La prescrizione uccide un altro processo all’Ilva

La prescrizione ferma il processo “ambiente svenduto bis” nei confronti dell’ex commissario straordinario (da giugno 2013 a giugno 2014) dell’Ilva di Taranto Enrico Bondi e dell’ex direttore dello stabilimento Antonio Lupoli. È stato il giudice Loredana Galasso, accogliendo le richieste della Procura e delle difese, a dichiarare il non doversi procedere nei loro confronti a causa dell’eccessivo tempo trascorso rispetto alla data in cui sarebbero stati commessi i reati.

L’accusa nei loro confronti era di aver guidato una fabbrica che nonostante le prescrizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale, rilasciata nel 2012 dopo il sequestro dell’area a caldo, aveva continuato a inquinare e avvelenare il territorio ionico. Non solo. Oltre al “getto pericoloso di cose”, i pubblici ministeri Remo Epifani, Raffaele Graziano e Mariano Buccoliero avevano contestato pure l’attività di gestione di rifiuti non autorizzata.

Nel capo di imputazione si legge che i due avrebbero omesso “nell’esercizio dell’attività produttiva dello stabilimento siderurgico Ilva sottoposto a commissariamento, di adempiere compiutamente alle prescrizioni Aia (rilasciate il 26 ottobre 2012) nonché alle prescrizioni del Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria di cui al Dpcm del 14 marzo 2014” e avrebbero determinato “illecitamente lo sversamento di una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive, nocive in atmosfera, emissioni derivanti dall’area parchi, dall’area cokeria, dall’area agglomerato, dall’area altiforni, dall’area acciaieria e dall’attività di smaltimento operata nell’area Grf, nonché dalle diverse torce dell’area acciaieria a mezzo delle quali (torce) smaltivano abusivamente una grande quantità di rifiuti gassosi”.

Era stato il gip Vilma Gilli a disporre nuove indagini e successivamente a ordinare l’avvio del processo: la procura, aveva chiesto già due volte l’archiviazione delle accuse.

Il procedimento, tuttavia, prosegue nei confronti del successore di Bondi, l’ex commissario straordinario Piero Gnudi, e dell’ex direttore dello stabilimento Ruggero Cola, per i quali il processo proseguirà il 19 febbraio dinanzi a un diverso giudice.

Solo poche settimane fa, la prescrizione aveva annullato la sentenza d’appello per Roberto Primerano, l’ex consulente della procura di Taranto condannato a un anno di reclusione per aver falsificato i contenuti di una perizia sulle emissioni di diossina dall’ex Ilva. Ora, il rischio è che la prescrizione travolga anche una parte del maxi processo “ambiente svenduto” che vede alla sbarra quasi 50 imputati tra cui membri della famiglia Riva e pezzi delle istituzioni come l’ex governatore Nichi Vendola.

La prescrizione potrebbe presto arrivare, ad esempio, per i membri della commissione ministeriale che nel 2011 rilasciò a Ilva una autorizzazione scritta, secondo l’accusa, dalla stessa società. Si tratta di Dario Ticali, presidente di quella commissione, e del segretario Luigi Pelaggi che per anni è stato anche capo della segreteria tecnica del ministero dell’Ambiente ai tempi di Stefania Prestigiacomo ministra.

Per l’accusa avrebbero tenuto “contatti diretti non istituzionali” coi vertici di Ilva per “pilotare” a favore della società i lavori della commissione. Ma non solo. Il 28 giugno 2010, mentre Ilva era in attesa della concessione dell’Aia, è proprio Pelaggi a contattare telefonicamente Fabio Riva chiedendo “per incarico del ministro” una sponsorizzazione per l’evento della fondazione “Liberamente” creata da Prestigiacomo con Mariastella Gelmini e Franco Frattini.

Pelaggi parla chiaro: “Io farò poi una piccola noticina, diciamo sugli obiettivi della fondazione, perché lei mi ha pregato di divulgarla con chi abbiamo avuto contatto… e per quanto riguarda i contributi se uno voglia aderire sono 4 o 5mila euro”. L’ex proprietario dell’Ilva non si fa pregare: “Benissimo! Non c’è problema”. Poi la conversazione vira sull’autorizzazione: “Era un’occasione – dice Pelaggi – anche per salutarla. Io poi le mando una noticina via email e via fax va bene? E poi con Perli (legale dell’Ilva, oggi imputato per associazione a delinquere con i Riva, ndr) ci stiamo sentendo”. Per Riva è una sorta di garanzia: “Perfetto”.

Il Codice Venale

Per dire com’è ridotta l’informazione, basta leggere i commenti dei principali quotidiani sulla blocca-prescrizione. Cioè su una legge dello Stato regolarmente approvata dalla maggioranza parlamentare e promulgata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella oltre un anno fa, in vigore da 13 mesi e valevole per i processi relativi ai reati commessi dal 1° gennaio 2020. La circostanza appare ignota a chiunque la commenti: tutti blaterano di “compromessi”, “mediazioni”, “tavoli” e si domandano “chi cederà” fra 5Stelle e Italia Morta, chi “perderà la faccia tra Bonafede e Renzi” (come se Renzi, fra l’altro, avesse una faccia), “che farà Conte” e se reggerà la “tregua Zingaretti”. Ma di che vanno cianciando questi orecchianti? Ma lo vogliono capire o no che la blocca-prescrizione non è un’idea, una proposta, un progetto, un’intenzione, ma una legge vigente e funzionante? La vera questione è che FI, Lega, Iv e mezzo Pd vogliono cancellarla e, per farlo, devono approvare insieme in Parlamento una nuova legge: quella firmata dal forzista Enrico Costa, noto fabbricante seriale di leggi ad personam per Berlusconi. Se la voteranno, non esisterà più alcuna maggioranza giallorosa e alcun governo Conte e nascerà la coalizione dell’impunità contro un valore cruciale: quello della giustizia uguale per tutti.

