A rischio cancellazione le prove su Cesaro

Prima una lunga attesa per decidere di non decidere. Poi, dopo il rimpallo di responsabilità con la Camera, la marcia indietro e il rinvio in Giunta. Infine un nuovo stop a causa di una password che nessuno aveva cercato per quasi due anni. A Palazzo Madama la richiesta dei magistrati di Napoli di usare le intercettazioni che riguardano il senatore Luigi Cesaro, accusato di corruzione elettorale per l’aiutino dato a suo figlio Armando per essere eletto alle regionali in Campania del 2015, è ormai diventata una saga degna delle migliori telenovelas sudamericane. Dove il colpo di scena è la regola e l’imprevisto sempre in agguato. E non è finita, perché ora c’è chi vorrebbe addirittura cestinare la richiesta dei magistrati considerando inutilizzabili le intercettazioni telefoniche che da tempo immemore fanno la muffa al Senato. Come chiede Cesaro o meglio il suo legale di fiducia.

“Le intercettazioni in questione furono disposte nell’ambito di un procedimento penale indiscutibilmente diverso da quello nel quale l’autorità giudiziaria pretende di farne uso”, ha scritto il principe del foro napoletano Vincenzo Maiello, forte di una sentenza della Cassazione in base alla quale, almeno a sentir lui, i risultati delle intercettazioni nell’ambito di due procedimenti diversi possono essere utilizzati solo se siano connessi tra loro. O comunque risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza. E quindi le captazioni che rischiano di inguaiare Giggino ’a Purpetta per essersi prodigato per l’elezione del figlio, dovrebbero essere semplicemente buttate non fosse altro perché “nella fattispecie posta al nostro esame manca qualsiasi connessione tra le notizie di reato che hanno dato origine al procedimento penale ove le intercettazioni furono autorizzate”.

Di che procedimento si tratta? Dell’inchiesta “madre” della Dda di Napoli che ha tra i principali imputati i fratelli di Cesaro, Aniello e Raffaele, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa insieme al loro sodale in affari Antonio Di Guida (imprenditore considerato legato al clan Polverino), per i lavori per la realizzazione dell’area industriale di Marano. Il fatto è che, almeno stando alle accuse, non solo Cesaro senior si sarebbe fatto in quattro per assicurare l’elezione a suo figlio con promesse di posti di lavoro, favori, trasferimenti. Ma pure appalti. Come quello di cui si vantava al telefono (non sapendo di essere intercettato) proprio l’imprenditore in odore di camorra di Guida, anche lui mobilitato nel 2015 per fare eleggere Armando Cesaro e che grazie al ras di Forza Italia diceva di essersi assicurato una commessa milionaria, con un guadagno personale di un paio di milioncini di euro.

Anche questa intercettazione è agli atti della Giunta del Senato dove oggi si esaminerà la memoria del legale di Cesaro col rischio di un ulteriore slittamento della decisione attesa da “appena” 22 mesi al Senato. E questo quando la Giunta per le autorizzazioni si dovrebbe esprimere al massimo entro 30 giorni. Come è avvenuto recentemente per Matteo Salvini. Per il quale il centrodestra unito ha chiesto e preteso una decisione sul caso Gregoretti prima delle elezioni in Emilia Romagna.

“Il Senato rivuole i vitalizi, ma abbandona i lavoratori”

“Loro si restituiscono il vitalizio, noi restiamo i collaboratori sottopagati e invisibili”. Nei giorni in cui il Senato si prepara ad accogliere i ricorsi degli ex vitaliziati, restituendo loro l’assegno perduto, è l’Associazione italiana dei collaboratori parlamentari (Aicp) a far notare il paradosso. A una insolita solerzia a tutela dei 722 ricorrenti, dicono, corrispondono infatti anni di silenzi e vuoti normativi nei confronti di chi con senatori e deputati lavora nei Palazzi: professionisti e collaboratori senza contratto e quasi sempre senza diritti. Da tempo l’Associazione chiede alla presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati di intervenire o, perlomeno, di ricevere i rappresentanti dei collaboratori per discutere le possibili soluzioni: “Più volte ci siamo fatti sentire – spiega José De Falco, presidente dell’Associazione – e nel maggio dello scorso anno abbiamo incontrato il capo di Gabinetto Nitto Palma. Poi più nulla, nonostante reiterate richieste di incontro con la presidente”.

E così i collaboratori restano precari: “Per noi non è stabilito alcun inquadramento specifico, dunque si creano situazioni imbarazzanti di finte partite Iva, co.co.co., professionisti pagati 500 euro al mese e così via”. Al momento, infatti, ciascun parlamentare gestisce in maniera autonoma una parte della propria indennità – 3.690 euro per i deputati, 4.180 per i senatori – classificata come “rimborso per le spese per l’esercizio di mandato”. Espressione generica che lascia i collaboratori in una zona grigia: “Chiediamo di esser trattati al pari degli staff degli altri parlamenti europei, con una voce di bilancio dedicata e il riconoscimento di basilari diritti dei lavoratori come maternità e malattia”.

Lo scorso anno, il presidente della Camera Roberto Fico si era impegnato pubblicamente a risolvere la questione, anche se a oggi nulla è cambiato. Al Senato, invece, tutto tace. Eppure, stando almeno all’Associazione, basterebbe estendere ai collaboratori parlamentari le norme in uso per gli staff degli uffici di presidenza delle Camere o quelle degli uffici di diretta collaborazione dei ministri.

