Immobile batte CR7, ma vietato parlarne

Cristiano Ronaldo compirà dopodomani 35 anni. Un’età in cui nove calciatori su dieci si ritirano, se già non l’hanno fatto, e che vede invece CR7, cinque Champions e cinque Palloni d’oro vinti in carriera, giocare ancora a un livello straordinariamente competitivo. Ronaldo sembra davvero un calciatore di 27–28 anni e non per niente la Juventus, ingaggiandolo nell’estate 2018, ha investito su di lui per quattro stagioni: due e mezza sono ancora da percorrere, CR7 chiuderà la sua corsa in bianconero il 31 maggio 2022 a 37 anni e 4 mesi. Detto questo, e precisato che tutti gli elogi sul suo conto sono meritatissimi, è possibile chiedere ai media di casa nostra, quando si parla delle sue performances, un po’ più di obiettività e un po’ meno ossequio? Di riverenze pelose CR7 non ha certo bisogno.

Nei giorni scorsi molti hanno dato risalto all’ultima statistica resa nota su CR7: quella secondo cui nei cinque maggiori campionati d’Europa Ronaldo è primo, per distacco, nella classifica dei tiri in porta. Ronaldo ha tirato in porta 101 volte (la statistica è aggiornata al penultimo turno disputato nei tornei europei) e dietro di lui troviamo Lewandowski (92 tiri), Lautaro Martinez (85), Werner (81), Immobile e R. Jimenez (80), Salah (76), Rashford (74), Abraham e Firmino (72) e ancora Messi (71). E insomma, che dire: chapeau! Se non fosse che, essendo noto a tutti che nel calcio quel che conta è fare gol, ci è venuta voglia di andare a vedere quanti gol, tirando 101 volte, abbia segnato CR7 e quanti gol, tirando meno, abbiano fatto gli altri.

E abbiamo scoperto che la migliore percentuale realizzativa, nel rapporto tiri fatti/gol segnati, non è sua. Nell’unica classifica che conti, cioè questa, il miglior cannoniere d’Europa è di gran lunga Ciro Immobile della Lazio che con 23 gol su 80 tiri ha una percentuale di realizzazione del 28,8 (segna cioè un gol ogni 3 tiri e mezzo). Al secondo posto c’è Werner del Lipsia (20 gol su 81 tiri, percentuale 24,7) e poi Lewandowski del Bayern (21 su 92 = 22,8%), Messi del Barcellona (14 su 71 = 19,7%), Rashford del M. United (14 su 74 = 18,9%), Abraham del Chelsea (13 su 72 = 18,1) e solo al settimo posto c’è Ronaldo con 17 gol su 101 tiri e una percentuale del 16,8 (segna una volta ogni 6 tiri). Ricapitolando: da un lato c’è un attaccante, Immobile, che ogni 3 tiri e mezzo fa gol e dall’altro c’è Ronaldo che per segnare ha bisogno del doppio dei tiri del laziale; nonostante ciò la statistica, che pure contiene tutte le voci utili a darle un senso compiuto, viene tradotta da noi al solito modo, “ronaldisticamente”, senza incrociare i dati, esibendo il primato fine a se stesso di CR7 e nascondendo la strepitosa performance di Immobile. Sandra Milo urlerebbe: Cirooo!

Quando CR7 la stagione scorsa iniziò il campionato restando sorprendentemente a secco nelle prime due giornate (contro Chievo e Lazio: digiuno che proseguì anche alla terza col Parma), la Gazzetta se ne uscì martedì 28 agosto con questo titolo in prima: “Che numeri! Ronaldo al top, 15 tiri in 2 gare, re in Europa”. E all’interno, in un pezzo intitolato “Ronaldo al top: nessuno calcia più di lui”, lo esaltava perché, si leggeva, nessuno in Europa tira “ossessivamente” come lui, nemmeno Aguero e Salah, secondi in graduatoria. Tirare e non segnare. Se lo fa Ronaldo, da noi diventa un prodigio.

