5G, una partita che l’Italia gioca in serie D

L’Italia, un Paese che fu di avanguardia tecnologica assoluta ai tempi della Olivetti (poi fatta a pezzi dalla stracciona concorrenza filoamericana), gioca oggi in serie D la trasformazione cosiddetta 5G, pagando un alto costo sociale in termini di salute, ambiente e sicurezza nazionale, senza trarre alcun beneficio sul piano occupazionale e del corretto sviluppo economico. Si cerca qualche soldo, senza piani né regole del gioco, privatizzando irresponsabilmente infrastrutture necessarie. Telecom e Omnitel (più qualche comprimario) si sono aggiudicate le frequenze per il 5G con complessivi 6.5 miliardi di Euro (circa il 10% del costo annuo dei nostri interessi sul debito pubblico!), spiccioli che entreranno nelle casse del Mise solo quando le frequenze saranno effettivamente occupate. Pochi, maledetti e neppure subito!

Stando a un rapporto del Defense Innovation Board, organismo di studio del Dipartimento della Difesa Usa dell’aprile 2019, “The 5G Ecosystem”, in questa partita (che ha in palio gli immensi benefici economici per il first mover, ossia per chi fissa lo standard tecnologico mondiale), in serie A gioca chi nelle infrastrutture “sovrane” investe tanti soldi pubblici, non chi se le vende: Cina (largamente capolista) Corea del Sud, Stati Uniti (in drammatica flessione) e Giappone. Regno Unito, Francia e Germania giocano in serie B. Singapore, Russia e Canada in C. La leadership della capolista è tanto impressionante quanto la sua capacità di costruire due ospedali in 15 giorni. 180 miliardi di dollari di investimenti negli ultimi due anni, le frequenze rigorosamente nelle mani di società nazionali, 350.000 ripetitori già attivi, (10 volte più che negli Usa), 10.000 già esportati, partnerships in tutto il mondo, sostenute attraverso altri miliardi di investimenti infrastrutturali pubblici (Via della Seta). La partita (vittoriosa fin qui) del 5G è la principale azione di egemonia globale del PCC, che impone le proprie scelte tecnologiche (nessun impegno sulle frequenze millesimali ma solo basse frequenze sub 6 Mhz), surclassando gli Stati Uniti anche in questo settore (in Usa le basse frequenze sono riservate al militare). Conseguenze? Mentre fino a tre anni fa, nella top ten dei giganti tecnologici ci stavano solo aziende americane, oggi ben quattro sono cinesi. Il sorpasso di capacità è avvenuto. Il DOD ne prende atto (i piani di reazione, contenuti nello stesso documento, sono ovviamente segretati). Le sue preoccupazioni esplicite sono per il futuro degli armamenti ipersonici di offesa e difesa (droni che superano anche di venti volte la velocità del suono), che necessitano la massima connettività e che, fuori dal territorio statunitense, soffriranno il vantaggio tecnologico cinese, con tutti i rischi di hackeraggio connessi. Con il 5G è in ballo il Nuclear C3 (Command, Control and Communication), non certo solo la nostra futura capacità di superare i Tir in curva, come annunciato in una intervista alla Stampa da quel buon uomo del responsabile innovazione Fca (sic)! Su quale altare preferiamo sacrificare ambiente e salute? Superare Tir in curva o facilitare il volo dei droni militari?

È folle per una squadra di D giocare in casa dei grandi, qui e adesso, senza un piano di medio termine e per di più svendendo i propri migliori asset (le reti infrastrutturali: non abbiamo imparato nulla da Autostrade?). I costi del 5G per popolazione e ambiente sono devastanti e per lo più ignoti. I benefici tutti per chi gioca nelle divisioni superiori. Per questo si sta formando un’ampia coalizione che, invocando il principio di precauzione, vuole una moratoria del 5G. Non siamo luddisti. Pretendiamo anzi un grande piano di investimenti pubblici per ricostruire le nostra capacità tecnologiche, portando il capitalismo italiano a guidare il campionato dell’ecologia e della sostenibilità, questione per noi più urgente dei sorpassi in curva.

La storia aggiustata che piace alla Ue

Che i parlamentari europei di tutti gli schieramenti ne sapessero poco di Storia e/o maneggiassero i fatti orribili avvenuti durante la Seconda Guerra mondiale con disinvoltura, lo si era già capito a settembre scorso, quando hanno votato la risoluzione che invita i Paesi membri a equiparare nazismo e comunismo (quest’ultimo chiamato anche indifferentemente stalinismo) in quanto totalitarismi equivalenti. Come è ormai chiaro, la risoluzione è stata il frutto della pressione dei Paesi di Visegrád in chiave anti-russa col beneplacito delle élite europee.

