“Benetton ingiustificabile”: tra Sardine aria di scissione

Stavolta neanche loro potranno prescindere dal linguaggio dei partiti a cui si dicono allergiche. Sì, perché quella delle Sardine, ad appena tre mesi dalla loro nascita, è una crisi degna delle baruffe parlamentari: una scissione annunciata e poi smentita, con una spaccatura certa nel gruppo romano degli attivisti. Ieri infatti Stephen Ogongo, referente delle piazze della Capitale, ha annunciato la separazione dai 4 fondatori e dalla loro creatura, rimproverandoli di un insopportabile decisionismo e dell’ultima uscita a favore di fotocamera in compagnia del padrone di Autostrade Luciano Benetton. La gita a Fabrica, il centro di formazione fondato dall’imprenditore veneto, non è infatti piaciuta a parecchi attivisti in giro per l’Italia e così, dopo la presa di distanza della referente calabrese Jasmine Cristallo, è arrivata la protesta da Roma: “Per chi ha creduto nei valori espressi nelle piazze delle Sardine è stata una delusione enorme che ha minato gravemente l’integrità e la credibilità del movimento”.

Il comunicato è a firma del referente Stephen Ogongo, che però sostiene di parlare a nome di tutto il gruppo di Roma: “L’incontro che i fondatori delle Sardine hanno avuto con Benetton è stato sbagliato, inopportuno. Un errore politico ingiustificabile, ma solo l’ultimo degli errori che Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa hanno commesso nelle ultime settimane”. Poco dopo, però, ecco la smentita sulla pagina Facebook delle Sardine di Roma: “Le Sardine di Roma si dissociano completamente da quanto scritto da Ogongo, che ha agito in solitaria ed esprime unicamente il suo pensiero”. L’accusa al referente è quella di “aver passato la mattina a rimuovere i moderatori del gruppo Facebook di cui era volutamente unico amministratore”: “Non si può combattere contro i pieni poteri di un solo uomo al comando quando in realtà è ciò che si vuole. I ragazzi del gruppo romano sono sconcertati ma uniti più che mai”.

La polemica di Ogongo però resta. Secondo l’attivista, la visita delle Sardine a Fabrica sarebbe stata un assist di immagine ai Benetton nei giorni in cui si discute della revoca delle concessioni autostradali: “Chi lotta per la giustizia sociale e per un nuovo modo di fare politica non può dimenticare il grido di dolore delle famiglie delle vittime di Genova. Ciò che rende tutto sospetto è la tempistica di questo incontro, che avviene proprio nel momento in cui si è riaperta la trattativa per la concessione di Autostrade per l’Italia”.

E dunque ecco l’addio, seppur impropriamente a nome di altri: “Da questo momento le Sardine di Roma non fanno più riferimento ai quattro fondatori di Bologna né alla struttura che stanno creando”.

Ogongo ritiene che i bolognesi gestiscano in modo sempre più chiuso il movimento: “L’aspetto più grave di questa vicenda è l’aver assistito a diversi tentativi di limitare la discussione all’interno dei nostri gruppi Facebook, addirittura censurando alcune parole e cancellando diversi commenti e post critici. E non è la prima volta che accade, perché nelle ultime settimane abbiamo assistito a un controllo dall’alto delle comunicazione tra noi e verso l’esterno teso ad assicurarsi che i 4 leader fossero sempre messi in buona luce, anche a discapito di altri”.

La scissione che Ogongo si intesta sembra però più una protesta individuale, o al massimo di un piccolo gruppo. Che peraltro si scontrerebbe subito con un problema pratico, ovvero l’utilizzo del simbolo delle Sardine, depositato dai fondatori bolognesi. Impossibile, in caso di qualsiasi manifestazione dei fuoriusciti, che Santori e compagni accettino di concedere il marchio. A Ogongo, che già aveva causato imbarazzo ai vertici quando aveva annunciato sul Fatto la possibilità di scendere in piazza assieme a CasaPound, servirà almeno uno sforzo di fantasia.

Psiconauti del web: caccia alle nuove droghe sintentiche

Ore 00.00-00.30: inizio salita con sensazioni strane fisiche non spiacevoli ma nemmeno gradevoli. Ore 00.30-1.00: forti allucinazioni ad occhi chiusi e occhi aperti, confusione mentale, flusso mentale. Ore 1.00-2.00: stabilizzazione della realtà seppur rimangono le allucinazioni e una forte stimolazione sensoriale. 2.00-4.00: fase piu spirituale e introspettiva, momenti di eterno ritorno e bellissime visioni, stato di sogno, tempo rarefatto e sospeso, momenti molto profondi e riflessivi. Ore 4.00-6.00: attenuamento progressivo degli effetti. Ore 6.00-8.00: after-glow”. Questo è il resoconto online dell’esperienza di un utente dopo l’assunzione di una droga sintetica, nello specifico quella che definisce “4-AcO-DMT – Psiloacetina”.

