I grandi vecchi italiani: Smuraglia e Rognoni, 190 anni di legalità

Che formidabile coppia. L’Italia non se ne è accorta. Ma sotto la coperta del tempo e degli eventi si è progressivamente formato un irriducibile binomio di legalità. Un marchio antico, fortissimo. Due uomini praticamente coetanei che insieme fanno più di 190 anni. Che hanno avuto incarichi pubblici di rilievo e navigato a lungo e senza macchia nei marosi della Repubblica con l’idea di darle più legalità. Che oggi appaiono defilati rispetto all’agone politico e istituzionale. Ma che hanno mantenuto una lucidità straordinaria, nella memoria come nell’analisi del presente. Monito per tanta gioventù in eccesso di baldanza e difetto di pensiero.

Si chiamano Virginio Rognoni e Carlo Smuraglia. Il primo pavese, il secondo milanese di origine marchigiana. Ex democristiano l’uno, ex comunista il secondo. Entrambi esponenti del Paese che seppe resistere all’urto del terrorismo e della mafia. E anche all’urto, certo diverso, delle leggi ad personam o degli assalti alla Costituzione. Storie italiane diverse e parallele, e che ora si fondono in quel marchio antico. Perché capita quasi sempre a un Paese di avere un grande vecchio che nei momenti di rivolta sappia esserne simbolo morale. Lo ha avuto la Francia in Stephane Hessel, autore quasi dieci anni fa del celebre Indignez-vous!. Lo ebbe l’Italia con Vittorio Foa ai tempi dei girotondi. Ma due grandi vecchi insieme, sul tema supremo e attualissimo della legalità, sono davvero cosa preziosa.

Da tempo si ritrovano puntualmente sulle stesse posizioni quando per la patria arrivano prove difficili, anche se mascherate da riforme. Percepii improvvisamente la loro storia gemella quando ebbi la ventura di vederli parlare a tu per tu una sera d’estate su un prato fuori Pavia per i 90 anni di Virginio Rognoni. Così tra gli auguri che fioccavano mi venne istintivo ripassare le loro vite.

Rividi Rognoni diventare ministro dell’Interno al posto di Cossiga dopo l’assassinio di Aldo Moro, con il terrorismo all’apice della forza ma incredibilmente prossimo alla sconfitta. Lo vidi resistere (invano, purtroppo) al ciclone Cosa Nostra dell’82; poi farsi primo firmatario della legge di Pio La Torre ucciso, e difendere da ministro della Giustizia il maxiprocesso di Palermo. Lo vidi unico uomo di governo dire la verità ai giudici sulla vicenda del prefetto Dalla Chiesa. E guidare da membro laico il Csm, tenendo testa alla pretesa che la legge non fosse uguale per tutti, che si potessero disfare i processi a piacere degli imputati. Ricordai una riunione della Margherita nel 2002 quando, proponendo io la sua candidatura al Csm, un costituzionalista che aspirava a quel posto mi contestò ironicamente “largo ai giovani”. Per fortuna fu così: largo ai giovani di mente, anche se alla soglia degli ottanta.

Smuraglia, magrissimo, gli stava davanti con un calice di vino in mano, e anche per lui riavvolsi la memoria. Avvocato di parte civile per la famiglia di Cristina Mazzotti, la ragazza sequestrata dai clan calabresi in Brianza e ritrovata morta in una discarica dopo il pagamento del riscatto. Membro del Csm dei tradimenti, dove difese senza se e senza ma la causa di Giovanni Falcone. E di nuovo avvocato, con quel proponimento che mi spiegò una volta nel suo studio con argomentazioni cristalline: non difendere mai un mafioso. Presidente della prima commissione antimafia del Consiglio comunale di Milano, e poi relatore per la Commissione parlamentare antimafia sulle regioni del Nord, con un rapporto studiato ancora oggi da studenti e laureandi. Senatore e autore di una legge per dare lavoro ai detenuti e difendere i diritti dei lavoratori disabili. Fino alla recente, strenua difesa della Costituzione come presidente dell’Associazione partigiani.

Di Rognoni una giovane collega mi ha chiesto sbalordita, dopo averlo sentito a lezione, se “una volta i politici erano così”. Di Smuraglia un cronista mi ha riferito che per i 50 anni di Piazza Fontana, l’unico a intervenire a Palazzo di Giustizia con i fatti e i nomi in fila, senza leggere, era stato lui. Ecco, mercoledì pomeriggio alle 16 all’Università Statale di Milano questi due grandi vecchi si incontreranno di nuovo per discutere non di Moro o del maxiprocesso, ma del futuro della legalità in Italia. Titolo: “Te lo do io il grande Vecchio”. E chissà se finalmente, sulla prescrizione e sulla corruzione, non sentiremo parole di verità. Perché 190 anni in due sono davvero una forza.

Edicole, la lunga morte: “Dopo il cordoglio sui social, comprate riviste al chiosco”