In questi giorni dedicati alla Memoria dell’Olocausto, sempre da lì (dal luogo sovranazionale delle Istituzioni europee) sono giunte altre prove di faciloneria storica e della tendenza a edulcorare il passato per corroborare la retorica comunitaria. Il 27 gennaio l’account Twitter della Commissione Europea parte con una citazione di Elie Wiesel, scrittore rumeno e premio Nobel per la Pace sopravvissuto a Auschwitz e Buchenwald: “Dimenticare i morti sarebbe ucciderli una seconda volta”. Poi prosegue: “75 anni fa, le forze alleate hanno liberato il campo di Auschwitz-Birkenau. Non dimentichiamo”. È proprio perché non dimentichiamo che sappiamo che Auschwitz-Birkenau è stato liberato dall’Armata Rossa, l’esercito di Stalin (e non dagli americani come nel film di Benigni), il 27 gennaio del 1945. Anche se tecnicamente l’Armata Rossa faceva parte delle “forze alleate”, a entrare nei campi fu, da sola, la Prima Armata del Fronte Ucraino Ivan Stepanovic Konev, che fino al ’43 si chiamava Fronte Voronež (ed era russo, non ucraino come sostengono assurdamente gli ucraini). I sopravvissuti lo sanno: lo ha scritto Primo Levi e lo ha ripetuto Liliana Segre, liberata dall’Armata Rossa a Malchow-Ravensbrück, nel suo magnifico discorso al Parlamento europeo. In quel contesto, il presidente David Sassoli – che secondo alcune fonti si è battuto per modificare la risoluzione di settembre – ha tenuto un bel discorso, un passo del quale vale la pena riportare: “Auschwitz è stato costruito da europei e noi siamo chiamati ad assumerci questa paternità perché quello che è successo incombe su di noi e ci chiama alla responsabilità”. È un’affermazione pedestre. Auschwitz, come altri campi di sterminio nei territori occupati dal Terzo Reich, è stato costruito dai tedeschi, nel 1940. Erano tedeschi colti, intrisi di ideologia razzista, imbevuti di nazionalismo e antisemitismo, che perseguivano un preciso programma di eliminazione degli ebrei definito sul lago Wannsee sotto il nome di “soluzione finale”. Non sono stati gli inglesi, né gli spagnoli, né i greci, né tantomeno “gli europei”, stante l’incontrovertibile dato che l’Europa come entità comunitaria nel 1940 non esisteva, e proprio in quegli anni Altiero Spinelli, dal confino, stava maturando le sue idee sul federalismo europeo (il Manifesto di Ventotene è del 1941). Mentre i tedeschi progettavano il genocidio, in Francia gli occupanti, aiutati dai collaborazionisti di Vichy, agevolavano la raccolta e il transito di prigionieri verso i campi di sterminio e in Italia i fascisti smistavano ebrei, prigionieri politici, minoranze etniche, disabili e omosessuali nei campi di Fossoli, Bolzano, Borgo San Dalmazzo, Sparanise, Afragola e Ferramonti, o li sterminavano in loco, sotto la regia dei tedeschi, nella risiera di San Sabba a Trieste. C’è stata una guerra civile, in Italia, perché la responsabilità degli eccidi non fosse “di tutti noi”. Erano tedeschi i lager e la metafisica identitaria della superiorità della razza ariana, era tedesco Himmler, si sentiva tedesco l’austriaco Hitler. I processi di Norimberga non avrebbero potuto tenersi indifferentemente a Capri, o a Parigi, o su una nave a largo del Tirreno, come usa oggi nei summit dei leader europei. Il nazismo doveva essere giudicato nella terra in cui era nato come sconcio nazionalista.

Nel 1949 il filosofo tedesco Theodor W. Adorno scrisse a Thomas Mann: “Noi tedeschi, ha detto candidamente un mio allievo, non abbiamo mai preso sul serio l’antisemitismo. Lo pensava sinceramente, ma io dovetti rammentargli Auschwitz. Occorre sempre fermarsi a riflettere per ricordarsi che il vicino di tram può essere stato un boia”. È il motivo per cui è impossibile immaginare che un nipote di Hitler sieda nel Bundestag o al Parlamento europeo, mentre in Italia la nipote del duce, già parlamentare europea, va in Tv, invitata, a dire che la senatrice Segre “fomenta l’odio” e a chiedere di onorare il nonno, colui che ha disonorato l’Italia. Il contesto è tutto. L’attualizzazione e la narrazione fantasy di vicende storiche avvenute in un dato e irripetibile contesto spazio-temporale e culturale è una delle mistificazioni della storiografia pop in voga su Internet, che spesso sfocia nella rimozione e nel negazionismo criminale, e in ogni caso non è un servizio che si rende alla Memoria.

Mail Box

 

Cari pesciolini, gli autogol al sud non sono concessi

Caro Santori, il mare in cui perigliosamente nuotiamo è colmo di “predatori famelici”. È questa la metafora che avete utilizzato nella lettera indirizzata al presidente Conte (Repubblica, 31.1.’20), nell’accorato appello a un sodalizio virtuoso – un “abbraccio”, scrivete – tra piazza e istituzioni, una volta si diceva tra popolo e potere. Che sfiga, che errore madornale la quasi contemporanea visita a Treviso e le foto-ricordo con il vostro ospite Oliviero Toscani, insieme ai brillanti ragazzi di Fabrica e al loro generoso patron Luciano Benetton.

Autogol, Mattia, un maledetto autogol (so che ami lo sport!)

Non è qui il caso di elencare i motivi per cui quest’incontro con l’eroe dei due mondi del neoliberismo sia inopportuno, ora e sempre. Ecco un paio di stringhe da ricercare su Google, così per tua e vostra conoscenza: Atlantia – Società Autostrade – Ponte Morandi; Mapuche – Tierras de sur Argentino – Santiago Maldonado. Perbacco, cos’è che vi ha portato lì? Ingenuità, avete detto: poveri pesciolini subito caduti nella trappola del “predatore famelico”! Oppure la seduzione del luogo? In fondo, la Fabrica di Benetton è un posto figo, un incubatore di creatività giovane, estroso, visibile (anche apolitico?). Ma non è la prima volta! È un’ingenuità, mista a vanità e mal posta presunzione, che si ripete: un po’ come, ad esempio, farsi sbranare in quattro da Sallusti&C. al circo del martedì di Giovanni Floris.