Sul forum in cui la rintracciamo ci sono centinaia di descrizioni simili, organizzate per tipologia, componenti, effetti ed effetti collaterali. Si trovano finanche le indicazioni su come “redigere un report accurato” delle esperienze con queste sostanze, le sezioni sono divise per lingua, quasi tutti i titoli indicano le sostanze chimiche che compongono gli stupefacenti. L’area più nutrita riguarda le Nps, le nuove sostanze psicoattive: basta digitare le giuste parole chiave per avere accesso ad ogni tipo di informazione. Preziosissime.

A spiegare perché è Fabrizio Schifano, docente di Farmacologia clinica e terapia e primario di Psichiatria all’università dell’Hertfordshire. Il prof. Schifano guida un gruppo di ricerca multiprofessionale e multidisciplinare – epidemiologi, farmacologi, informatici e bioinformatici – che studia i cosiddetti “psiconauti”. “Sono una nicchia – spiega Schifano – che include laureati, dottori di ricerca, spesso chimici e neuroscienziati: usano la Rete per scambiarsi informazioni su queste nuove droghe”. Sperimentano. E sono in grado così di fornire informazioni su inediti accostamenti di principi attivi. “I database delle sostanze psicotrope e illegali redatti dalla commissione Ue e dall’Onu non contengono tutte le molecole attualmente in circolazione”, spiega Schifano. “Ma la domanda che mi faccio è: quante sono le sostanze a disposizione di un consumatore?”. In Rete sono state censite circa 4.500 nuove sostanze. Grazie agli scienziati del gruppo del prof. Schifano, che sono in grado di capire come si sintetizzano le molecole, è possibile compilare un database molto più nutrito, comprese le sostanze sintetiche mai intercettate (e per questo considerate legali). “Buona parte delle nuove droghe vengono sintetizzate in Cina, magari messe in siti specialistici. Gli psiconauti controllano questi siti e commentano, ne parlano. Abbiamo utilizzato un web crowler, uno strumento informatico che setaccia il web da 36 mesi e che ogni volta che identifica una nuova molecola la inserisce nel database”. E questo solo nell’openweb.

Basta scendere in profondità, per rintracciare molto di più: deepweb e darknet (la parte del web inaccessibile per vie tradizionali e per la quale servono software specifici e indirizzi già conosciuti) sono uno dei maggiori presidi per la vendita di sostanze illegali. I market hanno qualsiasi tipo di sostanza, si paga con criptovalute, l’anonimato è (quasi) garantito. Il rapporto annuale 2018 dell’International Narcotic Controls Board delle Nazioni Unite, ha indicato l’India come uno dei maggiori produttori di Nps, identificando un aumento del ricorso di Internet e soprattutto della darknet come mezzo per la vendita di queste sostanze, soprattutto dall’Asia. Secondo gli esperti, molti drug designer – ovvero coloro che sperimentano e danno vita a nuove molecole, partendo sia da manuali guida e sia dai brevetti scaduti dei medicinali non realizzati dalle case farmaceutiche – utilizzano anche questi canali per immettere nel circuito nuovi prodotti. “La tendenza globale dell’acquisto di droghe in particolare su piattaforme di trading nella darknet che utilizzano criptovalute – si legge nel rapporto –, si è già diffusa nella regione, inclusa l’India. Un recente studio ha identificato alcuni venditori che sembrano operare da sud dell’Asia e rintracciato più di mille elenchi di farmaci dall’India pubblicati su 50 cryptomarket”. Nel 2017, le autorità indiane hanno smantellato due farmacie illegali che vendevano droghe su Internet e sequestrato circa 130mila compresse contenenti sostanze psicotrope. Ma il mondo, e il web, sono immensi. La sfida è solo all’inizio.

“Dai Servizi nessun aiuto per noi. E via D’Amelio non fu solo mafia”

“I servizi? Da loro nessun aiuto, abbiamo indagato a lungo su alcuni agenti. Nessuno ci ha fermato e qualcuno lo abbiamo processato’’. L’indagine per strage su Berlusconi e Dell’Utri fu invece “imbarazzante”: “Tinebra si presentò con una copia de il Giornale sotto braccio, c’era un titolo molto critico nei confronti del collaboratore Salvatore Cancemi. Io e i colleghi Petralia e Tescaroli insistemmo per l’iscrizione. Poi, dopo una lunga e animata discussione il procuratore diede l’ok. Ma disse: non avrete la mia firma su nessun atto”. Scarantino? “Nessuno ci disse che era stato smentito, né si organizzò una riunione in Dna con i colleghi di Palermo’’.

Il banco è quello dei testimoni, il rischio è il fuoco di fila di domande che lo aspetta, ma l’approccio resta quello del pm: davanti ai giudici di Caltanissetta per oltre 7 ore l’ex pm Nino Di Matteo, oggi componente del Csm, rivive la sua indagine più difficile, quella sulla strage di via D’Amelio, con una bottiglietta d’acqua sul tavolo e una calma olimpica addosso: difende i poliziotti imputati (“nessuno mi ha detto che Scarantino fosse stato costretto dai poliziotti a dire qualcosa”) e replica punto per punto alle domande dei pm Gabriele Paci e Stefano Luciani e dei legali di imputati e parti civili, difendendo il suo lavoro e rilanciando dubbi ancora aperti: “Il pentito Santo Di Matteo e la moglie parlarono di infiltrati della Polizia in via D’Amelio, l’indagine venne fatta con il presupposto che qualcuno avesse preso qualcosa. Loro negarono persino di avere pronunciato quelle frasi, non incriminammo la moglie perché non avevamo elementi sufficienti per sostenere l’accusa in giudizio”. Alla fine delusa Fiammetta Borsellino, presente in udienza: “Penso ci sia una enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là la delle proprie discolpe, a capire cosa è successo. Penso che nessuno di questi magistrati abbia capito niente di mio padre”.

