ma si sa che nei particolari c’è Dio. E alla fine di tutto: la colpa maggiore è nostra, che (non solo qui, ma in generale) diamo troppo spesso l’idea di limitarci a recitare una parte nella grande commedia del potere. Che sia a Sanremo o altrove.

Usa, c’è una novità nel caos primarie

In Italia siamo abituati a pensare che non si possa far mai peggio della sinistra di casa nostra. Eppure le primarie democratiche nell’Iowa hanno confermato la legge di Murphy per cui se una cosa può andare storto, ci va.

Donald Trump non poteva essere più soddisfatto perché il disastro nel piccolo Stato in cui ancora vigono i caucus, assemblee popolari che cercano di onorare il concetto di “democrazia pura” di James Madison, sarà ricordato a lungo e intaccherà la campagna democratica.

Soprattutto se sarà confermato quanto anticipato dal Washington Post circa l’affluenza al voto. Nei giorni scorsi, il Partito democratico pronosticava una partecipazione di massa, in linea con quella che vide la presenza di Barack Obama nel 2008, anno in cui nello Stato del Midwest votarono 240 mila persone.

“Mentre il Partito democratico dell’Iowa stava cercando di risolvere il caos nel suo sistema di segnalazione – scrive invece il Wp – un funzionario del partito ha annunciato che l’affluenza alle urne era ‘in linea’ con ciò che avevano visto nel 2016”. Cioè, 170 mila partecipanti, un risultato mediocre e che non indica uno slancio particolare per una campagna che, finora, è sembrata stanca, ripetitiva e soprattutto oscurata dalla scelta di procedere all’impeachment contro Trump. Decisione che oggi il Senato probabilmente rispedirà al mittente senza lasciare traccia della manovra dei Dem.

Nel momento in cui scriviamo non ci sono risultati definitivi. Bernie Sanders, però, il 78enne candidato socialista che fa tremare l’establishment del Partito democratico, forte del suo insediamento capillare fondato su migliaia di volontari, ha diffuso una sua rilevazione basata sul 60% dei seggi che lo dà in netto vantaggio: “I nostri numeri mostrano poi che Pete Buttigieg è in seconda posizione, seguito da Elizabeth Warren, poi Amy Klobuchar e Joe Biden”.

Un sondaggio last minute tra gli elettori democratici, condotto dal gruppo dem Focus on Rural America, restituisce un risultato analogo con Buttgieg e Sanders in un testa a testa seguiti da Warren e Biden.

In tal caso si delineerebbe un quadro interessante perché le primarie Usa, perlomeno nella prima rilevazione indicativa porranno con forza un messaggio semplice: via la vecchia guardia rappresentata da Biden, avanti con volti diversi. Giovane, innovatore, fuori dagli schemi, per quanto moderato e centrista, Buttgieg; old fashion, ma radicale, brillante, a fianco del lavoratori e dei diseredati, addirittura socialista, Sanders.

Una notizia interessante perché se il trend fosse confermato anche dalle primarie della prossima settimana nel New Hampshire si confermerebbe una realtà ormai nota da tempo.

Gli elettori vogliono la novità e non perché siano a caccia di emozioni forti o per un innato gusto dell’esotico. La novità è quasi sempre la ricerca di una via d’uscita dalle vecchie ricette, dal già noto e già visto che in genere coincide con quelle politiche che lo stesso Sanders definirebbe “a favore dell’1% contro il 99% della popolazione”.

Il sovranismo in Europa, oltre a rappresentare la paura e la volontà di chiusura rispetto alla crisi globale, rappresenta questa spinta. E Trump, che nel 2016 portava gli Usa fuori dal mainstream consolidato e ben raffigurato da Hillary Clinton, anche. Con risultati disastrosi, ma non tali da preferirgli il vecchio.

Buttgieg si presenta come il “nuovo” e il “futuro”, la sua ben esibita, ma non ostentata, identità gay lo mette in una zona del campo nettamente antitetica a quella di Trump e la sua età, 37 anni, potrebbe rappresentare un vantaggio netto. Sanders non è certamente il nuovo, ma lo incarna dal punto di vista delle politiche. Contro la sua idea di servizio sanitario si sono mobilitate le grandi corporation assicurative, è l’unico che sbandiera come un’icona il Green Deal, l’unico che parla il linguaggio degli operai che nel 2016 si sono rivolti a un miliardario newyorchese. Lo scontro potrebbe essere dunque tra il socialista un po’ idealista e il “millennial” realista, ma progressista. L’Iowa sembra parlare questa lingua e potrebbe essere una buona notizia.