Ora il mio appello, anch’esso accorato, è questo: avete molto aiutato il Paese e l’Emilia-Romagna in particolare a tirare appena il capo fuori dall’incubo (non solo subacqueo) del sovranismo, dell’odio, della paura e in tanti ve ne siamo grati. Ma basta errori, basta ingenuità, basta presenzialismi vanagloriosi! Per questo, prima di parlare e agire, è necessario molta modestia, un po’ di studio e accorta informazione, tanto lavoro serio e rigoroso, lavoro di fondo per fare branco. Avete (abbiamo) una enorme responsabilità e tra poco si riparte per un’altra compagna (o un’altra nuotata, se preferite): le regionali di maggio. Sono pugliese e m’importa molto come le cose andranno lì. C’è molto in ballo: salute, lavoro, ecologia, paesaggio, imprenditorialità sostenibile. E lì, proprio al Sud (al primo posto nelle vostre preoccupazioni, cfr. lettera a Conte), siamo tanti, anzi tantissimi pronti a operare con voi per un Sud più degno e un’Italia migliore. C’è un esercito (non un branco) pronto a combattere contro i predatori, un esercito serio, culturalmente armato e molto intransigente: laggiù gli errori non sono concessi, tanto quanto l’ingenuità e la vanità.

Andrea Carlino

 

Legge blocca-prescrizione, una questione di civiltà

Che in appello muoia il 50% dei processi per prescrizione e che ciò serva a diminuire la durata degli altri in itinere, come affermato da alcuni alti magistrati, non è una notizia eclatante o clamorosa, è ben di più. Quale paese civile potrebbe accettare una cosa simile? Con i reati in aumento, le statistiche mentono, sia per interesse governativo, sia perchè quasi nessuno denuncia più furti in casa, aggressioni e scippi. E così, i reati restano impuniti. Ma se la motivazione giuridica alla prescrizione, che vede quasi tutti contro l’integerrimo giudice Davigo, è che lo Stato non ha più interesse a punire un reato dopo tot anni, ne hanno ben interesse le vittime. Questo è aberrante, per uno Stato di diritto.

Ma l’Italia può ancora definirsi così?

Enrico Costantini

 

Isolamento Coronavirus, chi sottrae fondi alla ricerca?

Nel clamoroso isolamento del Coronavirus, c’è tutta la contraddizione del settore della ricerca nazionale: ottime professionalità che non hanno adeguate risorse per lavorare. Il dato centrale è la mancanza di fondi per la ricerca, in un Paese che trova miliardi al volo per un’ipotesi di Olimpiadi, ma tiene a stecchetto l’indagine scientifica, costringendola a offrire per strada arance e azalee. Perché la ricerca chiede la carità? Perché i suoi costi avrebbero bisogno di un gettito fiscale più ampio. Se la lotta agli evasori fosse più serrata, forse avremmo carburante sufficiente per gli Istituti di ricerca.

Massimo Marnetto

 

Sono tutti qualunquisti pur di attaccare il governo

Sbigottiti, osserviamo passare sui palcoscenici peggiori coloro tra i politici, gli imprenditori, i difensori della legge e i giornalisti che stanno predicando il qualunquismo più sfacciato, per contrastare questo debole spiraglio di cambiamento, che vede iniziative di governo diverse da quelle prese negli anni precedenti. Bisogna schierarsi in difesa dei tentativi di abbattere l’uso della prescrizione da parte dei corrotti, per non rispondere dei reati commessi.

Giampiero Buccianti

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo di sabato 1 febbraio in cui si dava notizia del ricorso presentato al Tar del Lazio dall’Associazione dei concessionari autostradali (Aiscat) contro la Repubblica italiana, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dei Trasporti, ho scritto che il gruppo Gavio fa parte della stessa Aiscat. Non è così: Gavio non aderisce più ad Aiscat né ha presentato alcun ricorso. Mi scuso dell’errore con gli interessati e i lettori.

Daniele Martini

Da che pulpito l’irrequieto Nedved difende gli arbitri dalle polemiche altrui?

Gentile redazione, ho seguito molto perplessa le polemiche tra Commisso, presidente della Fiorentina, e Nedved, vicepresidente della Juventus: la pietra dello scandalo, al solito, è l’imparzialità o meno degli arbitri. A parte il livello becero del dibattito, a me sembra che attribuire sempre e solo le colpe al direttore di gara sia superficiale, se non ingeneroso e autoassolutorio. Che dite voi?