Gli sfruttati del joystick: alle case miliardi, ai lavoratori solo spiccioli

“Combattiamo per un futuro più giusto per i lavoratori”. La lotta politica si è insinuata tra i fili dei loro computer, tra sistemi ed algoritmi a cui lavorano imperterriti. Sono nerd dai capelli rosa, blu, verdi spesso con gli occhiali sul naso. Il pugno disegnato in bianco sulla loro bandiera nera stringe un joystick e la scritta dice Game workers unite. Contro orari disumani di lavoro, totale assenza di diritti, salari bassissimi e precari, è nato il sindacato dei lavoratori dei videogiochi. Sono ingegneri, disegnatori, matematici, grafici, programmatori che, coraggiosi, si stanno unendo da un lato all’altro del mondo nell’universo spietato dei colossi digitali, per evidenziare il costo umano invisibile pagato nel settore.

Per produttori dei videogiochi ci sono milioni di dollari di profitto per un commercio massivo e globale in piena espansione dalla sua nascita. Ma dietro la patina ludica di pixel fluorescenti e livelli da superare dei videogiochi si nasconde sfruttamento e violenza, intrattenimento per i compratori e disumanità per gli impiegati: costretti a lavorare senza sosta anche 70 ore di seguito per 13 dollari l’ora, disegnatori e programmatori vengono licenziati appena i giochi vengono immessi sul mercato, facendo fruttare, come nel caso del videogames “Call of Duty”, anche 500 milioni di dollari di profitto alle case di produzione solo nei primi giorni d’uscita.

“Ogni gioco che ami è costruito sulle spalle dei lavoratori, i creatori di videogiochi sono in burn oute, in attesa disperata di cambiamenti”. Con questo titolo il primo ad accorgersi della loro pericolosa condizione è stato il Time. “L’industria dei videogiochi ha avuto un profitto di 43 miliardi di dollari l’anno scorso, i lavoratori responsabili di quel profitto meritano di unirsi in sindacato, sono felice di Game Workers”: sono le parole con cui il senatore rosso del Vermont Bernie Sanders ha benedetto il gruppo l’anno scorso. Trasversali ed internazionali come il settore di mercato ad alta specializzazione in cui lavorano, i combattenti del joystick appoggiano proteste contro taglio alle pensioni in Francia, si incardinano negli scioperi dei dipendenti Google, in Gran Bretagna si pronunciano sui licenziamenti immotivati.

La sfida del cambiamento è stata colta anche dalle ragazze, ghetto minoritario in un ghetto già minuscolo. Dietro gli stessi schermi virtuali dove gli altri giocano in mondi costruiti su misura per il loro escapismo privato, senza alzarsi dalle scrivanie americane dove lavorano sedute giorno e notte, anche le pochissime ragazze dell’industria hanno preso fiato e coraggio per denunciare molestie sessuali subite in un settore dove gli uomini costituiscono la maggioranza tra creatori e compratori. Nel sottobosco delle pagine dei blog sono in tanti ad aver letto la denuncia aperta della programmatrice Nathalie Lawhead contro il suo ben più famoso collega Jeremy Soule o le accuse di stupro della sviluppatrice ossigenata Zoe Quinn contro Alec Holowka, leggenda del mondo ludico, che ha deciso di togliersi la vita quando la ragazza ha parlato pubblicamente.

Pagare in contanti: ritorna il tetto fino a duemila euro

Tra pochi mesi torneranno a stringersi le maglie sull’uso del contante in Italia, come previsto dall’articolo 18 della legge 157/2019 di bilancio per il 2020. Dal prossimo primo luglio il limite massimo all’uso del “cash” per i pagamenti si riabbasserà da 2.999,99 a 1.999,99 euro, per poi calare nuovamente a 999,99 euro (lo stesso valore che aveva prima dell’intervento del governo Renzi nel 2016) dal primo gennaio 2022. Secondo la Bce, nel 2016 in Italia l’86% circa dei pagamenti era effettuato in contanti, il 13% con carte e il resto con altri strumenti . La Penisola svettava in Ue per la preferenza accordata al cash. La nuova restrizione all’utilizzo del contante è il risultato di un continuo rimpallo politico: da un parte il governo Conte 2 vuole attuare il “Piano per la rivoluzione cashless”, incentivando la tracciabilità dei pagamenti contro l’evasione fiscale; sul fronte opposto forze politiche (come Italia Viva) che non scoraggiano il cash.