Questa è la partita che si gioca in queste ore: tutte le disquisizioni sul garantismo, il giustizialismo, le manette, gli errori giudiziari, la ragionevole durata del processo, l’incostituzionalità, il derby avvocati-magistrati sono fumo negli occhi per distrarre e disorientare un’opinione pubblica che fortunatamente ne ha viste troppe, in vent’anni, per dimenticarsi la vergogna dei 120 mila processi prescritti all’anno e continua nei sondaggi a schierarsi dalla parte delle vittime, anziché da quella dei colpevoli impuniti. Se abolire la prescrizione fosse incostituzionale perché viola l’articolo 111 sulla ragionevole durata dei processi, come sostengono giuristi, avvocati e perfino magistrati di chiara fama e fame, la Consulta l’avrebbe già ripristinata nel processo civile, che dura un’eternità come il penale, ma la prescrizione non ce l’ha: e chi perde un processo civile può subire conseguenze ben più pesanti (risarcimenti anche milionari) di chi perde un processo penale (in media, qualche mese o anno di carcere, peraltro virtuale, cioè finto, visto che in Italia fino a 4 anni non si va in carcere). E se chi contesta la blocca-prescrizione fosse davvero interessato a una giustizia più rapida, proporrebbe qualche straccio di soluzione per abbreviare i tempi dei processi.

Avete mai sentito un Renzi o un Salvini o un forzista o un pidino proporre qualcosa di concreto per ridurre anche di un giorno i tempi processuali? Ci ha provato Davigo, in un’intervista al Fatto, ed è mancato poco che lo linciassero. Eppure quel che si deve fare per accorciare i processi lo sanno tutti: abolire un grado di giudizio o almeno inserire drastici disincentivi e sanzioni contro le impugnazioni pretestuose e infondate; abolire il divieto di reformatio in pejus che impedisce al giudice di appello di aggravare la pena del primo grado; e una serie di misure organizzative e di investimenti in nuovi magistrati e cancellieri previsti dal dl Bonafede sulla riforma del processo penale, pronto da quasi un anno, che non a caso la Lega prima e Pd&Iv oggi tengono bloccato, impedendo di velocizzare quei processi che a parole chiedono di velocizzare. Ma nessuno, a parte Bonafede, Davigo, Gratteri, Di Matteo, Scarpinato e pochi altri, propone nulla: e giustamente, perché, se lorsignori riotterranno la prescrizione in appello e in Cassazione, saranno tutti felici così. Poi ci sono i settori più oltranzisti dell’avvocatura, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare ai processi eterni su cui campa la parte meno professionale e più parassitaria della categoria (se i processi durassero meno, quanti dei 180 mila avvocati italiani resterebbero disoccupati?). E ci sono pure dei magistrati, per fortuna minoritari, che non riescono proprio a immaginare il cambiamento radicale imposto dalla blocca-prescrizione. Anche fra loro ci sono sacche di resistenza al nuovo, che significherebbe lavorare di più (meno processi prescritti, più processi celebrati) e più onestamente, mentre la prescrizione è un ottimo rifugio per le toghe fannullone e anche per quelle colluse e corrotte (se ti lascio prescrivere il processo, tutte le carte sono a posto, non devo neppure assolvere un colpevole, e tu cosa mi dai in cambio?). Ma, siccome non potranno mai confessarlo, si rifugiano dietro la pretesa incostituzionalità della legge: peccato che, negli ultimi vent’anni, il loro sindacato – l’Anm – abbia ininterrottamente chiesto di bloccare la prescrizione al rinvio a giudizio o al massimo dopo il primo grado, e nessuno degli ermellini che ora ne scoprono l’illegittimità s’è mai alzato ad accusare i suoi rappresentanti di violare la Costituzione.

La verità, a questo punto, dovrebbe essere chiara a tutti: nessuno di quanti dicono di battersi contro la blocca-prescrizione vuole una giustizia più efficiente e più veloce. Vogliono tutti l’esatto contrario: riprendersi la prescrizione e mantenere la giustizia inefficiente e i processi eterni. Ben sapendo che gli unici processi che arrivano in fondo sono quelli per i reati di strada e gli unici imputati che finiscono in galera sono i poveracci. Perciò, da qualche anno, non invocano più amnistie o indulti: perché quelli poi liberano tutti, pure i delinquenti comuni, e gli elettori s’incazzano. Molto meglio la prescrizione, che libera soprattutto i signori, cioè i politici e i loro foraggiatori: un’amnistia razziale, censitaria e classista. Il Codice Venale: l’unica, vera, incostituzionale “barbarie”.

Il Rancore andrà forte a Sanremo, un po’ meno Piero, Paolo e Marco

Metti la musica al centro del Festival. Sì, ma Ama ha stravolto il precetto. Con il truppone dei 24 Big, i giovani, gli ospiti dentro e fuori dall’Ariston, i marchettozzi, gli amichevoli accoglimenti, il prezzemolino deluxe Tiziano Ferro, Sanremo si presenta più ipertrofico che celebrativo. Il direttore artistico avrebbe dovuto lavorare per sottrazione: invece così si rischia il poltiglione. Pochi esiti notevoli, nel lotto dei campioni. E un mondo di mezzo dove: Rita Pavone ancora spacca (occhio alla citazione degli Stones) e si beccherà l’ovazione; dove Achille Lauro si è fermato al personaggio e a uno slogan ambiguo (“Me ne frego”); dove l’urban ultrapop di Elodie occuperà le radio, mentre Gualazzi, con tanto di brass band, sembra Tito Puente.