Elisa Dandolo

Gentile Elisa, il nostro pensiero, invece, è che abbia fatto bene Pavel Nedved, vicepresidente della Juventus, a ribattere alle accuse di Commisso che aveva parlato di “arbitri che fanno vincere la Juventus”, di “porcheria” e di “schifo”. Ed è stata una fortuna che Nedved, nell’occasione, non fosse sotto squalifica per insulti agli arbitri come svariate volte gli è capitato da quando è dirigente della Juventus: ad esempio quando fu inibito per un mese per essersi scagliato contro l’arbitro Valeri al termine di Juventus-Sampdoria 1-2 (6 gennaio 2013, due gol di Icardi, la Samp che vince a Torino con un uomo in meno). Per meglio capirci: se dopo la recente sconfitta della Juventus in Supercoppa contro la Lazio (a Ryad, 22 dicembre 2019, 1-3), per la piazzata fatta negli spogliatoi a fine partita per l’arbitraggio di Calvarese, Nedved fosse stato squalificato per 40 giorni, invece che multato di 5 mila euro (al pari di Paratici), domenica non avrebbe potuto presentarsi negli spogliatoi per dire a Commisso che gli arbitri vanno rispettati: e sarebbe stato un peccato, perché le prediche fatte dal suo pulpito sono vangelo. Nedved ha la massima devozione per gli arbitri, a patto che la Juve vinca. Certo, anche lui è umano: e può succedere che anche dopo una vittoria, come in Atalanta-Juventus 0-3, vada lo stesso a insultare l’arbitro Orsato, ricevendo i soliti 5 mila euro di multa, rimproverandogli di aver fischiato un rigore contro la Juve, per fallo di Chiellini, rigore poi parato da Buffon. Insomma: Nedved che dice che prendersela con gli arbitri quando si perde è un alibi, è stata una bella pagina del nostro calcio. E dimenticavamo: non solo i dirigenti dovrebbero prendere esempio da lui, ma anche i calciatori. Sapete cosa fece Nedved quando il compianto arbitro Farina, l’1 dicembre 2006, gli mostrò il cartellino rosso in Genoa-Juventus 1-1 per aver calpestato un avversario (sua specialità della casa)? Lo insultò e gli calpestò un piede. Fosse stato un giocatore del Pizzighettone o dell’Akragas gli avrebbero dato 2 anni. Giocava nella Juve, gli diedero 5 giornate.

Paolo Ziliani

“B. offrì mezzo milione a Imane. Voleva evitare che testimoniasse”

Anche a Imane Fadil, l’ex modella marocchina morta il primo marzo 2018 per una grave malattia, furono offerti soldi in cambio del suo silenzio. E’ l’ennesimo colpo di scena nel processo milanese Ruby ter che vede imputato per corruzione in atti giudiziari Silvio Berlusconi e altre 28 persone, tra cui molte “olgettine”. Durante l’udienza di ieri ha parlato l’agente immobiliare Alessandro Ravera. “Mi parlò – ha spiegato – di due ragazze che l’avevano avvicinata fuori dal Tribunale, in un bar vicino, e da loro le era stata proposta una cifra, che non ricordo, per il silenzio”. Secondo il teste questa promessa sarebbe arrivata da “Berlusconi”. Oltre a questo è andata in archivio un’altra testimonianza su soldi incassati da Karima El Mahroug che sarebbero arrivati da Silvio Berlusconi, stavolta, in particolare, “3 milioni di euro” per una “operazione” immobiliare in Messico perorata dal suo ex compagno Luca Risso.

Per quanto riguarda Imane, sulla cui morte si è molto indagato per omicidio volontario senza arrivare a fare chiarezza sulle cause chiedendo alla fine l’archiviazione, il testimone, sempre stando ai suoi colloqui di allora, ha parlato di un secondo tentativo. L’ex modella sarebbe stata avvicinata “in una discoteca” da una “ragazza”, ma ha detto il teste: “Non ricordo chi”. In sostanza, però, le avrebbe detto che c’era “la possibilità di avere fino a 500mila euro” per non parlare. Già nell’atto di richiesta di costituzione come parte civile nel Ruby ter, Fadil, attraverso il suo legale, lamentava “minacce, tentativi corruttivi e pressioni”. Il testimone, tuttavia, ha detto di non ricordare quali fossero le giovani che l’avevano avvicinata. “Quando sentiva le testimonianze delle altre, che non dicevano la verità, la sua reazione era di rabbia”, ha aggiunto Ravera, il quale ha raccontato che Imane le parlò anche di “milioni” ricevuti da Ruby.

Su questo fronte, Antonio Matera, ex socio con Risso nella gestione di una discoteca, ha fatto riferimento alle confidenze che gli avrebbe fatto l’ex compagno di Karima. Gli avrebbe riferito che “l’operazione per incassare 3 o 4 milioni con lei era riuscita, la cifra finale ricevuta era sui 3 milioni” e con quei soldi, arrivati “da Berlusconi”, andò a “vivere in Messico” con lei e là fecero “investimenti immobiliari”. Parte dei soldi intascati dalla marocchina per stare zitta, secondo i pm, sarebbe servita per l’acquisto di un ristorante con annesso pastificio e di due edifici con mini-alloggi per operatori del settore turistico a Playa del Carmen. “Risso – ha detto il teste – era innamorato dei soldi, gli interessava Ruby perché gli avrebbe portato soldi”. Già nella scorsa udienza, una giornalista inglese aveva raccontato in aula che Ruby per tacere sulle serate ad Arcore con Berlusconi avrebbe incassato dall’ex premier “6 milioni di euro”, stando a quanto a lei riferito da Marysthell Polanco. La difesa di Berlusconi, assolto nel primo processo sul Ruby-gate, ha sempre sostenuto che i versamenti alle ragazze erano “liberalità” per risarcirle, dato che erano rimaste coinvolte in uno scandalo.

