“Da noi nessun pericolo, perché il blocco per Taiwan?”

“Abbiamo dieci malati e zero morti, numeri al di sotto della media della regione Asia-Pacifico. Siamo un buon esempio su come circoscrivere il Coronavirus”. Il rappresentante di Taiwan a Roma, Andrea S.Y. Lee rivendica i risultati di Taipei. “Per questo non capiamo perché l’Italia abbia chiuso anche ai voli da e per Taiwan. Siamo delusi”.

Quali misure state prendendo?

Abbiamo limitato gli arrivi di cittadini cinesi e turisti sia dalla città di Wuhan, epicentro del Coronavirus che dall’intera regione. Abbiamo prolungato le vacanze invernali per gli studenti di due settimane. Per evitare che finiscano le mascherine ne vendiamo solo con tessera sanitaria. Sfruttiamo l’esperienza della Sars.

Per quanto riguarda gli scambi commerciali?

Quelli con la Cina continuano, ma sotto sorveglianza.

A livello economico ci sono conseguenze?

Per ora le ripercussioni non sono significative: a parte il turismo, lo shopping e il settore crocieristico, ma è presto per fare bilanci. La fabbrica iPhone di Wuhan chiusa è taiwanese. Ma è un caso isolato, come quello delle compagnie aeree.

A proposito di voli, protestate per lo stop dell’Italia.

Sì, perché – insieme a Hong Kong – veniamo assimilati alla Cina. Ma è sbagliato. Forse l’Italia ha peccato di ingenuità, ora dal ministero fanno a scaricabarile. Noi speriamo che revochino il divieto.

Dal punto di vista sanitario come state affrontando il Coronavirus?

Dopo gli ottimi risultati con la Sars 17 anni fa, anche noi come l’Italia abbiamo isolato il Coronavirus una settimana fa. Vorremmo condividere con la società scientifica i nostri traguardi.

Londra e Parigi richiamano i civili, la Farnesina no

Nei confronti del Coronavirus e dei rapporti con la Cina, l’Europa e l’Italia oscillano tra prudenza ed emergenza. Se le autorità britanniche e francesi hanno chiesto ai loro cittadini di “lasciare la Cina”, la Germania ha suggerito ai tedeschi di muoversi con attenzione. Dall’Italia non è giunta nessuna indicazione in tal senso anche se il nostro Paese è l’unico in Europa ad aver chiuso il traffico aereo con Pechino.

La portavoce del ministero degli Esteri cinese, a cui è stato chiesto se l’Italia abbia reagito in modo eccessivo, ha risposto auspicando che il nostro Paese “faccia una valutazione obiettiva, giusta, calma e razionale dell’epidemia e comprenda e sostenga gli sforzi del governo cinese per contenerla e controllarla”.

Il premier Giuseppe Conte ha ribadito che “non ci sono i presupposti per allarme o panico” in Italia, perché “la situazione è sotto controllo”. Ma la sua proposta di una “task force” per sostenere le ripercussioni negative sui rapporti italo-cinesi indica che il problema esiste. Alla Farnesina, infatti, il clima è diverso per quanto nessuno voglia alimentare polemiche. Ieri il ministro Luigi Di Maio ha ricevuto l’ambasciatore cinese a Roma, Li Junhua, il quale ha ringraziato il governo per le cure prestate ai pazienti cinesi. Il ministro ha invece ringraziato l’ambasciatore per la collaborazione prestata per il rimpatrio dei cittadini italiani.

Alla Farnesina la consegna è quella della gestione ordinata e contro ogni psicosi. Le misure di Francia e Gran Bretagna sono osservate con attenzione, ma non c’è nessuna intenzione di allinearsi. Si percepisce inoltre che la decisione del governo di chiudere il traffico aereo con la Cina è sembrata un po’ eccessiva anche se per il momento non viene contrastata.

Un particolare che aiuta a capire l’atteggiamento della nostra diplomazia è il caso dell’ambasciatore italiano a Pechino, Luca Ferrari. Diverse indiscrezioni hanno segnalato al Fatto la sua assenza dalla Cina fino al 27 gennaio, mentre la crisi era in pieno corso. Dalla Farnesina, però, si fa notare che l’ambasciatore è rientrato in Italia per l’inaugurazione dell’Anno della cultura e del turismo italiano in Cina che si è tenuta all’Auditorium di Roma il 21 gennaio. Si è poi intrattenuto “per consultazioni”, al ministero, “partecipando attivamente all’Unità di crisi” sul coronavirus, per poi rientrare “all’apice della crisi” gestendo “efficacemente” il rientro dei nostri connazionali ammalati (e ora in quarantena). Nulla di anomalo, quindi, secondo il ministero, anche se sembra comunque curioso che in una fase di crescita e consolidamento del virus, con quello che si sarebbe verificato nei giorni successivi, l’ambasciatore italiano non fosse presente in Cina.

Il governo, intanto, cerca di consolidare un clima di coesione nazionale e ieri ha convocato un incontro maggioranza-opposizioni per fare il punto sulle misure per contrastarne la diffusione. “Stiamo creando una task force con i ministri competenti per varare una serie di misure di contrasto all’impatto economico dell’emergenza Coronavirus. Dobbiamo intervenire per contenere questo impatto. Quando avremo completato una ricognizione della situazione attuale e avremo una previsione più chiara potremo adottare le misure di sostegno alle nostre imprese con riguardo ai settori più direttamente coinvolti”, ha spiegato il premier ai capigruppo a Chigi.