Cara Selvaggia, il 29 gennaio 2019, organizzata da un sindacato degli edicolanti, c’è stata la “Notte Bianca delle Edicole”. A Fabriano, dopo un rapido consulto con i colleghi, non credo abbia partecipato nessuno. Perché ce ne siamo resi conto tardi, perché era una notte “buia e tempestosa”, perché non c’è mai nessuno in giro il mercoledì sera, siamo stanchi morti e figurati riuscire a tirare fino alle 23 quando per qualcuno di noi la sveglia suona alle 5. Questo come premessa, per motivare la decisione di non aver partecipato all’iniziativa. Ma sicuramente ognuno di noi vorrebbe gridare per raccontare la nostra morte silenziosa. Detto questo, stamattina ho perso tempo a leggere i commenti delle persone sui social sotto la notizia. Tanta solidarietà, comprensione, ricordi di quando si era bambini e frasi tipo: “Tenete duro”, “non siete soli”, “non spegnete la vostra luce”. Tutto bellissimo, ma ora è il momento di passare dalle parole ai fatti. Non vi chiedo di non fare quei convenientissimi abbonamenti con sconti fino al 70%, non vi chiedo neanche di rinunciare a quel preziosissimo gadget che regalano se scegliete la spedizione a casa e pagamento con carta di credito per quella bellissima collana di automobiline, libri, ciotoline, miniature, navi da costruire. Se volete veramente aiutarmi e anche solo occasionalmente comprate una rivista o un libro al supermercato, perchè, per esempio, non la comprate da me? Oppure, dopo le prime 3/4 uscite scontatissime che l’editore vi ha offerto per convincervi a scegliere la spedizione, perché non date disdetta e continuate a prendere quella collana in edicola? Si può fare, non vi costa niente, anzi, spendete meno perché non c’è neanche il “contributo di spedizione di 0,50 euro ad uscita” che vi aggiungono dai numeri successivi. Non trovate mai parcheggio? Sono chiuso quando passate voi? Vi sto antipatico? Non vi piaccio? Ci può stare tutto, ma non mentite a voi stessi perché potrei non essere io il vostro edicolante ideale, ma non ho dubbi che in ogni città ci sia qualche collega che invece lo sia. Quindi, se veramente vi dispiace che stiamo chiudendo, se vi piange il cuore nel vedere l’ennesima vetrina buia, ecco, sappiate che potete aiutarci semplicemente scegliendo di aiutarci. Basta tornare da noi, fare due chiacchiere, magari la ricarica del cellulare o una schedina da un euro al superenalotto o i fazzolettini di carta se vi occorrono… ricevereste in cambio un “buongiorno” caloroso, un “grazie” ed un sorriso fresco e sincero. Ogni giorno, una volta a settimana o una volta al mese, se preferite, ma fatelo, passateci a trovare. Aiutateci. Basta pochissimo e sapete cosa? Noi ci contiamo.
Guido, edicola La Rovere

Caro Guido, sei così convincente che da te comprerei perfino Libero.

 

Morte di Kobe Bryant: nessuno parla delle altre vittime e dello stupro
Cara Selvaggia, mi chiamo Nicola e vivo all’estero da quasi 10 anni. Sono nato in Toscana nel 1982, ma dopo 3 anni la mia famiglia è tornata in Sardegna, terra d’origine dei miei genitori. Persone oneste, aperte, sempre sensibili verso i più deboli. Sono cresciuto a pane e Tg3, con una mamma progressista e soprattutto femminista. Mio fratello ed io siamo stati educati al principio che una donna equivale un uomo, quanto merita rispetto l’una lo merita l’altro. E poi anche la vecchia società sarda, i miei nonni soprattutto, avevano più una struttura matriarcale che patriarcale. Dirai, che c’entrano tutte queste informazioni? Proverò ad essere lineare. Parto dal fatto che la scomparsa di Kobe Bryant è stato un pugno nello stomaco. Nel piccolo paesino sardo, la pallacanestro è stato uno dei miei passatempi preferiti. Emulavamo i giocatori dell’NBA. La passione non è mai passata e ho sempre seguito le gesta degli atleti. Kobe Bryant era uno di loro. Come dicevo mi ha colpito la sua morte. Non tanto perché uno dei giocatori più forti, ma per il fatto che è morto con sua figlia, in un incidente tragico. E allo stesso modo, John Altobelli, Keri Altobelli e la loro figlia Alyssa. Mi sono chiesto cosa può succedere in quegli attimi di terrore, quando sei con qualcuno di indifeso e profondamente amato come le proprie figlie. Muoiono. Scatta il grande cordoglio. Quasi esclusivamente per Kobe. La famiglia Bryant perde un padre e una figlia/sorella. Pochi pensano alla famiglia Altobelli, alla quale va peggio: sopravvivono due figli, che non erano sull’elicottero. Il figlio J.J. perde il padre, la matrigna, la sorellastra; la figlia Alexis perde padre, madre e sorella. Queste perdite mi lasciano ancora più triste. E mi scombussola molto che pochi ne parlino. È quello famoso, il morto che conta, ma vabbè, il giornalismo è marketing. Tutto il mondo osanna Kobe Bryant. Non solo eroe del basket, ispiratore, esempio e leggenda, ma anche padre e marito straordinario! Alt! La giornalista Felicia Sonmez del Washington Post riporta in un tweet la vicenda di stupro del 2003 che coinvolse Kobe Bryant. I capi del WP sospendono momentaneamente la giornalista, le intimano di cancellare i tweet. In Italia quanti ne hanno parlato? Non ho controllato tutte le testate, ma di quelle che seguo hanno scritto a riguardo solo un paio. Insomma, poco spazio per i morti meno famosi e il #metoo è buono solo se vende. Mi ha insegnato di più mia nonna del giornalismo, questa volta.
Nicola Meloni
Al di là del caso specifico, caro Nicola, la santificazione del morto è lo sport più praticato al mondo. Anche dal metro e novanta in giù, a differenza del basket.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2.
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Zero ambiente e temi pubblici: i brani uccidono la kermesse