Quanto agli altri, ecco cinque pezzi di caratura superiore. E cinque più loglio che grano.

Promossi

Rancore. Parte dall’11 settembre e passa per Iraq e Siria per rilanciare la cacciata dall’Eden con un carpiato biblico. Pezzo tesissimo: ricorda l’Argentovivo con cui il rapper romano calcò l’anno scorso l’Ariston insieme a Silvestri. Un vibrante manifesto, con Rancore che stramazza per terra dopo una smitragliata. Ma siamo noi ad arrenderci.

Junior Cally. Ma davvero qualcuno ha creduto alla favoletta che volessero espellerlo per un vecchio testo misogino? Ascoltate No, grazie e le barre dedicate a Salvini e Renzi e capirete il trappolone politico. Junior ha gettato via la maschera, presentandosi con un look da bravo figliolo. Il brano tira da matti, grazie a un motore rock alla Iggy Pop.

Diodato. È in stato di grazia. Fai rumore è poesia che si innalza a quote ben più alte di tante rotte di crociera dei competitor. Confezione classica, di eterea bellezza, interpretata con pathos. Una delle due perle del Festival: l’altra è la ballata sopraffina di Tosca, Ho amato tutto, persino troppo per questo carrozzone.

Anastasio. Spesso chi entra papa all’Ariston poi ne esce cardinale. Ma i bookmaker continuano a puntare su di lui. Rosso di rabbia è un vento che soffia senza calare, e il post-rapper campano è il più coraggioso tra gli innovatori di un genere già clichè. Per giunta, una sensata strategia di comunicazione lo ha visto smarcarsi dai sospetti di salvinismo: il che, alla vigilia del voto rivierasco, può giovargli.

Pinguini Tattici Nucleari. Tormentone istantaneo, l’inno del gregariato perenne, la gioiosa rivalsa dei mezzi sfigati. Ritornello-sentenza: “In un mondo di John e Paul/Io sono Ringo Starr”. Ma nella vita può capitarti di peggio che non diventare il batterista dei Beatles.

Bocciati.

Paolo Jannacci. Gran musicista, uomo di ironica virtù. Però non sempre il Dna dei padri ricade sui figli. O i figli dei figli, in questa matrioska di dediche che è Voglio parlarti. Impalpabile.

Piero Pelù. Il familismo ha contagiato pure El Diablo. Una cavalcata western-rock per augurare un mondo migliore alla nipotina. Ma Piero ha davvero sbagliato palazzo. Spiace.

Giordana Angi. Nel plotoncino degli ex-Amici possono piazzarsi meglio il tenorino Alberto Urso (ramazzerà consensi tra i bocelliani) o il faccino da milioni di like di Riki, che però ha una nenia loffia. La Angi canta l’amore per la mamma, come nei Sanremi degli anni 50, o il Barbarossa di Portami a ballare.

Michele Zarrillo. Dopo una carriera onusta di medaglie, lo portano qui in quota over e lui canta della stanchezza? Nell’estasi o nel fango evoca lotte porno, ma sotto il titolo poco o niente.

Marco Masini. Convocato per i fasti del personalissimo trentennale, ne Il confronto tira fuori un dialogo con lo specchio un filo autoreferenziale. Poi magari vince.

Ancora chiuse e già piene: sono le mostre delle rockstar

Uno dei modi per capire se ci troviamo o meno di fronte a un mito è se per identificarlo è sufficiente il nome di battesimo, il cognome o un soprannome ad hoc: Elvis, Chanel, Proust, la Divina Callas. Un altro, più moderno – anzi, diremmo più global –, sono le prevendite. Che cos’hanno, infatti, in comune Raffaello, Leonardo da Vinci, Van Gogh con i Rolling Stones e Madonna? Semplice, sono delle rockstar! Sono i numeri delle prevendite a dirlo.

Non stupisce, allora, che si sia registrato un boom per l’attesissima mostra su Raffaello alle Scuderie del Quirinale a Roma (5 marzo-2 giugno) durante l’anno delle celebrazioni del cinquecentenario della scomparsa del maestro di Urbino: soltanto nelle prime quarantott’ore di prevendita sono state staccate già 10.000 prenotazioni. Aperte il 7 gennaio, le richieste sono giunte da tutto il mondo: Paesi europei ma anche Stati Uniti, Giappone e Corea. E adesso che è febbraio, il museo non rilascia dichiarazioni per aumentare l’attesa attorno all’esposizione organizzata in collaborazione con le Gallerie degli Uffizi, di cui già però si sa che accoglierà più di duecento opere (tra cui, la celebre Velata).

La stessa situazione si è verificata per Leonard, la mostra che il Musée du Louvre ha organizzato l’anno scorso per il cinquecentesimo anniversario della scomparsa di Leonardo da Vinci, inaugurata il 24 ottobre 2019. Nelle prime trenta ore di prevendita online, erano già stati venduti quasi 36.000 biglietti. Tra l’altro, il novero degli accessi e delle richieste è stato tale da provocare un bag sul sito del museo parigino. Come mai? Semplice, “Leonardo è una rockstar,” commenta dalle colonne de Le Parisien Arnaud Averseng, presidente di France Billet, la società che gestisce il servizio di erogazione biglietti di FNAC.