 

Ecco, in sintesi, cosa ha detto Di Matteo.

“La polizia non aveva rapporti con i 007”

“Nessuno mi ha detto, né io ho constatato, che la polizia giudiziaria avesse rapporti con i servizi. C’era un soggetto, Rosario Piraino, che si presentava come capocentro Sisde a Caltanissetta, che frequentava le stanze dei pm, ma anche una collega giudicante del Borsellino Uno. Dalle agende di Contrada scoprii che due giorni dopo la strage aveva accompagnato Contrada da Tinebra’’.

“Furto dell’agenda rossa primo depistaggio”

“In via D’Amelio non fu solo mafia. Il furto dell’agenda fu l’inizio del depistaggio. Sulle presenze istituzionali in via D’Amelio abbiamo contraddizioni insanabili. Ci siamo scontrati con reticenze istituzionali bestiali. Un ufficiale del Ros disse di avere saputo della presenza di Contrada nei minuti successivi alla strage. Quella pista, disattesa dalle testimonianze di chi era in barca con lui, fu avviata dal Ros”.

“Su Scarantino conflitto latente tra Procure”

Sono arrivato a Caltanissetta nel novembre del 1994. E non mi occupavo di via D’Amelio. Lo feci solo due anni e 4 mesi dopo dall’arresto di Scarantino. Ci accorgevamo che a Palermo le attività su Scarantino non andavano avanti, era una fase di conflitto latente tra le Procure.

“Normale preparare
i collaboratori”

“Era una prassi, io ne ho preparati parecchi: lei depone in tale data, questi sono gli argomenti, non entri in polemica, esponga con chiarezza. Questo è preparare”.

“Tinebra diede il mio numero al pentito”

“Mi ha lasciato messaggi, voleva tornare nell’inferno di Pianosa, sono stato io a parlarne per primo. Mi ha fatto incazzare che il mio numero gliel’abbia dato Tinebra. Per quale motivo? Non do spiegazioni. Mi è capitato che mi telefonasse Mutolo, Cancemi, Di Carlo, nessuno si è permesso con me di parlare di indagini’’.

“Nel ’94 Scarantino voleva essere smentito”

“Dopo il verbale dell’ottobre ’94 pensavamo che avesse l’obiettivo di essere smentito, fu uno scrupolo per monitorarlo”.

“Il Gruppo Falcone e Borsellino era con noi”

“Ci ha sempre coadiuvato in modo importante, negli interrogatori ricordo Bo e gli ispettori Maniscalchi e Ricerca. Ribaudo e Mattei avevano un ruolo marginale, il primo accompagnava Bo, il secondo lo rividi come testimone al processo contro un poliziotto condannato per mafia e fu una delle testimonianze più importanti”.

“Mai fatto riunioni
con Ilda Boccassini”

“Ero portato a stimarla moltissimo, ma il momento di conoscenza è stato limitato. Io non ho mai partecipato a una riunione in cui era presente e non ho mai parlato con lei. Appresi delle sue lettere sulla scarsa credibilità di Scarantino solo nel 2008 quando a Palermo mi occupavo di Spatuzza”.

Eur Spa, torna il dinosauro Gasbarra

Le grandi manovre del Mef per le nomine ai vertici di Eur Spa non piacciono al Campidoglio. In pole position per la poltrona di amministratore delegato dell’ente che gestisce il Rome Convention Center, infatti, ci sarebbe l’ex deputato dem Enrico Gasbarra. Ma per la società al 90% di proprietà del ministero Economia e Finanze e al 10% del Comune di Roma, cui appartengono gran parte degli edifici dell’omonimo quartiere in stile razionalista della Capitale (compreso il nuovo centro congressi, la cosiddetta “Nuvola” disegnata dell’archistar Massimiliano Fuksas), la sindaca Virginia Raggi aveva in mente un “manager lontano dalla vecchia politica” e comunque “il più possibile condiviso”, come trapela da fonti di Palazzo Senatorio, che non ne nascondo una certa irritazione.

Il nome dell’ex presidente della provincia e vicesindaco ai tempi di Walter Veltroni ha iniziato a circolare con forza nelle ultime ore negli ambienti del Pd, subito dopo la candidatura del titolare del Mef Roberto Gualtieri alle elezioni suppletive nel collegio ormai “rosso” di Roma Centro, ufficializzata dal Pd il 26 gennaio. L’accelerazione c’è stata qualche giorno dopo, il 31 gennaio, quando Eur Spa ha emesso una nota stampa in cui si afferma che “l’ad della società Enrico Pazzali ha comunicato ai consiglieri di aver informato il ministro Gualtieri dell’intenzione di concludere il proprio mandato, incontrando la piena attenzione e sensibilità”, procedendo poi a “ringraziare gli azionisti, il cda e tutta la struttura societaria per il sostegno e la collaborazione ricevuti”. Righe fra le quali si legge una richiesta di uscita, neanche tanto velata, formulata dal ministero.