Salvare Sanremo? Impossibile. Certo, si potrebbero piazzare accanto ad Amadeus un paio di donne scorfane per mettere a tacere le polemiche sulle ospiti “tutte bellissime”. Si potrebbero chiedere altre scuse del conduttore dopo la gaffe del secolo, quella che considera virtù femminile il saper stare un passo indietro un “grande uomo”. Si potrebbe, infine, cacciare il rapper che nel cassetto ha canzoni che inneggiano al femminicidio (una buona idea, forse, ma all’inizio, dopo che senso ha?). Insomma si potrebbe fare tutto questo, ma non servirebbe a salvare Sanremo. Perché a ucciderlo ci pensano già loro, e cioè le canzoni. Abbarbicate, e pure in maniera piagnona, sul tema amoroso come se nient’altro esistesse, dipendenti – quest’anno come gli anni passati – da delusioni sentimentali, malinconie varie, sofferenze emotive trite e ritrite. Per carità, si dirà, Sanremo è nazionalpopolare, non ci si aspetta che parli di povertà, disuguaglianze sociali, migranti, crisi demografica, crisi climatica. Eppure, a pensarci bene, “popolare” è un registro, non un contenuto. Insomma si potrebbero cantare temi più alti, facendolo in maniera leggera – “Una vita in vacanza” docet – e stimolando la gente a pensare oltre i propri ombelichi e oltre la celebrazione della propria, inutile, interiorità. Sanremo è sempre stato vecchio, ma oggi sembra più senile che mai. D’altronde, è lo specchio della tv italiana: che quando crede di essersi modernizzata è ancora decrepita, che quando comincia a parlare del mondo là fuori, lo fa troppo tardi, che quando parlerà di ambiente saremo già estinti. Per questo, lungi dal rallegrare, il Festival incupisce, induce una mestizia senza fine all’idea dei soldi sprecati per celebrare la solita poltiglia amorosa, senza ironia né allegria. E l’unica cosa che ti viene da pensare è, appunto, quanti alberi si sarebbero potuti piantare con quegli assurdi cachet.

Cuore&amore, addio: solo sfoghi e lagne di maniaci depressi, in cura

Nessun testo di Sanremo batterà le versioni porno–parodistiche che scrivevo con le mie compagne di università nel nostro appartamento di fuorisede. Quei versi sdolcinati eccitavano la nostra vena pecoreccia, e ancora oggi mi ritrovo a cantare “Mestruazione mestruazione canaglia/che ti arriva proprio quando non vuoi”, decisamente più realistica dell’inno alla nostalgia firmato Al Bano e Romina. Ma nel 2020 cosa vuoi dissacrare, quando trovi “stronzo” nella canzone di Rita Pavone? Alla fin fine, di ballate cuore–amore sul palco dell’Ariston ne sentiremo pochine. È tutta una sfilata di sfoghi, lamentele, autodenigrazioni e sintomatologie maniaco–depressive di fronte alla quale l’ascoltatore si sente tipo psicologo dell’Asl in un giorno particolarmente fitto di colloqui. C’è una canzone dedicata alla mamma, ben due rivolte ai figli, qualcuno si domanda se è il caso di emigrare, un altro inveisce contro Salvini ma anche contro il centrosinistra, parecchi ce l’hanno coi social. In pratica, una puntata del solito talk show accompagnato dall’orchestra. Ma il Festival non perde il suo glamour macabro, quello del gatto spiaccicato sulla strada che non puoi fare a meno di guardare, e le folle oceaniche che lo guardano, milione più, milione meno, ricordano gli ingorghi di curiosi che si formano intorno agli incidenti e intralciano l’intervento dei soccorritori. E il bello è che lo sanno tutti, a Sanremo, conduttore, vallette e cantanti, consci di partecipare non a una kermesse canora, ma a qualcosa che somiglia sempre di più ai circenses degli antichi romani, che riempivano gli spalti del Colosseo per vedere la spettacolare degradazione dell’essere umano – con la differenza che non c’era la giuria di qualità. Ci sarà mai sul palco dell’Ariston un eroico gladiatore che scatenerà l’inferno contro l’impero decrepito della canzonetta? Contiamo su Decimo Massimo Vessicchio.

La sinistra tedesca e la destra clericale: le due scosse al “centro” di Bergoglio

In senso anche politico si apre in questi giorni l’ennesima fase convulsa del pontificato di Francesco, che il prossimo 13 marzo compirà il suo ottavo anno. Ad agitare la Chiesa riformista di Bergoglio sono le spinte contrapposte e centrifughe provenienti dai due fronti estremi dei cattolici, quello dei progressisti teutonici e quello dei clericali di destra.

I primi hanno concluso sabato a Francoforte la prima assemblea delle quattro previste dello scoppiettante cammino sinodale dei vescovi tedeschi, al limite dello scisma. Sotto la guida del cardinale Reinhard Marx (nomen omen) l’assemblea più che a un sinodo di credenti cattolici assomigliava a una “sorta di parlamento ecclesiale in stile protestante” per usare le parole del cardinale di Colonia, Rainer Maria Woelki, e riportate dal sito La Nuova Bussola Quotidiana.

Drammatico il giudizio del porporato: “Tutte le mie paure si sono avverate”. Dall’Evangeliario portato in processione dalle donne al no al celibato sacerdotale per finire a una liberazione completa della morale sessuale per i gay, distante anni luce dalla “continenza” prevista dal Catechismo della Chiesa cattolica. Nel sunto dell’assemblea tutti questi passaggi venuti fuori nei vari interventi hanno suscitato parecchi applausi dei partecipanti.

Allo stesso tempo, il fronte clericale che vede in papa Bergoglio un eretico fa registrare un salto di qualità ulteriore nella guerra al pontefice argentino. Se fino a qualche settimana il punto di riferimento di questa Chiesa sovranista e chiusa, in cui prevale la dottrina sulla misericordia, era Benedetto XVI (protagonista delle polemiche per il libro cofirmato con il cardinale Robert Sarah in difesa del celibato dei preti), adesso è il momento di Giovanni Paolo II di diventare un’icona dei credenti conservatori. Come raccontato dalla Stampa domani a Roma si terrà un convegno con questo tema: “Dio, onore, nazione: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”. La discussione avverrà all’interno della National Conservatism Conference con Matteo Salvini, Giorgia Meloni, l’ungherese Viktor Orbán e la francese Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen. Tutto un programma.