Ogni membro del governo deve infatti depositare e rendere disponibile online qualifica, retribuzione e curriculum di chi lavora con lui. Regole che potrebbero essere traslate per deputati e senatori, come suggerisce De Falco, magari senza più considerare quel denaro parte dell’indennità dei parlamentari, ma facendolo erogare dalle Camere ai collaboratori. A quel punto basterebbe destinare un fondo nel bilancio di Camera e Senato per i collaboratori, chiedendo a ciascun parlamentare quanti e quali assistenti vorrebbe mettere in regola, nei limiti di un massimale stabilito.

In questo modo, per altro, si eviterebbero quei casi in cui deputati e senatori tengono per sé stessi l’indennità dedicata allo staff, che da norma deve essere rendicontata soltanto per la sua metà e che, se non viene spesa, resta proprio in tasca ai parlamentari: “Un intervento del genere – è la versione di De Falco – è quello che ci auguriamo. Leggere del ritorno dei vitalizi ci fa però riflettere su quali siano le priorità”.

Il movimento deve diventare partito e andare a sinistra

Per quanto riguarda i 5 Stelle, la situazione è questa: gli analisti esterni danno il Movimento per morto; i protagonisti interni ne parlano come se fosse più vivo e vegeto che mai; i partiti concorrenti si disputano le spoglie. Tutti e tre gli atteggiamenti sono degni di riflessione ma, dal punto di vista sociologico, il più intrigante è quello dei protagonisti interni. Il buon vecchio Robert Michels, con il testo che lo rese famoso (La sociologia del partito politico) e che risale al 1911, ci ha insegnato che tutti i partiti politici nascono in forma di movimento, con strutture e programmi nebulosi. Somigliano a mucchi di sabbia agitati dal vento. Poi, man mano, alcuni riescono a consolidarsi, a strutturarsi, a diventare mattone, a darsi una visione e un programma trasformandosi in partito moderno. Ma la maggioranza dei movimenti non riesce a superare lo stato nascente e si dissolve in corso di trasformazione. La prima fase dei 5 Stelle è stata sociologicamente esemplare in tutti i suoi ingredienti: una forte, diffusa, intransigente istanza di base contro la casta; una casta sufficientemente ebete e perfida per destare l’odio necessario; due leader – Grillo e Casaleggio senior – entrambi eccentrici alla politica, sicuramente geniali, perfettamente complementari; un vuoto politico che chiedeva di essere colmato; una popolazione con tasso di istruzione da Terzo mondo (23% di laureati); uno sbando europeo simmetrico a quello italiano.

Fino al 25 febbraio 2013, quando i 5 Stelle si presentarono alle elezioni e ottennero il 25% dei voti, il percorso evolutivo con cui il movimento si andò trasformando in partito non sbagliò un colpo. Il quinquennio 2013-2018 (XVII legislatura) sarebbe stato perfetto per completare la trasformazione in partito: i loro 109 deputati e 54 senatori, reclutati, per forze di cose, alla meno peggio, avevano davanti a sé il tempo e il luogo per farsi una cultura politica e una cultura tout court; Grillo e Casaleggio avevano altrettanto tempo a disposizione per scovare e formare i membri di una nuova classe dirigente. Inoltre, avrebbero dovuto e potuto elaborare il modello di società necessario per proporre il Movimento come forza-guida del Paese. La vasta simpatia di cui godevano i 5 Stelle avrebbe consentito di attrarre un buon numero di intellettuali e valorizzarli nell’elaborazione di quel modello.

Invece, proprio in quel quinquennio, la lunga marcia cominciò a mostrare le prime debolezze. Molti parlamentari, lungi dal correggere le proprie deficienze culturali, vi aggiunsero la presunzione; non pochi abbandonarono il Movimento e passarono ad altri gruppi parlamentari. La gran parte esibì una smaccata incapacità di reggere un ruolo troppo complesso per attori così fragili, baciati da uno status e da uno stipendio esorbitanti rispetto ai meriti. Un timido tentativo di invertire la tendenza fu avviata da due deputati – Claudio Cominardi e Tiziana Ciprini – e incoraggiata da Beppe Grillo, con la realizzazione di ricerche sociologiche sul futuro del lavoro, della cultura e del turismo. Ma, in quel quinquennio, l’unico a crescere sostanziosamente

sul piano sociopolitico fu Luigi Di Maio che, diventato vicepresidente della Camera appena 26enne, seppe mettere a profitto la carica usandola come una sorta di master teorico-pratico.

Quando, nel 2018, il Movimento si ripresentò alle elezioni, ben 40 dei 163 parlamentari erano fuggiti; Casaleggio senior era morto nel 2016; Grillo si era ritirato sull’Aventino e Di Battista aveva intrapreso il suo vagabondaggio terzomondista. Rispetto al 2013 Di Maio era l’unico vero prodotto aggiunto del Movimento, e lo dimostrò conducendo da solo una trionfale campagna elettorale che portò i 5 Stelle dal 25,5 al 32%.

Da qui in poi l’ascesa di Di Maio, che appariva irresistibile, in realtà pose le premesse per il declino suo e di tutto il movimento. Assumere quattro cariche – due ministeri, la vicepresidenza del Consiglio e la direzione del Movimento – gli impedì di guidare la transizione definitiva del Movimento in partito, ne mise in evidenza parecchie lacune culturali, lo pose a rimorchio di Salvini, cui regalò un quarto dei suoi elettori, mentre un altro quarto si disperse tra gli astensionisti.

Grazie ai provvidenziali errori di Salvini, i 5 Stelle si sono trovati, per un puro caso provvidenziale, ad allearsi con il Pd, certamente meno becero della Lega, e a operare nell’area di sinistra, certamente più consona ai valori fondativi del Movimento. A questo punto tutto convergerebbe nell’opportunità di spostare a sinistra l’asse del Movimento: buona parte dei simpatizzanti per la destra se ne sono già andati con Salvini; la divaricazione crescente tra ricchi e poveri, con relativa mortificazione della classe media, induce al bipartitismo; Grillo, che resta il riferimento più intelligente, indica la sinistra come approdo naturale del partito in formazione; il “decreto Dignità” e il Reddito di cittadinanza rappresentano le uniche conquiste serie, decisamente di sinistra, di cui il Movimento può vantarsi. Conte, che è più colto e perciò più svelto, lo ha capito e si è subito dichiarato disponibile per un’alleanza strutturale con il Pd.