Certo, il paragone con Madonna (tutto esaurito in pochi giorni per il Rebel Heart Tour in Italia nel 2016) o con gli Stones (30.000 biglietti in prenotazione tra le 9 e le 9,30 di giovedì 1 maggio 2017 per il concerto di Lucca) è più concettuale che materiale: il concerto (o un tour stesso) ha una durata diversa rispetto ai mesi durante i quali una mostra rimane visitabile. Resta, però, il dato ontologico: alcune mostre sono reputate dei veri e propri eventi epocali, imperdibili nella loro unicità.

Si potrebbe pensare a questo punto che Raffaello e Leonardo siano dei casi isolati, in qualche modo anche coadiuvati da una ricorrenza di portata internazionale. Ciò è vero, ma è una lettura troppo semplicistica. Ad avversare questa teoria è il caso, anch’esso degno di nota, dell’esposizione su Van Gogh che si terrà a Padova in ottobre, curata da Marco Goldin, critico e storico dell’arte ma soprattutto eccellente curatore.

“Roma e Parigi sono due città in cui il turista culturale si reca a prescindere da una mostra, pur importante che sia. Il successo di esposizioni in queste metropoli si deve anche ad altre variabili”, sostiene Goldin, che per Van Gogh, in vista di ottobre, ha fatto un test di due giorni in cui sono state aperte le prevendite. Il risultato è stato un successo: 12.000 biglietti staccati da tutta Italia. “Senza ricorrenze, la sfida culturale che mi pongo da anni è invece far scoprire la bellezza di città come Padova – o qualsiasi altra città nobilmente di provincia – al visitatore attirato da un’importante mostra”.

Goldin è da anni una sorta di guru delle esposizioni di successo. Nel 2011, per la mostra a Vicenza sulla storia del ritratto da Raffaello al contemporaneo, è riuscito a totalizzare 150.000 prevendite prima dell’inaugurazione; nel 2017, invece, 5.000 biglietti venduti soltanto nella prima giornata utile per prenotarsi per Storie dell’Impressionismo a Treviso; e 15.000 sempre nel primo giorno per Vermeer a Bologna nel 2014. “È un insieme di più elementi,” spiega, “tra cui deve spiccare la qualità delle opere che prometti di portare (promessa che devi poi mantenere), un’ottima e tempestiva comunicazione e ovviamente un nome di grande impatto”. Quello di una rockstar dell’arte, diciamo noi.

Polemiche? Amadeus si affida al Rosario

Deve avere davvero un buon carattere Amadeus, perché non c’è nulla che gli faccia perdere la pazienza: non le polemiche sessiste; non Fiorello che lo sveglia alle 6:42 (roba da farsi prestare una pistola) per fare un video da mettere sui social, con tanto di pigiamino azzurro e occhi stropicciati di sonno; non il sindaco di Sanremo che si ostina a chiamarlo Amedeus. E dunque si comincia: come ogni lunedì festivaliero il primo appuntamento è la conferenza stampa (da oggi condotta da Giorgia Cardinaletti del Tg1, in diretta su Raiplay). E si inizia con gli intramontabili fiori di Sanremo: per il battesimo il Comune ha scelto di ingentilire la sala stampa con esemplari di Calla, forse un inconscio riferimento al meno delicato Junior Cally (che alle prove ieri sembrava Ricky Cunningam). Poi ci sono gli immancabili, interminabili ringraziamenti e saluti di direttori vecchi e nuovi, vicedirettori e autorità varie. Stefano Coletta è appena arrivato a RaiUno e subito deve affrontare la sfida più grande, il Natale della tv italiana che quest’anno è pure caricato del peso dei settant’anni. “Sognavo prima di andare in pensione di fare Sanremo. Sono davvero felice. Sono venuto qui in punta di piedi e ho messo a servizio la mia esperienza”, spiega Coletta. “Ogni tanto mi sento in colpa perché mi viene naturale dare dei suggerimenti sulle scalette”.

Naturale e forse pure necessario perché stando a quello che si apprende dai soliti rumors di corridoio (che qui sono autostrade) le scalette sono farcite come un tacchino del Ringraziamento. L’anno scorso la prima puntata finì a mezzanotte e cinquanta, quest’anno si rischia di dare la linea UnoMattina (ma è tutto in casa, visto che l’inviata del programma a Sanremo è la moglie di Amadeus, una scelta non proprio fair). Dice il neodirettore “questo festival vi sorprenderà”: vedremo se dietro la quantità c’è anche la qualità o almeno un’idea. Oltre naturalmente a quella di aver chiamato a raccolta gli amici: Tiziano Ferro, Roberto Benigni (il cui intervento giovedì pare duri quaranta minuti) e lo splendido sessantenne Rosario. Che anche ieri si è presentato in conferenza stampa (“vestito da cantante di destra”) e immediatamente ha illuminato la scena, facendo ciò che gli viene meglio. Cioè prendere in giro Amadeus che “non lavora, non fa niente, sta tranquillo, seduto in platea, guarda e dice va bene”. Tutti ridono, ma dalle indiscrezioni di cui sopra, pare che di prove Amadeus ne abbia fatte pochine. I due dormono in stanze attigue, ma sostiene Fiorello che non si sente un rumore: “Altro che i gorgheggi di Pippo e Catia nel 1995”. Tutti ridono, lui infila una battuta dietro l’altra: con Luca Josi, che rappresenta il main sponsor Tim (sabato sarà assegnato anche il premio del brano più scaricato in rete), cazzeggia da concorrente (lui è testimonial della Wind). Tornando ironicamente sulle polemiche delle scorse settimane, spiega che il suo ruolo sarà “al fianco del conduttore, né un passo avanti né un passo indietro”. Eppure lo staff di Amadeus si affanna a ricordare con troppa foga che i due sono amici e quindi non ci sono scene da rubare o primati da rivendicare. Certo, la parte del gregario a Fiorello si addice poco. Averlo accanto è una sicurezza ma è pure pericoloso: un po’ come presentarsi al primo appuntamento con uno e portarsi dietro la migliore amica che però è Irina Shayk.