Guida alle primarie, democratici ai nastri: caccia a The Donald

“È veramente il Capo dello Stato Usa la persona più potente del mondo? Gerald Ford non lo pensava e ha detto che ‘l’unica cosa che può decidere da solo è quando andare al gabinetto’”. Mauro della Porta Raffo: Usa 2020. 468 pagine. Edizioni Ares.
Oggi cominciano le primarie americane (Democratici) e non so cosa leggere. Per carità, i libri non mancano e nei mesi che ci porteranno alle elezioni del 3 novembre tutti ci spiegheranno tutto, anche se proprio tutto non riusciremo a capire. Per due motivi. La faziosità di molti commenti, spesso troppo tifosi (viva Trump, abbasso Trump). La conoscenza approssimativa dell’argomento su cui molti si esercitano con la stessa sicumera di chi racconta un match di tennis senza sapere come funziona il punteggio (e qualche volta la punteggiatura).
In nostro soccorso c’è l’autore di cui sopra che, a mio modo di vedere, ha tre grandi qualità. È considerato tra i più profondi conoscitori della storia politica istituzionale degli Stati Uniti. È soprannominato il “gran pignolo” (copy Giuliano Ferrara) per la cultura enciclopedica e la cura meticolosa dei particolari, una sorta di Treccani vivente (di cui, sospetto, avrà sicuramente collezionato errori e refusi). Ha il culto del sommo Piero Chiara, poeta delle piccole storie del “grande lago” Maggiore (MdPF è nato a Roma ma vive a Varese).

Esaurito il doveroso omaggio confermo che nelle pagine di Usa 2020 troverete tutte le risposte alle tutte possibili domande sulla corsa alla Casa Bianca. Per esempio: vi siete persi nella giungla delle candidature democratiche e non riuscite a uscirne? Infatti (leggiamo) sono state finora una trentina, anche se oggi in corsa ne sono rimaste una dozzina, sette/otto delle quali con qualche possibilità di ottenere l’investitura ufficiale del partito. Tra essi: l’ex vice di Obama, Joe Biden; il “socialista” Bernie Sanders; l’ex Sindaco di South Bend, Indiana, Pete Buttigieg; la senatrice del Massachusetts, Elisabeth Warren; il miliardario ex sindaco di New York, Michael Bloomberg.

Per essere nominati alla Convention (dal 13 al 16 luglio a Milwaukee) occorre raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati. Se nessuno arriva velocemente alla nomination, può essere che esca il cosiddetto “candidato di compromesso”, perfino qualcuno che fino a quel momento non sia mai stato preso in considerazione.

Oggi, lunedì 3 febbraio, si entra nel vivo con il Caucus dell’Iowa cui farà seguito l’11 febbraio la primaria del New Hampshire. Questo, detto in pillole, il solito lussureggiante casino progressista mentre non si vede chi possa disturbare la corsa solitaria alla nomination di The Donald. Come contorno delle primarie Gop (Grand Old Party) dovrebbero esserci: William “Bill” Weld, ex Governatore del Massachusetts, esponente dell’aristocrazia terriera (antenati sulla Mayflower). E Joe Walsh, noto per aver condotto un programma radiofonico molto seguito. A proposito, infine, dei non poteri presidenziali (tranne quello prosaicamente citato da Ford), l’autore ci conferma che il Presidente non può dichiarare la guerra, compito che spetta sempre al Congresso.

Può operare militarmente con azioni limitate e circoscritte (caso Solemaini). Che ogni sua nomina deve essere ratificata dal Senato che per questo è molto più importante della Camera. Che ha poteri in campo amministrativo in un sistema estremamente bilanciato. Questo un piccolo assaggio che ho cercato di trascrivere quasi sotto dettatura di MdPR, per non finire nel suo libro nero dei pasticcioni.

Scandalo Airbus, per le mazzette una mega multa da 3,6 miliardi

Dopo quattro anni di inchieste giudiziarie, Airbus può sperare di aver messo fine allo scandalo di corruzione e tangenti in cui è coinvolto dal 2016. Il 28 gennaio scorso, il costruttore europeo di aerei aveva annunciato di aver raggiunto un principio di accordo con le autorità giudiziarie del Regno Unito, della Francia e degli Stati Uniti, che gli avrebbe permesso di archiviare il fascicolo. Aveva dunque diffuso un comunicato: “Questi accordi – c’era scritto sulla nota – sono stati stipulati nell’ambito delle inchieste sulle accuse di corruzione e di tangenti, e nel rispetto delle regole dell’Itar,International Traffic Arms Regulations (il regolamento americano per il traffico e l’uso di materiali o componenti militari considerati sensibili o strategici, nda). Tali accordi restano soggetti all’approvazione delle corti francesi e britanniche, e della giustizia e dell’autorità di regolamentazione americana”. Quel giorno il Parquet national financier (Pnf), l’ufficio della procura che indaga sui casi di frode e corruzione e che ha portato avanti l’inchiesta in Francia, non aveva voluto rilasciare commenti. La sera stessa Airbus pubblicava un secondo comunicato: si indicava che il gruppo aveva stanziato 3,6 miliardi di euro per pagare delle multe ai tre paesi e che la somma sarebbe stata inserita nei conti dell’azienda “previo consenso” del patteggiamento da parte dei giudici. La data delle udienze pubbliche era stata fissata per il 31 gennaio. E venerdì scorso è arrivata la conferma dei giudici: il gigante dell’aeronautica dovrà versare una multa colossale di circa 3,6 miliardi di euro, di cui 2,1 miliardi alla Francia, 984 milioni al Regno Unito e circa 526 milioni agli Stati Uniti. La transazione mette dunque fine alle procedure avviate contro Airbus e gli evita una condanna come “persona giuridica” che avrebbe potuto escludere il gruppo dai mercati internazionali per anni.