Palazzo Marino s’inchina a Craxi “Bettino era come il Caravaggio”

Craxi, condannato e latitante, come Caravaggio, assassino e latitante: se Milano dedica mostre al pittore, perché non una piazza allo statista? L’ardito ragionamento è di Matteo Forte, consigliere comunale del centrodestra, che ha proposto una mozione per intitolare una via, o una piazza, a Bettino Craxi. Ieri il Consiglio si è così inerpicato in un dibattito storico-politico surreale e al di sotto del livello della media dei bar milanesi. “Milano, 20 anni dopo la sua morte, deve fare i conti con un pezzo della sua storia”, dice Forte. Conti esteri, su cui – gli ha ricordato il Cinquestelle Gianluca Corrado – sono stati movimentati 150 miliardi di lire da cassieri personali dell’ex segretario Psi, fuori dalla contabilità del partito.

Ma come dimenticare lo statista? Lo elogiano l’ex craxiano Stefano Parisi (della Lista Parisi), l’ex socialista Franco D’Alfonso (della avversa Lista Sala), tal Emmanuel Conte (della sinistrissima Milano Progressista), Mariastella Gelmini (di Forza Italia). Conte cita a sproposito Gerardo D’Ambrosio (che ha letto sul Foglio). Parisi sentenzia: “Craxi era dalla parte giusta, Berlinguer dalla parte sbagliata”. “E la Milano di oggi”, gli scappa, “è la continuazione della Milano da bere dei anni Ottanta”. A Gelmini non basta una targa, non basta una via, vuole proprio una piazza. Per ricordare “lo statista, il riformista, il gigante in politica estera” (e dimenticare i 23 miliardi di lire che gli furono versati dal fondatore del suo partito, in ringraziamento della legge che lo rese monopolista della tv privata).

Una piazza? È Basilio Rizzo, oppositore in Consiglio già ai tempi della prima Milano da bere, a evocare piazza Duomo. “Una targa in quella piazza ricorderebbe ai cittadini che lì, al numero 19, c’era l’ufficio dove si raccoglievano le tangenti. Dedicare una via o una piazza significa proporre un esempio alla città: non possiamo proporre un modello sbagliato ai cittadini, che ricordano l’intreccio perverso tra politica e affari e che contro Tangentopoli hanno sostenuto Mani pulite”. Poi Rizzo svela il gioco politico di Matteo Forte, di Forza Italia e del centrodestra: tentare di spaccare – su Craxi – il Pd e la maggioranza di centrosinistra. È stato il sindaco Giuseppe Sala, infatti, ad aprire uno spiraglio, dichiarando, la mattina prima del Consiglio comunale, che “il dibattito sarà un primo passo giusto rispetto a una riflessione su un periodo storico importante per il nostro Paese. Non è che si risolve in una discussione in Consiglio la memoria e il lascito politico di Craxi… Ma è necessario farla, anche perché a lui è associata una parola che è un po’ scomparsa, come socialismo”. Sala era comunque assente. “È lui”, ha constatato il leghista Alessandro Morelli, “il vero latitante, oggi. Per questo noi della Lega lasciamo l’aula”. Gettare il sasso e sparire, nascondendo la mano. Al posto di Sala, l’assessore Filippo Del Corno, a nome della giunta (e di Ponzio Pilato), non prende posizione e si rimette alla decisione del Consiglio. Barabba non c’è. Il Pd, per bocca di Filippo Barberis, chiede al centrodestra di ritirare le sue due mozioni e di non andare alla conta. Invece di intestare una via, “potremmo trovare altri segni di memoria, più sobri, meno divisivi”. A dire un no netto restano David Gentili (Milano Progressista), tutti i Cinquestelle e Basilio Rizzo: “Oggi vogliono perdonare Craxi, per perdonare domani Formigoni”, avverte. Matteo Forte, ciellino, si sente chiamato in causa e lo rivendica: “Sì, non rinnego la mia storia. Del resto anche Palmiro Togliatti è un padre della patria, ma ha commesso ben più gravi reati, come l’eccidio di Porzus” (nientemeno).

Enrico Marcora (Lista Sala) non lascia, ma raddoppia: “Il finanziamento illecito era praticato da tutti i partiti. Anche Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, dovrebbe dedicare una via della sua città a Severino Citaristi”. È il cassiere della Dc, che in effetti ha stracciato Craxi nella gara a chi aveva più avvisi di garanzia e più condanne. Patrizia Bedori (Cinquestelle) cita un articolo del Fatto e propone di dedicare una via, semmai, a un vero martire di Tangentopoli: l’imprenditore Ambrogio Mauri, che si uccise perché non voleva pagare le mazzette.

Manfredi Palmeri (Lista Parisi) presenta un emendamento alle due mozioni del centrodestra: propone non una via, ma una targa a Bettino. E dice che sarebbe d’accordo a dedicare una via anche a Francesco Saverio Borrelli, “a cui il sindaco Gabriele Albertini chiese un aiuto per cacciare i ladroni dal Palazzo”. Ma dopo decine d’interventi, tutto si ricompone. Sala non ricompare, il centrodestra ritira le mozioni e l’emendamento, il centrosinistra non vota e non si spacca. In attesa di “un segno di memoria più sobrio”?