L’attuale ad Enrico Pazzali, infatti, da luglio 2019 è anche presidente della Fondazione Fiera Milano, ente ritenuto da più parti in concorrenza con quello capitolino. Ma il doppio incarico fin qui non aveva creato problemi ai vertici di via XX Settembre, che per due volte in questi mesi hanno respinto le dimissioni del manager, autore della ripresa che in questi 5 anni ha chiuso il concordato preventivo e riportato i conti in attivo.

Il nome di Gasbarra era stato fatto nelle scorse settimane proprio fra i papabili candidati dem alle suppletive di Roma Centro, corsa cui il Pd ha poi iscritto Gualtieri. A luglio 2019, l’attuale segretario nazionale (e presidente della Regione Lazio) Nicola Zingaretti, lo ha nominato presidente dell’Isma, una delle ipab (istituti pubblici di assistenza e beneficienza) della che gestisce per conto della Regione oltre 300 edifici di pregio nella Capitale. Il Fatto ha provato a contattare Gasbarra, ma dal suo entourage affermano che “ “non ci sono commenti da fare su cose che non esistono”. Dal Mef, spiegano che “ogni discorso in merito è ancora prematuro”.

Più precari che cervelli in fuga. In dieci anni via in due milioni

In questi anni si è molto parlato di “cervelli in fuga”. Ovvero delle menti più brillanti del Belpaese che scelgono di andare a lavorare all’estero perché l’Italia offre poche possibilità. In questo c’è del vero, ma il fenomeno è più ridotto di quanto si pensi, perché la maggior parte dei connazionali che emigra lo fa passando da uno stato di precarietà interna a una precarietà oltreconfine. Vediamo qualche numero. Nel 2018, secondo l’Istat, gli italiani emigrati all’estero sono stati circa 157.000. Nel 2017 erano 148 mila e nel 2016 140 mila: il trend è in crescita da almeno dieci anni. In realtà il numero è approssimato per difetto, ma su questo ci torneremo dopo. Tra queste persone abbiamo un 30% di laureati, un 35% con un diploma e un altro 35% senza un titolo di studio o con la licenza media. Dei 47.100 laureati, però, solo il 10% (circa 4.710) partono con un contratto di lavoro già in tasca o un assegno di ricerca. Il 3%, dunque, è il dato reale dei cervelli in fuga, ovvero gli italiani che si spostano perché chiamati a lavorare all’estero da aziende, multinazionali o università. Il restante 20% di laureati (9.420 circa) sono giovani che emigrano in cerca di lavoro. Che magari troveranno, in maniera stabile, solo dopo 3-4 anni.

Secondo gli indicatori di Filef (Federazione italiana lavoratori emigranti e famiglie), per almeno tre anni la maggior parte di loro svolgerà lavori precari e a tempo determinato. Questo riguarda ancora di più i 54.950 (35%) con in tasca un diploma e il restante 35% che un titolo di studio non ce l’ha. Meno titoli si hanno, più si troveranno lavori non solo precari, ma anche di basso livello economico. Camerieri o consegne, ad esempio. Insomma, per chi sceglie di andarsene non c’è l’eldorado, ma condizioni precarie che possono continuare per anni.

“Quello dei cervelli in fuga è un falso mito. Ci sono, ma la maggior parte delle persone se ne va per disperazione o perché convinto che comunque le possibilità di lavoro all’estero siano migliori. Nella maggior parte dei casi abbiamo connazionali che passano da una condizione di precarietà in Italia alla medesima situazione all’estero. Con la differenza che fare il precario in Germania, Belgio o Francia è meglio che esserlo in Italia: si guadagna di più (almeno il 20% nei tra Paesi citati, ndr) e le condizioni generali del lavoratore sono migliori”, spiega Rodolfo Ricci, coordinatore nazionale di Filef. Che da poco ha pubblicato online l’archivio “scrivere le migrazioni”, con oltre 15 mila pagine di materiale, storie, fotografie delle migrazioni da e per l’Italia.

Un altro dato interessante sull’emigrazione è che, tra i giovani che si spostano (sotto i 30 anni), il 20% sono ragazzi con età inferiore ai 18 anni. “Questo ci dice che a partire sono interi nuclei familiari con figli al seguito. Ma vanno via anche over 50 che hanno perso il lavoro in Italia (11,3% degli iscritti all’Aire nel 2017) oppure pensionati over 65 per una questione di tasse (7,1%)”, ha spiegato, in una recente audizione in Senato, Matteo Sanfilippo, direttore scientifico della Fondazione Centro Studi Emigrazione. Se prima a spostarsi erano in maggioranza maschi, ora il dato si è quasi pareggiato: il 47% di chi parte sono donne.