Gravi i due cinesi a Roma. A Fiumicino più controlli

Bisogna vedere come va la notte”. I sanitari dell’ospedale “Lazzaro Spallanzani” di Roma si mantengono cauti. Quel che è certo è che le condizioni dei due turisti cinesi ricoverati perché affetti dal virus 2019-nCoV “nelle ultime ore hanno avuto un aggravamento delle condizioni cliniche a causa di un’insufficienza respiratoria”, come recitava asettico il bollettino diramato poco prima di pranzo dalla direzione sanitaria dell’ospedale. Ora i due coniugi sono coscienti, ma sono intubati nel reparto di terapia intensiva e respirano solo grazie alle macchine. Colpa del decorso della polmonite provocata dall’infezione del Coronavirus. Le condizioni del marito, 67enne, sarebbero quelle più critiche.

La situazione è precipitata nelle prime ore del mattino. “Crollo verticale”, era l’espressione che ricorreva lungo i corridoi dopo che gli operatori, equipaggiati in tenuta anti-contagio come previsto dal protocollo, avevano finito di trasferirli di reparto. Ora i due coniugi di 67 e 66 anni prelevati dal Grand Hotel Palatino nella serata di mercoledì scorso “sono monitorati in maniera continuativa e sono sottoposti a tutte le cure, anche farmacologiche del caso – si specifica ancora – compresi farmaci antivirali sperimentali”. “L’età rappresenta un elemento di problematizzazione, anche se i nostri medici stanno facendo tutto il possibile”, ha detto in serata il ministro della Salute, Roberto Speranza.

Dopo quattro bollettini in cui dal 1° febbraio i sanitari dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive hanno descritto le condizioni dei due coniugi come “discrete” e poi “stazionarie”, in quello di ieri la terminologia è cambiata all’improvviso. “Le attuali condizioni cliniche sono – recita il comunicato – compromesse ma stazionarie”, preoccupanti al punto che “i medici che li hanno in cura si riservano la prognosi”. La polmonite virale “con interessamento alveolo interstiziale bilaterale”, come l’ha definita la direzione sanitaria fin dalla prima conferenza stampa, è avanzata. “La situazione precipitata in poche ore – spiega una fonte interna – Nessuno si aspettava una cosa del genere. Il problema è che allo stato non si conosce l’evoluzione della malattia. E’ la prima volta, almeno in Italia, che si osserva come evolve in certe situazioni, e nessuno sa ancora come agisce”. Il fatto che il loro stato di salute già precario si sia deteriorato in così poco tempo “è abbastanza preoccupante, anche perché sono peggiorati tutti e due contemporaneamente”. Anche se il 67enne, si apprende, sono leggermente peggiori di quelle della coniuge. In questo momento, si spiega ancora, “non ci sono elementi per stabilire se evolverà in un senso o in un altro”.

Attualmente allo Spallanzani sono ricoverati “11 pazienti sintomatici provenienti da zone della Cina interessate dall’epidemia. Tutti sono stati sottoposti al test per la ricerca del nuovo coronavirus, tutt’ora in corso”, come recita l’ultimo bollettino. “Per quanto riguarda le 20 persone che non presentano alcun sintomo, “sono tutte in buone condizioni generali e la loro salute non desta preoccupazioni”. Ieri tutti i ricoverati sono stati visitati dall’ambasciatore di Pechino a Roma.

Nel paese, intanto, aumentano le misure di sicurezza. Ieri è iniziata “la distribuzione dei termoscanner e saranno operativi in tutti gli aeroporti”, ha annunciato Angelo Borrelli, capo della Protezione Civile e Commissario per l’emergenza. I macchinari saranno montati nella maggior parte dei casi alle uscite o nell’area controllo passaporti e le verifiche sono state estese ai passeggeri di tutti i voli, compresi quelli europei. Imponente il “dispiegamento” di forze: oltre 400 medici e operatori volontari saranno impegnati per la rilevazione della temperatura corporea dei passeggeri in arrivo.

Dopo la fase di test condotti negli ultimi due giorni, i protocolli sono già stati impiegati nello scalo romano di Fiumicino, dove i viaggiatori voli nazionali, internazionali e area Schengen vengono incanalati in 11 corsie dotate dei nuovi macchinari. I corridoi sono delimitati da transenne in prossimità delle quali una serie di cartelli invita a “rallentare” in vista dei controlli. Chi transita, poi, si trova davanti il personale della Croce Rossa Italiana munito di tablet collegato ai termoscanner, che riceve i dati sulla temperatura corporea dei passeggeri rilevata dai macchinari. Nel caso in cui qualcuno risulti avere “linee di febbre” in misura superiore alla soglia prevista dalle nuove norme, scatta il protocollo sanitario predisposto dal ministero della Salute.

Multe da 4.000 euro a chi sciopera

Aver scioperato per chiedere migliori condizioni di lavoro è costato caro a 20 magazzinieri extracomunitari di Tortona (Alessandria). Sono stati prima licenziati e poi hanno beccato le multe del decreto Sicurezza di Matteo Salvini: ognuno di loro rischia di dover pagare fino a 4 mila euro perché, durante la manifestazione, avevano bloccato la strada. La stretta voluta dalla Lega è stata approvata a fine 2018 dal governo Conte 1 e per nulla modificata dal Conte 2.

La cifra sarà quantificata in seguito, ma certo non sarà poca cosa per chi ha perso un posto da non più di 1.200 euro al mese. “Chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la sanzione amministrativa”, recita la norma voluta dalla Lega. Quel comma, come previsto, si sta scagliando contro la parte più debole del mondo del lavoro, che prova a non essere invisibile con metodi a volte estremi, come può essere un blocco stradale.