Rete4 è casa Salvini&Meloni. Degli altri solo poche tracce

Non ha mai vinto la gara delle frequenze, godendo per anni di un’abilitazione speciale del ministero; doveva traslocare le frequenze sul satellite perché secondo la Corte costituzionale fuorilegge, ma fu salvata prima da Prodi e poi dalla legge Gasparri su misura; è stata la rete del tg diretto per anni da Emilio Fede: parliamo di Rete4, che ancora oggi racconta la politica facendo a pezzi il pluralismo. Certo non è che pensassimo che la rete di Mediaset, dopo gli anni embedded di Fede, fosse diventata con il declino politico del Cavaliere un modello di giornalismo, ma speravamo che qualcosa cambiasse. Anche per via dell’oggettiva azione di sostegno nel favorire l’ascesa della Lega ai danni del proprietario.

Ci sbagliavamo. Il monitoraggio Agcom, che da alcuni mesi misura l’esposizione dei singoli politici sia nei tg che nei talk, ci offre con numeri inappellabili un panorama inequivocabile. Rete4, infatti, si conferma un’anomalia nell’anomalia: nel mese di dicembre, ad esempio, Salvini, Meloni e Sgarbi hanno parlato nei talk della rete per 5 ore e 34 minuti, mentre, per dire, il primo del Pd, Boccia, è a 29 minuti e tutti gli altri leader, da Renzi (23) a Bersani (20) a Conte (19) ne racimolano ancora meno. Stiamo parlando di programmi che, come Fuori dal coro, Diritto e rovescio, Quarta Repubblica, Stasera Italia, sono la spina dorsale dell’informazione di rete.

Qualcuno potrebbe obiettare che un mese è poco e che un bilanciamento magari si realizza in un più lungo periodo. Ma premesso che a dicembre si era già in par condicio per due regioni, anche sul lungo periodo i conti non tornano affatto. Tra luglio e dicembre, ad esempio, nei talk di Rete4 Salvini, Sgarbi e la Meloni hanno parlato per un totale di 1.721 minuti: 791 il primo, 511 il secondo, 419 la terza. Spicca Sgarbi, il cui ruolo di supporter politico (tra l’altro era candidato in Emilia) non viene certo dissimulato dalla recita politicamente scorretta ormai datata (e da qualche presa di posizione autonoma). Dietro il ‘trio’ Salvini-Sgarbi-Meloni vengono gli altri, tutti con tempi scandalosamente inferiori, anche se Casini (Casini!) va in voce per 223 minuti, e Paragone, già quinta colonna leghista in casa grillina, per 208. Conte invece, che pure è il premier, totalizza 156 minuti, Bersani 99, Renzi 82, Di Maio nel semestre luglio-dicembre va in voce per 64 minuti (12 volte meno del leader della Lega).

Il Pd, poi, non ne parliamo: il primo è Matteo Ricci (88 minuti) mentre di Zingaretti non c’è traccia. Ora è vero che il garante ha intimato il riequilibrio ai notiziari di tutte le reti (vedremo se sarà rispettato), ma dei talk faziosi di Retequattro ne vogliamo parlare? E vogliamo pure parlare di un telegiornale come il Tg4 che si dimostra così attento a Forza Italia da diventare quasi un organo di famiglia? Perché, per altro verso, qui (oltre il solito Salvini, 5 ore 49 minuti) è Forza Italia che ha una primazia inverosimile nel semestre (i suoi esponenti parlano per 5 ore e 15 minuti, a M5S e Pd, cioè primo e secondo partito, vanno 3 ore e mezza ciascuno): una primazia sproporzionata se si pensa al peso elettorale degli azzurri alle politiche, quarto partito con il 14% (oggi molto meno).

Rete4, è vero, è una rete con uno share medio intorno al 4%. I suoi talk lo alzano un pochino, ma è giusto che ciò avvenga facendo senza pluralismo e spesso (leggi Fuori dal coro, Diritto e rovescio) del buon gusto? Altro che nomine dei nuovi direttori Rai, che pure ci vogliono (a proposito perché non dare un tg a Santoro?), qui c’è urgente bisogno di una riforma tv che abolisca la Gasparri così come si è fatto con la Fornero (perché no?) e di una legge sul conflitto d’interessi.

I pm del caso rubli-Lega: “Altri 6 mesi di indagini”

La Procura di Milano ha chiesto al giudice per le indagini preliminari Alessandra Clemente di prorogare le indagini su Moscopoli per altri sei mesi. Il documento, firmato dai pm e arrivato ieri sul tavolo del giudice, non riporta novità di rilievo, solo si limita a elencare gli indagati che restano tre per il momento e sono Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, l’avvocato d’affari Gianluca Meranda e il consulente finanziario, già politico locale del Pd, Francesco Vannucci. Tutti sono accusati di corruzione internazionale. Savoini in concorso con Meranda e altri, secondo il capo d’imputazione, concordava “con Ylia Andreevich Yakunin l’acquisto da parte di Eni Spa di ingenti quantitativi di prodotti petroliferi (250 mila tonnellate al mese per tre anni) venduti dalla società di Stato russa Rosneft, prevedendo che una percentuale del 4% del prezzo pagato da Eni Spa sarebbe stato retrocesso per finanziare la campagna elettorale per le elezioni europee del partito politico Lega, mentre una percentuale del prezzo pagato da Eni, tra il 2% e il 6%, sarebbe stata corrisposta tramite intermediari e studi legali a pubblici ufficiali dell’azienda di Stato Rosneft”. La società Eni, nei cui uffici la Procura ha acquisito diversi atti, non è oggi coinvolta penalmente, si è costituita parte offesa nel procedimento e ha sempre smentito ogni sua partecipazione.