In Italia è la nona volta che cambiano le regole sull’uso del contante: dopo quelle del primo gennaio 2002 (tetto a 10.329,14 euro), 26 dicembre 2002 (12.500), 30 aprile 2008 (4.999,99), 25 giugno 2008 (12.499,99), 31 maggio 2010 (4.999,99), 13 agosto 2011 (2.499,99), 6 dicembre 2011 (999,99) e, appunto, primo gennaio 2016 (2.999,99). Un’altalena che non aiuta i cittadini e gli imprenditori. Queste norme si intersecano con quelle antiriciclaggio che invece mantengono tetti più limitati per alcune categorie di operatori (come i “Money transfer”, per i quali il tetto al cash resta a 999,99 euro) e soprattutto sanzioni amministrative e penali pesanti.

Per ridurre la circolazione del contante, che favorisce l’economia sommersa e dunque non solo l’evasione fiscale ma anche le attività illegali e il riciclaggio, le norme prevedono che dal prossimo primo luglio qualsiasi trasferimento di denaro cash superiore ai 2mila euro dovrà essere effettuato attraverso canali tracciabili dal sistema finanziario e dunque dalle agenzie fiscali e di controlli. Dunque per i pagamenti di somme dai 2mila euro a salire dovranno essere utilizzate le carte di debito (bancomat) o di credito, anche prepagate e ricaricabili, gli assegni bancari e circolari, i bonifici bancari o postali.

Occorre fare molta attenzione perché basta un solo errore e si incorrerà in sanzioni molto severe. Salvo che il caso non comporti reati come il riciclaggio e l’evasione fiscale, dal primo luglio l’utilizzo del contante per pagamenti da 2mila euro a salire farà scattare sanzioni amministrative da un minimo di 3mila a un massimo di 50mila euro sia per chi paga che per chi incassa il cash. Attenzione perché la sanzione riguarda anche le operazioni di trasferimento tra familiari e parenti, anche sotto forma di donazioni. È inoltre vietato, come già avviene dal primo luglio 2018, il pagamento degli stipendi in contanti. Stipendi, salari, collaborazioni e onorari devono essere sempre versati attraverso canali tracciabili.

Il nuovo tetto, che scatterà dal primo luglio, non riguarda invece l’utilizzo di contante oltre la soglia dei 2mila euro se effettuato attraverso prelievi o versamenti per cassa dal proprio conto corrente bancario o postale. Lo spiegano le “Domande e risposte frequenti” sulla prevenzione dei reati finanziari del dipartimento del Tesoro: nel caso di prelievi o di versamenti sui propri conti, non avviene trasferimento di contante tra soggetti diversi e dunque non si applica il “tetto”. Il ministero spiega anche che a fronte della richiesta di una somma superiore al limite di legge, è possibile pagare parte in contanti e parte in assegno purché il trasferimento in contanti sia inferiore alla soglia dei 3.000 euro (2mila dal prossimo primo luglio), oltre la quale è obbligatorio l’utilizzo di strumenti di pagamento tracciabili.

Quanto alle fatture uniche per la vendita di un bene il cui importo è superiore al limite dei 3mila euro, è possibile accettare il versamento di denaro contante a titolo di caparra – sempre secondo il Tesoro – purché il trasferimento in contanti sia inferiore alla soglia dei 3.000 euro (2mila dal primo luglio), oltre la quale è obbligatorio l’utilizzo di strumenti di pagamento tracciabili. Infine, è possibile il pagamento di una fattura di importo complessivo pari o superiore a 3mila euro, mediante l’emissione di più assegni bancari, ciascuno d’importo inferiore al limite di legge in quanto questo non configura l’ipotesi del cumulo e, pertanto, non dà luogo a violazioni di norme.