La differenza la farà Michael Bloomberg, il vero miliardario (la fortuna di Trump impallidisce al confronto) che ha annunciato di scendere in campo solo a marzo e che ha intenzione di spendere almeno un miliardo di dollari. Vedremo cosa succederà dopo le prime due primarie e se le novità che si preannunciano possono farlo posizionare diversamente. L’unica certezza è che se alla fine lo scontro fosse tra Sanders e Buttgieg, Bloomberg non potrebbe mai sponsorizzare Bernie. Anche lui fa parte dell’1%.

Santori, il giurista di scuola Benetton

Per carità, s’è trattato di una ingenuità. Una foto con Oliviero Toscani e “una persona adulta con cui prevale il senso dell’educazione e del rispetto” (cioè Luciano Benetton): tutto qui, nessun favore mediatico alla famiglia finita nell’occhio del ciclone per il crollo del ponte Morandi (preceduto da controlli allegri, allarmi inascoltati, manutenzioni non fatte, eccetera). Una foto, che sarà mai? Ha ragione Mattia Santori a sminuire. Ed è dunque solo un caso se, all’Huffington Post, sulla questione della eventuale revoca della concessione autostradale ha risposto come avrebbe fatto una “persona adulta” che controlla una holding: “Conte viene dal mondo del diritto e sa meglio di noi che per recedere un contratto in essere ci deve essere una giusta causa che deve essere comprovata dalla magistratura”. Non pare di sentire Matteo Renzi o, absit iniuria verbis, Matteo Salvini? Mattia – che non è Matteo ma quasi – non viene dal diritto: non sa, per dire, che il codice civile prevede varie forme di rottura di un contratto e poi, semmai, la decisione di un giudice. Vabbè, non si può sapere tutto, ma sulla supercazzola lo vediamo preparato. La revoca? “Il tema che interessa davvero i cittadini è capire quando si tornerà ad avere una visione strategica delle infrastrutture”. Strategica eh, per carità, e con scappellamento a destra.

I Regeni accusano Alfano e l’ambasciatore in silenzio

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni entra nel vivo. Dopo i genitori del ricercatore torturato e trovato senza vita al Cairo il 3 febbraio 2016, potrebbero essere convocati anche gli ex premier Paolo Gentiloni e Matteo Renzi: è una valutazione che sarà fatta nei prossimi giorni dall’ufficio di presidenza. E lo stesso vale per l’ambasciatore italiano in Egitto, Gianpaolo Cantini. Ieri proprio su di lui si è concentrato in parte il “j’accuse” di Paola Deffendi e Claudio Regeni, sentiti in Commissione. “Era stato inviato per agevolare lo scambio di dati fra la Procura italiana e quella egiziana: non è avvenuto. Cantini è da tempo che non risponde alle nostre chiamate. Evidentemente risponde a interessi altri, diversi da verità e giustizia, mentre porta avanti con successo interessi commerciali, economici come si evince dagli scambi tra Italia ed Egitto”, dice papà Claudio. Che aggiunge: “Ci sono zone grigie da parte del governo egiziano che da un anno e mezzo è recalcitrante e da parte italiana: l’ambasciatore non è ancora stato richiamato dall’Egitto”.

Il punto è quindi proprio la politica: “Se non collabora, la Procura di Roma fatica ad andare avanti”, ribadiscono i genitori di Giulio. È da tempo infatti che l’inchiesta capitolina stenta a proseguire: dopo aver iscritto cinque agenti della National Security Agency (l’intelligence egiziana) nel registro degli indagati, il pm Sergio Colaiocco (che sarà domani in Commissione con il procuratore Michele Prestipino) attende che l’Egitto risponda alle rogatorie. E nulla si è mosso neanche con il cambio, avvenuto a settembre, del procuratore generale egiziano: con Nabil AhmedSadek in pensione, è stato nominato Hamada al-Sawi. I contatti con il nuovo gruppo investigativo sono stati avviati, ma finora dal Cairo non sono arrivate risposte soddisfacenti.