A dicembre si è parlato molto degli operai tessili di Prato, multati dopo aver manifestato chiedendo sette mesi di stipendio arretrati. La vicenda di Tortona coinvolge invece gli addetti del polo logistico gestito dalla cooperativa Clo, che a sua volta serve i supermercati Coop di tutto il Nord-Ovest. Hanno iniziato a protestare tempo fa denunciando le classiche situazioni che si vedono nel settore: “Turni improponibili – dice il SiCobas –, irregolarità nei contratti e nelle buste paga”. Dopo i primi cinque licenziamenti, ritenuti “ritorsivi” dal sindacato, a fine ottobre un gruppo di lavoratori ha bloccato l’ingresso nel centro. Allora la cooperativa ha risposto con altri 15 licenziamenti disciplinari. In queste settimane ci sono stati incontri con la società per trovare un accordo, ma nel frattempo sono arrivati i verbali della Polizia stradale che anticipa le multe contro i sindacalisti e i lavoratori, che potrebbero arrivare a rimetterci gli ultimi tre stipendi e mezzo.

I picchetti travolti dalla scure salviniana si sono moltiplicati in questi mesi. Restando nella logistica, alla Geodis di Castel San Giovanni (Piacenza), c’è stato uno sciopero con blocco stradale il 20 dicembre. Anche qui, tanti gli addetti stranieri, soprattutto filippini, e tante le contestazioni sulle condizioni. Pochi giorni fa s le prime sanzioni, per ora ai danni di tre sindacalisti SiCobas. Al presidio, però, c’erano tanti lavoratori, e ora il timore è che la stangata possa arrivare anche a loro. Colpite anche le lotte contro il caporalato agricolo a Foggia: una ventina, tra braccianti extra-comunitari e rappresentanti SiCobas, hanno ricevuto le multe per un presidio sotto la Prefettura. Anche loro rischiano 4 mila euro, somma non proprio abbordabile per chi, tra l’altro, si stava lamentando delle paghe che in alcuni casi arrivano a tre euro l’ora.

Conte e Salvini litigarono sui minori della Open Arms

Il sospetto che ad agosto l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini fosse completamente fuori controllo, in effetti, già c’era. Ora però si scopre che mentre dai lidi estivi invocava per sé pieni poteri, trattava anche i bambini a bordo dalla nave Open Arms come pericolosi clandestini respingendo ogni richiesta per farli scendere dopo una odissea di due settimane. E con parole – riportate nella richiesta di autorizzazione a procedere inviata al Senato dai magistrati di Palermo che ora lo accusano di sequestro aggravato di persona e rifiuto di atti di ufficio – che suonano così: “Questi presunti minori sono soggetti alla giurisdizione della bandiera battuta dalla nave (ossia spagnola). Non è detto che viaggino da soli e comunque la loro responsabilità non è mia, ma ricade sul comandante della Open Arms”.

Con questi toni Salvini aveva risposto a cavallo del 15 agosto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte che gli aveva invece ribadito “con forza la necessità di autorizzare lo sbarco immediato dei minori presenti a bordo della nave al limite delle acque territoriali potendo configurare, tra l’altro, l’eventuale rifiuto un’ipotesi di illegittimo respingimento”.

Il premier aveva cercato di persuaderlo in tutti i modi dandogli persino assicurazione che più di uno Stato europeo aveva già offerto disponibilità “a condividere gli oneri dell’ospitalità dei migranti, indipendentemente dalla loro età”. Ma nulla da fare: lui, l’allora ministro dell’Interno aveva tirato dritto rispondendo picche, sempre a ferragosto, anche al presidente del Tribunale dei minori e al Procuratore della Repubblica di Palermo che qualche giorno prima gli avevano chiesto informazioni sulla situazione: “Declino ogni competenza ad assumere provvedimenti in ordine alla protezione di detti soggetti”. Sempre i bambini sbarcati infine il 18 agosto da Salvini, ma obtorto collo. Era invece proseguito lo strazio degli adulti, accampati sul ponte con due soli bagni alla turca a disposizione per tutti e fatti scendere solo per ordine della magistratura il 20 agosto.

Un inferno, più lungo di quello vissuto a luglio dai migranti a bordo della Gregoretti, per la gestione dei quali l’aula del Senato il prossimo 12 febbraio sarà chiamata a decidere definitivamente se mandare Salvini a processo. Su Open Arms la decisione a Palazzo Madama è attesa entro i prossimi 60 giorni. Agli atti della nuova richiesta di autorizzazione c’è il carteggio tra Salvini e Conte, tra Salvini e i magistrati, ma pure una serie di testimonianze sul clima di tensione a bordo divenuta ingestibile via via che passavano i giorni senza che dal Viminale venisse autorizzato lo sbarco. E poi c’è una testimonianza fotografica delle difficili condizioni igienico sanitarie repertata in occasione dell’ispezione a bordo del Procuratore di Agrigento Patronaggio, che aveva subito dopo ordinato il sequestro della nave e lo sbarco.

Ma nelle 114 pagine inviate al Senato c’è anche la puntuale ricostruzione della deliberata volontà di Salvini di trattare Open Arms come un caso di immigrazione clandestina anziché di soccorso in mare di migranti destinati a essere poi redistribuiti in altri Paesi: per perseguire questo disegno, almeno a quanto sostengono i magistrati di Palermo, non si sarebbe fatto scrupolo di violare una manciata di convenzioni internazionali. E di attivarsi con ogni mezzo, specie dopo che il 14 agosto il Tar Lazio aveva consentito l’ingresso della nave in acque territoriali.