Il pagamento di una fattura d’importo complessivo pari o superiore a 3mila euro, effettuato con più assegni bancari che indichino nome o ragione sociale del beneficiario e, se pari o superiori a 1.000 euro, della clausola di non trasferibilità, non fa scattare le sanzioni perché gli assegni, a differenza del contante, sono tracciabili sia dalla banca che li ha tratti sia da quella che li negozia.

La Brexit dell’auto danneggia i lavoratori

Che la Brexit sia uno “strappo” per l’Europa, come lo ha definito Angela Merkel, non v’è dubbio. E chissà se nella sua testa la cancelliera non avesse anche le ripercussioni che la separazione di pochi giorni fa avrà sull’auto. Perché l’interscambio di accessori e componentistica tra il Regno Unito e l’Unione Europea vale 11 miliardi e mezzo di euro all’anno, e tra i principali attori di questo business ci sono proprio i grandi costruttori tedeschi. Dal canto suo, anche l’Inghlterra lancia un grido di dolore. E lo fa tramite l’associazione nazionale dei costruttori SMMT: “È essenziale che tutti i prodotti automobilistici possano essere acquistati e venduti senza dazi o oneri”. Difficile che accada. Anzi, si stima che l’impatto di una tassazione aggiuntiva su veicoli e componentistica farà lievitare di 1.500 sterline (circa 1.800 euro) il prezzo medio di ogni auto sul mercato britannico, che attualmente è di 22.700 sterline (circa 27 mila euro). Non poco. A questo bisogna aggiungere il lento declino di produzione ed export britannici. Lo scorso anno i produttori europei e quelli giapponesi hanno sfornato solo 1,3 milioni di vetture: il 14,2% in meno rispetto al 2018, che pure era stata una stagione al ribasso. Oltre l’80% di queste è destinato alle esportazioni (verso l’UE, per lo più), che non a caso nel 2019 sono calate dell’11,1%. Ma se le aziende tutto sommato troveranno il modo di cavarsela, la preoccupazione è per i 447 mila lavoratori del comparto automotive inglese: chi ha votato per il leave, ora si starà mangiando le mani.

Luca De Meo, il primo italiano a capo di Renault

Directeur prodige. Forse è così che l’industria automobilistica francese si rivolgerà a Luca De Meo, il 52enne milanese chiamato a dirigere il gruppo Renault. Lo stesso in cui il manager di origini pugliesi aveva iniziato la sua carriera nel 1991, passando per Toyota, Fiat – dove ha resuscitato il marchio Abarth e curato il lancio dell’Alfa Romeo MiTo – per poi approdare alla Volkswagen, dove ha chiuso la sua esperienza al vertice della Seat, rilanciandola. “Luca De Meo è un grande stratega e visionario di un mondo automobilistico in rapida evoluzione. La sua esperienza e passione per le auto lo rendono una vera risorsa per il Gruppo”, sostiene il presidente del cda Renault, Jean–Dominique Senard. E c’è da credergli, perché un italiano alla guida di un colosso francese a quattro ruote non s’era mai visto prima d’ora. La missione a Boulogne–Billancourt, sede della Renault, non sarà facile: dal 1° luglio 2020, quando si insedierà ufficialmente come amministratore delegato e direttore generale, De Meo dovrà prima di tutto ricucire i rapporti fra la casa della Losanga e gli alleati giapponesi di Nissan e Mitsubishi. In ballo c’è un piano di ristrutturazione in cui ognuna delle tre aziende sarà referente per una determinata regione: Nissan per la Cina, Renault per l’Europa, Mitsubishi per il Sudest asiatico. Ciascuna compagnia del trio dirigerà lo sviluppo di una tecnologia chiave, accessibile poi ai partner dell’Alleanza, che da quest’anno condivideranno in Europa i crediti CAFE (Corporate Average Fuel Economy) in tema di consumi ed emissioni inquinanti. Per migliorare l’efficienza operativa.