Da segnalare una polemica che ha come centro il palco in piazza Colombo, parte del progetto “Tra palco e città”, illustrato dall’eterno Antonio Marano, direttore di Rai pubblicità: l’operazione di “brand integration” è una proposta “crossmediale” che valorizza il territorio. Come suggerisce Nanni Moretti: “Ma come parli?”. E qui il regista è doppiamente chiamato in causa. Non solo per l’igiene orale delle parole, ma anche per l’amata crema spalmabile. Tra gli artisti che si esibiranno sul palco esterno, due sono particolarmente infastiditi dal fatto che la struttura sia targata Nutella (domani pure è il Nutella day). Forse sono a dieta, forse sono nemici dell’olio di palma o forse non gli va di fare i testimonial involontari.

Detto questo: stasera si comincia con 12 big (Achille Lauro, Anastasio, Bugo e Morgan, Diodato, Elodie, Irene Grandi, Raphael Gualazzi, Marco Masini, Rita Pavone, Riki, Le Vibrazioni, Alberto Urso) e 4 nuove proposte (Eugenio in Via di Gioia, Fadi, Leo Gassmann, Tecla Insolia). Oltre agli ospiti “resident” (Fiorello e Tiziano Ferro), saliranno sul palco dell’Ariston Emma e Al Bano e Romina.

Attentato, guai per BoJo: “Dov’è la riforma?”

La cronaca: Sudesh Amman, il ventenne che domenica pomeriggio nella via principale di Streatham, sobborgo di Londra, ha accoltellato tre passanti ed è stato poi ucciso dalla polizia, era sotto sorveglianza dal giorno del suo rilascio dal carcere, il 23 gennaio. I suoi movimenti da libero destavano tanto allarme che i controlli erano stati appena rafforzati. Sul piano materiale le ripercussioni dell’attentato sono contenute: i feriti non sono in pericolo di vita. Ma il danno è politico.

Perché l’ovvia domanda ora è: se Amman era ritenuto così pericoloso da richiedere una sorveglianza costante, perché è stato rilasciato a metà della pena di 40 mesi a cui era stato condannato nel 2018 per possesso di materiale estremista? Corollario immediato: perché il governo non è mai intervenuto sulla legge – retroattiva – che consente il rilascio automatico anticipato di simpatizzanti terroristi nei casi meno gravi e se non ci sono aggravanti?

Secondo fonti sentite dal Guardian, prima del suo rilascio il giovane non era stato sottoposto a nessuna valutazione per verificare se fosse ancora radicalizzato. Decisione contestata dall’antiterrorismo, che considerava Amman così pericoloso da sottoporlo immediatamente a stretta sorveglianza: ma una sorveglianza del genere, 24 ore al giorno, implica un enorme impiego di risorse. Troppe per i circa 70 ex detenuti in libertà.

Una polpetta avvelenata per il governo Johnson. Solo due mesi fa Usman Khan, anche lui ex detenuto per terrorismo islamico e rilasciato da poco, aveva ucciso due giovani ricercatori di Cambridge a London Bridge. Allora Johnson aveva annunciato modifiche alla legge, fra cui sentenze più lunghe e più fondi alla polizia. Provvedimenti non ancora operativi e comunque non applicabili a quelli come Sudesh, condannati a una pena relativamente breve. Ieri il primo ministro ha rilanciato, annunciando ulteriori “cambiamenti sostanziali al sistema per tutti i condannati per terrorismo”. Fra questi, come chiarito dal ministro della giustizia Robert Buckland, il rilascio anticipato non più automatico ma solo dopo accurate verifiche: forse un test con la macchina della verità, come richiesto dalla polizia.

Troppo tardi. Questo nuovo attentato fa il gioco del Labour, che su questo tema ha un alibi di ferro: non è al potere da 10 anni, durante i quali i conservatori hanno avuto il tempo e ampi margini di manovra per riformare la legge. A un giornalista che gli chiedeva: “Cosa ha fatto il governo?”, Sadiq Khan, sindaco laburista di Londra che abita a 5 minuti da Streatham, ha risposto: “È quello che ho chiesto immediatamente anche io, e non ho avuto risposta. Questo attentato si poteva prevenire”. Non solo: secondo Haleema Faraz Khan, la madre di Sudesh, il ragazzo si sarebbe radicalizzato ulteriormente proprio nel carcere di Belmarsh, lo stesso dove è rinchiuso Julian Assange. Non risulta, per ora, che avesse partecipato a programmi di rieducazione. Ma Usman Khan, l’attentatore di London Bridge, ha ucciso due coetanei che conosceva: gestivano proprio il suo programma di riabilitazione. E questo apre un fronte politico ulteriore: nei casi di estremismo islamico la riabilitazione funziona, come sostiene il Labour, il cui segretario dimissionario Corbyn richiedeva più fondi dedicati? A chi accusa il governo di non fare abbastanza per de-radicalizzare i prigionieri, Johnson ieri ha replicato “Dobbiamo essere onesti su questo: i casi di successo sono molto pochi”.