In Di Maio, invece, prevale un’intima matrice di destra, rafforzata dal desiderio di pugnalare Conte alle spalle. E lo ha fatto con quattro gesti: la riproposizione di una fantomatica “terza via”; la presentazione di una lista autonoma alle elezioni in Emilia; le dimissioni anticipate a pochi giorni dalle votazioni; la reggenza a Crimi, che insiste nel proporre i 5 Stelle come ago neutrale della bilancia politica e nel volerli riportare alla fase movimentista primordiale, che è come riportare un adolescente nell’utero materno invece di farne un adulto. Se si rilegge l’intervista data giovedì scorso da Crimi a questo giornale, insieme al libro Politicamente scorretto di Di Battista, si capisce quale vuoto di pensiero strategico affligge i vertici dei 5 Stelle.

Per riprendere la marcia che porta dal movimento al partito occorrerebbe fare una scelta di campo, che può guardare solo a sinistra; eliminare subito il limite dei due mandati, che castra il gruppo dirigente escludendo i meno inesperti; affidare la leadership ai meno incolti e ai più convinti della scelta di campo; mettere al lavoro i migliori cervelli interni e chiedere aiuto ai migliori intellettuali esterni per elaborare un geniale modello di società; intraprendere un’intensa azione pedagogica nei confronti del personale politico, degli iscritti e dei simpatizzanti; creare e gestire direttamente qualcosa di simile alla piattaforma Rousseau, smettendo di pagare parcelle e subordinazione politica alla “Casaleggio e Associati”.

Una recente ricerca Eurispes ha appurato che il 18% dei 5 Stelle ritiene l’Olocausto un’invenzione giornalistica. Basterebbe questo dato per dimostrare il poco lavoro fatto e il molto che occorrerebbe fare.

Ora Salvini e Carfagna fanno l’asse anti-Caldoro

Nemici a Roma, complici a Napoli. In Campania si è formato un inedito asse tra Matteo Salvini e Mara Carfagna. Due politici che non si amano affatto, ma che avrebbero trovato un obiettivo comune sul terreno delle elezioni regionali: impallinare l’azzurro Stefano Caldoro e farne saltare la candidatura a governatore per il centrodestra. Carfagna lo ritiene un nome debole. Salvini vorrebbe incasellare la Campania in quota Lega e fa rimbalzare i rumors dell’ex rettore di Salerno, Aurelio Tommasetti (già messo in campo alle Europee) e del direttore del Tg2 Genny Sangiuliano.

Sarebbe la terza candidatura consecutiva di Caldoro (Forza Italia), vincente nel 2010 e sconfitto nel 2015, e proprio su questo punto affondano le parole di Carfagna alla prima riunione di Voce Libera, il think tank fondato dall’ex ministra di Berlusconi. “Credo che bisogna uscire dal vecchio schema De Luca-Caldoro, sarebbe la terza edizione di questo match. Si potrebbe avanzare una candidatura più forte, più popolare”. Carfagna dimentica di aggiungere il percorso attraverso il quale la coalizione avrebbe chiuso la quadra su Caldoro. Così riassunto da Berlusconi a novembre: “Abbiamo discusso amichevolmente sulla Campania, c’era un nome che tutti avrebbero considerato ideale, sapete qual è, ma quel candidato non intende candidarsi e quindi il candidato per noi è Stefano Caldoro che è già stato un ottimo governatore”. Sapete qual è: Mara. Ma lei non ha voluto.

La partita della Campania è difficile da riaprire ma non è del tutto chiusa. In questo fine settimana il tema ‘regionali’ è stato al centro di vertici telefonici tra Antonio Tajani, Giancarlo Giorgetti e Ignazio La Russa. Nel tardo pomeriggio di ieri, però, il vicepresidente di Forza Italia ha sigillato di nuovo la questione: “Caldoro – ricorda Tajani in una nota – è stato indicato dal Cavaliere dopo aver verificato la possibilità di altre candidature e dopo che la stessa Carfagna ha escluso una sua disponibilità. Ora stop a discussioni inutili”.

Il nuovo step è in agenda il 18 febbraio. Giorno della trasferta di Salvini a Napoli con l’obiettivo “di preparare un’alternativa per mandare a casa i due De, De Luca e De Magistris” e dare una mano a Salvatore Guangi, il candidato di coalizione alle suppletive del Senato. Il 18 Salvini potrebbe estrarre il jolly ‘anti’ Caldoro. Difficile: la Lega in Campania è ricca di voti ma povera di classe dirigente (il commissario regionale è il brianzolo Nicola Molteni). Forza Italia, sia pure in calo, qui mantiene un radicamento. Ed è ancora in grado di bussare a molte porte dell’imprenditoria, delle professioni, degli apparati. Come ha fatto l’anno scorso in Basilicata, lanciando la candidatura vincente di un generale della Finanza, Vito Bardi.