Le mete più gettonate in Europa sono Germania, Regno Unito (pre-Brexit), Francia, Svizzera, Belgio e Spagna nella zona di Barcellona e della Catalogna. Tra le mete extraeuropee, Stati Uniti, Canada e Australia. Fra le regioni di provenienza, invece, la Lombardia è in testa con circa 22 mila partenze, seguita da Veneto e Sicilia, circa 11 mila, poi Lazio con 10 mila e Piemonte con 9 mila. La città da cui si parte di più è Roma (8.232), poi Milano (6.273), Torino (4.131) e Napoli (3.561).

In totale, dal 2008 al 2018, gli italiani emigrati all’estero sono stati 816.000, ma il dato, come dicevamo, va inteso per difetto, perché l’Istat registra solo gli italiani che si sono iscritti all’Aire (il registro degli italiani all’estero) in quel dato anno. Di solito, però, chi parte s’iscrive al registro solo dopo alcuni anni. Per fare una stima precisa occorre raffrontare il dato Istat con quello degli altri Paesi, e così si vede che il numero dei nostri emigranti è più alto di due volte e mezzo. Un dato eclatante è il raffronto con la Germania. Dal 2011 al 2015, secondo Istat, i nostri connazionali emigrati lì sono 60.700 circa, per l’istituto di ricerca tedesco sono invece 274.285. Quattro volte e mezzo in più: un record. Secondo le ricerche di Filef, dal 2008 al 2018 sono circa 2 milioni gli italiani che hanno abbandonato il nostro Paese in cerca di un avvenire migliore.

“Accolti dai cinesi in tuta, li abbiamo riportati qui”

Ho deciso di partire la settimana scorsa, quando abbiamo stabilito di approntare questo viaggio per rimpatriare i nostri connazionali che lo chiedevano. Mi sembrava mio dovere come medico e ancora di più come Viceministro. Abbiamo lavorato insieme: Ministero degli Esteri, della Salute e della Difesa. L’Aeronautica militare ha preparato un Boeing 767, lo ha lavorato all’interno per creare tre aree, proprio come quelle che si fanno negli ospedali quando c’è una zona infetta: c’era un’area verde, pulita; un’area gialla, dove si dovevano cambiare i vestiti e un’area rossa, dove al ritorno hanno viaggiato i nostri concittadini e anche noi.

Siamo partiti da Pratica di Mare (Roma) domenica mattina prima delle 6. Eravamo sedici a bordo, sei sanitari – due del ministero della Salute, due dell’Aeronatica, due dell’Esercito – e dieci membri quipaggio compresi i piloti. Circa undici ore di volo per arrivare a mezzanotte (ora locale) a Wuhan, dove ci aspettavano i nostri connazionali. Durante il volo abbiamo fatto diverse riunioni fra noi per organizzare il seguito. Discutendo di come evitare contatti tra i piloti e noi e sul lavoro da fare una volta a terra. A Wuhan l’aereo si è fermato non lontano dal gate, ma non unito dal finger. Siamo scesi dal portellone posteriore perché lì era l’area rossa. Siamo arrivati con un bus nel gate. Lì siamo stati accolti dai rappresentanti cinesi. Alcuni solo con la mascherine, gli altri con la tuta, come noi che eravamo tutti coperti fino al cappuccio: maschera protettiva, occhiali, guanti e copriscarpe. I cinesi erano in giallo e noi bianco. Ci siamo fermati, siamo entrati, c’erano già alcuni connazionali che aspettavano dalle sei del pomeriggio: non solo italiani, anche italiani con i coniugi cinesi e i figli. Prima una quindicina, poi sono arrivati gli altri. C’erano diversi bambini, quattro sotto l’anno di età e altri fino a 10 anni. Molti studenti e persone che lavorano in Cina, chi da poco e chi da molti anni, alcuni per proprie aziende, altri per imprese cinesi.

Le autorità cinesi avevano fatto un primo controllo, noi l’abbiamo ripetuto come era previsto e poi li abbiamo trasferiti in un’altra aerea. Un controllo molto semplice. Chiedevamo come stessero. Chiedevamo se fossero stati a contatto con soggetti con sintomi da Corona Virus, se avessero manifestato loro stessi alcuni sintomi. Abbiamo quindi misurato la febbre e richiesto se avessero problemi medici, cardiaci o d’altro genere. Questo in aggiunta a quanto già comunicatoci dall’Unità di crisi della Farnesina. Ci sono volute diverse ore durante le quali, lì da Wuhan, sono partiti altri due voli, tutti con controlli molto severi.

La nostra lista era di 57 però un connazionale aveva la febbre. Un ragazzo di poco meno di 18 anni che è lì per un progetto di studi ed è stato bloccato dalle autorità cinesi secondo i protocolli. Abbiamo insistito per controllarlo anche noi. Io e il colonnello medico Alberto Autore dell’Aeronautica. La febbre c’era, 38.2 e quindi, con gran dispiacere, anche per i nostri protocolli, non poteva partire. Abbiamo chiesto che fosse portato in ospedale. Siamo stati informati che lo avrebbero rimandato a casa. È probabile che non si tratti del nuovo virus.