I Regeni ieri hanno ricostruito quattro anni di promesse, depistaggi e incontri istituzionali. Come quello “del 9 marzo”, si direbbe del 2016, con l’allora premier Matteo Renzi: “Ci chiese di andare senza la nostra legale, cosa che oggi non faremmo più (…). Fu una cosa strana”, ha detto Paola Deffendi. E ha aggiunto: “A luglio ci fu un nuovo incontro in cui Renzi ci fa un discorso come se fossero già in Italia i famosi video della sorveglianza della metro” che hanno ripreso gli ultimi istanti prima della scomparsa del ricercatore. “Ci venne detto come se quei video fossero stati già visti. Noi restammo basiti”.

I Regeni non hanno risparmiato neanche l’allora ministro degli Esteri, Angelino Alfano: “È stata una fuffa velenosa quella di mandare l’ambasciatore Cantini. Vi chiedo di indagare su cosa stia facendo oggi lo studio dell’avvocato Alfano nei suoi rapporti con l’Egitto”. Finita l’esperienza al governo, Alfano è tornato a fare l’avvocato, avviando una consulenza con lo studio Bonelli-Erede di Milano “per il nuovo Focus Team Public International Law & Economic Diplomacy”. In un comunicato dello studio legale si descriveva così il ruolo dell’ex ministro e quello di Ziad Bahaa-Eldin, già vicepremier egiziano, anche questi consulente: “La loro vasta competenza…, unita alla loro sensibilità nello sviluppo internazionale, rafforzeranno il nostro presidio in Africa e nel Medio Oriente”.

Ieri in Commissione parlamentare era presente anche Alessandra Ballerini, legale dei Regeni, la quale ha definito l’Egitto un regime “paranoico”, in cui “non c’è il minimo rispetto per i diritti umani”. Per questo chiede di dichiararlo “Paese non sicuro”. Anche i diritti dei Regeni sarebbero stati violati: “Siamo spiati dagli egiziani – ha detto la Ballerini –. Comunicavo al telefono con i nostri consulenti e loro sono stati chiamati a riferire dal commissariato di Doki”. Circostanze finite in un esposto sul quale indaga la Procura di Genova.

Tribunale di Potenza, corsa a ostacoli infinita

Il 6 febbraio sarà il Consiglio di Stato ad affrontare la contesa nata per il posto di presidente della sezione penale del Tribunale di Potenza. La vicenda inizia nel 2016, quando a fare domanda per quell’ufficio è Alberto Iannuzzi: è il gip di Potenza che ha firmato i provvedimenti sui gruppi di potere scoperti dal pm Henry John Woodcock e che incrociavano affari, massoneria e politica. Iannuzzi, dopo altre esperienze giudiziarie, fece domanda per diventare presidente del Tribunale di Potenza. Il Csm lo boccia, scegliendo all’unanimità Rosario Baglioni, proveniente dal Tribunale di Benevento e appartenente alla corrente di Magistratura indipendente. Era il Csm di cui faceva parte Luca Palamara, capo di Unicost, poi travolto dallo scandalo delle correnti.

Iannuzzi era allora un “cane sciolto”, non faceva parte di alcuna delle correnti della magistratura associata (oggi ha aderito ad Autonomia e indipendenza fondata da Piercamillo Davigo). Fa ricorso al Tar contro la bocciatura del Csm. Il Tribunale amministrativo del Lazio gli dà ragione, rilevando un difetto di motivazione nella nomina del Csm, che non aveva preso in considerazione le sue esperienze professionali. Il Csm, il ministero della Giustizia e il giudice Baglioni ricorrono allora al Consiglio di Stato, che dà loro torto. Iannuzzi ha vinto. Potrebbe andare ad occupare il suo ufficio. Ma intanto, il Csm di Palamara, ormai in scadenza, a fine 2018 riesamina la vicenda e sceglie di nuovo Baglioni, con una nuova delibera in gran parte simile alla precedente. Uniche novità: per superare la bocciatura del Tar, indica le esperienze professionali di Iannuzzi, ma le valuta comunque inferiori a quelle di Baglioni; e segnala un procedimento disciplinare avuto da Iannuzzi ai tempi della vicenda “Toghe lucane” e dell’attacco dei magistrati di Potenza contro l’allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris.