Citycar, ecco Mazda 2. La via democratica dell’auto

Le citycar stanno sparendo, per via del poco ritorno agli investimenti necessari per aggiornare una generazione di vetture che, per loro natura, hanno senso solo con listini a portata di essere umano. Quelle che restano giocano la carta delle motorizzazioni Full Hybrid, e chi può ribatte con le Mild Hybrid. Meno complesse sul piano tecnologico, ma furbe il giusto per beneficiare dei vantaggi su bollo e blocchi al traffico destinati a questa categoria di auto. Sta al costruttore farne un’interpretazione non solo opportunistica, ma casomai raffinata, cioè la tappa di un percorso verso l’ibrido e l’elettrico bilanciando vantaggi e costi in base alle situazioni d’uso. Ed è questa la strada della nuova Mazda 2, un profondo restyling tecnologico per la vettura nata nel 2015 e oggi pronta ad abbandonare il diesel per una motorizzazione Mild Hybrid tarata su bassi consumi ed emissioni, ma senza snaturare la reputazione del marchio giapponese in fatto di auto divertenti da guidare.

Pochi e grintosi ritocchi estetici, interni che rispecchiano i noti standard di qualità Mazda nei materiali e nelle finiture, molta più insonorizzazione e poi il quattro cilindri 1.5 benzina aspirato Skyactiv-G, nel taglio di potenza da 75 Cv adatto anche ai neo patentati e in quello più preferibile da 90 cavalli: utilizza un sistema a 22,5 Volt, ovvero un piccolo propulsore elettrico che fa da motorino di avviamento e aiuta il motore in accelerazione. Il dettaglio tecnico è di livello, perché manca una batteria chimica classica e Mazda ha scelto invece un raffinato supercondensatore, un circuito in grado di immagazzinare e poi rilasciare energia elettrica ad una velocità più alta rispetto ai classici accumulatori, facendo rimbalzare in modo rapido la corrente raccolta nella frenata rigenerativa verso il motore elettrico che aiuta quello a benzina in ripresa o in partenza.

Ed è così che torna la citycar, con appena 406 centimetri di lunghezza per 169 in larghezza: un senso di agilità nel traffico che rischiavamo di dimenticare, con 1.025 kg di peso, perché la leggerezza è fondamentale nella ricerca di bassi consumi. Solo 4.1 l/100 km (5,3 l/100 km nel ciclo WLTP) per la più divertente versione da 90 Cv, che emette 94 gr/km di CO2.

Con un convincente cambio manuale a sei rapporti che riconcilia con la vecchia scuola di cercare l’allungo e la potenza in alto, con uno sterzo preciso e il sistema G-Vectoring Plus che utilizza i freni della ruota esterna per aiutare i riallineamenti in uscita di curva, per l’assetto da auto vera. Con prezzi a partire da 17.800 euro e promozioni di lancio per una citycar che, invece di sparire, arriva. Anche in tempo di guerra alle emissioni.