I passeggeri sono saliti a bordo nell’area rossa, divisa da un telo trasparente per limitare il contatto con noi che dovevamo controllare le loro condizioni. Nelle prime file abbiamo messo bambini. La prima delle file era allestita anche con un fasciatoio per i più piccoli. Nell’area vi era accesso a due bagni ed il personale ha distribuito del cibo. Sui sedili avevano già cibo secco, mascherine, guanti, una penna per riempire i moduli e un sacchetto dove rimettere le cose sporche. Durante la notte hanno riposato tutti, anche i bambini. Abbiamo controllato i passeggeri ogni ora. Molti, nel sonno, non se ne sono neanche accorti. Lunedì mattina siamo atterrati nuovamente a Pratica di Mare. Per loro nuovi controlli e il trasferimento alla Cecchignola per la quarantena.

Al rischio di contagio, francamente, non ho mai pensato. I protocolli erano molto chiari e sicuri. Dovevamo andare a prenderli e ci siamo andati. Il nostro compito era rassicurare tutti. E così abbiamo fatto! L’emergenza, per chi fa questo lavoro, è routine.

*Medico chirurgo, viceministro della Salute

Pechino attacca gli Usa “Crea panico e non aiuta”

Washington ha diffuso il “panico” sull’epidemia del virus 2019-nCoV, propagatosi dalla città di Wuhan nel resto del mondo, e non ha “provveduto ad alcuna assistenza sostanziale”. La Cina punta il dito contro gli Stati Uniti. E lo fa nel giorno in cui le principali borse del Dragone, trascinate a fondo dal timore del morbo, bruciano 420 miliardi di dollari. Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri, ha usato un insolito briefing online con i media, in linea con lo stato di emergenza in vigore nel Paese e gli inviti delle autorità a non uscire di casa, per mettere nero su bianco l’irritazione di Pechino per le mosse di Washington, a partire dal bando all’ingresso per i cittadini cinesi e gli stranieri provenienti dalla Cina. Da alcuni giorni il ministro degli Esteri Wang Yi va ripetendo che “gli amici non si comportano così” nei momenti di difficoltà, lavorando all’isolamento piuttosto che sulla solidarietà. E la portavoce ha esplicitato il concetto, accusando alcuni Paesi, specialmente gli Stati Uniti, di reazioni fuori misura in considerazione del loro status di Paesi sviluppati e con sistemi sanitari avanzati, incuranti addirittura delle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Washington “non ha provveduto ad alcuna assistenza sostanziale, ma ha creato panico ininterrottamente”, ha commentato Hua, rispondendo a quanto aveva detto ieri Donald Trump. “Abbiamo offerto aiuto alla Cina” per l’emergenza del coronavirus, aveva dichiarato il presidente degli Stati Uniti in un’intervista a Fox, sottolineando che gli Usa hanno praticamente chiuso i viaggi con la Cina. Pechino, invece, è in difficoltà e ha bisogno di materiale protettivo ed equipaggiamenti medici con l’epidemia che continua a tenere un passo sostenuto: le autorità cinesi hanno registrato 57 nuovi decessi nella sola giornata di ieri e i 361 morti conteggiati hanno superato i 349 della Sars del 2003, mentre il numero dei contagiati è salito oltre quota 17.300 (tripli rispetto alla Sars) e le persone guarite sono arrivate a 527. “Quello di cui la Cina necessita urgentemente allo stato sono le maschere mediche, le tute e gli occhiali protettivi”, ha proseguito la portavoce.

Ieri si è riunito il Comitato permanente del Partito comunista sotto la guida del presidente Xi Jinping per mettere a punto “le risposte da dare all’emergenza” e per “studiare i prossimi passi”. A Hong Kong, intanto, un nuovo fronte di scontro ha portato centinaia di medici e paramedici a scioperare chiedendo al governo locale la chiusura della frontiera con la Cina, come anti-coronavirus. La governatrice Carrie Lam si è rifiutata in un primo tempo di fare di più oltre alla riduzione dei collegamenti dei trasporti con la Cina continentale.

Il virus 2019-nCov mette a dura prova l’economia del Dragone. Nel primo giorno di ritorno al lavoro, sono state almeno 24 le province e municipalità cinesi, come Shanghai, Chongqing e il Guandong, che hanno rinviato la ripresa delle attività economiche e produttive a non prima del 10 febbraio per i timori di contagio. Sono aree che nel 2019 hanno pesato per oltre l’80% in termini di contributo al Pil della Cina e per il 90% all’export. Lo Hubei, cuore dell’epidemia, non ripartirà prima del 14 febbraio, sempre che non si richieda una “appropriata estensione” del periodo di ferie, ha scritto venerdì il Quotidiano del Popolo. I timori scatenati dal virus hanno trascinato a fondo le Borse del gigante asiatico che, tra Shanghai e Shenzhen, hanno mandato in fumo 420 miliardi: nel primo giorno di scambi dopo la lunga pausa del Capodanno cinese, la prima ha perso il 7,72%, la seconda l’8,41%.