Una decisione a cui Salvini aveva cercato di rimediare con un altro provvedimento interdittivo “che non si perfezionava solo per il rifiuto di controfirma da parte del ministro della Difesa”. Assumendosi piena e solitaria responsabilità della linea adottata, come evidenziano i magistrati di Palermo: “Gli ostacoli che si erano frapposti all’adozione di un nuovo decreto non inducevano il ministro a desistere dalla linea adottata. E (…) piuttosto sollecitava al suo gabinetto l’attivazione di rimedi giurisdizionali, iniziativa che sfociava nella presentazione di un reclamo da parte dell’Avvocatura dello Stato”. Insomma Salvini era pronto a tutto, persino a mettere nei guai i suoi collaboratori, a partire dal suo capo di gabinetto Matteo Piantadosi che è stato archiviato dall’accusa di concorso con Salvini solo perché, dato l’atteggiamento granitico di Salvini, “un contegno diverso dall’ufficio di gabinetto non avrebbe inciso sull’esito della vicenda, in quanto il ministro non avrebbe comunque desistito dalla sua posizione. Né può sostenersi che dal prefetto Piantedosi che ne assecondava la linea il ministro abbia tratto un reale rafforzamento del proprio proposito criminoso”.

Craxi, Sala se la prende col Pd (indeciso più di lui)

Via Craxi continua a dividere e a far alzare la tensione politica. Soprattutto dentro il Pd e al piano nobile di Palazzo Marino. Ieri il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha aperto la sua giornata con un post su Facebook molto polemico nei confronti del Partito democratico: “A proposito di Craxi”, scrive Sala, “constato che proprio non si riesce a dibattere con sufficiente serenità. Il mio invito a discuterne in Consiglio comunale è finito nel nulla (nella mia comprovata lealtà verso il Pd mi permetto di dire che questa volta la gestione è stata veramente discutibile). Per cui adesso si pretende che io decida. Cosa poi? Se intitolargli una via? Se apporre una targa sulla casa dove abitò? È tutta qui la riflessione?”. Il riferimento è al dibattito di lunedì in Consiglio comunale. Due mozioni dell’opposizione di centrodestra chiedevano di dedicare una via o una piazza a Bettino Craxi. Sala aveva detto: discutiamone in Consiglio. Ma dopo aver gettato il sasso, aveva ritirato la mano: non si è presentato lunedì in Consiglio.

A togliere le castagne dal fuoco aveva lasciato i consiglieri del Pd, che hanno proposto una mediazione: non una via, ma “un segno di memoria più sobrio” (come ha detto il capogruppo Filippo Barberis), una targa da apporre magari in via Foppa, con scritto “Qui visse Bettino Craxi, il primo milanese presidente del Consiglio”. Lunedì, dopo una discussione a tratti esilarante e a tratti surreale (“Craxi è come Caravaggio”), il Consiglio non ha deciso niente. E il giorno dopo Sala se la prende con il Pd. Sostenendo che ha gestito male la partita: “Io continuo a pensare che non ce la si possa cavare così. Di Craxi ricordo atti coraggiosi, soprattutto in politica internazionale, ma anche il sistema di tangenti da lui (e non solo, ovviamente) alimentato in quegli anni. E a fronte di un periodo come quello, la vogliamo risolvere con una via o una targa?”. Ma con che cosa, allora? Se lo chiedono spaesati Barberis e i poveri ragazzi del Pd, prima abbandonati e poi bastonati dal loro sindaco. Un dem navigato la spiega così: “Sala non vuole passare alla storia come quello che intitola una via a Craxi, sa che l’opposizione a Tangentopoli in città è ancora forte. Ma ha all’interno del suo gruppo craxiani convinti e sa che qualcosa deve concedere. Avrebbe voluto – come per l’abbattimento dello stadio di San Siro – che a decidere fossero altri: il Consiglio comunale. Non gli è riuscito, né per San Siro né per Craxi. Ora la palla che aveva gettato nell’aula consigliare gli è tornata tra le mani. Da qui la sua irritazione”. Anche il Pd è diviso. C’è chi vorrebbe dimenticare Mani pulite, altri fanno barriera. In più, tra un anno ci sono le elezioni e tutti pensano come tenere insieme cose che insieme non stanno: revisionismo su Tangentopoli e rigore anticorruzione.

Chi ha le idee chiare è Forza Italia. Mariastella Gelmini tuona: “Nel dibattito su Craxi, il Pd ha dimostrato immaturità politica e dipendenza dal giustizialismo targato M5s. Il sindaco Sala non può sottrarsi alla responsabilità di esprimere un’opinione ponderata sull’ex leader socialista”.

Rincara la dose la figlia di Craxi, Stefania. Spara contro Sala: “Un sindaco che invoca un dibattito da ben tre anni e poi non si presenta neanche in aula”. E contro il Pd: “Sono ‘bugiardi ed extraterrestri’, come diceva Craxi, sbronzi di un giustizialismo di maniera e di un moralismo d’accatto, oggi accentuato dalla ricerca spasmodica di un’alleanza locale e nazionale con i pentastellati”.

Vitalizi, l’ultimo bluff: la Casellati ora fa la gnorri

La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati la vorrebbe chiudere così: “Non posso far nulla”. Ma dopo che il Fatto ha anticipato la sentenza che cancella i tagli ai vitalizi addirittura prima della camera di consiglio prevista il 20 febbraio, i sospetti che la partita fosse truccata fin dal principio sono divenuti realtà. E che il conflitto di interessi che incombe sulla Commissione contenziosa chiamata a decidere e presieduta dal forzista Giacomo Caliendo abbia giocato un ruolo, eccome.

Lei, la presidente, tira dritto: “È un organo autonomo e indipendente. Non può essere sciolto d’autorità, né può interrompere la propria attività in virtù di una deliberazione che al momento non esiste ma è soltanto presunta”, sostiene tentando di minimizzare mentre la polemica infuria: si annunciano migliaia le adesioni alla manifestazione organizzata a Roma per il 15 febbraio dal Movimento 5 Stelle per protestare contro la cancellazione del ricalcolo degli assegni vitalizi su base contributiva. Ma pure, per la verità, contro quello che appare come un tentativo della casta di riavere il malloppo, costi quel che costi, anche se a andarci di mezzo è la credibilità delle istituzioni.