5Stelle, i filo-dem insistono: “In Campania decida il web”

Quel 90 per cento di no al Pd, quasi urlati domenica dagli attivisti in un albergo di Napoli, è più di un affare locale. Perché per i 5Stelle la Campania è come uno specchio, ci guardi dentro e vedi l’immagine del Movimento fatto di strati che non riescono più a parlarsi tra loro: attivisti, iscritti ed eletti. Un mondo nel quale il Luigi Di Maio non più capo si è lasciato dietro ciò che si aspettava, un caos da tutti contro tutti, cioè da congresso. E dove anche la partita campana potrebbe risolversi con un voto sulla piattaforma web Rousseau, appeso anche alla platea dei votanti. Perché se dovessero votare solo gli iscritti campani il no pare scontato, ma se si allargasse a livello nazionale, chissà. “Però ricorrere al web mi sembra un azzardo, se ora insistiamo rischiamo di perderli gli attivisti, cioè di non avere più gente sui territori che faccia campagna elettorale” si sfoga un grillino di rango.

E parla della Campania, ma non solo. Perché la base ha detto no un po’ ovunque ai dem. Troppo profondo l’effetto di anni di propaganda che batteva soprattutto lì, contro il Pd “partito delle banche” e financo “di Bibbiano” (Di Maio dixit). E poi sbarrare la porta agli alleati di governo è come puntare il dito contro i parlamentari, accusandoli di essersi contaminati nei Palazzi.

Così bisogna ripartire dall’assemblea di domenica, in cui gli attivisti hanno condannato l’intesa con i dem su cui pure lavorano da mesi i big (Roberto Fico, Vincenzo Spadafora, in parte perfino Luigi Di Maio) e a cui era favorevole gran parte dei parlamentari locali. “Se Vincenzo De Luca si fa da parte facciamo cinque proposte di programma al Pd” era la linea. Con un possibile candidato comune, il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, che già il 23 dicembre sul Fatto si era detto pronto: “Vorrei capire con quale idea e con quale progetto, ma per vincere bisogna stare assieme, non da soli”. Ma oltre 400 attivisti hanno fatto muro, e ieri Costa veniva descritto come rassegnato al no. Ciò che sperava la capogruppo uscente Valeria Ciarambino, dimaiana al cubo, che ha celebrato il no sui social. Però, forse, non è finita qui, perché i filo-dem non mollano. Il presidente della Camera Fico, presente in assemblea, e altri big spingono per un voto su Rousseau. E il capo politico reggente Vito Crimi potrebbe dare il via libera. “Magari perché vuole sancire meglio il no al Pd”, sussurra un big.

Di certo Ciarambino ha fiutato la contromossa, tanto da aver già chiesto un voto online ristretto ai campani. “Una consultazione nazionale sarebbe più incerta, anche perché gli iscritti non fanno sempre rima con attivisti”, ragiona un facilitatore. Differenza che pare sottile e invece è sensibile. Più o meno come il rumore del M5S che si lacera in vari pezzi. Per esempio c’è la consigliera comunale a Pesaro Francesca Frenquellucci, che ieri ha accettato la proposta del sindaco dem, Matteo Ricci, entrando nella sua giunta come assessore all’Innovazione. Norme alle mano, è destinata all’espulsione. Ma parlando con Il Fatto il deputato Antonio Zennaro la difende: “È una buona notizia, l’esperienza a livello amministrativo non può che far crescere la classe dirigente del M5S.

Forse qualche domanda sul radicamento territoriale i vertici dovrebbero farsela”. Invece il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, dimaiano, su La Verità va in frontale addirittura contro Beppe Grillo: “Ciò che faremo nelle regioni sarà valutato nei territori con il capo politico, che non è Grillo: lui è un guru che parla di visione e morale, non di strategie politiche”. Sillabe che circolano parecchio nelle chat. Mentre in serata, complice la presenza di Davide Casaleggio a Roma, irrompe il senatore Emanuele Dessì: “Rousseau va gestita dagli eletti, Casaleggio è un prestatore di servizi. E ho la sensazione che parlare di terza via (la linea dei dimaiani, ndr) sia solo un modo elegante per dire ‘se domani ci conviene torniamo con Salvini’”.

Da fuori, un 5Stelle di governo: “Se gli Stati generali finiscono davvero al 19 aprile rischiamo di arrivarci in brandelli”. Perfino il premier Conte ha manifestato dubbi sul rinvio. Ma quella pare la data, mentre cresce l’ipotesi Assisi come sede. Oggi si discuterà degli Stati generali in assemblea congiunta: chissà come.

L’ultimo bluff: Renzi indeciso anche in Toscana

“Nei prossimi mesi ci presenteremo alle Regionali, a cominciare dalla Toscana”. E ancora, pochi giorni fa: “Noi qui possiamo arrivare benissimo al 10%. Ma mettiamo che Italia Viva vada peggio e prenda il 6. Ciò significa che a Firenze saremo all’8”. Dopo la vittoria di Stefano Bonaccini in Emilia Romagna, su cui Italia Viva ha subito messo il cappello, Matteo Renzi ha dato il via alla battaglia campale della Toscana, dove dovrebbe esordire proprio il partitino dell’ex premier. Eppure, al netto degli annunci e della campagna in camper che è iniziata ieri sera a Castelfiorentino (Firenze), anche nella sua patria Renzi non ha proprio le idee chiare: la presentazione della lista di “Italia Viva” alle Regionali di maggio, soprattutto se i sondaggi continueranno a essere mediocri, è tutt’altro che sicura. Chi conosce bene l’ex premier racconta che a consigliarlo sulle prossime mosse elettorali sia il solito Denis Verdini e che in Toscana la strategia si ispirerà a una metafora da Formula 1: “Non vince chi va più veloce, ma vince chi frena per ultimo”. Che tradotto significa: Renzi ha annunciato che Iv correrà con una lista propria (in sostegno a Eugenio Giani) ma, se i sondaggi continueranno a dargli contro, potrebbe sfilarsi all’ultimo momento e infilare i suoi fedelissimi nella lista civica “Giani presidente” sul modello di quanto successo in Emilia con Bonaccini.