Iannuzzi e Woodcock, a differenza di molti loro colleghi, non si scagliarono contro De Magistris e Iannuzzi sostenne le sue idee nei suoi provvedimenti e in qualche dichiarazione pubblica. Il Csm segnala quel vecchio procedimento disciplinare, aggiungendo però che è irrilevante. Ma la conclusione è la fotocopia della prima delibera: nominiamo Baglioni. Iannuzzi si rivolge allora di nuovo al Tar, contro la seconda delibera del Csm che lo esclude. Questa volta il Tar gli dà torto. Ora la parola definitiva tocca al Consiglio di Stato.

In carcere i manager tedeschi della strage di ThyssenKrupp

Il Tribunale superiore di Hamm, in Germania, ha respinto i ricorsi dei due manager della ThyssenKrupp Acciai Speciali condannati in via definitiva per il rogo avvenuto allo stabilimento di Torino poco dopo la mezzanotte del 6 dicembre 2007, rogo che ha provocato la morte di sette operai.

Lo hanno stabilito i giudici della seconda sezione penale della corte tedesca a cui si erano rivolti gli avvocati dell’ex amministratore delegato Harald Espenhahn e del dirigente Gerald Priegnitz, a cui la Corte d’appello di Torino aveva inflitto condanne a 9 anni 8 mesi e 6 anni e 10 mesi per omicidio colposo plurimo il 28 febbraio 2013.

I parenti delle vittime, però, non si sbilanciano: “Vogliamo andare cauti finché non sono dentro – dice Rosina Demasi, mamma di Giuseppe, morto a 26 anni –. L’anno scorso sembrava dovessero entrare in carcere, ma all’ultimo hanno fatto ricorso. Eravamo veramente scoraggiati”.

“È un passo avanti, ma la vera notizia per noi sarà quando ci diranno che saranno in carcere”, concorda Graziella Rodinò, mamma di Rosario, anche lui scomparso a 26 anni. Nell’acciaieria in cui i due giovani erano di turno quella notte le condizioni di sicurezza erano pietose, il cda aveva deciso di cessare la produzione e non investire più nei sistemi antincendio, come ha dimostrato l’inchiesta dei pm di Torino Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso.

Dopo il verdetto della Cassazione del 13 maggio 2016, che confermava le condanne, gli imputati italiani si erano consegnati e, grazie ai benefici carcerari, hanno potuto scontare la pena anche fuori dalle celle. Diverso il percorso per i due tedeschi, rimasti liberi. Il 16 maggio 2016 il sostituto pg di Torino Vittorio Corsi e il pg Francesco Saluzzo avevano emesso un mandato di arresto europeo chiedendo l’estradizione, ma gli accordi prevedono che i condannati possano rifiutare e così hanno fatto i due manager.

Mentre si muoveva anche la diplomazia, i magistrati italiani hanno avviato le pratiche per far scontare loro le condanne in Germania. Quindi sono arrivate al ministero della Giustizia richieste che hanno allungato i tempi: ai giudici tedeschi non bastavano le traduzioni delle sentenze, come prevedono gli accordi Ue in materia penale, ma volevano la traduzione di tutte le fasi del procedimento. La Procura generale di Torino ha dovuto ingaggiare interpreti per tradurre migliaia di pagine.

Intanto il tempo passava. In assenza di risposte da Berlino, i familiari delle vittime hanno chiesto prima al ministro della giustizia Andrea Orlando e poi ad Alfonso Bonafede di parlare ai loro omologhi tedeschi.

Scarsi i risultati. Le sentenze tradotte sono state inviate il 6 agosto 2018 e a settembre la procura di Essen (città in cui si trova la sede della ThyssenKrupp) ha chiesto la carcerazione di Espenhahn e Priegnitz per la durata di cinque anni (la pena massima prevista in Germania per l’omicidio colposo). All’inizio del 2019 il tribunale ha accolto la richiesta italiana, ma gli avvocati dei manager hanno fatto un altro ricorso. “Il tribunale regionale aveva giustamente dichiarato esecutiva la sentenza italiana”, si legge nella nota del tribunale superiore di Hamm di ieri.