Casellati mette le mani avanti. “Una sentenza può essere condivisa o meno nel merito, può essere criticata ma in ogni caso rappresenterebbe la conclusione legittima di un procedimento che si svolge secondo Regolamento. Così è sempre stato fin dalla costituzione originaria degli organi di autodichia del Senato. Inoltre, è noto a tutti che le designazioni del presidente del Senato riguardo la composizione della commissione Contenziosa avvengono per prassi secondo le indicazioni ricevute dagli stessi gruppi parlamentari, mentre il presidente dell’organo giurisdizionale viene eletto direttamente dagli stessi componenti. Ciò a differenza di quanto avviene alla Camera dei deputati dove è il presidente della stessa che nomina il Consiglio di giurisdizione”. In realtà non è proprio così: perché a parte tre senatori – Caliendo, indicato da Forza Italia (che poi è lo stesso partito della presidente), Alessandra Riccardi dai 5 Stelle e Simone Pillon dalla Lega – gli altri due e decisivi membri dell’organismo sono di sua diretta nomina: si tratta dell’avvocato Alessandro Mattoni e dell’ex magistrato Cesare Martellino, in rapporti di antica amicizia con l’attuale capo di gabinetto della presidente, Francesco Nitto Palma.

E infatti il senatore pentastellato Primo Di Nicola alza il tiro. “Spiace dirlo, ma Casellati sembra non voglia cogliere la gravità della situazione che si è creata nella commissione Contenziosa che dovrà decidere in materia di vitalizi: il conflitto di interessi che la sta travolgendo è inaccettabile, anche perchè investe la credibilità dell’intero Senato. I suoi componenti in conflitto di interesse dovrebbero per dignità dimettersi. E se non lo faranno è dovere della presidenza prendere in mano la situazione”.

Si fa sentire anche Paola Taverna vicepresidente per il M5S del Senato che chiama la piazza. E Laura Bottici, che a Palazzo è questore. “La casta non vuol cedere i suoi privilegi e sta scatenando tutte le armi a sua disposizione per cancellare la delibera del Movimento 5 Stelle: non è accettabile che aleggi anche solo un’ombra di dubbio su possibili conflitti di interessi. Per questo abbiamo chiesto che i componenti della Commissione vengano sostituiti con altri membri, eletti dopo il 2013, in maniera tale che questi, esercitando il loro giudizio, non possano trarre alcun privilegio dalla decisione sull’esito dei ricorsi”.

Risiko Regionali. Dalla Toscana alla Campania: incognita M5S per i giallorosa

La conquista dell’Emilia-Romagna ha dato fiato al governo e rinvigorito l’asse giallorosa, che ora valuta eventuali alleanze in alcune delle prossime elezioni regionali in programma quest’anno. Se in Veneto appare scontata la conferma di Luca Zaia, il resto dei territori è contendibile e molto dipenderà dalla composizione delle coalizioni. Ecco allora, ad oggi, come i partiti si stanno avvicinando alle consultazioni.

 

Campania

De Luca avanti senza i 5S, destra divisa su Caldoro

Come in un vecchio film con Bill Murray, gli elettori campani rischiano di ritrovarsi in un eterno déjà vu. Nella prossima primavera, lo scontro per la guida della Regione potrebbe infatti essere quello tra Stefano Caldoro e Vincenzo De Luca, rispettivamente ex governatore di centrodestra (in carica tra il 2010 e il 2015) e attuale presidente in quota Pd già sfidanti nelle ultime due elezioni. A sparigliare le carte potrebbero essere i tumulti interni agli schieramenti. A destra Caldoro è blindato dai berlusconiani con in testa Antonio Tajani, ma il forzista non piace per niente né alla Lega né a Mara Carfagna, voce di dissenso dentro il partito di Silvio. Per il momento però non c’è una vera alternativa, anche perché la Lega, che potrebbe proporre l’ex rettore dell’Università di Salerno Aurelio Tommasetti, è molto meno radicata di Forza Italia.

Dall’altra parte, De Luca tira dritto convinto della rielezione e forte del sostegno del figlio Piero, deputato dem. Il governatore dovrebbe essere ufficializzato il 17 febbraio e non si farebbe problemi – eufemismo – a prendersi voti e simbolo dei 5 Stelle, che però già digerirebbero a fatica l’alleanza col Pd, figurarsi con l’odiato De Luca. L’altro giorno gli attivisti locali del M5S hanno bocciato in assemblea l’intesa coi dem e da Roma pure Vito Crimi preferisce la corsa solitaria. Le cose potrebbero cambiare in caso di voto su Rousseau: se la consultazione fosse aperta solo ai campani, probabilmente sarebbe confermato il No al Pd, ma se il voto riguardasse gli iscritti di tutta Italia l’esito sarebbe meno scontato. Sempre a costo che Zingaretti rinunci a De Luca in nome della pacifica alleanza giallorosa.