Così, ragionano dal Nazareno, sarebbe un win-win: se il centrosinistra dovesse resistere all’assalto leghista anche in Toscana, “Renzi potrebbe intestarsi la vittoria dicendo: ‘Giani l’ho scelto io e c’erano i miei nelle sue liste’” mentre in caso di storica disfatta, l’ex premier potrebbe “lavarsene le mani e dare la responsabilità agli altri della sconfitta”. Ed è proprio in questa chiave di lettura che va letta la minaccia, fatta pervenire da Renzi ai suoi ex amici del Pd, di candidarsi in prima persona nei collegi di Firenze e addirittura nella Arezzo di Banca Etruria se i dem decideranno di creare anche la lista di Giani: in tal caso, il Pd ci inserirebbe sindaci civici, imprenditori e Sardine, togliendogli spazio per i suoi fedelissimi in caso di ripensamento all’ultimo minuto. La strategia, quindi, è chiara: tenersi tutte le strade aperte a seconda dell’umore dell’elettorato. Un’idea che terrorizza i suoi che a settembre hanno rinunciato a un seggio sicuro nel Pd e adesso vedono aprirsi l’ipotesi di una mancata riconferma in caso di un risultato tra il 3 e il 4%.

Nell’attesa, per provare a recuperare consensi negli elettori di centrosinistra, Renzi ha annunciato che pianterà 10.000 alberi, uno per ogni iscritto. Se son rose fioriranno…

Nel Pd c’è chi vuole votare coi forzisti contro Bonafede

“Se non si trova un accordo politico, il problema è destinato a ripresentarsi di nuovo. Perché la proposta di legge Costa, che abroga la riforma della prescrizione targata Bonafede, potrà anche essere bocciata. Ma poi qualcuno ne presenterà un’altra. Senza contare che c’è tutto l’iter emendativo della riforma del processo penale per creare problemi”. Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia, la spiega così. Matteo Renzi è andato allo scontro frontale con il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, complicando una trattativa che andava avanti sotto traccia, nonostante il muro opposto dal ministro della Giustizia a qualsiasi cambiamento della sua riforma. “Noi non possiamo accettare l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio così com’è”, dice il Pd più o meno in blocco anche ieri. E quella di Nicola Zingaretti è una richiesta formale, quasi una preghiera: “Mi auguro e abbiamo chiesto al presidente Conte di produrre una sintesi”.

Nel frattempo, però, cresce la tentazione nel Pd di aumentare la pressione sul governo. Il 24 febbraio torna in Aula alla Camera la proposta Costa. I forzisti chiederanno il voto segreto. Parte del Pd è tentata di mandare sotto la maggioranza. E di sperare così che prima del voto a Palazzo Madama – dove ieri a minacciare il Guardasigilli, invitandolo a non fare una prova di forza sono stati anche i dem più vicini a Renzi, Andrea Marcucci e Dario Stefàno – il governo sia costretto a trovare una soluzione. Perché il Senato è più ingovernabile di Montecitorio e lì davvero il governo può rischiare. Se la proposta Costa dovesse essere bocciata alla Camera, morirà lì. Ma ci sono altre proposte analoghe allo studio.

Insomma,l’impasse è pericolosa. Nel Pd volano le accuse. “Se non si fossero alzati i toni nella maggioranza, oggi il ministro Bonafede sarebbe stato costretto a rispondere alle precise obiezioni di molti vertici degli uffici giudiziari. La politicizzazione dello scontro dovuta prevalentemente a ragioni di visibilità ha tolto, per il momento, il ministro da questo imbarazzo”, così il vicesegretario, Andrea Orlando attacca Renzi. Raccontano dal Pd che una mediazione sulla quale si stava lavorando era proprio sospendere per un anno gli effetti della riforma Bonafede. Insomma, il lodo Annibali, che si vota in Commissione alla Camera tra 3 giorni. Ma – essendo stato presentato da Renzi come una sfida finale al M5S – non può essere preso in considerazione. E poi, ci sono i soliti sospetti. Anche ieri Matteo Salvini è intervenuto in appoggio all’ex premier: “Come risolveranno la vicenda della prescrizione? Non lo so, spero che per salvare capre e cavoli non decidano di rinviare tutto di qualche settimana, perché poi i tribunali sono intasati”. I due Matteo hanno un accordo per far cadere il governo? Il patto esiste su vari dossier, ma la debolezza di Renzi nei sondaggi fa dubitare sull’obiettivo finale. E però, ieri, sia nel Pd sia in Iv si faceva notare che l’altro ad avere interesse a spingere Bonafede a non mediare è Luigi Di Maio, mai entusiasta dell’accordo con i dem. Anche per lui sembra un rischio troppo alto. Ma l’occasione per l’incidente c’è. “Ci vuole un tavolo per risolvere questo problema. Ma una data ancora non c’è: perché stavolta se ci vediamo, dovrà essere un incontro risolutivo”, chiarisce il capogruppo dem in Commissione Giustizia al Senato, Franco Mirabelli. Mentre gli altri si agitano, Renzi gongola: “La nostra posizione sulla prescrizione è puro buon senso. Non moriremo giustizialisti”.

Tutti i Paesi “barbari” senza prescrizione all’italiana: l’intera Ue

“Ergastolo processuale”. “Fine processo mai”. “Il blocco della prescrizione è una barbarie” vanno ripetendo coloro che vogliono cancellare senza se e senza ma la legge Bonafede trincerandosi dietro la bandiera nobile del garantismo. Ma se così fosse, l’Europa sarebbe piena di Stati barbari, a cominciare da Francia e Germania dove è vero che esiste una prescrizione dei reati e una delle pene, ma è anche vero che i loro sistemi sono concepiti in modo che, di fatto, la prescrizione non scatti mai. In Italia, invece, finora ci sono percentuali sconcertanti di processi finiti per reato estinto per prescrizione. Cioè, in molti casi, ci sono colpevoli riconosciuti tali da giudici che non possono però condannarli proprio a causa della prescrizione. Eternit docet.

