Che formidabile coppia. L’Italia non se ne è accorta. Ma sotto la coperta del tempo e degli eventi si è progressivamente formato un irriducibile binomio di legalità. Un marchio antico, fortissimo. Due uomini praticamente coetanei che insieme fanno più di 190 anni. Che hanno avuto incarichi pubblici di rilievo e navigato a lungo e senza macchia nei marosi della Repubblica con l’idea di darle più legalità. Che oggi appaiono defilati rispetto all’agone politico e istituzionale. Ma che hanno mantenuto una lucidità straordinaria, nella memoria come nell’analisi del presente. Monito per tanta gioventù in eccesso di baldanza e difetto di pensiero.
Si chiamano Virginio Rognoni e Carlo Smuraglia. Il primo pavese, il secondo milanese di origine marchigiana. Ex democristiano l’uno, ex comunista il secondo. Entrambi esponenti del Paese che seppe resistere all’urto del terrorismo e della mafia. E anche all’urto, certo diverso, delle leggi ad personam o degli assalti alla Costituzione. Storie italiane diverse e parallele, e che ora si fondono in quel marchio antico. Perché capita quasi sempre a un Paese di avere un grande vecchio che nei momenti di rivolta sappia esserne simbolo morale. Lo ha avuto la Francia in Stephane Hessel, autore quasi dieci anni fa del celebre Indignez-vous!. Lo ebbe l’Italia con Vittorio Foa ai tempi dei girotondi. Ma due grandi vecchi insieme, sul tema supremo e attualissimo della legalità, sono davvero cosa preziosa.
Da tempo si ritrovano puntualmente sulle stesse posizioni quando per la patria arrivano prove difficili, anche se mascherate da riforme. Percepii improvvisamente la loro storia gemella quando ebbi la ventura di vederli parlare a tu per tu una sera d’estate su un prato fuori Pavia per i 90 anni di Virginio Rognoni. Così tra gli auguri che fioccavano mi venne istintivo ripassare le loro vite.
Rividi Rognoni diventare ministro dell’Interno al posto di Cossiga dopo l’assassinio di Aldo Moro, con il terrorismo all’apice della forza ma incredibilmente prossimo alla sconfitta. Lo vidi resistere (invano, purtroppo) al ciclone Cosa Nostra dell’82; poi farsi primo firmatario della legge di Pio La Torre ucciso, e difendere da ministro della Giustizia il maxiprocesso di Palermo. Lo vidi unico uomo di governo dire la verità ai giudici sulla vicenda del prefetto Dalla Chiesa. E guidare da membro laico il Csm, tenendo testa alla pretesa che la legge non fosse uguale per tutti, che si potessero disfare i processi a piacere degli imputati. Ricordai una riunione della Margherita nel 2002 quando, proponendo io la sua candidatura al Csm, un costituzionalista che aspirava a quel posto mi contestò ironicamente “largo ai giovani”. Per fortuna fu così: largo ai giovani di mente, anche se alla soglia degli ottanta.
Smuraglia, magrissimo, gli stava davanti con un calice di vino in mano, e anche per lui riavvolsi la memoria. Avvocato di parte civile per la famiglia di Cristina Mazzotti, la ragazza sequestrata dai clan calabresi in Brianza e ritrovata morta in una discarica dopo il pagamento del riscatto. Membro del Csm dei tradimenti, dove difese senza se e senza ma la causa di Giovanni Falcone. E di nuovo avvocato, con quel proponimento che mi spiegò una volta nel suo studio con argomentazioni cristalline: non difendere mai un mafioso. Presidente della prima commissione antimafia del Consiglio comunale di Milano, e poi relatore per la Commissione parlamentare antimafia sulle regioni del Nord, con un rapporto studiato ancora oggi da studenti e laureandi. Senatore e autore di una legge per dare lavoro ai detenuti e difendere i diritti dei lavoratori disabili. Fino alla recente, strenua difesa della Costituzione come presidente dell’Associazione partigiani.
Di Rognoni una giovane collega mi ha chiesto sbalordita, dopo averlo sentito a lezione, se “una volta i politici erano così”. Di Smuraglia un cronista mi ha riferito che per i 50 anni di Piazza Fontana, l’unico a intervenire a Palazzo di Giustizia con i fatti e i nomi in fila, senza leggere, era stato lui. Ecco, mercoledì pomeriggio alle 16 all’Università Statale di Milano questi due grandi vecchi si incontreranno di nuovo per discutere non di Moro o del maxiprocesso, ma del futuro della legalità in Italia. Titolo: “Te lo do io il grande Vecchio”. E chissà se finalmente, sulla prescrizione e sulla corruzione, non sentiremo parole di verità. Perché 190 anni in due sono davvero una forza.