 

Toscana

FdI boccia Ceccardi, Pd col renziano Giani

Il Movimento 5 Stelle ha scelto il mese scorso la sua candidata presidente. Si tratta di Irene Galletti, che ha battuto il dimaiano di ferro Giacomo Giannarelli, segno di una base che chiedeva un cambio di passo rispetto alla gestione degli ultimi anni del Movimento. Per il momento, però, lo scacchiere per le Regionali non cambia. L’alleanza giallorosa resta improbabile perché a sinistra il candidato scelto da mesi è il renziano Eugenio Giani, sopravvissuto come nome unitario anche dopo la scissione nel Pd provocata dall’ex segretario. Difficile che la coalizione torni indietro e difficile che i 5 Stelle scelgano di sostenerlo, a meno che il centrosinistra non riveda lo sterminato insieme di liste che al momento compongono l’alleanza. E poi sulla eventuale vittoria in Toscana vorrà mettere la bandierina Matteo Renzi, ancora indeciso se presentare le proprie liste o se inserire qualche candidato in altre sigle a sostegno di Giani, ma in ogni caso mai entusiasta degli accordi locali coi 5 Stelle.

A destra invece si naviga a vista. Il candidato designato sembrava essere la leghista Susanna Ceccardi, adesso eurodeputata, ma ieri Giorgia Meloni ha assicurato che il suo nome non è mai stato sul banco. E poi c’è il passo indietro del sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna, in scadenza nel 2021 e sondato senza mai troppa convinzione dalla coalizione. Adesso i tempi stringono e lo stesso Vivarelli Colonna ha escluso candidature: “C’è il 99,5% di possibilità che non mi candidi. Fare una campagna elettorale senza aver mai saputo nulla a riguardo fino ad oggi, a tre mesi dalle elezioni, sarebbe uno sforzo immane, un qualcosa non vicino al mio modus operandi”. In piedi resta allora il nome della costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni, vicina alla Lega.


Marche

A Pesaro prove giallorosa. Ma Crimi non ha gradito

L’altra settimana Matteo Ricci, sindaco dem di Pesaro, ha aperto la giunta a Francesca Frenquellucci, capogruppo dei 5 Stelle in Comune. Un chiaro messaggio di apertura non solo in città ma anche in vista delle Regionali, come confermato dal sindaco in una intervista al Fatto. Qui le basi per una alleanza ci sarebbero tutte, perché da mesi i gruppi locali del Pd e dei 5 Stelle si parlano e si confrontano, al punto che i grillini erano stati invitati al tavolo del centrosinistra per discutere in via ufficiale dell’intesa.

Ad un passo dall’ok era però arrivato l’alt di Di Maio e Toninelli, giunti nelle Marche proprio per bloccare l’accordo. Ora la guida dei 5 Stelle è cambiata, ma l’irritazione di Crimi per l’ingresso della Frenquellucci in giunta (che sarà giudicata dai probiviri) testimonia che per tornare indietro servirà una forte spinta dal gruppo locale. Il nodo sarà probabilmente quello del nome: se si troverà un candidato gradito anche dai vertici nazionali e chiaramente indipendente rispetto alla sinistra, allora se ne potrà discutere. All’identikit corrisponderebbe Sauro Longhi, ex rettore del Politecnico delle Marche il cui nome però rischia di essere bruciato da mesi di tira e molla nelle trattative. Se non se ne farà niente, il governatore Luca Ceriscioli spererebbe nella riconferma, per quanto già bocciata da Italia Viva.

A destra il candidato sarà un esponente di Fratelli d’Italia, stando almeno alla spartizione decisa in autunno dagli alleati. Giorgia Meloni ha scelto Francesco Acquaroli, ma Matteo Salvini non è convinto e pretende di ridiscutere le assegnazioni. Quel che è certo è che il 20 febbraio il leader leghista sarà in Regione per incontrare militanti e dirigenza locale del partito. Per quella data dovrebbe uscire il nome del candidato.

 

Veneto

Zaia vincitore scontato: la Lega va da sola?

La partita sembra decisa prima di iniziare. Luca Zaia si candiderà per il terzo mandato e i sondaggi lo accreditano addirittura sopra il 60 per cento, a distanza siderale da qualsiasi altra coalizione, giallorosa o meno. Da vedere sarà soltanto la composizione delle liste in suo sostegno, perché qualcuno nella Lega culla l’idea di correre senza gli alleati storici di Forza Italia e Fratelli d’Italia, garantendosi soltanto il sostegno di qualche lista civica legata a Zaia. Lo strappo difficilmente influirebbe sul risultato finale, ma la sua minaccia serve a Salvini per avere potere contrattuale con gli alleati nella spartizione delle Regioni e nella decisione delle candidature. Il margine di vittoria di Zaia nei sondaggi suggerisce comunque alle opposizione di non consegnarsi a una sconfitta ancor peggiore di quella preventivabile. Perciò i giallorosa dovrebbero andare divisi, anche perché qualche settimana fa i 5 Stelle locali si sono riuniti in assemblea palesando la propria contrarietà all’intesa col centrosinistra. Questo nonostante le parole distensive e filo-governiste di Federico D’Incà, il ministro per i Rapporti col Parlamento che ha provato a gettare l’amo dell’alleanza ai simpatizzanti del Movimento. A sinistra però di nomi ce ne sono ancora pochi. L’unico, eventualmente presentabile anche per l’improbabile alleanza coi 5 Stelle, è quello di Arturo Lorenzoni, vicesindaco di Padova che vorrebbe puntare su una rete civica.

 

Puglia

Renzi fa la guerra ai dem, Salvini teme Fitto

I candidati per la primavera sembrano tutti designati da tempo. Eppure, per motivi diversi, in Puglia c’è ancora molta indecisione. Il centrosinistra ha celebrato le primarie consegnando la più scontata delle vittorie al governatore uscente Michele Emiliano, che ha sbaragliato i concorrenti tra il boicottaggio generale di parte del Pd, di Italia Viva e di Azione. Proprio il fronte Renzi-Calenda qui è pronto alla guerra, avendo già dichiarato di non voler sostenere Emiliano neanche nella sfida contro la destra e ipotizzando la corsa di Teresa Bellanova.