Nel 2018 – secondo i dati ufficiali del ministero della Giustizia – sono stati 117.367 i processi finiti con la prescrizione (e non può consolare il fatto che dieci anni fa fossero 150 mila circa).

Inoltre, vi sono i dati delle Corti d’appello sempre sui processi prescritti: un trend in continuo aumento, se si guarda da dieci anni a questa parte. Se, stando sempre al 2018, i processi prescritti in appello sono stati 29.216; l’anno prima, ad andare al macero per prescrizione dei reati erano stati 28.185 processi. Nel 2014, 24.304. Dieci anni fa, a fine 2009, addirittura 14.063. Quindi, con la Bonafede – che dal 1° gennaio blocca la prescrizione dopo il primo grado e, se dovesse restare in vigore, andrebbe a regime fra 3-4 anni circa – per i cittadini ci sarebbe la certezza che venga pronunciata una sentenza nel merito definitiva.

Ma nella maggioranza, Pd e Italia Viva spingono per modificare la legge. Al momento si è fermi all’ipotesi del lodo Conte: doppio binario condannati-assolti. Cioè blocco della prescrizione dopo il primo grado per i condannati e prescrizione processuale per gli assolti, ovvero la prescrizione tornerebbe a correre se per gli assolti Appello e Cassazione non si concludono in tempi predeterminati. La prescrizione processuale riguarderebbe una minima parte di imputati. Almeno stando ai dati 2018 forniti dal Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi: “Le assoluzioni di merito sono il 21%, circa 14 mila”. In Appello, le estinzioni per “prescrizione e altre cause” sono il doppio: 35 mila estinzioni.

Ma, a fronte dei furori antiblocco prescrizione, come funziona negli altri Paesi nel mondo? La Grecia è di fatto l’unico Paese a prevedere per i processi una versione della prescrizione come l’Italia prima della legge Bonafede.

E negli altri Paesi? Francia e Germania in testa, i processi si concludono sempre con sentenze di merito perché qualsiasi atto di pm o giudice la blocca.

FRANCIA È stata la riforma del 2012, che ha aumentato i casi di interruzione della prescrizione per qualsiasi atto “di istituzione o di azione giudiziaria” (dei pm, dei tribunali ecc.) ad azzerare la possibilità che un processo muoia per prescrizione. La sospensione deriva dal principio generale secondo il quale la prescrizione non decorre nel periodo in cui “vi siano ostacoli, di diritto o di fatto, all’esercizio” della giustizia. Non si possono prescrivere crimini contro l’umanità e alcuni, gravi, in ambito militare. I “crimini” di terrorismo e traffico di droga si prescrivono in 30 anni, i “delitti”, sempre in questo ambito, in 20 anni così come gli abusi sessuali, altri reati, per esempio, di competenza della Corte d’assise in 10 anni. Per quanto riguarda i tempi di prescrizione della pena: 20 anni per i crimini, 5 anni per i delitti e 2 anni per le contravvenzioni. Ma – come detto – dal 2012 di fatto non c’è prescrizione della pena per tutte le interruzioni consentite e quindi ci sono sempre sentenze nel merito.

GERMANIA C’è una distinzione tra prescrizione della perseguibilità e prescrizione della esecuzione. Per i reati puniti con l’ergastolo la prescrizione della perseguibilità, esclusa per genocidio e omicidio, avviene dopo 30 anni per reati puniti con un massimo della pena oltre i 10 anni, è di 20 anni, per i reati che prevedono una pena tra 1 e 5 anni, la prescrizione è di 5 anni, per tutti gli altri reati è di 3 anni. E veniamo alla prescrizione dell’esecuzione pena: 25 anni per condanne superiori a 10 anni, 20 anni per pene tra 5 e 10 anni, 10 anni per pene tra 1 e 5 anni, 5 anni per pene sotto all’anno. Non esiste prescrizione per la pena dell’ergastolo. Prevista la sospensione della prescrizione per abusi sessuali sui minori fino a quando la vittima compie 30 anni. Regime di ferro per i politici: se un parlamentare federale o un membro di un organo legislativo come un Land finisce sotto accusa, la prescrizione viene calcolata non dalla data di compimento del reato, ma da quella in cui è iniziato il procedimento. La prescrizione viene interrotta per ogni atto dell’autorità giudiziaria: ordini di arresto, perquisizioni, interrogatori, e anche fissazione di udienza e incarichi a periti. Dopo ogni interruzione, la prescrizione riprende a decorrere dall’inizio. Al massimo, la prescrizione della perseguibilità avviene quando sia trascorso “il doppio del termine legale di prescrizione”. Di fatto mai.

SPAGNA Imprescrittibili i reati contro l’umanità e quelli di terrorismo se hanno causato morte e pure quelli commessi contro persone e beni protetti in caso di conflitto armato. Per tutto il resto ecco i tempi di prescrizione dei reati: 20 anni, quando la pena massima prevista è dai 15 anni in su; 15 anni, quando la pena massima è tra i 10 e i 15 anni. La prescrizione è di 10 anni quando la pena è tra i 5 e i 10 anni; 5 anni negli altri casi. Il tempo si calcola a partire dal giorno in cui è stato commesso il reato. Ma se la vittima è un minore, da quando è diventato maggiorenne. Anche in Spagna ci sono i tempi di prescrizione dell’esecuzione della pena: 30 anni nel caso si preveda oltre 20 anni di carcere; 25 anni per reclusione tra i 15 e i 20 anni; 20 anni per “inabilitazione oltre i 10 anni e reclusione da 10 a 15 anni”; 15 anni per “inabilitazione da 6 a 10 anni e reclusione da 5 a 10 anni”, 10 anni per le altre pene gravi; 5 anni per quelle meno gravi, 1 anno per le pene lievi.