La decisione favorevole del giudice nel prorogare le indagini, se pur molto probabile, non è immediata. Ieri il gip ha inviato alle parti lo stringato documento della Procura per permettere ai legali, entro cinque giorni, di preparare un’eventuale memoria, dopodiché il giudice ha tempo dieci giorni per decidere se firmare o meno il decreto di proroga. Sulle memorie difensive, ora, i legali dovranno fare un ragionamento vista la delicatezza dell’inchiesta. Un approfondimento ulteriore dei pm potrebbe non andare a danno delle difese. Nell’inviare la sua richiesta, la Procura ha depositato al gip tutto il fascicolo con gli atti acquisiti. Su tutti la trascrizione dell’audio registrato all’hotel Metropol di Mosca il 18 ottobre 2018, data in cui i tre italiani incontrano tre russi per discutere della compravendita di gasolio da cui scontare (come calcolato dai political guys della Lega) il 4%, ovvero 65 milioni di dollari da triangolare nelle casse del partito di Matteo Salvini che allo stato non è indagato. Negli atti depositati al gip c’è anche la perizia sui cellulari sequestrati a Savoini, oltre a diverse telefonate registrate da Meranda con una app-spia e la foto dell’appunto manoscritto del presunto accordo corruttivo trovato sempre nel cellulare di Meranda. Sulla vicenda dei telefoni sequestrati e sull’autenticità dell’audio si sono già espressi il Tribunale del Riesame e la Cassazione, che hanno dato ragione alla Procura. E se per la Suprema corte ancora si attendono le motivazioni, quelle del Riesame sono state depositate lo scorso ottobre e rappresentano, allo stato, un primo punto fermo a favore dell’accusa. Agli atti anche il verbale d’interrogatorio della giornalista russa Irina Aleksandrova che il 17 ottobre 2018 partecipò all’incontro riservato a Mosca tra il vicepremier russo con delega all’Energia, Dimitry Kozak, e Matteo Salvini, allora vicepremier. Il giorno dopo ci fu l’incontro del Metropol. L’inchiesta è complessa, come si legge nella richiesta di proroga, ed è per questo che la Procura ha chiesto ieri di poter investigare almeno altri sei mesi.

Autostrade: primi tentativi di pace, ma la maggioranza è sempre bloccata

Aiscat ha già cambiato idea. L’associazione delle concessionarie autostradali ha rinunciato al ricorso contro l’articolo 35 del Milleproroghe, ovvero la norma che disciplina la revoca delle concessioni. Come anticipato sul Fatto Quotidiano di sabato, Aiscat aveva appena presentato un ricorso di 27 pagine al Tar del Lazio, con l’obiettivo di ottenere un risarcimento per i presunti danni scaturiti dall’approvazione del Milleproroghe. Un’idea stravagante – i Benetton (e gli altri grandi concessionari) che chiedono soldi allo Stato dopo lo scandalo del ponte Morandi – ma subito tramontata.

L’associazione guidata da Fabrizio Palenzona ha fatto sapere che “d’intesa con i suoi legali ha deciso di ritirare il ricorso al Tar, confidando in una soluzione positiva della complessa problematica in essere”.

La “soluzione positiva” auspicata dai concessionari a questo punto non può che essere politica: contro l’articolo 35 che minaccia Benetton e soci c’è già un emendamento al Milleproproghe firmato da Italia Viva. Ma sul tema – come pure sulla battaglia prescrizione – la maggioranza continua a restare immobile, non fa un passo né avanti né indietro.

Ne è la prova il fatto che il confronto in commissione sugli emendamenti al Milleproroghe iniziato ieri (sono oltre mille, di cui 15 del governo, ma su temi “secondari”) per adesso si concentra su questioni non proprio imprescindibili. Un esempio pratico: ieri è stata approvata la norma che proroga i termini per il riconoscimento dei meriti al valore militare per i caduti durante la Resistenza. Massimo rispetto, ci mancherebbe, ma non esattamente il fulcro del dibattito politico.

I giallorosa, dicevamo, sono immobili. Non è arrivata nessuna novità nemmeno dalla riunione di maggioranza di ieri mattina a Montecitorio. “Il clima era più disteso”, fa sapere il renziano Marco Di Maio. Meno disteso era difficile, visto che lui stesso la scorsa settimana aveva lasciato il vertice sbattendo la porta. Al di là delle cortesie, nessun passo avanti sostanziale. E la Lega gongola: “Già dall’esame dei primi articoli abbiamo visto come questa maggioranza sia allo sbando – hanno dichiarato i capigruppo salviniani in commissione – . Non c’è nessun approfondimento, per ammissione stessa del governo nei confronti dei relatori, sugli emendamenti strategici su Autostrade, cedolare secca, flat tax e prescrizione”. Secondo i leghisti, la strategia dei giallorosa è chiara: prendere tempo, fare melina, “mandare in vacca” (come dice un deputato del Carroccio).

Seguendo questa interpretazione, i nodi non saranno affrontati in commissione e si farà in modo di non chiudere l’esame prima del 10 febbraio, giorno in cui il Milleproroghe deve approdare in aula, dove sarà trasmesso senza mandato ai relatori (e senza un vero esame). Poi – sempre secondo la Lega – il governo si giocherà tutto con un maxi-emendamento e un voto di fiducia. Chissà se conterrà la “soluzione positiva” che si aspettano gli autostradali.