L’assegno totale sborsato è comunque di gran lunga superiore a quanto l’azienda si era aspettata di dover pagare quando, nel 2016, dopo i primi sospetti di irregolarità interni, aveva cominciato a collaborare alle indagini del britannico Serious Fraud Office (Sfo). All’epoca Airbus aveva preso come riferimento il caso del costruttore britannico di motori Rolls Royce, che, nel 2017, in circostanze piuttosto simili, era stato condannato a pagare una multa di 671 milioni di sterline (pari a 790 milioni di euro). In Francia, l’intesa raggiunta con il Parquet national financier rientra nella legge detta Sapin 2 sulla trasparenza e la lotta alla corruzione, votata nel 2016. Basandosi su metodi già in uso negli Usa e nel Regno Unito, la nuova procedura nota come “convenzione giudiziaria di interesse pubblico” permette alla “persona giuridica”, ossia l’azienda sospettata per fatti di corruzione o frode di risolvere ogni procedura penale a suo carico, evitando di essere giudicata colpevole. La legge prevede anche che, oltre al pagamento della multa, l’azienda si impegni a mettere in atto un programma di lotta e di prevenzione delle frodi, sotto la supervisione delle autorità. Quest’ultima tappa della vicenda dovrebbe quindi porre fine allo scandalo di corruzione che pesa sul gruppo dal 2016.

Al centro dell’inchiesta franco-britannica si trovava la Strategy and marketing Organisation (Smo), un dipartimento fondato nel 2000, in contemporanea alla nascita dell’azienda “Eads” (European Aeronautic Defence and Space Company)) che nel 2013 divenne Airbus Group Se. La Smo era incaricata di selezionare, elaborare e remunerare gli intermediari (gli “agenti commerciali”) utilizzati per aggiudicarsi contratti civili e militari. Airbus aveva il diritto di remunerare i suoi intermediari, ma ovviamente non era autorizzato a distribuire mazzette. La linea rossa è stata del resto attraversata più di una volta. Con i fascicoli giudiziari per frode che cominciavano a moltiplicarsi (“Kazakgate”, miniere d’oro, contratti aeronautici alle isole Mauritius, contratti militari in Arabia Saudita, Romania e sugli Eurofighter austriaci…), il ceo di Airbus dell’epoca, il tedesco Tom Enders, aveva preso la decisione di porre fine alle pratiche illegali. Nel marzo 2015 Enders aveva nominato l’inglese John Harrison al posto di segretario generale e di direttore giuridico di Airbus con la missione di portare avanti un’operazione “mani pulite” all’interno dell’azienda. L’obiettivo era chiaro: fare un po’ di pulizia interna smantellando la Strategy and marketing Organisation. I risultati delle prime inchieste permisero a Airbus di identificare rapidamente le irregolarità e di denunciarle all’Uk Export Finance (Ukef), l’agenzia britannica che concede i crediti all’esportazione, nella speranza di mettere una pietra sul passato liberando i dirigenti del gruppo da ogni responsabilità. Il calcolo però si rivelò sbagliato: l’auto-denuncia, infatti, fece scattare la macchina giudiziaria. Di fronte alle confessioni di Airbus, che ammise di non avere dichiarato certe commissioni, l’Ukef britannica non ha avuto altra scelta che segnalare le irregolarità alle autorità. E lo stesso hanno poi fatto anche la Coface in Francia e la Euler Hermes in Germania, le agenzie francese e tedesca di Stato che assicurano i crediti all’esportazione. In Francia, il ministero delle Finanze, a cui fa capo la Coface, presentò una denuncia al Parquet national financier, che aprì immediatamente un’inchiesta per corruzione. Lo stesso si verificò in Gran Bretagna, dove l’Ukef inoltrò il fascicolo al Serious Fraud Office, che nell’agosto 2016 aprì a sua volta un’inchiesta per “frode, tangenti e corruzione”. Solo il governo tedesco non reagì alle segnalazioni dell’Euler Hermes.

La rapidità con cui le autorità giudiziarie francesi e inglesi si sono interessate al caso di Airbus non si spiega solo con la volontà rispettiva di lottare contro la corruzione. C’era anche un altro motivo: la necessità di conservare il pieno controllo delle indagini. Una minaccia infatti pesava sulle inchieste europee: la giustizia americana. Infatti a fine 2017 anche il Department of Justice (DoJ) degli Usa aveva aperto un’inchiesta su Airbus, rivelata da Le Monde nel dicembre 2018. Sulla base di un principio di extraterritorialità mai contestato dagli europei, le autorità giudiziarie americane hanno infatti la possibilità di aprire una procedura per anticorruzione e sottoporre tutti i grandi gruppi alla loro legge. Gli effetti possono essere devastanti, come fu nel caso di Alstom, la cui filiale elettrica fu venduta a General Electric nel momento in cui il gruppo francese si era ritrovato al centro di un’inchiesta per corruzione negli Stati Uniti. Consapevole del rischio, il Parquet national financier aveva dunque fatto in modo di conservare la gestione dell’indagine per tutta la durata della procedura applicando la cosiddetta loi de blocage, che permette di vietare alle autorità straniere l’accesso diretto ai dati di un gruppo francese e di non comunicare i documenti sensibili. Ma nel caso Airbus le autorità giudiziarie fancesi avevano anche un’altra questione da affrontare: la responsabilità delle persone. Le leggi americane e britanniche permettono da tempo di far cadere ogni azione legale nei casi di ammissione di colpevolezza per frode o corruzione, il che evita alle aziende di essere giudicate colpevoli. Al contrario, la legge francese non permetteva la chiusura automatica delle procedure a carico di queste persone. In questo senso il fascicolo Airbus ha posto le basi di una giurisprudenza nuova sulla legge Sapin 2. “Penso che la multa metterà fine a tutte le azioni legali e che non succederà nulla a nessuno”, ha riferito una fonte vicina al dossier.

È vero che Airbus ha già messo in pratica una serie di azioni interne per dimostrare la sua volontà di porre fine alle pratiche illegali. Tutti i dipendenti del settore commerciale sono stati licenziati. Le procedure di sorveglianza e per il rispetto del codice etico sono state molto rafforzate. Per provare che non esistono favoritismi all’interno dell’azienda, il consiglio d’amministrazione ha inoltre deciso di non riconfermare Tom Enders presidente di Airbus, il cui mandato arrivava a scadenza. Nell’aprile 2019 è stato nominato al suo posto Guillaume Faury. Il gruppo spera in questo modo di lasciarsi alle spalle un passato che ha offuscato la sua reputazione per anni.