Usa La prescrizione si blocca dopo l’esercizio dell’azione penale, cioè dopo l’inizio del processo.

REGNo UNITO La prescrzione non esiste, come previsto dalla tradizione giuridica di Common Law, che fissa solo un limite temporale legato all’estinzione dell’azione penale, e non del reato.

Intransigenti o coglioni

Più avanza la Restaurazione col ritorno dei codini imparruccati e impomatati sui troni, in una tragicomica parodia dell’Europa dopo il Congresso di Vienna, più appare delittuoso il cupio dissolvi delle uniche due forze che potrebbero arginarla: i 5Stelle, che sembrano aver perso non solo la voce e l’identità, ma addirittura il vocabolario e l’alfabeto; e le Sardine, reduci dall’imbarazzante bacio della pantofola di Luciano Benetton, simbolo del capitalismo assistito, predatorio e senza regole che fa danni incalcolabili dall’Italia all’Argentina. I due movimenti, molto diversi ma nati entrambi dal basso, dovrebbero interrogarsi sul vero bivio che hanno di fronte. Che non è, per i 5Stelle, tra l’annessione alla sinistra e l’opposizione velleitaria e solitaria. E non è, per le Sardine, quello tra la piazza e il palazzo, il movimentismo e la forma-partito. Ma è, per entrambi, quello fra due diverse concezioni di un valore raro e prezioso: l’intransigenza.

C’è chi pensa che l’intransigenza significhi non parlare con nessuno per non sporcarsi le mani e non perdere la verginità. E chi pensa che si debba parlare con chiunque sia degno e utile a combattere l’avversario principale. Dunque bisogna anzitutto decidere chi è l’avversario principale e, per farlo, occorre un’identità forte. I 5Stelle l’identità ce l’hanno nel Dna, anche se sembrano essersela scordata, infatti pencolano tra chi vede l’avversario principale in tutti i partiti, chi lo vede nel centrodestra e chi lo vede nel centrosinistra. Le Sardine un avversario principale ce l’hanno: il salvinismo; ma non hanno un’identità netta, perché non se la sono voluta dare: finora hanno svolto un servizio prezioso – riempire le piazze disertate e desertificate al centrosinistra e occupate in esclusiva dal centrodestra – e si sono tenute a debita distanza dalle questioni più scottanti, per non scontentare nessuno e non dividere il fronte, limitandosi a vaghe deplorazioni del “populismo” e del “sovranismo” e a una generica predicazione del bon ton. La bussola per uscire dall’impasse che attanaglia entrambi i movimenti è la giusta risposta a una domanda cruciale: cos’è l’intransigenza? Per le Sardine, è mettersi d’accordo almeno sui fondamentali: su chi sia frequentabile e chi no per non finire in bocca gli squali, com’è purtroppo avvenuto con la gita e i selfie chez Benetton. Per i 5Stelle, è scegliere alcune battaglie identitarie, moralmente e civilmente sacrosante, e da quelle non muoversi di un millimetro. Due su tutte: la revoca o la revisione radicale delle concessioni pubbliche e la blocca-prescrizione.

Le concessioni non possono più restare a chi ha lasciato sbriciolare, per sete di profitto, il guardrail di Avellino e il Ponte di Genova, facendo decine di morti. E l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado avvicina l’Italia non alla barbarie (come blatera il partito dell’impunità), ma alla civiltà (tutta l’Europa, tranne la Grecia). Su questi temi bisogna “resistere resistere resistere”, anche a costo di giocarsi la sopravvivenza stessa del governo. Chi difende vergognosamente la prescrizione e le concessioni regalate a privati senza scrupoli si assumerà dinanzi agli elettori la responsabilità di rovesciare il miglior governo oggi possibile e di regalare l’Italia a Salvini, che peraltro vuole le stesse identiche cose, proprio nel punto più basso della sua parabola politica. Alla fine si vedrà quanti italiani premieranno chi è stato intransigente.

Ma l’intransigenza c’entra poco con le alleanze. E i 5Stelle l’avevano capito due anni fa, quando annunciarono che, senza maggioranza assoluta in Parlamento, si sarebbero alleati con chiunque avesse accettato di firmare un contratto di governo che recepisse buona parte del loro programma. Lo fecero con la Lega e, tra mille resistenze, compromessi e sconfitte, portarono a casa leggi importanti. Poi, dopo il tradimento di Salvini, lo fecero col centrosinistra e in pochi mesi, tra mille ostacoli, hanno ottenuto il taglio dei parlamentari, quello del cuneo fiscale e le manette agli evasori. Lo stesso schema deve valere per le Regionali: provare a vincere per cambiare le cose. Non alleandosi dappertutto, a ogni costo, di qui all’eternità, ma oggi e dov’è possibile, tra le sei regioni che votano a maggio. Lo Statuto (che peraltro può cambiare: gli Stati generali servono anche a questo) consente di appoggiare candidati “civici” condivisi con gli alleati, come nella frettolosa e disperata esperienza umbra. E anche di far appoggiare candidati propri, come potrebbe avvenire in Campania se il centrosinistra confluisse sul ministro dell’Ambiente Sergio Costa, il generale delle battaglie nella Terra dei fuochi. Il che rende surreale, lunare, kafkiana l’assemblea di domenica fra gli attivisti campani alla presenza di Roberto Fico. Il 90% degli intervenuti ha respinto qualunque ipotesi di alleanza col Pd “a prescindere”: sia che si tratti di convergere su un’eventuale ricandidatura dell’impresentabile De Luca o su figure indigeribili come il renziano toscano Giani (mission impossible), sia di far convergere il centrosinistra su un nome “proprio” come Costa (eventualità auspicabile, anzi doverosa). Il risultato, se prevarrà questa follia, sarà il perpetuarsi dappertutto del pernicioso schema bipolare destra-sinistra che nell’ultimo biennio ha ridotto i 5Stelle a peli superflui in Emilia Romagna, Calabria, Sardegna, Piemonte, Val d’Aosta, Friuli, Abruzzo e Molise. Possibile che questi scriteriati non capiscano che liberare la Campania da De Luca e salvarla dalla calata di Salvini sarebbe un merito storico di cui vantarsi e non un peccato mortale di cui vergognarsi? C’è bisogno di un disegnino per spiegare la differenza fra un intransigente e un coglione?