Lega: “I bambini arrivati dalla Cina via da scuola”

I bambini “di qualsiasi nazionalità, italiani compresi, giunti in Italia dalle aree affette della Cina”, restino fuori dalle scuole. Anche se non presentano sintomi del virus 2019nCoV. La richiesta, figlia della paura diffusa nel Paese dal morbo partito dalla città di Wuhan, è contenuta in una lettera indirizzata al ministro della Salute Roberto Speranza e firmata da tre governatori del Nord – Luca Zaia del Veneto, Attilio Fontana della Lombardia e Massimiliano Fedriga del Friuli Venezia Giulia – e dal presidente della Provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti.

La circolare diramata dagli uffici di Lungotevere Ripa il primo febbraio, premettono i quattro esponenti della Lega, “fornisce indicazioni sulla gestione dei soggetti asintomatici che devono frequentare le classi senza restrizioni”. Poiché però, si legge ancora “i genitori dei bambini che frequentano i servizi educativi per l’infazia e le scuole primarie hanno comunque manifestato preoccupazione” e “l’Organizzazione Mondiale della Sanità (…) afferma che la trasmissione in soggetto asintomatico è ‘rara ma possibile’”, Zaia, Fontana, Fedriga e Fugatti sollecitano “un periodo di 14 giorni prima del rientro a scuola”.

“Vogliamo dare solo una risposta all’ansia dei tanti genitori – ha argomentato il governatore veneto – visto che la circolare non prevede misure in tal senso”. “Una regola sanitaria minimale”, che “prendiamo anche per la meningite e la Tbc”. Un netto cambio di rotta rispetto alle parole pronunciate solo il primo febbraio: “Si può comprendere l’apprensione dei genitori, ma non ci deve essere fobia per gli studenti o le persone asintomatiche. Quindi possono frequentare la scuola o andare al lavoro”, sottolineava Zaia commentando la circolare che ora contesta.

“Le misure adottate sono quelle necessarie a tutelare la salute della popolazione”, la risposta del ministero della Salute. Che in una nota spiega: “Tutte le persone che rientrano dalla Cina, se manifestano sintomi delle alte vie respiratorie o se sono state in contatto con portatore di coronavirus negli ultimi 14 giorni, sono soggette a controllo sanitario così come i loro contatti”.

Critico anche il Miur: “Non voglio che si creino inutili allarmismi, la propaganda non fa bene – risponde la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina – Non ci sono motivi per escludere gli alunni dalla scuola. Nella circolare abbiamo spiegato cosa fare e in quali casi, quindi tranquillità assoluta”.

L’iniziativa infiamma lo scontro. Italia Viva parla di “speculazione”, mentre Chiara Gribaudo per il Pd condanna un altro “atto di razzismo” a Torino, con una cinese costretta a scendere da un autobus.

La psicosi da Coronavirus ha colpito anche l’università di Firenze e nello specifico il polo del Design di Calenzano, a pochi km da Prato, dove studiano circa mille studenti dei corsi triennali e magistrali.

Ieri mattina a “Controradio” una studentessa ha denunciato un post pubblicato da una docente sulla pagina del suo laboratorio in cui invitava gli studenti “rientrati in Italia dalla Cina dopo il 10 gennaio 2020” a “non presentarsi” all’appello di esame del 28 gennaio se provenienti dalle zone più colpite dal virus ovvero “Wuhan, Ehzou, Xianning, Huanggang”. Per questi, l’esame sarebbe stato rinviato al 18 febbraio. La Scuola è molto frequentata da studenti di origine cinese che spesso puntano a lavorare nel mondo della moda e del tessile. Nel pomeriggio poi, su indicazione del Dipartimento, il post è stato rimosso e l’ateneo ha preso le distanze dalla docente parlando di “iniziativa personale”.

Da chiarire, invece, i contorni di un episodio denunciato da Mauro Buschini, presidente del Consiglio regionale del Lazio, secondo cui alcuni studenti dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone avrebbero scatenato una “sassaiola” contro i colleghi di nazionalità cinese. All’origine il caso di una studentessa malata risultata poi negativa al test dello Spallanzani. In serata la direttrice Loredana Rea ha ridimensionato l’accaduto spiegando che nell’istituto “non si è verificato alcun episodio di violenza”. In serata è intervenuto anche il sindaco Nicola Ottaviani (Lega): “Notizia falsa”. “Speriamo almeno che i tristi interpreti di questa pagliacciata, a tutti i livelli, sappiano chiedere scusa”, conclude la nota.