Su questa lentezza della giustizia a novembre era intervenuta anche la Corte europea dei diritti umani, interpellata dalle famiglie delle vittime e dall’unico sopravvissuto al rogo, Antonio Boccuzzi (ex deputato Pd). Italia e Germania dovranno dar conto dei ritardi ai giudici di Strasburgo.

Finalmente possiamo dare addosso ai “gialli”. Con negri, ebrei e gay oramai ci annoiavamo

Finalmente si può dare in culo anche ai cinesi. Perché, diciamocelo, ebrei e negri stavano venendo a noia. Sì, va bene, bello, le scritte con le svastiche sulle porte di casa, le lapidi divelte, “Himmler uno di noi”, i saluti fascisti, gli insulti alla Segre… tutta roba che può dare un senso alla giornata, fa anche gruppo, ma dopo un po’ è ripetitivo, scontato, specie ora che è praticamente legalizzato. O forse proprio per quello: quando la maggioranza chiude un occhio, se non è addirittura d’accordo, non c’è più il gusto della sfida e scivoli nella routine. I negri, poi… che palle. Tutto vero, ’ste scimmie. Ma “rubano il lavoro agli italiani” s’è sentita mille volte. “Sono tutti spacciatori”: sbadigli da slogarsi la mascella. O “Portano le malattie”: lo sappiamo, ma lo dice pure qualche senatore, non c’è più il fascino della trasgressione. E pure “scimmie”, mentre lo scrivevo già mi cascavano le palle.

Dice, però se li vai a bastonare, i baluba, ti diverti. Macché, sa tutto di già fatto, già vissuto. Certo, li puoi bastonare più forte. Ma quel certo sapore di déjà vu rimane. Ok, gli puoi sempre dare una coltellata. Ma non nascondiamoci dietro una lama, fa l’effetto di un comico che ri-racconta la stessa battuta. Che grigiore. Ci voleva qualcosa di nuovo per tirarci fuori dallo spleen esistenziale e farci tornare la voglia di botte, unico senso della vita se non vuoi finire a fare il sorcio di biblioteca frocio. Sì, ci sono pure i pachistani, ma ne meni qualcuno e poi? Niente di nuovo rispetto ai negri, stessa solfa, stesso colore. Ma oggi ci sono i cinesi! Una fantastica new entry cui rompere il culo! Intanto i cinesi sono gialli, che è già una novità. Su fondo nero l’occhio nero non stacca, sul giallo limone spicca. Quanto a portare malattie, il coronavirus non è mica la prima, a meno che non vogliate credere alle bugie dei professoroni: dell’itterizia ne vogliamo parlare? I cinesi non sono tutti gialli per caso, è evidente che il fegato non gli funziona, è una razza difettata, perciò inferiore. Ebrei col naso grosso, negri col cervello piccolo, cinesi con l’ittero (per non sbagliare meniamoli tutti). E poi il cinese, si sa, ha il pisello piccolo, è una novità da sfruttare, ti puoi divertire un sacco a pigliarlo per il culo davanti alla donna cinese, mentre col negro c’è meno gusto. E si rifiutano di dire la erre, i bastardi. Lo fanno apposta. A noi che gli diamo lavoro, bella gratitudine. Fateci caso, provate a fargli dire “ramarro”, “rarefare” o “Ferrarelle”. Non lo diranno. Perché non dire la erre li fa sentire diversi, superiori, eletti, come gli Ebrei, stesso vizio, ma glielo correggiamo noi, se vuoi stare in Italia, tu Ferrarelle lo dici bene, cinese del cazzo.

E mo’ il Coronavirus. È chiaro, se lo attaccano per avere più possibilità di esportarlo. Se viaggia un malato solo è più difficile propagarlo che se viaggiano in 50. Vogliono decimarci per sovrapporci la loro cultura, loro sono 672 miliardi, pure se ne muore qualcuno… finiremo tutti a mangiare cavallette e a dire Fellalelle. Hanno escogitato mille modi per contagiarci: guardarci negli occhi, spedirci mobiletti con Amazon, leggere lo stesso giornale, esisterci accanto. Ma non lo permetteremo. E se tutto quello che ho scritto sono solo cazzate, meniamoli lo stesso, almeno un’esperienza nuova.