Chiusa per nozze: alla figlia del Chapo l’intera cattedrale

Bionda, la testa cinta da una coroncina di fiori finti, stretta nel corsetto di pizzo, la ragazza visibilmente commossa si tira su l’ampia coda dell’abito bianco dentro al quale si appresta a salire la scalinata vellutata da un tappeto altrettanto candido di una maestosa chiesa. Varcato il portale neoclassico, l’attende l’ultima sfilata da nubile attraverso la lunga navata dal cui fondo la guarda la vergine del Rosario. Al suo fianco non c’è suo padre, Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, detto El Chapo – non solo perché il re del narcotraffico messicano da qualche mese sconta l’ergastolo nel carcere di massima sicurezza statunitense per traffico internazionale di droga – ma perché “Alejandrina Giselle Guzmán ha preso le distanze dagli affari di famiglia”, scrivono le riviste rosa dello Stato di Sinaloa. Superate dalla cronaca.

Per il matrimonio della figlia “del capo”, infatti, il 25 gennaio, il vescovo di Culiacán ha interdetto al pubblico l’ingresso alla cattedrale ottocentesca, la stessa nella quale provarono a rifugiarsi, nell’ottobre scorso i cittadini in fuga dallo scontro a fuoco tra la polizia e il fratello della sposa, Ovidio Guzmán, erede del cartello, arrestato e poi rilasciato dalle forze dell’ordine messicane per evitare la rivolta e il linciaggio del cartello. Fuori dalla cattedrale, questa volta, un cordone giallo presidiato dai sicari della famiglia più potente del Messico tiene lontani i guai favorendo l’ingresso agli invitati delle rispettive famiglie dei due promessi, e agli amici, gente famosa in Messico: dai cantanti alle stelle della tv. Dentro, a promettere amore eterno ad Alejandrina “la ribelle” è Edgar Cázares, nipote di Bianca Margarita Cázares Salazar, anche nota come “l’Imperatrice del narco”, legata a Ismael Zambada Garcia, leader e fondatore del cartello di Sinaloa. Più che un matrimonio, un patto che suggella la ritrovata armonia – forse mai rotta – tra le due famiglie che proprio nel processo a El Chapo avevano messo in scena il tradimento reciproco. D’altronde nessuno vive, si sposa o muore che El Chapo non lo voglia. A officiare la cerimonia, un prete vicino alla famiglia Guzmán, appartenente alla diocesi presieduta da Jonás Guerrero, accusato di aver nascosto casi di pedofilia da parte dei suoi sacerdoti. È lui, oltre a El Chapo ad aver dato ad Alejandrina ed Edgar la benedizione durante la cerimonia alla quale era presente anche il fratello di lei, Ovidio. A seguire, la festa, aperta da un corteo di blindati e mitra nascosti sotto ai tight. Nei video lanciati sui social dall’account @chicapicosa2 del magniloquente evento celebrato nella location di Alamo Grande – un golf residence di lusso alle porte di Culiacan – è evidente lo sfarzo e la dissolutezza riconducibili solo a quelli della leggendaria vita del Chapo: dagli abiti “di scena” indossati dagli ospiti più intimi, alla enorme sala con palcoscenico, ai tavoli imbanditi di ogni bene, agli intrattenitori musicali, questi ultimi, da “Calibre 50” al cantante Julión Álvarez, tra i più quotati in Messico. Ad aprire le danze, la biondissima madre della sposa, Alejandrina Fernandez e sua figlia, abbracciate guancia a guancia a sottolineare la mancanza del padre, tradizionalmente primo ballerino della neo-sposa.

“Padrino” a parte, Alejandrina Giselle non è una da basso profilo, benché abbia provato a fingere distanze dal Chapo. Assurta alle cronache locali nel 2012 per aver passato un mese in carcere nel tentativo di entrare negli Usa da San Diego con un permesso falso, rimandata in Messico, detiene il marchio “El Chapo” con cui firma abiti, gioielli, giocattoli per bambini oltreché una birra. Dal canto suo Edgar non è meno famoso: i Cazares sono accusati di attività criminali come riciclaggio di denaro sporco al servizio del Cartello di Sinaloa, accusa con la quale il padre Emilio è finito in carcere negli Usa per 15 anni e condannato al pagamento di 10 milioni di dollari. Auguri e figli maschi.

Dem alla prova dell’Iowa: la vittoria vale la nomination

La tradizione del XXI secolo è che, fra i Democratici, la gente dello Iowa ci azzecca sempre: chi vince qui ottiene la nomination. Qui si imposero Al Gore nel 2000 e John Kerry nel 2004 e, a sorpresa, Barack Obama nel 2008, iniziando così a costruire l’inattesa vittoria su Hillary Clinton. Che, nel 2016, la spuntò, ma proprio di poco, su Bernie Sanders. Quest’anno, il “vecchio Bernie” parte favorito, con sondaggi però volatili e meccanismi di voto complicati sia da pronosticare che da interpretare: le regole sono cambiate e chi vince ai suffragi può perdere ai delegati.