Il mistero degli aruspici elettorali

E anche queste elezioni del ’94 sono passate. Non vedevamo l’ora! Mesi di campagna elettorale, promesse di miracoli futuri, benessere, assistenza sanitaria e meno tasse, accuse reciproche all’ordine del giorno, anzi dell’ora, per screditare gli avversari, insomma tutto molto scontato. Ha vinto Berlusconi. Non so se sia un bene, il tempo giudicherà. Ma quello che mi colpisce è che qualunque siano stati i risultati, alla fine hanno vinto tutti. Anche quelli più sconfitti trovano il modo di cantare vittoria e di gioire come se avessero vinto “…perché tenendo presente i risultati delle regionali di 8 anni fa, le amministrative di 20 anni fa e le varie scissioni subite nell’arco degli ultimi 40 anni, alla fine c’è da essere contenti, anzi più che ottimisti. La strada è in salita!”. Sono ammirata dalla capacità di queste persone di raccontare e raccontarsi delle bugie così evidenti, senza che a nessuno di loro cresca il naso come al vecchio Pinocchio. Ma l’altra cosa che non riesco a mandar giù, sono le cosiddette proiezioni. Dopo 5 minuti dalla chiusura dei seggi sono in grado di dire chi ha vinto e chi ha perso. Come se avessero la sfera di cristallo. Ma chi sono questi che hanno il dono della preveggenza? Degli indovini? Dei maghi? Degli aruspici che leggono il futuro nelle viscere degli animali? Sembra che interroghino una campionatura di elettori in tempo record, ma chi può assicurarci che quegli stessi elettori dicano la verità? Nessuno vuol far sapere le proprie scelte, il voto notoriamente è segreto. E allora? Non si saprà mai. Forse dispongono di gruppi di spie nane che si nascondono nei seggi e corrono a comunicare i voti in tempo reale. È un mistero, meno male che ogni tanto nel corso della notte i risultati misteriosamente si invertono. E in questo caso quelle povere spie nane che fine faranno?

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Il diario di Francesco Rosi sulle orme di Che Guevara

I 199 giorni del Che, a cura di Maria Procino, Rizzoli editore, è appena uscito in libreria. E non c’è dubbio che sarà riconosciuto subito per un documento importante di un importante autore del cinema italiano. Sono gli appunti di conversazione e di viaggio di Francesco Rosi con guerriglieri, intellettuali, politici, comandanti e contadini che hanno conosciuto Che Guevara e sono stati, in un modo o in un altro, parte del sogno di rivoluzione che comincia quando il giovane medico argentino raggiunge Castro sulla Sierra di Cuba e finisce nella mai dimenticata immagine del corpo esangue dall’espressione dolce della famosa fotografia inconsciamente ispirata dal Mantegna.

In questo libro c’è il diario di Rosi che vuole fare quel film, ma anche il diario della lunga e profonda riflessione ispirata da Shakespeare e dal tradimento e uccisione di Cesare, dal rapporto libero e tormentato di Rosi con la sinistra politica come costruzione partitica (comunisti italiani, comunisti cubani) e culturale (che cosa è ammesso, che cosa è escluso), e da una infinita diffidenza della politica per la cultura, ripagata dal guardare, sapere e non obbedire che era, secondo Rosi, il dovere dell’intellettuale e la sola via per l’artista. C’è però un equivoco che potrebbe ingiustamente pesare su questo libro, che è stato reso possibile, oltre che dalla brava curatrice, dalla attenzione assidua e intelligente che la figlia Carolina ha mantenuto sul lavoro del padre.

Con lui è stata vicinissima (aiuto regista, confidente, attrice) e lontanissima (la sua è una splendida vita di teatro in cui è sembrata occuparsi del mondo e della vita pubblica in un modo completamente diverso). Invece, dimostrano sia l’introduzione della curatrice, sia la bella amorosa dedica in testa al libro della figlia al padre, che l’amore qui non è omaggio ma capacità di sapere, di capire e di aiutare a ricostruire i bellissimi quaderni in cui Rosi ha narrato la sua avventura nel seguire e indagare l’avventura del Che. Dunque non pensate a un tributo di affetto e rispetto, pensate a un importante narrazione critica.

In essa non solo è bello il linguaggio da libro d’avventure dei diari di Rosi. È bello e importante il ritratto dei comunisti italiani che vi prendono parte (e che sembrano più sacerdoti di una fede perenne che militanti di una politica in corsa ) e dei comunisti cubani, che Rosi disegna con bravura di ritrattista e tocchi di “cubanità” che spiegano perché le sceneggiature di Rosi, prima ancora dei film, sono così belle. I due momenti alti, due prove di un talento letterario che avrebbe fatto di Rosi un importante scrittore se il cinema non lo avesse stregato, sono la lunga attesa a L’Avana, con Fidel Castro che tarda e rinvia, e la celebrazione di Guevara morto, che vuol essere un grande funerale ma non un grande dibattito pubblico e critico sulla rivoluzione.