Anche i 5 Stelle al momento sono da soli, avendo scelto su Rousseau Antonella Laricchia, contraria all’accordo col centrosinistra. Un fronte così diviso finirebbe però per favorire il centrodestra e indebolire il governo, perciò non è da escludere che alla fine i 5 Stelle scelgano di andare su Emiliano, magari imponendo alcuni temi del programma.

A destra il candidato spetterebbe a Fratelli d’Italia, ma proprio come nelle Marche Salvini si è messo di traverso. Il nome designato è quello di Raffaele Fitto, già governatore dal 2000 al 2005. In realtà però la Lega non ha un profilo alternativo se non quello del presidente Invimit Nuccio Altieri, molto meno appetibile rispetto a uno come Fitto che, pur ormai lontano dai sogni di gloria che lo vedevano come erede di B., resta capace di raccogliere parecchie preferenze. Più che ad un altro candidato, Salvini punta allora ad ottenere il massimo per i suoi: i leghisti locali sono quasi tutti ex-fittiani che temono ripicche – leggasi: esclusioni da nomine e incarichi – in caso di conquista della Regione, motivo per cui Salvini vuole premurarsi già da ora.

 

Liguria

M5S indeciso sul civico, indagini sui soldi a Toti

Le ultime settimane hanno agitato i sonni del governatore Giovanni Toti. La Guardia di Finanza e Bankitalia stanno indagando su alcuni finanziamenti sospetti al suo Comitato Change, proprio mentre l’esponente laziale di Cambiamo Gina Cetrone è stata arrestata con l’accusa di estorsione. La sfida per la Regione vede però comunque favorito Toti, che però potrebbe essere insidiato da una eventuale alleanza giallorosa. Da tempo il Pd ha dato disponibilità ai 5 Stelle per individuare un nome comune, suggerendo il giornalista del Fatto Ferruccio Sansa. I 5 Stelle ci stanno pensando, divisi tra gli eletti locali generalmente favorevoli e la candidata eletta su Rousseau, Alice Salvatore, che trova sponda in Crimi e Toninelli per il suo No ai dem. Domani un nuovo vertice grillino dovrebbe sciogliere i dubbi: in caso di Sì all’accordo giallorosa allora si andrebbe su Sansa, altrimenti resterebbe la Salvatore. A quel punto il Pd potrebbe comunque decidere di candidare il giornalista costruendo una coalizione il più possibile “civica”, piuttosto che preferirgli un nome di partito.

Dagli stupri alle stragi: così l’impunità nega la giustizia

Colletti bianchi, corruzioni, reati contro la Pubblica amministrazione. Certo, ma non solo. La prescrizione ha anche mortificato per sempre i familiari di vittime per stupri, stragi, morti dovute ad altri reati (l’omicidio è imprescrittibile).

 

Lo stupro di gruppo su Martina, morta a 20 anni

Martina Rossi ha appena 20 anni quando il 3 agosto 2011 precipita dal sesto piano di un hotel a Maiorca, in Spagna. Trascorsa la sera in discoteca, è rientrata in hotel e sceglie di dormire in un’altra stanza perché, nella sua, ci sono rimaste due amiche con altrettanti ragazzi. Chiede ospitalità a Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni che accettano e, secondo l’accusa, trasformano quelle ore in un incubo e nell’ultima notte della sua vita. Le vengono sfilati i pantaloncini, mai ritrovati, e Martina tenta la fuga provando a saltare il muretto del balcone, che separa due camere. Precipita nel vuoto. La difesa di Vanneschi e Albertoni ha sempre sostenuto che si trattò di suicidio.

Dopo 8 anni arriva la condanna a 6 anni di reclusione. L’accusa: morte come conseguenza di altro reato e tentata violenza di gruppo. In appello il primo reato è prescritto. Resta in piedi l’accusa di tentata violenza di gruppo: se fosse confermata, la pena del primo grado si ridurrebbe della metà.

Intervistato dal Fatto, in quei giorni Bruno Rossi, papà della ragazza, ha dichiarato: “Non è possibile che un giudice condanni a pene che poi non possono essere eseguite. Chiedo di pensare, perché non ci sia più un’altra Martina”.

 

Il prete prescritto grazie anche alla ex Cirielli

Don Vito Beatrice, prete a Roma, secondo l’accusa ha abusato della sua vittima da quando aveva appena 9 anni. La prescrizione – che in maniera molto complessa, nel suo caso, interviene con tre leggi diverse – però dimezzato la sua condanna: da 14 a 7 anni. La sua difesa da un lato ha chiesto l’assoluzione, per i fatti successivi al 2003, perché “il fatto non sussiste”, dall’altro, per i reati antecedenti, ha invocato con successo la “ex legge Cirielli”, che dimezza i termini di prescrizione per chi non ha altre condanne definitive. “Senza la prescrizione – ha commentato l’avvocato di parte civile Carlo Taormina – questo signore non avrebbe preso meno di 15 anni. Ha ridotto il ragazzo alla anaffettività nei confronti dell’altro sesso: per gli psichiatri è un’irreversibilità”. Taormina da parlamentare di Forza Italia votò a favore della ex Cirielli. Di questi e altri casi si occupa La Repubblica degli impuniti, pubblicato da Paper First e scritto da Peter Gomez, Valeria Pacelli e Giovanna Trinchella.

 

Abusi, condanne per 8 casi su 30

Don Mauro Inzoli avrebbe potuto rispondere di ben 30 casi di violenze su minori ma è stato condannato per 8 di essi. Decine di ragazzini tra i 12 e i 13 anni non avranno mai giustizia perché i loro casi sono già prescritti quando inizia l’inchiesta che nel 2016 porta alla condanna del prete: 4 anni e 9 mesi, grazie allo sconto di pena previsto dal rito abbreviato. Pena ridotta di ulteriori 2 mesi in Appello e confermata in Cassazione. Tra le vittime del prete – si legge nel libro – c’è chi s’è poi suicidato.