Il talent “animalier”: mascheroni al virus tv

Angelo, Coniglio, Mostro, Mastino, Leone… Vedendo su Rai1 la sfilata di pupazzi del Cantante mascherato, musi e zampe strappati a qualche carnevale di paese, veniva da chiedersi se non fosse il caso di chiedere a Milly Carlucci di segnalare il suo talent show all’Organizzazione Mondiale per la Sanità. Siamo in emergenza, per difendersi dal nuovo coronavirus cinese le classiche mascherine sembrano essere poco efficaci, dunque sarebbe il caso di provare questi mascheroni giganti, tra i più trucidi travestimenti a memoria di telespettatore. Sia per la tenuta stagna necessaria alla gara (una serie di concorrenti a viso coperto vengono giudicati da una giuria inspiegabilmente a capo scoperto), sia per la bruttura intrinseca delle maschere, il virus potrebbe astenersi dal contagio e tornare a rifugiarsi nei più attrattivi pipistrelli. Scoprire poi che dietro il mascherone si nascondono Adriano Pappalardo, Valerio Scanu o il vincitore Teo Mammucari (così mascherato da non essere nemmeno un cantante) potrebbe dare al “corona” il colpo di grazia. Emergenze sanitarie a parte, Il cantante Mascherato è l’ennesima conferma di come l’attuale tv degli adulti, a forza di raschiare il fondo del proprio barile, sia diventata la brutta copia della vecchia tv dei ragazzi. Concepito in Corea del Sud, questo format autorincoglionente si è diffuso con gran successo in tutto l’Occidente. E brava Seul. Forse Antonio Razzi ha ragione, forse nel regime di Kim Jong-un non è tutto da buttar via.

Non solo Santori e gaffe: le Sardine sono molto altro

Lasciandosi fotografare accanto a Luciano Benetton, le quattro Sardine fondatrici hanno commesso un errore allucinante. Oliviero Toscani, che ovviamente se la sta ridendo un mondo, ha detto che quelle foto dovevano rimanere private. Figurarsi: nulla, a certi livelli, resta privato.

Quando ho messo in scena Il cazzaro verde a Bologna il 22 gennaio, ho invitato tutti e quattro. Sarebbero venuti, ma non appena hanno saputo che in platea c’era anche Bonaccini hanno cambiato idea per non farsi strumentalizzare. Alla fine è venuta solo Giulia Trappoloni, non come Sardina ma come nata in provincia di Arezzo (come me). Anche i muri sapevano che le Sardine avrebbero votato Bonaccini, ma ho apprezzato il loro rigore. Quel rigore che non c’è stato con Benetton. Se è lecito visitare Fabrica, il “centro per sovversivi” creato da Toscani per dar spazio alle giovani eccellenze italiane, farsi fotografare (per giunta sorridenti) fianco a fianco con Luciano Benetton è irricevibile. E regala argomenti a chi, rosicando e delirando, sostiene che le Sardine siano un esperimento di laboratorio creato da Prodi e Pd.

Le Sardine non esistono, come recita il titolo del loro libro in uscita per Einaudi: “Non esistono” nel senso che sono tutti e nessuno. Elettori Pd, 5 Stelle, sinistra radicale, astenuti: persone unite anzitutto dal non volersi far evirare da Salvini. Mattia Santori, autoproclamatosi leader, ha ammesso a fatica l’errore dopo le critiche arrivate anche da Sardine colleghe (Jasmine Cristallo, vicina a Potere al Popolo). Bene. Ma non basta, perché Santori sta diventando per molti “antipatico a prescindere”. Da Floris è riuscito a farsi demolire da Senaldi e Sallusti. Quando è salito sul palco di piazza San Giovanni, di fronte a una folla meravigliosamente smisurata, ha indossato la faccia compiaciuta del rappresentante d’istituto che occupa a caso la palestra, per poi espettorare punti programmatici puerili: roba tipo “i politici non devono dire parolacce” (sticazzi!). Lercio lo ha ritratto mentre è al ristorante con la faccia assorta: “Mattia Santori sorpreso a fissare un menu per ore si giustifica: ‘Per ora so cosa non voglio!’”. Recensione strepitosa: Santori è a oggi perfetto come icona di milf e politically correct, ma non appena deve esibire contenuti denota lo stesso spessore delle sogliole anoressiche.

Peraltro Santori è un ex (ex?) renziano che il 4 dicembre voto sì perché voleva il cambiamento (sic). Somiglia più a Calenda che a Berlinguer, e non si capisce perché uno così debba sintetizzare mediaticamente un’esperienza così bella. Come ha scritto Paolo Flores d’Arcais su MicroMega: “L’endorsement al governo – a cui non chiedete nulla di scomodo – e la foto testimonial con i Benetton – perché farvi strumentalizzare? – sono due atti incoerenti con l’esplosione di speranze che avete suscitato. Il vostro non voler essere ‘divisivi’ assomiglia troppo al non dispiacere a nessuno. Il no a Salvini non basta”.

Santori ha un futuro assicurato da parlamentare (mi gioco una palla che sarà in Parlamento al prossimo giro), ma le Sardine non possono essere solo lui. Il loro è un movimento carsico, che se diventa soggetto politico non andrà oltre un futuro da costola minore del Pd, ma che nella società civile può continuare ad avere un ruolo nobilissimo: quello di sentinella e catalizzatore democratico di indignazione. Con Benetton siete stati ingenui, gonzi e coglioni. Ci sta: siete dentro un ingranaggio più grande di voi. Ora, però, diteci non solo cosa non volete: ma pure cosa volete. Partendo, magari, da revoca concessioni e prescrizione.