Fra i repubblicani, invece, chi vince nello Iowa spesso poi non ottiene la nomination (la regola però non vale se c’è un presidente che briga la conferma): nel 2000 vinse George W. Bush, ma nel 2008 fu primo il pastore ed ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee (John McCain, che poi ebbe la nomination, fu solo quarto); nel 2012, vinse l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum (e Mitt Romney arrivò secondo per decimi di punto); infine nel 2016 Ted Cruz batté Donald Trump d’una corta incollatura. Quest’anno, fra i Repubblicani non c’è partita. Per i Democratici – dieci gli aspiranti in lizza, mentre Mike Bloomberg sarà sulle schede solo dal Super Martedì del 3 marzo –, la vigilia è stata febbrile, segnata da sondaggi annullati – il Des Moines Register non ha pubblicato l’ultimo suo rilevamento, perché un errore poteva avere falsato la raccolta dati – e da altri che confermavano le gerarchie fin qui emerse: Joe Biden e Bernie Sanders in testa, col 25% delle preferenze ciascuno, Pete Buttigieg al 21%, Elizabeth Warren al 16%, Amy Klobuchar al 5%, gli altri indietro. Test “last minute” davano, però, Buttigieg davanti, seguito da Sanders, Biden, Warren, Klobuchar: potrebbero essere i superstiti d’un voto che non è determinante, ma di solito innesca ritiri. Forzato trarre dal Superbowl presagi elettorali: lo hanno vinto i Kansas City Chiefs battendo 31 a 20 i San Francisco 49ers. È un dato di fatto, però, che la partita più attesa dell’anno negli Stati Uniti, la finale del campionato di football americano, è andata a una squadra dell’“America di mezzo”, che vota Trump, contro una squadra della California che, comunque vada, vota contro Trump. Durante la partita c’è pure stato un match milionario fra Trump e il suo collega e rivale miliardario Bloomberg: entrambi hanno comprato uno spot da un minuto. Il presidente per esaltare quanto fatto, in tema di giustizia. Il candidato per sostenere la necessità di prevenire la violenza da armi da fuoco. Nello Iowa, dove i caucus aprono la stagione delle primarie, molti candidati Dem hanno seguito il SuperBowl organizzando party ad hoc con i propri sostenitori; altri hanno girato pub e bar per incontrare gli elettori durante la partita. La Klobuchar definisce i caucus dello Iowa “il Superbowl delle primarie”.

È l’ora del “ciascuno contro tutti gli altri”, sullo sfondo del “tutti contro Trump”. I moderati se la prendono con Sanders “il socialista”; il senatore del Vermont ha difensori scontati, come le deputate di The Squad e il regista Michael Moore, e indesiderati, come Trump, che pare averlo scelto come suo rivale favorito. Biden, dice: “altri quattro anni di Trump cambieranno l’anima della Nazione”; La Warren: “È il nostro momento nella storia”; Buttigieg: “Siamo alla vigilia della vittoria”.

Nella giornata del voto, però, i tre senatori candidati, Klobuchar, Sanders e Warren, hanno dovuto seguire in Senato gli sviluppi del processo sull’impeachment, che si concluderà domani. Lo Iowa, grande quasi come mezza Italia (145mila kmq), una pianura uniforme con poco più di tre milioni d’abitanti, inizialmente francese, venduto nel 1803 da Napoleone con tutta la Louisiana agli Stati Uniti, è Stato di gente solida, quadrata, con idee chiare, che sa distinguere nei campi il grano dal loglio. D’inverno, qui la terra è dura, compatta, gelata, coperta a perdita d’occhio dalla neve: ora, ce n’è un sacco.

La Siria terra contesa “Erdogan resiste a Idlib sognando Kobane”

Otto morti e diversi feriti. La Turchia comincia a pagare lo scotto della sua incursione in Siria. E ieri ha dovuto ammettere che diversi soldati sono morti a Idlib, l’ultima roccaforte dei cosiddetti “ribelli” contro il regime di Bashar al Assad a nord ovest del Paese. La situazione è precipitata velocemente. Ankara ha risposto al fuoco e centrato diverse postazioni militari dell’esercito siriano. I morti sono almeno una trentina. Poi ha mandato rinforzi, una colonna di mezzi militari pesanti a sostenere le varie milizie islamiche che combattono contro il regime. E ha cominciato a bombardare diverse zone del Paese colpendo anche obiettivi civili.

Una escalation inaspettata, soprattutto dopo gli ultimi incontri tra il presidente russo Vladimir Putin, da sempre sostenitore di Assad, e quello turco Raceep Erdogan. Gli argomenti sul piatto sono stati molti. Dalla Libia alla Crimea. Dai missili S-400 ai nuovi accordi economici. Tra questi anche la Siria che vede impegnate le due potenze su fronti opposti. Idlib è stata al centro di discussioni e sembrava fossero arrivati ad un accordo.

La Russia spinge per l’unità territoriale e Idlib rimane l’ultima città nella parte occidentale del Paese fuori dal controllo del regime siriano. La Turchia sostiene l’opposizione, oramai per lo più milizie islamiche che ha addestrato ed equipaggiato da anni contro Assad. E ha utilizzato ad Afrin, nel 2018, nell’ultima incursione nel nord est della Siria cominciata a ottobre scorso, e quindi in Libia. I miliziani si sono macchiati di crimini e violenze. Pulizie etnica, stupri, e rapimenti di civili. Il tutto sotto la bandiera turca.

Dopo Astana, i giochi sembravano fatti, ma i combattimenti non si sono fermati, anzi. Il regime e la Russia si sono ritrovati con un fronte caldissimo. La popolazione locale e le milizie hanno protestato fortemente contro Ankara e l’accordo. E la Turchia non ha potuto far altro che dispiegare ulteriori forze per salvare la faccia, per poi essere colpite dal regime che mai prima di ieri aveva avuto apertamente come obiettivo i soldati turchi. Mosca ha subito divulgato una nota cercando di calmare gli animi, spiegando che c’è stato un errore nelle comunicazioni e che nessuno sapeva che in quel punto ci fossero soldati turchi.