E poi c’è la narrazione della lunga, estenuante esplorazione dei sentieri perduti della Bolivia dove Che Guevara è ormai un leader finito, prima ancora di essere ucciso. Prima ancora di essere esposto come trofeo, pauroso e gentile, che ha generato la forza straordinaria del ricordo. Quel ricordo non era lo stesso per tutti. Alcuni erano tormentati come da demoni shakespeariani, altri lo hanno abbracciato subito. Per questo Francesco Rosi voleva fare a tutti i costi quel film. Non glielo hanno fatto fare. E il libro, che la curatrice Procino e Carolina Rosi hanno tenacemente reso possibile, ci spiega, come un romanzo thriller, perché.

Destra, ecco i tre problemi genetici: l’eredità fascista, la Chiesa, l’élite

Tre sarebbero i problemi della destra in Italia: il Fascismo, l’establishment e la Chiesa. Sono problemi nel senso che la destra – i cui limiti ed errori fanno vincere la sinistra che, di suo, non è maggioranza nel Paese – non li risolve mai. E dunque: staccarsi dal Ventennio, avere un rapporto organico con le élite che controllano il sistema e rapportarsi, infine, col Vaticano al quale questa destra, sembra essersi capovolta nel sembiante al punto di sostituire nell’immaginario il comunismo contro cui, l’allora pontefice regnante, nel 1948 alzò la Diga. I tre problemi di cui sopra sono stati elencati da Ernesto Galli della Loggia in un interessante fondo pubblicato, giovedì scorso, sul Corriere della Sera.

Sul primo, si sa, c’è il grande equivoco: pensare il fascismo come espressione per antonomasia della destra. Tutti quelli che sono schierati contro il pensiero corrente, dunque contro la sinistra, sono considerati – annota Galli della Loggia – “battistrada del fascismo”. E, infatti, Amintore Fanfani è Fanfascista, Bettino Craxi è disegnato con gli stivali del Duce, perfino Silvio Berlusconi – come nelle copertine dell’Espresso – è in orbace e Indro Montanelli, ancora prima di essere accolto alle feste dell’Unità, è solo un basco nero cui sparare a vista. Un fascista, appunto. Il primo dei problemi si risolve studiandolo: il fascismo non fu fascista per come lo s’intende con gli strumenti pavloviani della retorica di Stato. Fu prassi che visse e si contraddisse nel preciso contesto di un’Italia ormai conclusa: in avvio di modernità – fa testo il lascito di scienza, urbanistica e tecnologia – e nel pieno dell’ideologia sociale e socialista. Tutt’altro che destra, comunque.

Il terzo dei problemi impegna più il soggetto mugugnante – la Chiesa – che i mugugnati, ossia i destri. I vescovi di oggi, e il Papa con loro, non saprebbero che farsene di un Giovannino Guareschi, non gli chiederebbero – come fece a suo tempo Giovanni XXIII – di redigere un catechismo. E infatti la cristianità rifulge più tra le cupole a cipolla del Cremlino, un tempo casa dell’Anticristo, che nelle parrocchie d’Italia.