Sull’ex Ilva resta tutto fermo. E alla fine Mittal se ne andrà

La trattativa andrà avanti fino all’ultimo minuto, ma trovare un accordo entro venerdì mattina pare assai difficile: la questione dell’Ilva di Taranto, insomma, passerà probabilmente dalla “roulette russa” del Tribunale di Milano, anche se alla fine, comunque vada, si arriverà all’uscita di ArcelorMittal. I giudici tra tre giorni dovranno decidere sul ricorso d’urgenza presentato dai commissari di Ilva contro il tentativo della multinazionale – che al momento è “affittuaria” degli impianti – di recedere dal contratto.

Le due parti avevano ottenuto, a dicembre, un rinvio della decisione dopo aver firmato un Heads of agreement, una sorta di base di trattativa per evitare la battaglia legale: come detto, nonostante sia passato un mese e mezzo, è difficile che si arrivi a un’intesa definitiva entro venerdì, quindi deciderà il giudice, anche sulla base degli elementi messi a disposizione dalla Procura di Milano, che sul caso Ilva – come si ricorderà – ha aperto un’inchiesta penale.

Cosa può accadere? Se la decisione fosse a favore dei Mittal, la situazione per il governo si farebbe assai difficile: dovrebbe prendere in carico gli impianti in tempi strettissimi, fornendo la liquidità necessaria a sostenere il gruppo, e affidarsi a una lunga causa per ottenere un eventuale risarcimento. A Palazzo Chigi e al ministero dello Sviluppo, però, sono convinti di avere ottime ragioni e che il Tribunale concederà almeno la sospensione cautelare del recesso e, a quel punto, si dovrà trovare comunque un’intesa coi Mittal, ma da una posizione di relativa forza.

Il tavolo andato avanti in queste settimane, però, non ha fatto grandi progressi nel senso di una cooperazione tra il colosso dell’acciaio e la “mano pubblica”. Gli inviati di Mittal non hanno finora fatto proposte accettabili: chiedevano 5mila esuberi, oltre ai quasi duemila già rimasti fuori nel 2018, e informalmente hanno fatto sapere che potrebbero, forse, scendere a tremila (cifra comunque inaccettabile per i sindacati). Oltre ai licenziamenti, per tenersi le fabbriche chiedono uno “sconto” sulla cifra da versare allo Stato: nel 2017 vinsero la gara con un’offerta da 1,8 miliardi, di questi hanno versato circa 500 milioni e ora vorrebbero – tra defiscalizzazioni e altre diavolerie tecniche – pagare circa la metà degli 1,3 miliardi rimasti. Condizioni, come detto, inaccettabili per il governo, tanto più che non si accompagnano a maggiori investimenti per rendere “verde” (sia detto tra moltissime virgolette) l’acciaieria di Taranto.

Lo stallo è tale che ormai l’unica vera trattativa è su come far uscire Mittal da Taranto. O meglio, sempre che venerdì il giudice non dia ragione all’azienda, a che condizioni “liberarla” dall’ex siderurgico dei Riva. Alcuni passi sono già stati fatti: ad esempio il ricambio di tutta la prima linea di management proveniente da Arcelor, partita a ottobre con l’addio dell’ad Matthieu Jehl, sostituito da Lucia Morselli, e proseguita nei mesi successivi. I problemi irrisolti sono due: quanti soldi pretendere per liberare i Mittal e cosa fare dopo con le acciaierie.

Partiamo dal vil denaro. Come Il Fatto ha già scritto, la multinazionale ha già avanzato una proposta in questo senso: un miliardo per poter andar via indenne. Il punto è che non si tratta di fondi veri, ma della valutazione del magazzino riempito (500 milioni), della rinuncia a rivalersi sui 400 milioni di investimenti già fatti e dei 90 milioni di fideiussione depositati alla firma del contratto. Il governo, d’altra parte, chiede un miliardo “vero” tra penale per la rottura dei patti e le mancate manutenzioni degli impianti.

Alla fine i Mittal potrebbero accettare di pagare per andarsene (con tempi medio-lunghi e anche in una forma che, all’inizio, preveda una loro permanenza nella compagine sociale) ed evitare così un lungo e incerto contenzioso legale. Più complicato, invece, è capire cosa fare dopo con l’Ilva.

Il piano industriale del governo è ambizioso: senza perdersi nei tecnicismi, prevede l’uso di forni elettrici (oltre a quelli tradizionali) e materia prima pre-ridotta (meno inquinante) per arrivare a produrre almeno 8 milioni di tonnellate (il doppio di oggi) con un po’ di cassa integrazione, ma senza esuberi strutturali. All’ingrosso è il piano di AcciaItalia, la cordata guidata dagli indiani di Jindal e da Cdp, che nella gara per Ilva fu sconfitta proprio da Arcelor. Chi dovrebbe realizzarlo, allora, questo piano? Buio fitto: AcciaItalia non esiste più; Jindal ha firmato un accordo per l’acciaieria di Piombino (e il piano industriale è in ritardo di mesi); gli italiani tipo Arvedi non paiono avere le dimensioni per gestire Taranto; ad oggi non si sa neanche quale società pubblica potrebbe entrare in un’eventuale “newco” per l’Ilva. E a venerdì mancano tre giorni.