“È tutto un teatrino”, spiega Roj Moussa, giornalista curdo siriano dell’agenzia Npa. Moussa si trova vicino al fronte per seguire la situazione. Secondo lui ci sono patti ben più importanti che non riguardano solo la Siria e in questo momento la Turchia sta solo cercando di non perdere il sostegno delle milizie che a loro volta non vogliono soccombere ad Assad. “Non c’è dubbio che Idlib tornerà in mano al regime, è solo questione di tempo, bisogna capire che cosa la Turchia ha ricevuto in cambio”. E nel nord-est della Siria si teme una nuova incursione turca.

Ieri mattina la Turchia ha cancellato il pattugliamento congiunto con la Russia a est di Kobane. È la prima volta da quando hanno cominciato più di due mesi fa. Kobane, la città simbolo della resistenza allo Stato Islamico, la prima a non essere caduta in mano a Daesh (Isis), ed emblema della rivoluzione del Rojava, sembra essere il nuovo obiettivo di Ankara. “Vogliono costruire una nuova via della seta, e Kobane è necessaria essendo sul confine con la Turchia e collegata a Tal Abyad e Sere Kanye”, continua Moussa. Queste ultime sono sotto il controllo turco da ottobre. Nelle scorse settimane la Turchia ha dispiegato diversi mezzi al di là confine. Questo non ha fatto altro che alimentare voci di un possibile attacco. “Nessuno sa veramente se attaccheranno oppure no, ma sembra chiaro che è un possibile obiettivo”, spiega Thomas McClure del Rojava Information Center, centro di ricerca basato nel nord-est della Siria.

Prima di cominciare una nuova incursione devono però finire le operazioni militari a Idlib. “Senza contare che incontreranno una resistenza senza precedenti. Kobane ha già dimostrato di essere una città inespugnabile e le Forze Democratiche Siriane (Fds) sono le milizie meglio organizzate di tutta la Siria”. Le Fds comprendono quasi 100mila uomini e donne che hanno sconfitto militarmente Isis a marzo 2019. E sostenuti nella guerra contro Isis dagli Stati Uniti che oggi hanno una posizione molto scomoda. Washington ha abbandonato gli alleati, ha dato il via libera alla campagna turca, per poi tornare sui suoi passi. E tornare nel Paese perdendo però influenza in molte zone lasciando mano libera a Mosca. Ed è successo più di una volta che quando un convoglio americano incontra quello russo sulle strade nel nord-est, i soldati sono arrivati alle mani per capire chi avesse la precedenza.

Non lavorano a Natale: Autogrill li sospende

Se a Palazzo Chigi e al ministero dei Trasporti continuano a prendere tempo sulla revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi) per sanzionare le gravi colpe e inadempienze all’origine del crollo del ponte Morandi, il gruppo Atlantia e la famiglia Benetton che lo controlla hanno sulla loro scrivania un’altra grana che arriva da Autogrill, l’azienda acquisita nel 1995 che gestisce il business del settore ristorazione in viaggio. Da una settimana una quindicina di lavoratori di punti storici lungo la rete autostradale (Cantagallo, Riviera Sud, Stura Ovest, Villoresi Est) sono stati sospesi dal lavoro perché – gli ha contestato Autogrill – “si sono astenuti dalla prestazione festiva, nel corso del periodo natalizio”. Autogrill, infatti, nella raccomandata inviata ai dipendenti, per la quasi totalità donne e diversi delegati sindacali, ha imputato loro una serie di mancanze che vanno dalla “grave insubordinazione” ai “gravi danni derivanti da condotte insubordinate” fino all’“assenza ingiustificata”.

“Ma l’astensione al lavoro festivo è un diritto confermato da sentenze della magistratura in diversi gradi di giudizio e il lavoratore non è obbligato a prestare servizio”, denuncia Fabrizio Russo della segretaria nazionale Filcams Cgil che giudica la comunicazione disciplinare molto grave “mettendo a rischio il futuro stesso dei lavoratori che potrebbero essere licenziati”.

La storia che intreccia il gruppo Autogrill – oggi primo operatore al mondo nei servizi di ristorazione per i viaggiatori con 4.000 punti gestiti in 31 Paesi diversi, circa 7.000 dipendenti in Italia e un bilancio 2018 con ricavi in crescita a 4,695 miliardi di euro – e uno sparuto gruppetto di lavoratori è l’ennesima battaglia che si sta svolgendo nel settore del commercio, e che ora si estende a quello del turismo, per una regolamentazione degli orari di lavoro e delle aperture nei giorni festivi. I lavoratori sospesi, spiega la Filcams, si sarebbero infatti limitati a rivendicare un proprio diritto, confermato anche lo scorso dicembre dal Tribunale di Milano che ha riconosciuto ai dipendenti di Autogrill la possibilità di godere delle festività. In altre parole, anche nel turismo il lavoro festivo non è obbligatorio. Mentre nella lettera di contestazione inviata da Autogrill, l’azienda scrive che “in forza degli ordini di servizio, il lavoratore deve rispettare lo schema di turnistica assegnato che include giornate festive e domeniche”.

Per la Filcams “i fatti confermano un cambiamento inaccettabile nella condotta aziendale che si è accompagnato nell’ultimo periodo a un forte peggioramento delle condizioni di lavoro”. E di questo ne parlerà con Autogrill che ha accettato di fissare un incontro con il sindacato entro i prossimi giorni. Ma prima di sabato e domenica, perché sono festivi.