Il secondo dei problemi è più interessante: “La destra”, scrive Galli della Loggia, “è poco o nulla radicata nell’establishment del Paese”. Il problema è un problemone, se ne deduce, perché questa destra si trova nella condizione di non avere un solo nome – si legge ancora nel fondo del Corriere – “di nomi significativi per incarichi di prestigio come quello fondamentale della presidenza della Repubblica”. Sicuro sia così? Se c’è stata fretta – e furia – nell’imbastire col Pd il Conte2 altro spavento non c’era che ritrovarsi, per la prima volta nella storia repubblicana, un Capo dello Stato fuori sistema, ovvero un estraneo al vivaio catto–comunista. Fosse durato il governo gialloverde, ossia l’alleanza Lega–M5S, i due movimenti anti–sistema, i nomi erano in verità già pronti: Giulia Bongiorno, Carlo Nordio, Ilaria Capua, Luca Ricolfi, Giulio Tremonti, Anna Maria Bernini, Erika Stefani, Franco Frattini in quota Luigi Di Maio, Sebastiano Ardita e, perché no – in considerazione al suo essere controcorrente, intellettualmente onesto – lo stesso Ernesto Galli della Loggia.

La destra segnatamente impresentabile, e cioè il sovranismo, secondo i codici della vita sociale corrente, governa – e con uno standard di qualità superiore al resto del Paese – Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Sono, per dirla con Massimo Cacciari, “la Repubblica cisalpina e gli ex territori asburgici”, ovvero, qualcosa che se non è l’establishment, molto gli somiglia.

Mediobanca, il report col trucco sui rendimenti dei fondi comuni

Dal 1992 l’ufficio studi di Mediobanca elabora e pubblica annualmente un’interessantissima indagine sui fondi comuni italiani, che ovviamente ne escono con le ossa rotte, perché lo studio è condotto in modo onesto. Solo barando si può giungere a conclusioni positive per il risparmio gestito italiano.

Ma circa un anno fa è capitata una cosa strana. All’indagine è stata affiancata una Presentazione di chiaro intento apologetico. La cosa si è ripetuta con l’ultimo recente aggiornamento della ricerca (Dati di 1320 fondi e sicav italiani 1984-2018), che è sempre seria e documentata e quindi inevitabilmente sfocia in una bocciatura dei fondi ancora più clamorosa. Ragioniamo infatti sul confronto alla base dell’indagine fin dall’inizio, cioè quello fra Bot e fondi a partire dalla loro nascita nel 1984. A fine 2018 cento lire (o euro) in Bot 100 erano diventate 641 e in fondi invece solo 516 con un minus complessivo arrivato al 125%. Non lo sostengo io: risulta dai numeri della ricerca di Mediobanca.

Cosa scopriamo invece nella sua Presentazione, diffusa sempre dalla società e premurosamente ripresa dai principali giornali italiani? L’anno precedente essa sbandierava il confronto fondi-Bot sugli ultimi quindici anni. Invece quest’anno esso è sparito. Al suo posto compare di punto in bianco il confronto a dieci anni (2009-2018), da cui i fondi escono benino. Una scelta un po’ sfacciata. Mandando in cavalleria il lustro 2004-2008, è stato nascosto sotto il tappeto un minus del 7,6% dei fondi rispetto a Bot. Sempre in base ai dati di Mediobanca.

Ma non basta, perché la presentazione riporta i dieci fondi migliori, i dieci meno cari ecc. Ottimo supporto per le vendite. Peccato che così siamo al livello dei volantini di supermercati coi dieci surgelati che costano meno. Non a quello di uno studio scientifico e neppure di un servizio giornalistico serio, che riporterebbe tanto i migliori quanto i peggiori.

E non è finita, per la serie che al peggio non c’è mai limite. Poiché la ricerca sui fondi è aggiornata a fine 2018, logica (e correttezza) vorrebbero lo stesso nella Presentazione per le performance dei singoli fondi. Invece no. Non appaiono quelle (inferiori) a fine 2018, neppure a dicembre 2019, né a novembre, neanche a ottobre, bensì a fine settembre. Che coincidenza fortunata! Proprio il fine mese coi titoli di Stato italiani ai massimi dell’anno con un +14,2% nei nove mesi.

Che in tutto questo c’entri qualcosa il fatto che da qualche anno anche il gruppo Mediobanca guadagna collocando fondi ai risparmiatori?

www.ilrisparmiotradito.itTwitter @beppescienza