(traduzione Luana De Micco)

I grandi gruppi: ora si combatte con i dati digitali

Nel solo biennio 2015-2016, secondo Ibm, nel mondo sono stati creati più dati che non in tutta la storia precedente. Nel 2021 il traffico dati sul web sarà due volte maggiore di quello del 2018. I dati sono il petrolio del futuro e le compagnie digitali in Borsa oggi sono ai vertici per capitalizzazione. L’economia digitale è in crescita ovunque ma pone sfide crescenti, sia in termini di pressioni concorrenziali che politiche e fiscali. Gestire questo trend, come spiegato da una recente analisi realizzata per il Parlamento europeo, sarà fondamentale. Non a caso è questo il fronte sul quale l’Unione Europea vuole salvaguardare la propria sovranità, in particolare sul doppio fronte del fisco e della concorrenza.

Nell’ultimo ventennio l’economia immateriale è cresciuta a dismisura grazie al progresso tecnologico: ha migliorato la produttività e l’efficienza delle imprese, rafforzandone il rendimento. Ma il peso crescente degli investimenti in beni intangibili è alla base anche di alcune tendenze negative, come la polarizzazione del reddito e dei patrimoni nelle mani di un numero sempre più ridotto di grandi miliardari, il trasferimento del credito dal finanziamento delle imprese dell’economia reale alle società digitali, le distorsioni sociali. Una transizione sempre più accelerata che sembra inarrestabile. Non a caso nell’ultimo decennio la classifica delle maggiori aziende globali è cambiata radicalmente. Le imprese con imponenti investimenti in attività reali, in particolare quelle petrolifere industriali e telefoniche, dominavano nel 2008: in vetta c’era PetroChina con una capitalizzazione di Borsa di 728 miliardi di dollari, seguita da Exxon (492 miliardi), General Electric (358), China Mobile (344) e Icbc (336). Nel 2018 invece l’economia immateriale era già cresciuta al punto che le cinque maggiori aziende mondiali erano tutte tecnologiche: Apple (890 miliardi di dollari di capitalizzazione), Google (768 miliardi), Microsoft (680), Amazon (592) e Facebook (545). La differenza chiave col passato sta nel fatto che mentre il petrolio è una risorsa limitata e non riutilizzabile, i dati non hanno limiti e possono essere riutilizzati all’infinito.

Ormai una manciata di aziende controlla quote di mercato schiaccianti dell’economia digitale. Google detiene il 65% del mercato mondiale dei browser, il 93% di quello dei motori di ricerca e oltre il 25% di quello della raccolta pubblicitaria online. Apple ha il 45% del traffico web degli smartphone. Il 66% del mercato dei social network è stabilmente in mano a Facebook. Amazon controlla il 37% delle vendite online mondiali. A preoccupare è il rischio di monopoli od oligopoli in cui “il vincitore prende tutto”. Anche perché peso e valore dei dati aumenteranno ancora nei prossimi anni con la crescita degli utenti e dei dispositivi collegati e soprattutto con l’introduzione dell’Internet delle cose (IoT), anche attraverso tecnologie come l’intelligenza artificiale e il machine learning.

Oggi però ci si comincia a chiedere se i colossi dell’economia digitale non abbiano un potere eccessivo per la concorrenza, dannoso per i consumatori e riduttivo della produttività. Sia la Ue che gli Usa soffrono di un periodo di stagnazione della produttività e c’è chi collega questo fatto alla concentrazione irregolare dell’economia: le imprese leader del digitale realizzano crescenti barriere all’ingresso e i nuovi operatori devono fronteggiare alti costi di passaggio all’economia della conoscenza.

Un modo per correggere queste carenze è regolare la condivisione dei dati, in particolare di quelli personali, in modo da prevenire sistemi collusivi di condivisione. Su questo fronte a livello internazionale non esistono regole globali, ma l’Unione europea ha preso l’iniziativa politica di tutelare i propri cittadini attraverso norme come il recente Regolamento generale per la protezione dei dati (Gdpr). Non a caso proprio le nuove regole europee sulla privacy e i tentativi della Ue di regolare l’economia digitale anche a livello fiscale hanno sollevato le ire degli Stati Uniti. In gioco non ci sono solo le tutele degli utenti, ma il controllo strategico di un settore che vale migliaia di miliardi.

Dal 5al 6G: il web cresce ed è sempre più insidioso

“Migliaia di tentativi di attacco, ogni ora, alle nostre infrastrutture critiche: siamo su livelli israeliani”. Parola del n. 1 della cybersecurity italiana: Roberto Baldoni. Le infrastrutture critiche includono elettricità, acqua potabile, ospedali e banche: sono il confine tra la civiltà e il medioevo. Il dato è in linea con gli altri Paesi, l’Italia non è sotto attacco. Ma l’impennata preoccupa: nel 2018, le aggressioni online (tentate) alla sicurezza nazionale sono state 55.843, 153 al giorno, 6 ogni ora. La nuova legge sulla cybersecurity traccia un perimetro digitale, con regole e controlli stringenti per tutte le organizzazioni strategiche. Baldoni però indica i possibili punti deboli: “Le pubbliche amministrazioni seguono le regole minime di sicurezza dell’Agid: stesse norme per il piccolo comune, la Difesa e il ministero dell’Economia. Ma se si colpisse il software del mercato dei titoli di Stato rischieremmo il crack. Dobbiamo aumentare le difese cibernetiche al cuore dello Stato”. Solo le grandi aziende pubbliche sono al riparo, dice il prof. di Sicurezza informatica Michele Colajanni: “Gli altri, l’80% degli enti nel perimetro, sono vulnerabili”. Internet cresce, diventa più veloce e intelligente, e pure più insicuro. Oggi si teme il 5G, ma all’orizzonte si scorge il 6G e la tecnologia dei quanti.