La “pantera” sfida la Serbia, per il trono a cinque cerchi

La risata di Paola Egonu riecheggia tra gli spalti vuoti del PalaVerde, l’arena in cui Paola e le sue compagne della Imoco Volley si allenano tutti i giorni. Ha finito da poco, e adesso è pronta a raccontarsi e chiacchierare. Trovarsi di fronte a questa “venere nera” di 1,90 m (che Naomi Campbell non se la prenda se la spodestiamo giusto il tempo di una frase) suscita sentimenti contrastanti. Rimani incantato, se pensi alla Egonu campionessa, stella della pallavolo internazionale (medaglia d’argento ai Mondiali nel 2018, di bronzo agli Europei del 2019 con la nazionale italiana, top scorer del nostro campionato di SuperLega, pluripremiata MVP nelle rassegne d’oltralpe). Ma resti anche conquistato dalla giovane donna Paola di appena vent’anni, che tamburella con le dita lunghissime delle mani mentre ascolta le domande. Spaesa non poco scoprire che questa divina dello sport – che colpisce la palla ben oltre i tre metri di altezza e la scaglia contro l’avversaria attorno ai 100 km/h (ciò ha comportato più di un ferito) – possiede in realtà un’indole timida. “Sono molto emotiva”, ammette con disarmante sincerità. Proprio per questo, è difficile incontrarla e intervistarla: Paola è una che fa tanti fatti, ma parla poco. In compenso, sul suo conto si dice molto, e bene.

I commentatori alla TV la definiscono “pantera” per l’agilità e la forza, oppure “la stella della nazionale”, ma a lei non piace tanto essere chiamata in un modo speciale o diverso, preferisce solo “Paola” perché adora più di tutto far parte della squadra azzurra. Ricordando la finale per terzo e quarto posto agli Europei dell’anno scorso (dopo una semifinale andata male) racconta: “È stato difficile rientrare in campo, ero molto triste, molto abbattuta della prestazione del giorno prima. Non ero soddisfatta di me stessa. Sentire quei commenti (sui social ndr) in un modo o nell’altro mi aveva ferita. Se non fosse stato per le mie compagne di squadra, non mi sarei ripresa. Stare in squadra con loro è incoraggiarci a vicenda, darci fiducia a vicenda, e questo fa sempre la differenza”.

Pensare che da piccola era una secchiona e voleva fare la pediatra, e in più così pigra che è stato il padre a portarla a giocare a pallavolo dato che non sopportava di vederla sul divano a mangiare platano fritto (il suo piatto preferito), una volta finiti i compiti. Quella stessa nazionale azzurra, alle qualificazioni olimpiche sbaraglia la concorrenza e riesce ad ottenere il pass olimpico imbattuta: “Ho provato un sacco di felicità,” risponde raggiante, “ero contentissima, ce lo siamo meritate. Per noi, è l’inizio di un sogno.” E ride moltissimo quando si accenna alla rivalità con la nazionale serba (soprattutto per delle battute goliardiche sull’argomento lanciate qui e lì da chi scrive).

L’Italvolley femminile miete successi e si prepara alle Olimpiadi di Tokyo, mentre Paola diventa un mito sportivo e umano. Soprattutto, seduce il fatto che ciò sia accaduto involontariamente, malgrado se stessa e la sua natura riservata. Fa la pubblicità in TV di un fondotinta parlando di autenticità, è donna dell’anno per un femminile. “Vivo bene la situazione perché non condiziona la mia prestazione sportiva, posso tenerla sotto controllo. E come tutte le ragazze mi piace farmi bella, sentirmi femminile, vestire bene e non soltanto stare in tuta”, rivela mentre sistema i lacci delle scarpe da tennis, sottolineando che “dentro ogni sportivo o sportiva, c’è tanto altro”.

Cosa c’è, allora, dentro Paola Egonu? Qualcuno – i più superficiali – pensa di averlo scoperto quando, con la naturalezza che le è propria, Paola ha risposto in un’intervista di essersi fatta consolare dalla sua fidanzata per la sconfitta alla finale mondiale del 2018. Ma sia chiaro, non si pente di aver parlato della sua sfera privata (anche se ora, cercando Paola Egonu su Google, “fidanzata” è la terza voce più cliccata dopo “altezza” e “Ogechi”, che è il secondo nome), anzi è fiera di aver dato il conforto a molti ragazzi e ragazze vittime di bullismo e omofobia, necessario ad alzare la testa: “Sì, questo mi rende felice, perché nessuno conosce le battaglie personali che ciascuno di noi deve affrontare. Facile giudicare senza sapere. Parlando di me non pensavo di toccare tutte queste persone, di dare loro coraggio, di far capire che la vita è una e appartiene solo a noi”. S’infuocano gli occhi appassionati di Paola, mentre parla. E ora sì che sembra proprio una pantera, una pantera gentile.