 

La strage di Viareggio e il caso Eternit

Quattro anni d’indagine, 7 di udienze: rischia di restare senza colpevoli il processo della strage di Viareggio, 32 vittime, il 29 giugno 2009, a causa del deragliamento di un treno carico di gpl. La prescrizione è già intervenuta per i reati di incendio e lesioni colpose gravi e gravissime. Restano in piedi il disastro ferroviario, che si prescrive il 29 dicembre 2021. L’omicidio colposo plurimo – che se non fosse aggravato dall’incidente sul lavoro già non sarebbe contestabile – si prescriverà nel 2026. Mauro Moretti, ex ad di Fs, condannato a 7 anni in Appello (con altre 8 persone) ha rinunciato alla prescrizione “per rispetto delle vittime e perché ritengo di essere innocente”. La parola ora tocca alla Cassazione.

E proprio la Cassazione, nel 2014 proscioglie per prescrizione i dirigenti della società belga Eternit, accusati di aver causato centinaia e centinaia di morti da amianto. I familiari e le vittime della strage di Viareggio si sono uniti a quelli di altre stragi nel coordinamento nazionale “Noi non dimentichiamo”: “La prescrizione – hanno dichiarato pochi mesi fa in Senato – è una spada di Damocle che blocca tutto e impedisce di sapere cosa è successo. Chi si oppone alla riforma vuole che le cose rimangano così”. “Io ho avuto il 90% di ustione alla pelle” dice Marco Piagentini, presidente dei familiari della strage di Viareggio, “ma da cosa, se l’incendio colposo è stato prescritto? Di cosa sono morti i nostri figli?”.

Conte vuole una soluzione che non sconfessi Bonafede

Nessuna intesa sulla prescrizione. A sera, al ministero della Giustizia sentono la necessità di smentire le voci “che stanno circolando in queste ore” su “presunti accordi” . Il Guardasigilli Bonafede , si fa notare, ha passato la giornata al lavoro al ministero, in attesa della convocazione da parte del presidente Conte del vertice di maggioranza sulla giustizia. Convocazione che ancora non c’è: il Pd ha fatto sapere che ha senso farlo solo se la mediazione è a portata di mano. La giornata di ieri è stata convulsa, confusa, senza arrivare a soluzioni di merito. Ma una cosa emerge chiaramente. La trattativa sotterranea non si è mai interrotta.

Il premier, Giuseppe Conte ha capito ormai da giorni che deve trovare il modo di convincere il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, ad annacquare la sua riforma che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. “In settimana fisserò un nuovo incontro. Troveremo una soluzione per completare l’accordo su tutti gli aspetti della riforma del processo penale. Sulla prescrizione, invito tutti a non prendere posizioni di principio” ha detto ieri da Londra.

In questo procede d’accordo con il capo delegazione dem, Dario Franceschini. Mentre il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, si è appellato alla sua mediazione. Quale possa essere il punto di caduta, non è chiaro. Ma del fatto che ci sarà, ieri, – al netto della tattica di alzare i toni – parevano convinti un po’ tutti. O almeno cercavano di spingere questa interpretazione, nel tentativo di convincere Bonafede ad ammorbidirsi. Nel frattempo da M5s arrivava un’altra indiscrezione: sarebbero pronti 100 milioni di euro da mettere sulla riforma del processo penale per accelerare i tempi dei processi. Ancora ieri, Andrea Orlando ribadiva: “Credo che ci sia da trovare un bilanciamento tra la sospensione della prescrizione che di per sé non è un male, e la garanzia che il processo si celebri in tempi certi”. Ci sono due strade parallele. Una è accelerare sulla riforma del processo penale. L’altra continuare a cercare modi per intervenire sulla norma Bonafede, senza sconfessare il Guardasigilli. Presa in esame l’idea di rinviare al 2021 l’entrata in vigore della riforma (il “lodo Annibali”, ma senza riconoscerne la paternità a Renzi), è stata scartata. La soluzione che va adesso per la maggiore è quella del disegno di legge di Federico Conte (Leu): introdurre una forma di prescrizione per i condannati in primo grado che rinuncino alle tecniche dilatorie. Tramontata l’idea del lodo Conte (applicare il blocco della prescrizione solo in caso di condanna) le ipotesi si moltiplicano. C’è pure chi pensa a fare una distinzione tra reati che possono essere prescritti e reati che invece non possono esserlo.

Il punto resta politico. Perché se M5s e Pd stavano già lavorando a una soluzione, nessuno sa fino a che punto Italia Viva si spingerà nel suo no. E se, in fondo in fondo, i dimaiani stiano lavorando per far cadere il governo. E poi, si fa strada un’altra variabile. Il Pd continua a crescere nei sondaggi e la tentazione (inconfessabile) di andare al voto e di capitalizzare la vittoria in Emilia-Romagna (e magari, chi lo sa, l’eventuale successo nelle Regionali di primavera) e il crollo dei Cinque Stelle c’è. Dal Nazareno trapela stanchezza. Tanto è vero che ieri il Pd ha chiesto a Conte di accelerare sulla nuova agenda. La prescrizione resta il pretesto perfetto per chi vuole rompere. Ieri la proposta di legge Costa per cancellare la norma Bonafede è stata di nuovo incardinata in Commissione. Abbinata un’altra proposta di Federico Conte (introdurre la prescrizione processuale). In aula a Montecitorio arriva il 24 febbraio. Così composita, può prendere i voti di tutti.