Smart City, sensori urbani sotto attacco

La Commissione europea mette in guardia, nel report del 9 ottobre: “Il 5G aumenta le occasioni di attacco”. Grazie alla nuova rete, ogni dispositivo sarà online e dotato di intelligenza artificiale. Si chiama “Internet delle cose” (IoT). Come se oltre la serratura d’ingresso, l’appartamento avesse toppe per le chiavi in ogni angolo: un invito per i ladri. Secondo Gartner, a fine 2020 i device online saliranno a 20,4 miliardi; nel 2018 erano 8,4. Elettrodomestici, vestiti, automobili, semafori, solo alcuni esempi: “Il rischio di attacco può diventare sistemico”, dice Marcello Caleffi, ricercatore dell’Università di Napoli Federico II. Difficile tappare le falle: mettere in sicurezza l’oceano dei dispositivi sarà una sfida improba dai costi esorbitanti. “Più il corredo urbano è connesso, più la rete è esposta”, avvisa l’esperto.

E quando Internet avrà ingoiato le città, le auto saranno a guida autonoma e l’intelligenza artificiale pervasiva, allora il 5G non basterà. Perciò la Cina si prepara al 6G: sbarco commerciale previsto per il 2030. Ma non c’è solo il Dragone: l’Università di Oulu in Finlandia (patria della Nokia) ha pubblicato un libro bianco sul nuovo standard. La rete di 6ª generazione sarà l’upgrade decisivo per l’Internet delle cose: fino a 1 Tbps per utente, 0,1 ms di latenza, efficienza energetica 10 volte superiore, 100 oggetti gestibili per metro cubo. Samsung è già al lavoro. Il Giappone è pronto a investire 2 miliardi di dollari.

La rivoluzione dei quant. Minacce e opportunità

“Il 6G è un’evoluzione – dice Tommaso Calarco, direttore dell’Institute for Quantum Control –, ma la rivoluzione per la cybersecurity è il calcolo quantistico”. Cioè, la chiave universale per svelare i messaggi in codice: il segreto di Stato abolito per “decreto” tecnologico. I quanti sono una minaccia (sul breve termine) perché minano la riservatezza delle informazioni. Ma sui tempi lunghi sono il paradiso della sicurezza. Partiamo dai pericoli. A un computer classico servirebbe l’intera vita dell’universo per “bucare” la crittografia; pochi minuti bastano a un calcolatore quantistico. Tra gli addetti ai lavori si sa: alcune agenzie stanno già archiviando messaggi governativi riservati, oggi inespugnabili. Ma tra qualche anno sarà facile aprire il vaso di Pandora. “La National security agency americana, ogni giorno, registra comunicazioni governative criptate da decodificare in futuro – racconta Calarco –. Ciò che è segreto oggi non lo sarà domani”. Google lo scorso anno ha costruito Sycamore, processore quantistico da 54-qubit (l’unità di misura dei quanti). Esiste l’antidoto a tale minaccia? “Sì, ed è l’Internet Quantistico – spiega Angela Sara Cacciapuoti, ricercatrice dell’Università di Napoli Federico II – la terra promessa della cybersecurity”. Non è un miraggio: L’Europa ha investito 1,2 miliardi di euro nei prossimi 10 anni; in cantiere c’è una rete per collegare le capitali europee. Il salto sarebbe epocale, se le informazioni sfruttassero gli stati quantistici: impossibile intercettarle o copiarle, perché i dati sarebbero compromessi all’istante. Vale il Principio d’indeterminazione di Heisenberg: l’osservatore modifica l’oggetto. Gli Usa hanno stanziato 1,2 miliardi dollari, per la rete dei quanti. A dicembre la Russia ha investito 800 milioni e la Cina 10 miliardi. Il Dragone ha il primato sul 5G e vuole conservare lo scettro.

Sovranismo tecnologico e pericolo cinese

I servizi segreti australiani accusano Pechino di aver spiato i 3 partiti principali, a ridosso delle elezioni di maggio scorso. Ma la prova manca e il Dragone nega. Sydney ha bandito le multinazionali cinesi Huawei e Zte dalla rete 5G: come gli Usa, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud. In Europa, invece, tutti hanno accolto Pechino tranne la Polonia. Bruxelles, intanto, il 29 gennaio ha fissato i paletti per ridurre i rischi. Ma se la Cina rispetta le regole, perché bandirla? “Semplice, è una dittatura”, dice Colajanni. Se la tecnologia è in mani straniere i rischi sono 2, avvisa l’esperto: “Lo spionaggio lo fanno tutti, ma il sabotaggio solo i Paesi non democratici”.

Glissa su Pechino, Roberto Baldoni. Ma indica la via del sovranismo tecnologico: “Per la sicurezza nazionale, meglio soluzioni autoctone”. Problema: reti e ministeri già si reggono su strumenti made in China. Il rimedio è nella nuova legge sulla cybersecurity: un bollino di sicurezza del Centro di Certificazione Nazionale. “Ma Huawei non si lascerà mai certificare”, teme William Nonnis, esperto della Difesa. Se schivi i test, la multa è un buffetto da 1 milione e 500 mila euro. “Vero – dice Baldoni – ma il vero deterrente è il danno di reputazione e di mercato”. E se si scoprissero vulnerabilità sui dispostivi Huawei già in uso? “Fosse a rischio la sicurezza nazionale, dovremmo bloccare e sostituire quegli strumenti”. Cioè: rivoluzionare gli uffici pubblici con costi enormi. Secondo Baldoni, servono imprese italiane della cybersecurity: “Il perimetro, imponendo regole e standard, alimenterà l’industria nazionale. Da ciò dipenderà l’autonomia digitale, quindi il peso geopolitico dell’Italia”. Senza tecnologie fatte in casa, perderemmo i talenti: “I migliori ingegneri migreranno verso industrie avanzate e stipendi alti. Chi resterà a difesa dello Stato? Così, in futuro, cresce la probabilità di un attacco su larga scala”.

Yale, la dittatura del presente:

Lo spirito dei tempi, che forse non esiste ma certo fa un sacco di danni, ha colpito ancora: la gloriosa università di Yale (siamo nell’Ivy League, cioè tra gli otto più prestigiosi atenei privati americani) chiude il suo celebre corso di base in European and American art from the Renaissance to the present. La motivazione ufficiale (traduco dal comunicato ufficiale del Dipartimento di Storia dell’arte) è che “la storia dell’arte è una disciplina globale. Il nostro corpo docente ha all’attivo pubblicazioni che hanno cambiato i paradigmi della storia dell’arte delle Americhe (soprattutto dell’arte precolombiana, e dell’intero arco dell’arte nordamericana, da quella coloniale a quella contemporanea), dell’arte africana e delle arti della diaspora africana, dell’arte asiatica e dell’arte islamica, e dell’arte europea dall’antichità ad oggi. La diversità dei docenti del dipartimento e dei nostri interessi intellettuali trova un corrispettivo nella diversità del corpo studentesco attuale”. È dunque venuto il momento, prosegue, di fare spazio ad “altre tradizioni mondiali, con corsi tematici e prospettive comparative”. Da qui la decisione di chiudere i frequentatissimi corsi in “Storia dell’arte del Medio Oriente dell’Egitto e dell’arte europea pre-rinascimentale” e in “Storia dell’arte europea e americana dal Rinascimento ad oggi”, rimpiazzandoli con corsi in “Arti decorative globali, Arti sulla Via della Seta, Arte sacra globale e Politiche della Rappresentazione”.

In una mail al sito Yale News il direttore del Dipartimento Tim Barringer, è stato ancora più esplicito: il problema è mettere la “storia dell’arte europea su un piedistallo”, dedicandole un corso introduttivo generale che non tenga in considerazione “questioni di genere, classe e ‘razza’”. A questo punto i media americani hanno riassunto la faccenda in termini brutali: Yale ritiene la storia dell’arte troppo “bianca, europea, maschile” (così il Wall Street Journal), sintetizzando il concetto in una vignetta in cui, davanti agli studenti, due facchini sgomberano la cattedra dal David di Michelangelo, dalla Gioconda e da quadri di Van Gogh e Picasso.

È subito insorta la più becera stampa dell’estrema destra statunitense, da quella cristiana fondamentalista a quella sovranista-razzista, accusando Yale di “suicidare” la civiltà occidentale: un coro deprecabile, senza uno straccio di argomento culturale che non sia l’equivoca bandiera dell’“identità”, che rende difficile accostarsi a questo dibattito serenamente. Ma invece è necessario farlo: subito dopo però, aver difeso a spada tratta il fondamentale diritto e dovere di ogni università di decidere in scienza e coscienza, e in assoluta libertà, le sue linee di ricerca e di didattica. E lo dico pensando non agli Stati Uniti, dove le grandi università hanno spalle abbastanza larghe da non temere le ingerenze politiche, ma all’Italia, dove gli ultimi governi – da quello di Renzi con le cattedre Natta, a questo Conte bis con la pessima idea di una Agenzia della Ricerca controllata dall’esecutivo – provano a mettere le mani sulla libertà universitaria.

Ciò detto, le mie perplessità sulla scelta di Yale non riguardano il desiderio di andare verso una storia dell’arte (e una storia) globale, che rinunci a una gerarchia, esplicita o implicita, tra tradizione diverse: nessuno può dire che l’arte europea sia, in sé, più importante di quella africana o di quella dell’Oceania. Ma sarebbe assurdo negare, o provare a rimuovere il fatto che la storia dell’arte ha, a sua volta, una storia. Se è necessario, e, anzi, urgente, costruire un mondo e una cultura diversi – non eurocentrici, biancocentrici, maschiocentrici – dubito che questo possa avvenire senza conoscere la storia del mondo. Perdonate l’analogia triviale: è come cercare di diventare grandi rimuovendo dall’album di famiglia le fotografie di quando camminavamo gattoni e facevamo la cacca nel pannolino. Il rischio, altissimo, è di gettar via l’idea stessa di storia: che nasce in Grecia e appena più tardi in Cina, e che interi continenti hanno ignorato finché non sono venuti in contatto con la cultura occidentale. Perché, mentre nessuna civiltà ignora l’idea di arte, la storia dell’arte esiste solo in Europa (dove nasce nella Grecia classica, e poi rinasce a Firenze nel Rinascimento), e ancora una volta in Cina: se dunque vogliamo costruire davvero una storia dell’arte globale non si vede perché dovrebbe essere “problematico” introdurre gli studenti di Yale (non quelli di Pechino, evidentemente) alla storia dell’arte attraverso un corso incentrati sull’arte occidentale, cui far poi seguire l’apertura a tutte le altre tradizioni. Ma il dubbio è proprio questo: vogliamo ancora una storia? I corsi che a Yale rimpiazzeranno quello di storia dell’arte occidentale non recano, infatti, mai la parola storia nel titolo, e hanno invece un taglio tematico e descrittivo.

A spirare, più che il vento del politically correct, sembra quello della dittatura del presente, che rifugge in ogni campo dalla dimensione storica e dal metodo critico della storiografia, cedendo invece a ogni possibile revisionismo, e a un comparativismo astratto e senza tempo.

Marc Bloch diceva che la storia è la scienza degli uomini nel tempo: e di questa scienza abbiamo bisogno più di prima. Se la “rottamiamo”, invece di educare studenti più giusti e aperti, finiremo solo per renderli più ignoranti, e dunque meno capaci di interpretare il passato per costruire un futuro diverso.